[Pagina precedente]...operare le cose non manco che in conservalle, vero? Adunque io quanto al tempo cerco adoperarlo bene, e studio di perderne mai nulla. Adopero tempo quanto piú posso in essercizii lodati; non l'adopero in cose vili, non spendo piú tempo alle cose che ivi si richiegga a farle bene. E per non perdere di cosa sà preziosa punto, io pongo in me questa regola: mai mi lascio stare in ozio, fuggo il sonno, né giacio se non vinto dalla stracchezza, ché sozza cosa mi pare senza repugnare cadere e giacere vinto, o, come molti, prima aversi vinti che certatori. Cosà adunque fo: fuggio il sonno e l'ozio, sempre faccendo qualche cosa. E perché una faccenda non mi confonda l'altra, e a quello modo poi mi truovi averne cominciate parecchie e fornitone niuna, o forse pur in quello modo m'abatta avere solo fatte le piggiori e lasciate adrieto le migliori, sapete voi, figliuoli miei, quello che io fo? La mattina, prima, quando io mi levo, cosà fra me stessi io penso; oggi in che arò io da fare? Tante cose: annòverole, pensovi, e a ciascuna assegno il tempo suo: questo stamane, quello oggi, quell'altra stasera. E a quello modo mi viene fatto con ordine ogni faccenda quasi con niuna fatica. Soleva dire messer Niccolaio Alberto, uomo destissimo e faccentissimo, che mai vide uomo diligente andare se non adagio. Forse pare il contrario, ma certo, quanto io pruovo in me, e' dice il vero. All'uomo negligente fugge il tempo. Segue che il bisogno o pur la volontà il sollecita. Allora quasi perduta la stagione gli sta necessità fare in furia e con fatica quello che in sua stagione, prima, era facile a fare. E abbiate a mente, figliuoli miei, che di cosa alcuna mai sarà tanta copia, né tanta abilità ad averla che a noi non sia difficilissimo quella medesima fuori di stagione trovarla. Le semente, le piante, e' nesti, fiori, frutti e ogni cosa alla stagione sua pronto si ti porge: fuori di stagione non senza grandissima fatica si ritruovano. Per questo, figliuoli miei, si vuole osservare il tempo, e secondo il tempo distribuire le cose, darsi alle faccende, mai perdere una ora di tempo. Potrei dirvi quanto sia preziosa cosa il tempo, ma altrove sia da dirne con piú elimata eloquenza, con piú forza d'ingegno, con piú copia di dottrina che la mia. Solo vi ricordo a non perdere tempo. Cosà facciate come fo io. La mattina ordino me a tutto il dÃ, il giorno seguo quanto mi si richiede, e poi la sera inanzi che io mi riposi ricolgo in me quanto feci il dÃ. Ivi, se fui in cosa alcuna negligente, alla quale testé possa rimediarvi, subito vi supplisco: e prima voglio perdere il sonno che il tempo, cioè la stagione delle faccende. Il sonno, il mangiare e queste altre simili posso io recuperare domane e satisfarle, ma le stagioni del tempo no. Benché, a me rarissimo aviene, - se io arò bene distribuito le faccende mie a ciascuno tempo e ordinato, né sarò stato dipoi negligente, - dico, rarissimo e quasi mai m'acade che io abbia ivi a perdere o sopratenere mia necessità alcuna. E se egli acade che io per allora nulla possa rimediarvi, vengo insegnando a me stessi come per l'avenire abbia non simile a perdere tempo. Fo adunque di queste tre cose quanto avete udito. Adopero l'animo e il corpo e il tempo non se non bene. Cerco di conservalle assai, curo non perderne punto. E a questo mi porgo sollecitissimo e quanto piú posso desto e operoso, imperoch'elle a me paiono quanto le sono preziosissime e molto piú proprie mie che altra alcuna cosa. Ricchezze, potenze, stati, sono non degli uomini, no, della fortuna sÃ; e tanto sono degli uomini quanto la fortuna gli permette usare.
LIONARDO E di queste cosà a voi concesse per la fortuna, fatene voi masserizia alcuna?
GIANNOZZO Lionardo mio, non faccendo masserizia di quello che usandolo diventa nostro, sarebbe negligenza ed errore. Tanto sono le cose della fortuna nostre sà quanto ella ce le permette, e ancora quanto noi le sappiamo usare. Benché, a noi Alberti in queste nostre calamità la fortuna ci sta pur troppo contraria e molesta, non facile e liberale delle cose sue, ma iniqua e malvagia a turbarci qualunque nostra ben propria cosa, e possiamo, a dirti il vero, male essere veri massai. In questo nostro essilio sempre siamo stati in quella espettazione di ritornare alla patria, riaverci in casa nostra, riposarci tra' nostri, la quale cosa quanto piú speravamo e desideravamo, tanto piú ci era dolore a noi insieme e danno, imperoché mai sapemmo fermare l'animo né il vivere nostro ad alcuno stabile ordine. E se io avessi potuto il primo dà non dico in noi credere, ma fingere quanto infortunio e quanta miseria abbia la famiglia nostra Alberta già tanto tempo sofferta, se io giovane avessi creduto quel che io pruovo vecchio, diventare fuori di casa mia canuto, figliuoli miei, forse arei tenuto altri modi.
LIONARDO Però dice, Battista, - raméntati quello terenziano Demifo, - ciascuno, quando le cose gli secondano, allora molto gli è mestiero fra sé pensare in che modo, accadendo, e' sofferisca l'avversa signoria della fortuna, pericoli, danni, essilii. Tornando di viaggio sempre pensi qualche malefatto de' figliuoli, o della moglie, o qualche sinistro a' suoi, cose possibili quali tutto il dà avengono, acciò che all'animo nulla sopravenga non preveduto. Suole meno ferire il visto prima dardo. E cosà ciò che truovi salvo meglio che non avevi teco pensato, stimalo a guadagno. Se cosà dobiamo fare ne' tempi felici, ancora molto piú quando le cose cominciano a declinare e ruinare.
GIANNOZZO O Lionardo mio, in che modo arei io cosà potuto stimare in altrui durezza nelle ingiurie nostre piú che in me stessi? Come potevo io, figliuoli miei, stimare che quelli i quali avevano per qual che si fosse o non onesta, o poco licita cagione offesa la famiglia nostra, piú fossero ostinati in malivolenza e odio che noi, i quali ogni dà piú sentavamo l'offese e le ingiurie loro? E io pur sono uno di quelli quale già piú anni dell'animo mio cancellai il nome e memoria di ciascuno da chi noi perfino testé sentiamo tanta iniquità e tanto dolore. Né mi parse mai in uomo alcuno durare quanto in costoro animo al tutto inumano e crudelissimo, ingiusti a cacciarci, crudeli a perseguitarci. Né loro basta tenerci in tanta miseria vivi. Ancora pongono premio a chi ci acresca l'ultime nostre miserie. Ma Dio di questo sia inverso di noi iudice piú piatoso che severo verso chi erra. E dico, figliuoli miei, che buono per me, se io già piú anni in me avessi avuta altra opinione.
LIONARDO E che aresti voi fatto? Come aresti voi ordinato la masserizia?
GIANNOZZO Meglio del mondo; una vita quieta senza grave alcuna sollecitudine. Are'mi cosà pensato, - vieni qua, Giannozzo, monstra qui che cosa ti concede la fortuna. Truovomi da lei avere in casa la famiglia, la roba, vero? E altro? SÃ. Che? Lo onore e l'amistà di fuori.
LIONARDO Chiamate voi forse, come questi nostri cittadini, onore trovarsi nelli uffici e nello stato?
GIANNOZZO Niuna cosa manco, Lionardo mio; niuna cosa manco, figliuoli miei. Niuna cosa a me pare in uno uomo meno degna di riputarsela ad onore che ritrovarsi in questi stati. E questo, figliuoli miei, sapete voi perché? Sà perché noi Alberti ce ne siamo fuori di questi fummi, sà anche perché io sono di quelli che mai gli pregiai. Ogni altra vita a me sempre piacque piú troppo che quella delli, cosà diremo, statuali. E a chi non dovesse quella al tutto dispiacere? Vita molestissima, piena di sospetti, di fatiche, pienissima di servitú. Che vedi tu da questi i quali si travagliono agli stati essere differenza a publici servi? Pratica qui, ripriega quivi, scapúcciati a questo, gareggia con quello, ingiuria quell'altro; molti sospetti, mille invidie, infinite inimistà , niuna ferma amicizia, abundanti promesse, copiose proferte, ogni cosa piena di fizione, vanità e bugie. E quanto a te piú bisogna, tanto manco truovi chi a te serbi o promessa o fede. E cosà ogni tua fatica e ogni speranza a uno tratto con tuo danno, con dolore e non senza tua ruina, rimane perduta. E se a te pur con infinite prieghiere accade qualche ventura, che però truovi tu averti acquistato? Eccoti sedere in ufficio. Che n'hai tu d'utile se none uno solo: potere rubare e sforzare con qualche licenza? Odivi continui richiami, innumerabili accuse, grandissimi tumulti, e intorno a te sempre s'aviluppano litigiosi, avari, ingiustissimi uomini, empionti l'orecchie di sospetti, l'animo di cupidità , la mente di paure e perturbazioni. Convienti abandonare e' fatti tuoi proprii per distrigare la stultizia degli altri. Ora si richiede dare ordine alle gabelle, alle spese; ora provedere alle guerre; ora confirmare e rinovare le legge; sempre sono collegate le molte pratiche e faccende, alle quali né tu solo puoi, né con gli altri mai t'è licito fare quanto vorresti. Ciascuno giudica la volontà sua essere onesta, e il giudicio suo essere lodato, e l'opinione sua migliore che gli altri. Tu seguendo l'errore comune o la arroganza d'altrui acquisti propria infamia, e se pur t'adoperi in servire, compiaci a uno, dispiaci a cento. Au! furia non conosciuta, miseria non fuggita, male non odiato da ciascuno quanto e' merita; la qual cosa a me pare che avenga solo perché questa una sola servitú pare vestita di qualche onore. O pazzia degli uomini! i quali tanto stimano l'andare colle trombe inanzi e col fuscello in mano, che a loro non piace piú il proprio riposo domestico e la vera quiete dell'animo. O pazzi, fummosi, superbi, proprii tiranneschi, che date scusa al vizio vostro! Non potete sofferire gli altri meno ricchi, ma forse piú antichi cittadini di voi, essere pari a voi quanto si richiede: non potete vivere senza sforzare e' minori, però desiderate lo stato. E per avere stato, stolti, che fate voi? Pazzi, che vi sponete a ogni pericolo, porgetevi alla morte; bestiali, che chiamate onore cosà essere assediato da tutti i cattivi, né sapete vivere cogli altri buoni, convienvi servire e confratellarvi a tutti i ladroncelli, quali perché sono vili, cosà poco stimano la vita in seguire le voluntà vostre! E chiamate onore essere nel numero de' rapinatori, chiamate onore convenire e pascere e servire agli uomini servili! O bestialità ! Uomini degni di odio, se cosà pigliate a piacere tanta perversità e travaglio quanto trabocca adosso a chi sia in questi uffici e amministrazioni publiche! E che piacere d'animo mai può avere costui, se già e' non sia di natura feroce e bestiale, il quale al continuo abbia a prestare orecchie a doglienze, lamenti, pianti di pupilli, di vedove, e di uomini calamitosi e miseri? Che contentamento arà colui il quale tutto il dà arà a porgere fronte e guardarsi insieme da mille turme di ribaldi, barattieri, spioni, detrattori, rapinatori e commettitori d'ogni falsità e scandolo? E che recreamento arà colui al quale ogni sera sia necessario torcere le braccia e le membra agli uomini, sentirli con quella dolorosa voce gridare misericordia, e pur convenirli usare molte altre orribili crudeltà , essere beccaio e squarciatore delle membra umane? Au! cosa abominevole a chi pur vi pensa, cosa da fuggilla. Tu adunque, uomo crudelissimo, chiederai li stati? Dirai tu certo sÃ, perché a me sarà lodo soffrire quelle gravezze, per gastigare i mali, sollevare e ornare i buoni. Adunque per gastigare e' mali tu in prima diventi pessimo? A me non pare buono colui il quale non vive contento del suo proprio, e colui sarà piggiore il quale desidererà e cercherà quello d'altri, e quello sarà sopra tutto pessimo il quale bramerà e usurperà le cose publice. Non ti biasimerò se di te porgerai tanta virtú e fama che la patria ti riceva e impongati parte de' incarichi suoi, e chiamerò onore essere cosà pregiato da' tuoi cittadini. Ma che io volessi fare come molti fanno, gittarmi sotto questo, fare coda a quello altro, e servendo cercare di signoreggiare, o vero che io mi dessi a diservire o ingiuriare alcuno per compiacere a costui col favore del quale io aspettassi salire in stato, o vero che io volessi, come quasi fanno tutti, ascrivermi lo st...
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