ZIBALDONE, di Giacomo Leopardi - pagina 45
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.114.
pensiero ultimo, e considera la gran contrarietà di Catone ai progressi dello studio presso i Romani, i quali sono un vivissimo esempio di quello ch'io dico, cioè dell'esser gli studi, tanto ameni quanto seri e filosofici, favorevolissimi alla tirannia.
V.
anche Montesquieu Grandeur etc.
ch.10.
principio.
Certo la profonda filosofia di Seneca, di Lucano, di Trasea Peto, di Erennio Senecione, di Elvidio Prisco, di Aruleno Rustico, di Tacito ec.
non impedì la tirannia, anzi laddove i Romani erano stati liberi senza filosofi, quando n'ebbero in buon numero, e così profondi come questi, e come non ne avevano avuti mai, furono schiavi.
E come giovano tali studi alla tirannia, sebbene paiano suoi nemici, così scambievolmente la [275]tirannia giova loro, 1.
perchè il tiranno ama e proccura che il popolo si diverta, o pensi (quando non si possa impedire) in vece che operi, 2.
perchè l'inoperosità del suddito lo conduce naturalmente alla vita del pensiero, mancando quella dell'azione, 3.
perchè l'uomo snervato e ammollito è più capace e più voglioso o di pensare, o di spassarsi coll'amenità ec.
degli studi eleganti, che di operare, 4.
perchè il peso, la infelicità, la monotonia, il sombre della tirannia fomenta e introduce la riflessione, la profondità del pensare, la sensibilità, lo scriver malinconico; l'eloquenza non più viva ed energica, ma lugubre, profonda, filosofica ec.
5.
perchè la mancanza delle vive e grandi illusioni spegnendo l'immaginazione lieta aerea brillante e insomma naturale come l'antica, introduce la considerazione del vero, la cognizione della realtà delle cose, la meditazione ec.
e dà anche luogo all'immaginazione tetra astratta metafisica, e derivante più dalle verità, dalla filosofia, dalla ragione, che dalla natura, e dalle vaghe idee proprie naturalmente della immaginazione primitiva.
Come è quella de' settentrionali, massime oggidì, fra' quali la poca vita della natura, dà luogo all'immaginativa fondata sul pensiero, [276]sulla metafisica, sulle astrazioni, sulla filosofia, sulle scienze, sulla cognizione delle cose, sui dati esatti ec.
Immaginativa che ha piuttosto che fare colla matematica sublime che colla poesia.
(14.
ottobre 1820.)
P.51 capoverso 4.
aggiungi.
Nello stesso modo io non chiamo malvagio propriamente colui che pecca (molti non peccano per viltà, per ignoranza del male, per imperizia e mancanza d'arte nell'eseguirlo, per impotenza fisica o morale o di circostanza, per torpidezza, per abitudine, per vergogna, per interesse, per politica, per cento tali ragioni), ma colui che pecca o peccherebbe senza rimorso.
(14.
ottobre 1820.)
La convenienza che cagiona la bellezza non è solamente nelle parti della cosa.
Molte cose possono esser così semplici che quasi non abbiano parti.
E il bello morale, e tutto quel bello che non appartiene ai sensi, non ha parti.
Ma la convenienza della cosa si considera anche rispetto alle relazioni del tutto, o delle parti coll'estrinseco.
P.e.
coll'uso, col fine, coll'utilità, col luogo, col tempo, con ogni sorta di circostanza, coll'effetto che produce o deve produrre ec.
Una spada con una gemma sulla [277]punta, la qual gemma corrispondesse perfettamente all'ornato, alle proporzioni, alla configurazione, alla materia del resto, a ogni modo sarebbe brutta.
Questa bruttezza non è sconvenienza di parti, non di una parte coll'altre, ma di una parte col suo uso o fine.
Di questo genere sono infinite bruttezze o bellezze tanto sensibili, che intelligibili, morali, letterarie ec.
(14.
ottobre 1820.)
Quel vecchio che non ha presente nè futuro, non è privo perciò di vita.
Se non è stato mai uomo, non ha bisogno se non di quel nonnulla che gli somministra la sua situazione, e tutto gli basta per vivere.
Se è stato uomo, ha un passato, e vive in quello.
La mancanza del presente, non è la cosa più grave per gli uomini, anzi atteso la nullità di tutto quello che si vede nella realtà e da vicino, si può dire che il presente sia nullo per tutti, e che ogni uomo manchi del presente.
Il vuoto del futuro non è gran cosa per lui, 1.
perch'è già sazio della vita, che ha già provata, gustata, adoperata ec.
2.
perchè i suoi desideri, passioni, affetti, sentimenti, sono rintuzzati e [278]intorpiditi, e ristretti, e non esigono più grandi beni, piaceri, movimenti, azioni presenti, nè grandi speranze, gran vita attuale o avvenire: 3.
perchè l'estensione materiale del suo futuro è piccola, e non lo può spaventare gran fatto il vuoto di un piccolo spazio.
Ma il giovane senza presente nè futuro, cioè senza nè beni, attività, piaceri, vita ec.
nè speranze e prospettiva dell'avvenire, dev'essere infelicissimo e disperato, mancare affatto di vita, e spaventarsi e inorridire della sua sorte e del futuro.
1.
Il giovane non ha passato.
Tutto quello che ne ha, non serve altro che ad attristarlo e stringergli il cuore.
Le rimembranze della fanciullezza e della prima adolescenza, dei godimenti di quell'età perduti irreparabilmente, delle speranze fiorite, delle immaginazioni ridenti, dei disegni aerei di prosperità futura, di azioni, di vita, di gloria, di piacere, tutto svanito.
2.
I desideri e le passioni sue, sono ardentissime ed esigentissime.
Non basta il poco; hanno bisogno di moltissimo.
Quanto è maggiore la sua vita interna, tanto maggiore è il bisogno e l'estensione e intensità ec.
della vita esterna che si desidera.
E mancando questa, quanto maggiore è la vita interna, tanto maggiore è il senso di [279]morte, di nullità, di noia ch'egli prova: insomma tanto meno egli vive in tali circostanze, quanto la sua vita interiore è più energica.
3.
Il giovane non ha provato nè veduto.
Non può esser sazio.
I suoi desideri e passioni sono più ardenti e bisognosi, come ho detto, non solo assolutamente per l'età, ma anche materialmente, per non avere avuto ancora di che cibarsi e riempiersi.
Non può esser disingannato nell'intimo fondo e nella natura, quando anche lo sia in tutta l'estensione della sua ragione.
4.
Il suo futuro è materialmente lunghissimo, e l'immensità dello spazio vuoto che resta a percorrere, fa orrore, massime paragonandolo con quel poco che ha avuto tanta pena a passare.
Il giovane a questa considerazione si spaventa e dispera eccessivamente, sembrandogli quel futuro più lungo e terribile di un'eternità.
Di più tutta la sua vita consiste nel futuro.
L'età passata non è stata altro che un'introduzione alla vita.
Dunque egli è nato senza dover vivere.
Il giovane prova disperazioni mortali, considerando che una sola volta deve passare per questo mondo, e che questa volta non godrà della vita, non vivrà, avrà perduto e gli sarà inutile la sua unica esistenza.
Ogn'istante che passa della sua gioventù in questa guisa, gli sembra [280]una perdita irreparabile fatta sopra un'età che per lui non può più tornare.
(16.
ottobre 1820.)
Il suo divertimento era di passeggiare contando le stelle (e simili).
(16.
ottobre 1820.)
Anche la mancanza sola del presente è più dolorosa al giovine che a qualunque altro.
Le illusioni in lui sono più vive, e perciò le speranze più capaci di pascerlo.
Ma l'ardor giovanile non sopporta la mancanza intera di una vita presente, non è soddisfatto del solo vivere nel futuro, ma ha bisogno di un'energia attuale, e la monotonia e l'inattività presente gli è di una pena di un peso di una noia maggiore che in qualunque altra età, perchè l'assuefazione alleggerisce qualunque male, e l'uomo col lungo uso si può assuefare anche all'intera e perfetta noia, e trovarla molto meno insoffribile che da principio.
L'ho provato io, che della noia da principio mi disperava, poi questa crescendo in luogo di scemare, tuttavia l'assuefazione me la rendeva appoco appoco meno spaventosa, e più suscettibile di pazienza.
La qual pazienza della noia in me divenne finalmente affatto eroica.
Esempio de' carcerati, i quali talvolta si sono anche affezionati a quella vita.
L'abito dell'eroismo può essere in un corpo debole, ma l'atto difficilmente, e non senza un grande [281]sforzo, nè senza ripugnanza, e quasi contro natura.
E perciò vediamo moltissimi che per abito sono tutt'altro che eroi, far non di rado azioni eroiche; e viceversa.
Anzi si può dire che gli uomini d'abito di principii e d'animo eroico, lo sono di rado nel fatto; e gli uomini eroici nel fatto, lo sono di rado nell'abito nei sentimenti e nell'animo.
Estendete queste osservazioni all'entusiasmo.
Quell'usignuolo di cui dice Virgilio nell'episodio d'Orfeo, che accovacciato su d'un ramo, va piangendo tutta notte i suoi figli rapiti, e colla miserabile sua canzone, esprime un dolor profondo, continuo, ed acerbissimo, senza moti di vendetta, senza cercare riparo al suo male, senza proccurar di ritrovare il perduto ec.
è compassionevolissimo, a cagione di quell'impotenza ch'esprime, secondo quello che ho detto in altri pensieri.
Il Buffon Hist.
nat.
de l'homme, combatte coloro i quali credono che la separazione dell'anima dal corpo debba essere dolorosissima per se stessa.
A' suoi argomenti aggiungi questo, che forse è il più concludente.
Se volessimo considerar l'anima come materiale, già non si tratterebbe più di separazione, e la morte non sarebbe altro che un'[282]estinzione della forza vitale, in qualunque cosa consista, certo facilissima a spegnersi.
Ma considerandola come spirituale, è ella forse un membro del corpo, che s'abbia a staccare, e perciò con gran dolore? O non piuttosto i legami tra lo spirito e la materia, qualunque sieno, certo non sono materiali, e l'anima non si svelle come un membro, ma parte naturalmente quando non può più rimanere, nello stesso modo che una fiamma si estingue e parte da quel corpo dove non trova più alimento, nel che, per dire un'immagine, noi non vediamo nè ci figuriamo neanche astrattamente nessuna violenza e nessun dolore sia nel combustibile sia nella fiamma.
La morte nell'ipotesi della spiritualità dell'anima, non è una cosa positiva ma negativa, non una forza che la stacchi dal corpo, ma un impedimento che le vieta di più rimanervi, posto il quale impedimento, l'anima parte da se, perchè manca il come abitare nel corpo, non perchè una forza violenta ne la sradichi e rapisca.
Giacchè se l'anima è spirito, non bisogna considerarla come parte del corpo, ma come ospite di esso corpo, e tale che l'entrata e l'uscita sua sia facilissima leggerissima e dolcissima, non essendoci mica nervi nè membrane nè ec.
che ve la tengano attaccata, o [283]catene che ve la tirino quando deve entrarvi.
E quando v'entra, la cosa è insensibile, e l'uomo certamente non se ne avvede; così la sua uscita dev'essere insensibile, e tutta diversa dalla nostra maniera di concepire.
Come l'uomo non s'accorge nè sente il principio della sua esistenza, così non sente nè s'accorge del fine, nè v'è istante determinato per la prima conoscenza e sentimento di quello nè di questo.
V.
p.290.
Qualunque uomo nuovo tu veda, purch'egli viva nel mondo, tu sei certo di non errare, tenendolo subito per un malvagio, qualunque sia la sua fisonomia, le maniere, il portamento, le parole, le azioni ec.
E chi vuol mettersi al sicuro deve subito giudicarlo per tale, e appresso a poco non troverà mai di avere sbagliato veramente, non ostante che tutte le apparenze gli possano dimostrare il contrario per lunghissimo tempo.
Nello stesso modo, e per la stessa ragione è pur troppo acerbissima oggidì la condizione dell'uomo da bene che si unisce in matrimonio.
Perchè s'egli non intende di portare e far sempre vivere i suoi figli nelle selve, deve tenere per indubitatissimo [284]fino da quel primo punto, che il suo matrimonio non frutterà al mondo altro che qualche malvagio di più.
E questo non ostante qualunque indole, qualunque cura o arte di educazione ec.
Perchè da che un uomo qualunque dovrà entrare nella società, è quasi matematicamente certo che dovrà divenire un malvagio, se non tutto a un tratto, certo a poco a poco; se non del tutto, certo in gran parte, a proporzione degli ostacoli ch'esso gli opporrà, ma che in tutti i modi certamente saranno vinti.
E parimente dovrebb'esser dolorosissimo per l'uomo da bene il considerare nel mentre che alleva i suoi figli, che qualunque sua cura, qualunque immaginabile speranza di virtù, ch'egli ne possa concepire, è certissimo per infallibile e continua esperienza, che saranno, almeno in gran parte, inutili e vane.
Sicchè tutto quello che può ragionevolmente sperare e cercare il buon educatore, è d'istillare ne' suoi figli tanta dose di virtù, che venendo senza fallo a scemare, pur ne resti qualche poco, a proporzione della prima quantità.
Questa sarebbe ben altra risposta da darsi a chi vi consigliasse d'ammogliarvi, o v'interrogasse perchè non l'abbiate fatto.
Al che Talete interrogato [285]da Solone, dicono che rispondesse col mostrargli le inquietudini e i dolori del padre per li pericoli o le sventure della sua prole.
Ma ora si potrebbe rispondere: per non procreare dei malvagi: per non dare al mondo altri malvagi.
(17.
ottobre 1820.)
La speranza, cioè una scintilla, una goccia di lei, non abbandona l'uomo, neppur dopo accadutagli la disgrazia la più diametralmente contraria ad essa speranza, e la più decisiva.
(18.
ottobre 1820.)
Si può applicare alla poesia (come anche alle cose che hanno relazione o affinità con lei) quello che ho detto altrove: che alle grandi azioni è necessario un misto di persuasione e di passione o illusione.
Così la poesia tanto riguardo al maraviglioso, quanto alla commozione o impulso di qualunque genere, ha bisogno di un falso che pur possa persuadere, non solo secondo le regole ordinarie della verisimiglianza, ma anche rispetto ad un certo tal quale convincimento che la cosa stia o possa stare effettivamente così.
Perciò l'antica mitologia, o [286]qualunque altra invenzione poetica che la somigli, ha tutto il necessario dalla parte dell'illusione, passione ec.
ma mancando affatto dalla parte della persuasione, non può più produrre gli effetti di una volta, e massime negli argomenti moderni, perchè negli antichi, l'abitudine ci proccura una tal quale persuasione, principalmente quando anche il poeta sia antico, perchè immedesimatasi in noi l'idea di quei fatti, di quei tempi, di quelle poesie ec.
con quelle finzioni, queste ci paiono naturali e quasi ci persuadono, perchè l'assuefazione c'impedisce quasi di distinguerle da quei poeti, tempi, avvenimenti ec.
e così machinalmente ci lasciamo persuadere quanto basta all'effetto, che la cosa potesse star così.
Ma applicate nuovamente le stesse o altre tali finzioni, sia ad altri argomenti antichi, sia massimamente a soggetti moderni o de' bassi tempi ec.
ci troviamo sempre un non so che di arido e di falso, perchè manca la tal quale persuasione, quando anche la parte del bello immaginario, maraviglioso ec.
sia perfetta.
Ed anche per questa parte il Tasso non produrrà mai l'effetto dei poeti antichi, [287]sebbene il suo favoloso e maraviglioso è tratto dalla religion Cristiana.
Ma oggidì in tanta propagazione e incremento di lumi, nessuna finzione o nuova [o] nuovamente applicata, trova il menomo luogo nell'intelletto, mancando la detta assuefazione, la quale supplisce al resto ne' poeti antichi.
E questa è una gran ragione per cui la poesia oggidì non può più produrre quei grandi effetti nè riguardo alla maraviglia e al diletto, nè riguardo all'eccitamento degli animi, delle passioni ec.
all'impulso a grandi azioni ec.
Tanto più che la religion cristiana non si presta alla finzione persuadibile, come la pagana.
A ogni modo è certo appunto per le sopraddette osservazioni, che la pagana oggidì non potendo aver più effetto, il poeta deve appigliarsi alla cristiana; e che questa maneggiata con vero giudizio, scelta, e abilità, può tanto per la maraviglia che per gli affetti ec.
produrre impressioni sufficienti e notabili.
(19.
ottobre 1820.)
Anche gli animali si associano in molti casi, e sempre per lo vantaggio comune.
Oltre le formiche e le api che ho notate altrove, si può osservare [288]la così detta ruota che fanno i cavalli e altri animali per difendersi da comuni aggressori.
Dalla quale s'inferisce ancora che gli animali hanno idee sufficienti di ordinanza o tattica, cioè del modo di accrescere e rendere più profittevoli le forze individuali 1.
coll'unione di molti individui, 2.
colla disposizione e figura di tutta la torma, 3.
colla conveniente collocazione degl'individui.
Di tali società guerriere offensive e difensive, credo che la storia naturale fornisca moltissimi esempi.
Come anche in altri casi; p.e.
se è vero quello che si racconta dell'ordinanza delle grù nei viaggi che fanno, della sentinella o svegliatrice che tengono.
Così la catena delle scimmie per passare i fiumi, così cento altri esempi dell'aiuto scambievole che le bestie si prestano per vantaggio comune, e forse anche talvolta per vantaggio del solo bisognoso e aiutato.
Tutte le cose si desiderano perfette relativamente al loro genere.
Tuttavia perchè il perfetto è rarissimo in tutte le specie di cose, coloro che imitano o contraffanno, sogliono mescolare alla imitazione qualche difetto, cioè imitare piuttosto [289]e figurare e scegliere l'individuo difettoso che il perfetto, per render la imitazione più verisimile e credibile, e fare inganno, e persuadere che il finto sia vero.
E laddove il difetto scema pregio all'imitato e vi si biasima, accresce pregio all'imitazione e vi si loda.
Così se tu vuoi contraffare un filo di perle, non le fai tutte tonde perfettamente, sebbene in un filo vero le vorresti tutte così.
Ed imiti piuttosto una gemma di un prezzo mediocre, di quello che contraffarne una inestimabile.
Così dunque loderemo sempre più l'Achille difettoso di Omero, che l'Enea, il perfetto eroe di Virgilio, a cagione della credibilità, del vantaggio che ne cava l'illusione e la persuasione.
Ed estenderemo questa osservazione a regolamento di tutti i poeti, quando scelgono qualche oggetto da imitare, acciocchè rifiutino gli eccessi tanto di perfezione quanto d'imperfezione, intorno alla quale siamo pure nello stesso caso.
Applicate quest'ultima riflessione ai protagonisti di Lord Byron.
(20.
ottobre 1820.)
[290]Alla p.283.
aggiungi.
L'uomo non si avvede mai precisamente del punto in cui egli si addormenta, per quanto voglia proccurarlo.
Ora il sonno non è il fine della vita, ma certo un interrompimento, e quasi un'immagine di esso fine; e se l'uomo non può sentire il punto in cui le sue facoltà vitali restano come sospese, molto meno quando sono distrutte.
Forse anche si potrà dire che l'addormentarsi non è un punto, ma uno spazio progressivo più o meno breve, un appoco appoco più o meno rapido; e lo stesso si dovrà dir della morte.
Di più è certo che i momenti i quali precedono immediatamente il sonno, e il punto o lo spazio dell'addormentarsi definitivamente (sebbene impercettibile), è dilettevole.
Questo quando anche la cagione del sonno, come il languore, il travaglio, la malattia, la semplice debolezza, non siano dilettevoli, anzi l'opposto; e però i momenti più lontani dal sonno siano penosi.
Anzi anche il letargo proveniente da infermità, anche mortale, è dilettevole.
Che il torpore sia dilettevole l'ho notato già in questi pensieri nella teoria del piacere, e assegnatane la ragione.
Credo che su questo fondamento il Napoletano [291]Cirillo abbia opinato che la morte abbia un non so che di dilettevole.
Nel che sono interamente con lui, e non dubito che l'uomo (e qualunque animale) non provi un certo conforto, e un tal qual piacere nella morte.
Non già che le cagioni di lei, e perciò i momenti più lontani da lei, siano dilettevoli; ma sibbene i momenti che la precedono immediatamente, e quello stesso punto o spazio impercettibile, e insensibile, in cui ella consiste.
E ciò in qualunque malattia, anche nelle acutissime, nelle quali il Buffon pare che convenga che la morte possa esser dolorosa.
Anzi il torpore della morte dev'esser tanto più dilettevole, quanto maggiori sono le pene che lo precedono, e da cui esso per conseguenza ci libera.
E però generalmente e sempre, il torpore della morte dev'essere più grato di quello del sonno, perchè succede a molto maggior travaglio.
Il qual sonno come ho detto non è mai penoso, quando anche sia cagionato da pene, anche da angoscie vive, come da febbre ardente ec.
Quanto alle malattie dove l'uomo si estingue appoco appoco, e con piena conoscenza fino all'ultimo, è certo che non v'è momento così immediatamente vicino alla morte, dove l'uomo anche il meno illuso non si prometta un'ora almeno di vita, come si dice de' vecchi ec.
E così la morte non è mai troppo vicina al pensiero del moribondo, per la solita misericordia della natura.
Vedi p.599.
capoverso 2.
Io bene spesso trovandomi in gravi travagli o corporali o morali, ho desiderato non solamente il riposo, ma la mia anima senza sforzo, e senza eroismo, si compiaceva [292]naturalmente nell'idea di un'insensibilità illimitata e perpetua, di un riposo, di una continua inazione dell'anima e del corpo, la qual cosa desiderata in quei momenti dalla mia natura, mi era nominata dalla ragione col nome espresso di morte, nè mi spaventava punto.
E moltissimi malati non eroi, nè coraggiosi anzi timidissimi, hanno desiderato e desiderano la morte in mezzo ai grandi dolori, e sentono un riposo in quell'idea, il quale sarebbe molto maggiore, se l'idea della morte non fosse accompagnata dai timori del futuro, e da cento altre cose estranee, e d'altro genere.
Del resto il riposo ch'io desiderava allora mi piaceva più che dovesse esser perpetuo, acciò non avessi dovuto ripigliare svegliandomi gli stessi travagli de' quali era così stanco.
Se la morte e il sonno siano un punto o uno spazio, non si ricerca riguardo a quei momenti nei quali l'uomo conserva ancora una cognizione di se, che va scemando a poco a poco, giacchè questo non si dubita che non sia uno spazio progressivo, ma riguardo al tempo non sensibile, nè conoscibile, nè ricordabile.
Il quale pare che debba essere istantaneo, giacchè il passaggio dal conoscere al non conoscere, [293]dall'essere al non essere, dalla cosa quantunque menoma al nulla, non ammette gradazione, ma si fa necessariamente per salto, e istantaneamente.
(21.
ottobre 1820.)
Ho detto altrove; (p.55.) domandate piacere ad uno, che non vi si possa fare senza incorrere nell'odio di un altro ec.
La cagione di questo è che l'odio è passione, la gratitudine ragione e dovere, eccetto il caso che il benefizio produca l'amore passione, giacchè questa non si può dubitare che spesso non sia più efficace ed attiva dell'odio e di tutte le altre.
Ma la semplice gratitudine è tutta relativa ad altrui, laddove l'amore passione, benchè sembri, non è tale, ma è fondata sommamente nell'amor proprio, giacchè si ama quell'oggetto come cosa che c'interessa, ci piace, e la nostra persona entra in questo affetto per grandissima parte.
Ma la ragione non è mai efficace come la passione.
Sentite i filosofi.
Bisogna fare che l'uomo si muova per la ragione come, anzi più assai che per la passione, anzi si muova per la sola ragione e dovere.
Bubbole.
La natura degli uomini e delle cose, può ben [294]esser corrotta, ma non corretta.
E se lasciassimo fare alla natura, le cose andrebbero benissimo, non ostante la detta superiorità della passione sulla ragione.
Non bisogna estinguer la passione colla ragione, ma convertir la ragione in passione; fare che il dovere la virtù l'eroismo ec.
diventino passioni.
Tali sono per natura.
Tali erano presso gli antichi, e le cose andavano molto meglio.
Ma quando la sola passione del mondo è l'egoismo, allora si ha ben ragione di gridar contro la passione.
Ma come spegner l'egoismo colla ragione che n'è la nutrice, dissipando le illusioni? E senza ciò, l'uomo privo di passioni, non si muoverebbe per loro, ma neanche per la ragione, perchè le cose son fatte così, e non si possono cambiare, chè la ragione non è forza viva nè motrice, e l'uomo non farà altro che divenirne indolente, inattivo, immobile, indifferente, infingardo, com'è divenuto in grandissima parte.
(22.
ottobre 1820.)
Le cagioni dell'amore dei vecchi alla vita e del timor della morte, i quali par che crescano in proporzione che la vita è meno amabile, e che la morte può [295]privarci di minore spazio di tempo, e di minori godimenti, anzi di maggiori mali (fenomeno discusso ultimamente dai filosofi tedeschi che ne hanno recato mille ragioni fuorchè le vere: v.
lo Spettatore di Milano), sono, oltre quella che ho recata, mi pare, negli abbozzi della Vita di Lorenzo Sarno, queste altre.
1.
Che coll'ardore e la forza della vitalità e dell'esistenza, si estingue o scema il coraggio, e quindi a proporzione che l'esistenza è meno gagliarda, l'uomo è meno forte per poterla disprezzare, e incontrarne o considerarne la perdita.
Anche i giovani più facili a disprezzar la vita, coraggiosissimi nelle battaglie e in ogni rischio, sono bene spesso paurosissimi nelle malattie, tanto per la detta cagione della minor forza del corpo, e quindi dell'animo, quanto perchè non possono opporre alla morte quell'irriflessione, quel movimento, quell'energia, che gl'impedisce di fissarla nel viso, in mezzo ai rischi attivi.
2.
Che molte cose vedute da lungi paiono facilissime ad incontrare, e niente spaventose, e in vicinanza riescono terribili, e poi ci si trovano mille difficoltà, mille crepacuori; affezioni, progetti ec.
che da lontano pareano facili ad abbandonare [296]per forza di ardore di entusiasmo, o di passione, disperazione ec.
e da vicino rincrescono infinitamente quando la passione è sparita, e le cose si considerano quietamente.
3.
Che la natura ha posto negli esseri viventi sommo amor della vita, e quindi odio della morte, e queste passioni ha voluto e fatto che fossero cieche, e non dipendessero dal calcolo delle utilità, della maggiore o minor perdita ec.
Quindi è naturale che gli effetti di questo amore e di quest'odio crescano in proporzione che la cosa amata è più in pericolo, e più bisognosa di cure per conservarla, e la cosa odiata più vicina.
4.
Che i beni si disprezzano quando si possiedono sicuramente, e si apprezzano quando sono perduti, o si corre pericolo o si è in procinto di perderli.
E come quel disprezzo era maggiore del giusto, così anche questa stima suol eccedere i limiti in qualsivoglia cosa.
Ora il giovane, per quanto è concesso all'uomo, è il vero possessor della vita; il vecchio la possiede come precariamente.
5.
Che la felicità o infelicità non si misura dall'esterno ma dall'interno.
Il vecchio per l'assuefazione è meno suscettibile [297]di mali, e meno sensibile a quelli che gli avvengono; per l'estinzione dell'impeto e dell'inquietudine giovanile, meno bisognoso dei beni che gli mancano, meno vivo nei desideri, più facile a soffrir la privazione di ciò che desidera, e a desiderar cose dove possa agevolmente esser soddisfatto.
Laonde la vita del vecchio non è più infelice di quella del giovane, anzi forse più felice secondo la sesta considerazione.
6.
Che la vita metodica, tranquilla e inattiva non è penosa ma piacevole, quando s'accordi col metodo, calma, e inattività dell'individuo.
Certo il giovane muore in una tal condizione, ma la condizione ch'egli desidera, specialmente nello stato presente del mondo, è difficilissima o impossibile a conseguire.
Egli non trova altro che il nulla da cui fugge; il vecchio lo desidera, lo cerca, lo trova come tutti gli altri di qualunque età, e a differenza delle altre età, se ne compiace, o almeno non se ne duole, o certo lo soffre con pazienza, e quando l'uomo è perfettamente paziente, allora non può non amar la vita, perchè questa è amabile per natura.
Aggiungete la tempesta delle passioni, dalla [298]quale il vecchio è libero, la tempesta del mondo, della società, degli affari, delle azioni, degli stessi diletti, quella tempesta nella quale il giovane, anche dopo averla sospirata in mezzo alla noia, sospira il riposo e la calma.
Anzi è certo che lo stato naturale è il riposo e la quiete, e che l'uomo anche più ardente, più bisognoso di energia, tende alla calma e all'INAZIONE continuamente in quasi tutte le sue operazioni.
Osservate ancora che la vita metodica era quella dell'uomo primitivo, e la più felice vita, non sociale, ma naturale.
Osservate anche oggidì l'impressione che fa l'aspetto di essa vita rurale o domestica, nelle persone più dissipate, o più occupate, e com'ella par loro la più felice che si possa menare.
È vero che ella ordinariamente è tale quando consiste in un metodo di occupazioni, e tale era nei primitivi, e nei selvaggi sempre occupati ai loro bisogni, o ad un riposo figlio e padre della fatica e dell'azione.
Ma in ogni modo l'uomo avvezzandosi anche alla pura inazione, ci si affeziona talmente che l'attività gli riuscirebbe [299]penosissima.
Si vedono bene spesso de' carcerati ingrassare e prosperare, ed esser pieni di allegria, nella stessa aspettazione di una sentenza che decida della loro vita.
Dove anzi l'imminenza del male, accresce il piacere del presente, cosa già osservata dagli antichi (come da Orazio), anzi famosa tra loro, e provata da me, che non ho mai sperimentato tal piacere della vita, e tali furori di gioia maniaca ma schiettissima, come in alcuni tempi ch'io aspettava un male imminente, e diceva a me stesso; ti resta tanto a godere e non più, e mi rannicchiava in me stesso, cacciando tutti gli altri pensieri, e soprattutto di quel male, per pensare solamente a godere, non ostante la mia indole malinconica in tutti gli altri tempi, e riflessivissima.
Anzi forse questa accresceva allora l'intensità del godimento, o della risoluzione di godere.
Applicate anche questa settima considerazione ai vecchi.
V.
p.121.
pensiero 3.
e confrontalo, rettificalo, ed accrescilo con questo, e questo con quello.
(23.
ottobre 1820.)
I principi non possono essere amati per altra passione che per quella che consiste nell'amor di parte.
[300]L'ambizione, l'avarizia ec.
cadono sotto la categoria dell'interesse, consistono nel freddo calcolo dell'egoismo, e perciò spettano alla ragione, tutto l'opposto del fervido, irriflessivo e cieco impeto della passione.
E chi sacrifica se stesso al principe per ambizione, avarizia, o altre mire di propria utilità, non si sacrifica veramente al principe ma a se stesso, e tanto quanto lo crede utile a se stesso, e in caso diverso, abbandona la sua causa.
Ma l'amor di parte conduce a sacrificarsi furiosamente, e senza riserva nè condizione nè ritegno nè calcolo veruno, all'oggetto di questo amore, e così la passione primieramente è più forte della ragione e dell'interesse, e conduce ad affrontare molto maggiori ostacoli e pericoli; in secondo luogo non è soggetta a cambiar di strada secondo le circostanze, come l'interesse che da una causa porta a difenderne un'altra, secondo che meglio torna.
I principi dunque non potendo esser favoriti dai sudditi per altra passione che per la sopraddetta, e l'interesse non essendo nè così forte, nè molto meno così costante, la ragione poi essendo inoperosissima (giacchè vediamo tutto giorno che quella parte [301]dei sudditi la quale ama o favorisce il suo governo per mera persuasione, come anche quella che lo odia nello stesso modo, è la parte più immobile e più passiva del popolo), debbono fomentare l'amor di parte.
E siccome questo non è attivo anzi non esiste, se non v'è parte contraria, perciò, quantunque sembri un paradosso, si può affermare che giova al principe il dar luogo a una fazione contraria alla sua, quando esista la favorevole, e sia più forte com'è il più naturale e ordinario.
Questa fu la pratica dei romani la quale riuscì loro così bene come nessuno ignora.
E i realisti di Francia, e le provincie o città realiste non sarebbero così ardenti sostenitori del re, se non avessero lo spirito di parte, e se non esistesse un partito contrario considerabile, il quale non è più forte, ma se fosse, l'affare sarebbe fuor del caso.
E cento altri esempi e prove simili può fornire la storia antica e moderna e presente.
Quello dunque che ho detto p.113.
de' conquistatori, si può estendere a tutti i principi e governi.
(27.
ottobre 1820.)
massime monarchici, oligarchici, aristocratici ec.
perchè nelle repubbliche [302]il caso è alquanto diverso, e le fazioni sono utili per altre ragioni, ma non però che anche questa non si possa applicare ad esse pure.
V.
p.1242.
Nelle estreme sventure tutte le altre età ammettono la consolazione o filosofica, o qualunque.
Solamente la giovanezza non ammette e non vede altra consolazione che della morte.
Il libro di Crantore ?????????????lodatissimo dagli antichi, il libro di Cicerone de Consolatione dove espresse in gran parte quello di Crantore, saranno stati utili alle altre età.
Pel giovane estremamente sventurato, o che si creda tale, non si può scriver libro consolatorio.
La corruttela de' costumi è mortale alle repubbliche, e utile alle tirannie, e monarchie assolute.
Questo solo basta a giudicare della natura e differenza di queste due sorte di governi.
(3.
novembre 1820.)
La plus grande marque qu'on est né avec de grandes qualités, c'est d'être sans envie Madame la Marquise de Lambert, Avis d'une mère à son fils.
À Paris et à Lyon 1808.
p.67.
Une résistance inutile (aux malheurs) retarde l'habitude qu'elle (l'ame) contracteroit avec son état.
Il faut céder aux malheurs.
Renvoyez-les à la patience: c'est à elle seule à les adoucir [303].
La même, ibid.
p.88.
(5 Nov.
1820.).
Bione Boristenite ???????????????????????????????? (anxietate maiore detineatur), ??????????????????????????????????????, colui che cerca le supreme felicità (Laerz.
in Bione, l.4 segm.48.).
Chi sa pascersi delle piccole felicità, raccogliere nell'animo suo i piccoli piaceri che ha provato nella giornata, dar peso presso
se medesimo alle piccole fortune, facilmente passa la vita, e se non è felice, può crederlo, e non accorgersi del contrario.
Ma chi non dà mente se non alle grandi felicità, non considera come guadagno, e non proccura di pascersi e ruminare seco stesso i piccoli accidenti piacevoli, le piccole riuscite, soddisfazioni, conseguimenti ec.
e tiene tutto per nulla, se non ottiene quel grande e difficile scopo che si propone; vivrà sempre cruccioso, ansioso, senza godimenti, e in vece della gran felicità, ritroverà una continua infelicità.
Massimamente che, conseguito ancora quel grande scopo, lo troverà molto inferiore alla speranza, come sempre accade nelle cose lungamente desiderate e cercate.
(6.
Nov.
1820.).
V.
poco sotto.
Osservano i giuristi che nel Cod.
Giustin.
non si trova legge contro i duelli (perlochè moltissimi si sforzano di tirarci scioccamente quella di Costantino M.
[304]contro i Gladiatori).
Così accade a chi fa il ritratto o la copia avanti che abbia veduto l'originale, o ad un fanciullo che si faccia le vesti per quando sarà cresciuto.
Il faut s'arrêter et séjourner sur les goûts et sur les plaisirs, pour en jouir: il faut de repos pour le bonheur.
Il n'y a point de présent pour une ame agitée: la soif des richesses ne laisse jamais assez de calme pour sentir ce que l'on possède (lo stesso dite di qualunque altro desiderio difficile a conseguire, e vivissimo tuttavia)...
Ils passent leur vie en désirs et en espérances: ainsi, ils ne vivent pas, mais ils espérent de vivre.
Madame de Lambert, Réflexions sur les richesses.
Paris 1808.
à la suite des Avis d'une mère à son fils.
p.153.154.
Quel detto scherzevole di un francese Glissez, mortels, n'appuyez pas a me pare che contenga tutta la sapienza umana, tutta la sostanza e il frutto e il risultato della più sublime e profonda e sottile e matura filosofia.
Ma questo insegnamento ci era già stato dato dalla natura, e non al nostro intelletto nè alla ragione, ma all'istinto ingenito ed intimo, e tutti noi l'avevamo messo in pratica da [305]fanciulli.
Che cosa adunque abbiamo imparato con tanti studi, tante fatiche, esperienza, sudori, dolori? e la filosofia che cosa ci ha insegnato? Quello che da fanciulli ci era connaturale, e che poi avevamo dimenticato e perduto a forza di sapienza; quello che i nostri incolti e selvaggi bisavoli, sapevano ed eseguivano senza sognarsi d'esser filosofi, e senza stenti nè fatiche nè ricerche nè osservazioni nè profondità ec.
Sicchè la natura ci aveva già fatto saggi quanto qualunque massimo saggio del nostro o di qualsivoglia tempo; anzi tanto più, quanto il saggio opera per massima, che è cosa quasi fuori di se; noi operavamo per istinto e disposizione ch'era dentro di noi, ed immedesimata colla nostra natura, e però più certamente e immancabilmente e continuamente efficace.
Così l'apice del sapere umano e della filosofia consiste a conoscere la di lei propria inutilità se l'uomo fosse ancora qual era da principio, consiste a correggere i danni ch'essa medesima ha fatti, a rimetter l'uomo in quella condizione in cui sarebbe sempre stato, s'ella non fosse mai nata.
E perciò solo è utile la sommità della filosofia, perchè ci libera e disinganna dalla filosofia.
(7.
Nov.
1820.)
[306]Aristotele, o secondo altri, Diogene, ?????????????????????????????????????????????????.
(Laerz.
in Aristot.
l.5.
seg.18.) Teofrasto definiva la bellezza ????????????????(ib.
19.).
Pur troppo bene: perchè tutto quello che la bellezza promette, e par che dimostri, virtù, candore di costumi, sensibilità, grandezza d'animo, è tutto falso.
E così la bellezza è una tacita menzogna.
Avverti però che il detto di Teofrasto è più ordinario, perchè ??????non è propriamente menzogna, ma inganno, frode, seduzione, ed è relativo all'effetto che la bellezza fa sopra altrui, non al mentire assolutamente.
Appelliamo tutto giorno ai posteri.
Nelle cose dove alla giustizia, al retto giudizio, alle retribuzioni dovute ec.
nuocono i difetti o vizi de' contemporanei in quanto contemporanei, va bene.
Ma in tutto il resto, in tutto quello che spetta ai vizi degli uomini come uomini, o come animali depravati, non so quanto ci gioverà quest'appellazione.
Se potessimo appellare ai passati, saremmo più fortunati, ma il costume del mondo è stato sempre di peggiorare, e che il futuro fosse peggiore del presente e del passato.
Le generazioni migliori non sono quelle davanti, ma quelle di dietro; e non c'è speranza che [307]il mondo cambi costume, e rinculi in vece di avanzare; e avanzando già non può far altro che peggiorare.
Massime a questi tempi e costumi presenti, non par che possa succedere nè derivare altro che tempi e costumi peggiori.
Vediamo dunque che cosa ci resti a sperare dalla posterità.
V.
p.593.
capoverso 1.
È un curioso andamento degli studi umani, che i geni più sublimi liberi e irregolari, quando hanno acquistato fama stabile e universale, diventino classici, cioè i loro scritti entrino nel numero dei libri elementari, e si mettano in mano de' fanciulli, come i trattati più secchi e regolari delle cognizioni esatte.
Omero che scriveva innanzi ad ogni regola, non si sognava certo d'esser gravido delle regole come Giove di Minerva o di Bacco, nè che la sua irregolarità sarebbe stata misurata, analizzata, definita, e ridotta in capi ordinati per servir di regola agli altri, e impedirli di esser liberi, irregolari, grandi, e originali come lui.
E si può ben dire che l'originalità di un grande scrittore, producendo la sua fama, (giacchè senza quella, sarebbe rimato oscuro, e non avrebbe servito di norma [308]e di modello) impedisce l'originalità de' successori.
Io compatisco tutti, ma in ispecie i poveri gramatici, i quali dovendo formare la prosodia greca sopra Omero, hanno dovuto popolare il Parnaso greco di eccezioni, di sillabe comuni ec.
o almeno avvertire che molti esempi di Omero ripugnavano ai loro insegnamenti, perchè Omero innocentemente, non sapendo il gran feto delle regole del quale erano pregni i suoi poemi, adoperava le sillabe a suo talento, e fino nello stesso piede, adoperava la stessa sillaba una volta lunga, e un'altra breve.
?????????????????????????????????????????????????
Il Parnaso latino creato dopo che gli studi aveano preso forma regolare, se non intieramente presso i latini (quantunque la vera creazione del Parnaso latino si possa porre nel secolo di Augusto, perchè i poeti antecedenti erano di pochissimo conto), certo però presso i greci, dai quali tutta la letteratura latina derivò immediatamente; non fu soggetto a questa difficoltà.
(8.
Nov.
1820.)
Ma la poesia greca ebbe la disgrazia di trovarsi tutta bella e formata prima della nascita delle regole.
Dal che non solo intorno alla prosodia, ma a tutto il rimanente, si possono [309]osservare quelle conseguenze che sono naturali, e quelle differenze che ne dovevano nascere, rispetto alla poesia latina.
Il faut être bien grand pour avoir la force de ne l'être qu'à ses propres yeux.
Madame de Lambert, Portrait de M.
de S.
Paris 1808.
à la suite des Avis d'une mère à son fils.
p.226.
Il est dans l'âge où les sentimens deviennent plus délicats, parce qu'on échappe à l'empire des sens: dans cet âge où l'on vit encore pour ce qui plaît, et où l'on se retire pour ce qui incommode, il jouit des plaisirs purs.
Ib.
p.227.
Di uno sciocco che sempre vien fuori colla logica, dove ha gran presunzione, e la caccia in tutti i discorsi.
Egli è propriamente l'uomo definito alla greca; un ANIMALE logico.
Il gusto decisamente di preferenza che ha questo secolo per le materie politiche, è una conseguenza immediata e naturale, della semplice diffusione dei lumi, ed estinzione dei pregiudizi.
Perchè quando per una parte non si pensa più colla mente altrui, e le opinioni non dipendono più dalla tradizione, [310]per l'altra il sapere non è più proprio solamente di pochi, i quali non potrebbero formare il gusto comune; allora le considerazioni cadono necessariamente sopra le cose che c'interessano più da vicino, più fortemente, più universalmente.
L'uomo pregiudicato o irriflessivo, segue l'abitudine, lascia andar le cose come vanno, e perchè vanno e sono andate così, non pensa che possano andar meglio.
Ma l'uomo spregiudicato e avvezzo a riflettere, com'è possibile che essendo la politica in relazione continua colla sua vita, non la renda l'oggetto principale delle sue riflessioni, e per conseguenza del suo gusto? Nei secoli passati, come in quello di Luigi 14.
anche gli uomini abili, non essendo nè spregiudicati, nè principalmente riflessivi, della politica conservavano l'antica idea, cioè che stesse bene come stava, e toccasse a pensarvi solamente a chi aveva in mano gli affari.
Più tardi, gli uomini spregiudicati non mancavano, ma eran pochi: pensavano e parlavano di politica, ma il gusto non poteva essere universale.
Aggiungete che i letterati e i sapienti per lo più vivono in una certa lontananza dal mondo; perciò la politica non toccava il sapiente così dappresso, non gli stava tanto avanti gli occhi, non era in tanta relazione [311]colla sua vita, come ora che tutto il mondo è sapiente, e le cognizioni son proprie di tutte le classi.
Del resto, sebbene la morale per se stessa è più importante, e più strettamente in relazione con tutti, di quello che sia la politica, contuttociò a considerarla bene, la morale è una scienza puramente speculativa, in quanto è separata dalla politica: la vita, l'azione, la pratica della morale, dipende dalla natura delle istituzioni sociali, e del reggimento della nazione: ella è una scienza morta, se la politica non cospira con lei, e non la fa regnare nella nazione.
Parlate di morale quanto volete a un popolo mal governato; la morale è un detto, e la politica un fatto: la vita domestica, la società privata, qualunque cosa umana prende la sua forma dalla natura generale dello stato pubblico di un popolo.
Osservatelo nella differenza tra la morale pratica degli antichi e de' moderni sì differentemente governati.
(9 Nov.
1820.)
Oltracciò il comune è bensì illuminato e riflessivo al dì d'oggi, ma non profondo, e sebbene la politica domanda forse maggior profondità di lumi e di riflessioni che la morale, contuttociò il suo aspetto e superficie offre un campo più facile agl'intelletti volgari, e generalmente la politica si presta [312]davantaggio ai sogni alle chimere alle fanciullaggini.
Finalmente il volgo preferisce il brillante e il vasto al solido ed utile, ma in certo modo più ristretto e meno nobile, perchè la morale spetta all'individuo, e la politica alla nazione e al mondo.
E la superbia degli uomini è lusingata dal parlare e discutere i pubblici interessi, dall'esaminare e criticare quelli che gli amministrano ec.
e il volgare si crede capace e degno del comando, allorchè parla della maniera di comandare.
Alla p.62.
pensiero 1.
Osservate però che c'è una differenza in questo fra la letteratura latina e l'italiana, in quanto non le sole cognizioni filosofiche o filologiche, le quali esigevano l'uso delle parole greche, ma tutta la letteratura latina era derivata dalla greca.
Non così l'italiana dalla francese, eccetto nella filosofia ec.
anzi per lo contrario.
Sicchè l'introdur parole greche in latino doveva essere un poco più facile e naturale.
Del resto la stessa cognazione e fratellanza ch'era tra la greca e la latina esiste tra la lingua italiana e la francese, e se la greca si vuol considerare per anteriore, se non altro nella formazione e sistemazione, anche la lingua provenzale ci ha preceduto quasi nello stesso modo.
Alla p.58.
pensiero penultimo.
Aggiungete che il [313]tempo di Giuliano era tutto sofistico, e tale egli è in tutte le altre sue opere, tali sono Libanio, Temistio ec.
suoi più famosi scrittori contemporanei.
Ma nessuno è sofista quando parla di se stesso e per se stesso, e in un'occasione che mette in vero movimento l'animo suo.
Come la forza della natura giovanile, forza che non può esser vinta in fatto da nessuna ragionevolezza, studio, filosofia, precoce maturità di pensare ec.
fa che il giovane s'inebbri facilmente della felicità, così anche dell'infelicità, quando questa è tanto grave che superi la naturale inclinazione del giovane all'allegrezza, al divagarsi, a sperare, a noncurare il male.
E perciò il giovane è incapace d'altra consolazione che della morte, come ho detto p.302.
Nè religione, nè ragione, nè altro che sia, non è sufficiente a consolare il giovane sommamente sventurato, s'egli ha una certa forza d'animo, la quale tutta s'impiega in consolidare, e fargli sentire profondamente e ostinatamente il suo male.
La letteratura francese si può chiamare originale per la sua somma e singolare inoriginalità.
[314]Alla p.252.
La Spagna è una prova e un esempio vivo e presente di quello ch'io dico.
Nella Spagna barbara di barbarie non primitiva ma corrotta per la superstizione, la decadenza da uno stato molto più florido, civile, colto e potente, gli avanzi de' costumi moreschi ec.
nella Spagna, dico, l'ignoranza sosteneva la tirannia.
Questa dunque doveva cadere ai primi lampi di una certa filosofia, derivati dall'invasione e dimora de' francesi, e dalla rivoluzione del mondo.
L'ignoranza è come il gelo che assopisce i semi e gl'impedisce di germogliare, ma non gli uccide, come l'incivilimento, e passato l'inverno, quei semi germogliano alla primavera.
Così è accaduto nella Spagna, dove quel popolo, tornato quasi vergine ha sentito le scosse dell'entusiasmo, e l'avea già dimostrato nell'ultima guerra.
E perciò s'è veduto quivi il contrario delle altre nazioni, come osserva l'autore del Manuscrit venu de Sainte Hèlene, cioè che lo spirito rivoluzionario esisteva solamente in quelli che pel loro stato erano più colti, preti, frati, nobili, tutti quelli che nella rivoluzione non aveano che a perdere: [315]perchè il torpore della nazione non derivava da eccesso d'incivilimento, ma da difetto; e i pochi colti, probabilmente non lo erano all'eccesso, come altrove, ma quanto basta e conviene, e non più.
Quando la Spagna sarà bene incivilita ricadrà sotto la tirannia, sostenuta non più dall'ignoranza, ma per lo contrario dall'eccesso del sapere, dalla freddezza della ragione, dall'egoismo filosofico, dalla mollezza, dal genio per le arti e gli studi pacifici.
E questa tirannia sarà tanto più durevole quanto più moderata della precedente.
E se il re di Spagna avrà vera politica dovrà promuovere a tutto potere l'incivilimento del suo popolo (e in questi tempi vi potrà riuscire più facilmente e più presto).
E con ciò non consoliderà la loro indipendenza, come si crede comunemente, ma gli assoggetterà di nuovo, e ricupererà quello che ha perduto.
Non c'è altro stato intollerante di tirannia, o capace di esserne esente, fuorchè lo stato naturale e primitivo, o una civilizzazione media, com'è ora quella della Spagna, com'era quella de' Romani ec.
Atene e la Grecia quando furono sommamente civili, non furono mai libere veramente.
(10 Nov.
1820.)
[316]Teofrasto notato dagli antichi per uomo laboriosissimo e infaticabile negli studi, venuto a morte nell'estrema vecchiezza per l'assiduità dello scrivere, secondo ch'è riferito da Suida, e interrogato dagli scolari se lasciasse loro nessun precetto o ricordo, rispose, Nient'altro se non che l'uomo disprezza molti piaceri a causa della gloria.
Ma non così tosto incomincia a vivere che la morte gli sopravviene.
Però l'amor della gloria è così svantaggioso come checchessia.
Vivete felici, e lasciate gli studi che vogliono gran fatica, o coltivategli a dovere, che portano gran fama.
Se non che la vanità della vita è maggiore dell'utilità.
Per me non è più tempo a deliberare: voi altri considerate quello che vada fatto.
E così dicendo spirò.
(Queste sono le sue proprie parole come le riporta il Laerzio, in Theophrasto l.5 segm.41.)
Del rimanente mi pare che Teofrasto forse solo fra gli antichi o più di qualunque altro, amando la gloria e gli studi, sentisse peraltro l'infelicità inevitabile della natura umana, l'inutilità de' travagli, e soprattutto l'impero della fortuna, e la sua preponderanza sopra la virtù relativamente alla felicità dell'uomo e anche del saggio, al contrario degli altri filosofi tanto [317]meno profondi, quanto più superbi, i quali ordinariamente si compiacevano di credere il filosofo felice per se, e la virtù sola o la sapienza, bastanti per se medesime alla felicità.
Laonde Teofrasto non ebbe giustizia dagli antichi incapaci di conoscere quella profondità di tristo e doloroso sentimento che lo faceva parlare.
Vexatur Theophrastus et libris et scholis omnium philosophorum, quod in Callisthene suo laudarit illam sententiam: Vitam regit fortuna non sapientia.
Cic.
Tuscul.
3.
et 5.
(vedilo perchè contiene qualche altra cosa).
Quod maxime efficit Theophrasti de beata vita liber, in quo multum admodum fortunae datur.
Id.
de Finibus l.4.
Neanche ha ottenuto dai moderni quella stima che meritava, essendo smarrite quasi tutte le sue moltissime opere, nè restando altro che alcune fisiche, eccetto i Caratteri; e io credo di essere il primo a notare che Teofrasto essendo filosofo e maestro di scuola (e scuola eccessivamente numerosa), anteriore oltracciò ad Epicuro, e certamente non Epicureo nè per vita nè per massime, si accostò forse più di qualunque altro alla cognizione di quelle triste verità che solamente gli ultimi secoli hanno veramente distinte e poste in chiaro, e della falsità di quelle illusioni che solamente a' dì nostri hanno perduto il loro splendore e vigor naturale.
Ma così anche si vede che Teofrasto conoscendo le illusioni, non però [318]le fuggiva o le proscriveva come i nostri pazzi filosofi, ma le cercava e le amava, anzi si faceva biasimare dagli altri antichi filosofi, appunto perchè onorava le illusioni molto più di loro.
Itaque miror quid in mentem [venerit] Theophrasto in eo libro quem De divitiis scripsit: in quo multa praeclare, illud absurde.
Est enim multus in laudanda magnificentia et apparatione popularium munerum, taliumque sumtuum facultatem, fructum divitiarum putat.
Cic.
de offic.
Così si vede che appunto chi conosce e sente più profondamente e dolorosamente la vanità delle illusioni, le onora e desidera e predica più di tutti gli altri, come Rousseau, la Staël ec.
Che se Teofrasto vicino a morte le abbandonò e quasi le rinegò come Bruto, questo stesso è una prova di quanto le avesse amate perchè non si ripudia quello che non s'è mai amato, nè si abbandona quello che non s'è mai seguito.
Nè si mente senza vantaggio in punto di morte ec.
(11.
Nov.
1820.)
[319]Sovente ho desiderato con impazienza di possedere e gustare un bene già sicuro, non per avidità di esso bene, ma per solo timore di concepirne troppa speranza, e guastarlo coll'aspettativa.
E questa tale impazienza, ho osservato che non veniva da riflessione, ma naturalmente, nel tempo ch'io andava fantasticando e congetturando sopra quel bene o diletto.
E così anche naturalmente proccurava di distrarmi da quel pensiero.
Se però l'abito generale di riflettere, o vero l'esperienza e la riflessione che mi aveano già precedentemente resa naturale la cognizione della vanità dei piaceri, e la diffidenza dell'aspettativa, non operavano allora in me senz'avvedermene, e non mi parvero natura.
(11 Nov.
1820.)
Dice Quintiliano l.10.
c.1.
Quid ego commemorem Xenophontis iucunditatem illam inaffectatam, sed quam nulla possit affectatio consequi? E certo ogni bellezza principale nelle arti e nello scrivere deriva dalla natura e non dall'affettazione o ricerca.
Ora il traduttore necessariamente affetta, cioè si sforza di esprimere il carattere e lo stile altrui, e ripetere il detto di un altro alla maniera e gusto del medesimo.
Quindi osservate quanto sia difficile una buona traduzione in genere di bella letteratura, [320]opera che dev'esser composta di proprietà che paiono discordanti e incompatibili e contraddittorie.
E similmente l'anima e lo spirito e l'ingegno del traduttore.
Massime quando il principale o uno de' principali pregi dell'originale consiste appunto nell'inaffettato, naturale e spontaneo, laddove il traduttore per natura sua non può essere spontaneo.
Ma d'altra parte quest'affettazione che ho detto è così necessaria al traduttore, che quando i pregi dello stile non sieno il forte dell'originale, la traduzione inaffettata in quello che ho detto, si può chiamare un dimezzamento del testo, e quando essi pregi formino il principale interesse dell'opera, (come in buona parte degli antichi classici) la traduzione non è traduzione, ma come un'imitazione sofistica, una compilazione, un capo morto, o se non altro un'opera nuova.
I francesi si sbrigano facilmente della detta difficoltà, perchè nelle traduzioni non affettano mai.
Così non hanno traduzione veruna (e lasciateli pur vantare il Delille, e credere che possa mai essere un Virgilio), ma quasi relazioni del contenuto nelle opere straniere; ovvero opere originali composte de' pensieri altrui.
[321]Una delle prime cagioni della universalità della lingua francese, è la sua unicità.
Perchè la lingua italiana (così sento anche la tedesca, e forse più) è piuttosto un complesso di lingue che una lingua sola, potendo tanto variare secondo i vari soggetti, e stili, e caratteri degli scrittori ec.
che quei diversi stili paiono quasi diverse lingue, non avendo presso che alcuna relazione scambievole.
Dante - Petrarca e Parini ec.
Davanzati - Boccaccio, Casa ec.
V.
p.244.
Dal che come seguono infiniti e principalissimi vantaggi, così anche parecchi svantaggi.
1.
che lo straniero trova la nostra lingua difficilissima, e intendendo un autore, e passando a un altro, non l'intende.
(Così nei greci) 2.
che potendosi scrivere o parlare italiano senza essere elegante ec.
ec.
ec.
lo scrittore italiano volgare scrive ordinariamente malissimo; così il parlatore ec.
Al contrario del francese, dove la strada essendo una, e chiusa da parte e parte, non parla francese chi non parla bene; e perciò quasi tutti i francesi scrivono e parlano elegantemente, ma sempre di una stessa eleganza, e quanto al più e il meno, le differenze sono così piccole, [322]che se i francesi le sentono nei loro diversi scrittori, agli esteri son quasi impercettibili.
Laddove le differenze de' buoni stili italiani, saltano agli occhi di chicchessia.
Così anche dei greci.
E notate di passaggio che la lingua latina ha una strada molto più segnata e definita, e rassomiglia in questo alla francese.
La cagione è che la lingua latina scritta, fu opera dell'arte (onde il volgar latino differiva sommamente dal letterale) come è noto, e come dimostra a prima vista la sua artificiosissima e figuratissima costruzione.
Laddove la forma della lingua greca e italiana fu opera della natura, vale a dire che ambedue queste lingue si formarono prima della nascita, o almeno della formazione e definizione delle regole, e prima che gli scrittori fossero legati da' precetti dell'arte.
Così la natura è sempre varia, e l'arte sempre uniforme, o se non altro sommamente inferiore alla natura in varietà.
In somma lo straniero e il francese parla facilmente bene la sua lingua, dove la varietà non genera confusione o difficoltà all'imperito.
[323]E l'unicità della lingua francese, e la moltiplicità dell'italiana apparisce più chiaro che mai dalla facoltà rispettiva nelle traduzioni.
La lingua tedesca ancora, passa per sommamente suscettibile di prendere il carattere e la forma di qualunque lingua, scrittore, e stile, e quindi per ricchissima in traduzioni vivamente simili agli originali.
Non so peraltro se questa facoltà consista veramente nello spirito dello stile, o solamente nel materiale, come par che dubiti la Staël nell'articolo sulle traduzioni.
Il fatto sta che i francesi vantandosi dell'universalità della loro lingua si vantano della sua poca bellezza, della sua povertà, uniformità, ed aridità, perchè s'ella avesse quanto si richiede per esser bella, e se fosse ricca e varia, e se non fosse piuttosto geometria che lingua, non sarebbe universale.
Ma il mondo se ne serve come delle formole o dei termini di una scienza, noti e facili a tutti, perchè formati sullo sterile modello della ragione, o come di un'arte o scienza pratica, di una geometria, di un'aritmetica, ec.
comuni a tutti i popoli, perchè tutti dalle stesse maggiori deducono le stesse conseguenze.
(13.
Nov.
1820.)
[324]Dalle sopraddette considerazioni osserverai quanto sia giusta la maraviglia e degna la lode di quelli che dicono che in Francia da Luigi 14.
in poi non si disputa più della lingua, e si scrive bene, laddove in Italia si disputa sempre della lingua e si scrive male.
Prima di Luigi 14.
quando la lingua francese non era ancora geometrizzata, e ridotta a una processione di collegiali, come dice Fénélon, siccome si poteva scriver meglio di adesso, così anche si potea scriver male.
Demetrio Falereo ????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????.
(Laerz.
in Demetr.
l.5.
seg.82.).
Cioè, hominum fastu turgidorum aiebat circumcidi oportere altitudinem, opinionem autem de se relinquere.
Così l'interprete benissimo.
Scioccamente Merico Casaubono nella nota ad alcune parole dello stesso segm.
poco addietro.
???????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????(subint.
????, quod est in superioribus) Detto dello stesso, appo il Laerz.
l.c.
segm.83.
Il vino è il più certo, e (senza paragone) il più efficace consolatore.
Dunque il vigore; dunque la natura.
A quello che ho detto poco sopra di Teofrasto, [325]aggiungi i suoi Caratteri, dove com'è noto, e forse superiormente a qualunque scrittore antico, massimamente greco e prosatore, si dimostra molto avanzato nella scienza del cuore umano.
Ora chi conosce intimamente il cuore umano e il mondo, conosce la vanità delle illusioni, e inclina alla malinconia, tanto più che la base di questa scienza è la sensibilità e suscettibilità del proprio cuore, nel quale principalmente si esamina la natura dell'uomo e delle cose.
(V.
quello ch'io dirò in questi pensieri intorno al Massillon).
Del rimanente Teofrasto liberò due volte la sua patria dalla tirannide.
Plutarco, adversus Colot.
in fine.
p.1126.
f.
Non se n'ha altra testimonianza che questa, come apparisce dal Fabricio.
Come i più ardenti zelatori delle illusioni sono forse quelli che ne conoscono e sentono più vivamente e universalmente la vanità, così i loro più ardenti impugnatori son quelli che non la conoscono bene, o se la conoscono bene, non la sentono intimamente e in tutta l'estensione della vita; cioè la conoscono in teoria, ma non in pratica.
Tali sono gli spregiudicati e gl'intolleranti filosofici de' nostri giorni.
[326]Perchè se la conoscessero e sentissero, e ne comprendessero tutta l'immensa estensione, se ne spaventerebbero, la mancanza di esse illusioni torrebbe loro quasi il respiro, cercherebbero di rifugiarsi un'altra volta nel seno dell'ignoranza o dimenticanza del vero, e del crudelissimo dubbio (dimenticanza che non gli alienerebbe, anzi li ricondurrebbe alla religione), di richiamar l'attività ec.
Se non altro non sarebbero così ardenti nel combattere le illusioni, non cercherebbero gloria nel dimostrar la vanità di tutte le glorie, non porrebbero molta importanza nel dimostrare e persuadere che nulla importa, e per conseguenza neanche questa dimostrazione.
Dicono che la felicità dell'uomo non può consistere fuorchè nella verità.
Così parrebbe, perchè qual felicità in una cosa che sia falsa? E come, se il mondo è diretto alla felicità, il vero non deve render felice? Eppure io dico che la felicità consiste nell'ignoranza del vero.
E questo, appunto perchè il mondo è diretto alla felicità, e perchè la natura ha fatto l'uomo felice.
Ora essa l'ha fatto anche ignorante, come gli altri animali.
Dunque l'avrebbe fatto [327]infelice esso, e le altre creature; dunque l'uomo per se stesso sarebbe infelice (eppure le altre creature sono felici per se stesse); dunque sarebbero stati necessari moltissimi secoli perchè l'uomo acquistasse il complemento, anzi il principale dell'esistenza, ch'è la felicità (giacchè nemmeno ora siam giunti all'intiera cognizione nel vero); dunque gli antichi sarebbero stati necessariamente infelici; dunque tutti i popoli non colti, parimente lo saranno anche oggidì; dunque noi pure necessariamente per quella parte che ci manca della cognizione del vero.
Laddove tutti gli esseri (parlo dei generi e non degl'individui) sono usciti perfetti nel loro genere dalle mani della natura.
E la perfezione consiste nella felicità quanto all'individuo, e nella retta corrispondenza all'ordine delle cose, quanto al rimanente.
Ma noi consideriamo quest'ordine in un modo, e la natura in un altro.
Noi in un modo con cui l'ignoranza è incompatibile: la natura in un modo col quale è incompatibile la scienza.
E se la natura ha voluto incontrastabilmente la felicità degli esseri, perchè, supponendo che l'abbia posta riguardo all'uomo nella cognizione del vero, ha nascosto questo vero così gelosamente che secoli e secoli non bastano a discoprirlo? [328]Non sarebbe questo un vizio organico, fondamentale, radicale, e una contraddizione nel suo sistema? Come ha reso così difficile il solo mezzo di ottener quello ch'ella voleva soprattutto, e si prefiggeva per fine, cioè la felicità? e la felicità dell'uomo, il quale tiene evidentemente il primo rango nell'ordine delle cose di quaggiù? Come ha ripugnato con ogni sorta di ostacoli a quello ch'ella cercava? Ma l'uomo dovea ben tenere il primo rango, e lo terrebbe anche in quello stato naturale che noi consideriamo come brutale; non però dovea mettersi in un altr'ordine di cose, e considerarsi come appartenente ad un'altra categoria, e porre la sua dignità, non nel primeggiare tra gli esseri, come avrebbe sempre fatto, ma nel collocarsi assolutamente fuori della loro sfera, e regolarsi con leggi apparte, e indipendenti dalle leggi universali della natura.
(14.
Nov.
1820.)
È osservabile nella differenza tra i giuochi greci e i romani, la naturalezza dei primi che combattevano nella lotta nel corso ec.
appresso a poco coi soli istrumenti datici dalla natura, laddove i romani colle spade e altri istrumenti artifiziali.
E quindi la diversa destinazione di quei giuochi, [329]diretti presso gli uni ad ingrandir quasi la natura ed eccitare le grandi immagini, sentimenti ec.: presso gli altri o al semplice sollazzo, o all'addestramento militare.
Così che quelli andavano alla sorgente universale delle grandi imprese, questi si fermavano ad un mezzo particolare.
E questa differenza è anche più notabile in ciò che gli spettacoli greci erano eseguiti da uomini liberi per amor di gloria.
Quindi l'effetto favorevole all'entusiasmo, l'eccitamento, l'emulazione, gli esercizi preparatorii ec.
Gli spettacoli romani erano eseguiti da' servi.
Quindi non altro effetto utile che l'avvezzar gli occhi e l'animo agli spettacoli e pericoli della guerra: utilità parziale e secondaria, non generale e primitiva come l'altra.
Nel che forse si potrà anche notare la differenza tra un popolo libero e padrone, e un popolo libero bensì, ma non padrone, se non di se stesso, com'era il greco.
V.
p.360.
capoverso 2.
Quello che ho detto altrove della necessità di una persuasione per le grandi imprese, è applicabile soprattutto alla massa del popolo, e combina con quello che dice Pascal che l'opinione è la regina [330]del mondo, e gli stati dei popoli e i loro cangiamenti, fasi, rovesciamenti provengono da lei.
1.
Le passioni son varie, l'opinione è una, e il popolo non può esser mosso in uno stesso senso, se non da una cagione comune e conforme.
2.
L'individuo potrà essere strascinato dalle sue illusioni, o conoscendole per tali, e nondimeno seguendole (cosa impossibile al popolo, giacchè il capriccio, o un entusiasmo non fondato sopra basi vere o false, ma stabili, non può essere universale); ovvero non conoscendole; e questo è più difficile al popolo, perchè la cosa più varia è l'illusione, la più uniforme e costante è la ragione, e perciò il popolo ha bisogno di un'opinione decisa, non dico vera, ma pur logica, e apparentemente vera, in somma conseguente e ragionata, perchè tutto il resto non può essere un movente universale.
Così Maometto produsse i cangiamenti, e spinse gli Arabi alle imprese, che tutti sanno.
Così Lutero cagionò le guerre della riforma; così gli Albigesi ec.
così i Martiri sparsero il sangue pel Cristianesimo, così gli antichi morivano per la patria e la gloria.
V.
in questo proposito il principio del Capo 1.
dell'Essai sur l'indifférence en matière de Religion.
(15 Nov.
1820.)
[331]Quello ch'io dico della filosofia de' romani, e in genere di ogni filosofia, si conferma dall'esser cosa già osservata che la religione si ritrova presso la culla di tutti i popoli, in quella guisa che la filosofia si è trovata sempre vicina alla lor tomba.
(Essai sur l'indifférence en matière de Religion.
nelle prime linee del Capo 2.
E poco dopo il principio del C.1.
dopo aver detto che la filosofia greca, tanto temuta da Catone, e nondimeno insinuatasi fra i romani, fu la cagione della rovina di Roma vincitrice del mondo, soggiunge ch'è un fatto degno della più seria considerazione che tutti gl'imperi, la cui storia è da noi conosciuta, e che erano stati consolidati dal tempo e dalla prudenza, si videro rovesciati dai Sofisti.
Nel capo secondo si estende maggiormente in provare che la filosofia fu la distruttrice di Roma, e conviene con Montesquieu il quale non teme di attribuire la caduta di quest'impero alla filosofia di Epicuro, aggiungendo in nota che Bolinghbroke pensa in questo punto assolutamente come Montesquieu: "L'obblio ed il disprezzo della Religione furono la cagione principale dei mali che [332]provò Roma in seguito: la Religione e lo Stato decaddero nella medesima proporzione.".
T.4 p.428.).
Colla differenza che laddove gli apologisti della religione ne deducono che gli stati sono stabiliti e conservati dalla verità, e distrutti dall'errore, io dico che sono stabiliti e conservati dall'errore, e distrutti dalla verità.
La verità non si è mai trovata nel principio, ma nel fine di tutte le cose umane; e il tempo e l'esperienza non sono mai stati distruttori del vero, e introduttori del falso, ma distruttori del falso e insegnatori del vero.
E chi considera le cose al rovescio, va contro la conosciuta natura delle cose umane.
Questo è il controsenso fondamentale in cui è caduto l'autore sopracitato.
Egli avrebbe difesa molto meglio la Religione se l'avesse difesa non come dettame dell'intelligenza, ma come dettame del cuore.
E quando egli dice che dunque l'esistenza e la felicità, la perfezione e la vita dell'uomo sarebbero contro natura, perchè la natura è il complesso delle perpetue verità, s'inganna, perchè la natura è il complesso delle verità in tal modo che tutto quello ch'esiste sia vero, ma non tutto quello ch'è vero sia conosciuto da ciascuna delle di lei parti.
Ed una di queste verità che son comprese [333]nel sistema della natura, è che l'errore e l'ignoranza è necessaria alla felicità delle cose, perchè l'ignoranza e l'errore è voluto, dettato, e stabilito fortemente da lei, e perch'ella in somma ha voluto che l'uomo vivesse in quel tal modo in cui ella l'ha fatto.
E non perchè l'uomo ha voluto speculare il fondo delle cose, contro quello che doveva anzi poteva fare naturalmente, perciò è meno vero ch'egli doveva ignorare quello che ha scoperto, e che la sua felicità sarebbe stata vera, se egli avesse errato, e ignorato quelle verità che così considerate riescono indifferenti all'uomo, e che la natura ha seguite (ma segretamente) nel suo sistema, perchè gli erano necessarie, (16.
Nov.
1820.) o perchè così gli è piaciuto.
La natura può supplire e supplisce alla ragione infinite volte, ma la ragione alla natura non mai, neanche quando sembra produrre delle grandi azioni: cosa assai rara: ma anche allora la forza impellente e movente, non è della ragione ma della natura.
Al contrario togliete le forze somministrate dalla natura, e la ragione sarà sempre inoperosa e impotente.
[334]Non c'è uomo costituito in carica o dignità, il quale confessi di averla cercata, e non dica o voglia fare intendere d'esserne stato rivestito spontaneamente, anzi contro sua voglia ec.
Gl'incarichi, le dignità, gli onori, ciascuno li cerca, e nessuno gli ha cercati.
Laerzio, Vit.
Speusippi, l.4, seg.2, dice di Speusippo: ??????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????.
Questo è notabile nei progressi dello spirito umano.
Ma non so quanto sia vero perchè Platone aveva già riunite e legate nel suo sistema filosofico la fisica (compresa l'astronomia), la metafisica, la morale, la politica e le matematiche.
È noto fra le altre cose il motto della sua scuola: non entri nessuno se non è geometra.
V.
la nota d'Is.
Casaubono al detto passo.
(17.
Nov.
1820.)
Ripetono spesso gli apologisti della Religione che il mondo era in uno stato di morte all'epoca della prima comparsa del Cristianesimo; che questo lo ravvivò, cosa, dicon essi che pareva impossibile.
Quindi [335]conchiudono che questo non poteva essere effetto se non dell'onnipotenza divina, che prova chiaramente la sua verità, che l'errore perdeva il mondo, la verità lo salvò.
Solito controsenso.
Quello che uccideva il mondo, era la mancanza delle illusioni; il Cristianesimo lo salvò non come verità, ma come una nuova illusione.
E gli effetti ch'egli produsse, entusiasmo, fanatismo, sagrifizi magnanimi, eroismo, sono i soliti effetti di una grande illusione.
Non consideriamo adesso s'egli sia vero o falso, ma solamente che questo non prova nulla in suo favore.
Ma come si stabilì con tanti ostacoli, ripugnando a tutte le passioni, contraddicendo ai governi ec.? Quasi che quella fosse la prima volta che il fanatismo di una grande illusione trionfa di tutto.
Non ha considerato menomamente il cuore umano, chi non sa di quante illusioni egli sia capace, quando anche contrastino ai suoi interessi, e come egli ami spessissimo quello stesso che gli pregiudica visibilmente.
Quante pene corporali non soffrono per false opinioni i sacerdoti dell'India ec.
ec.! E la setta dei flagellanti nata sui principii del Cristianesimo, che illusione era? E i sacrifizi infiniti che facevano gli antichi filosofi p.e.
i Cinici alla professione della loro setta, spogliandosi di tutto il loro nella ricchezza ec.? E il sacrifizio de' 300.
alle Termopili? Ma come [336]trionfò il Cristianesimo della filosofia, dell'apatia che aveva spento tutti gli errori passati? I lumi di quel tempo non erano 1.
nè stabili, definiti e fissi, 2.
nè estesi e divulgati, 3.
nè profondi come ora; conseguenza naturale della maggiore esperienza, della stampa, del commercio universale, delle scoperte geografiche, che non lasciano più luogo a nessun errore d'immaginazione, dei progressi delle scienze i quali si danno la mano in modo, che si può dire che ogni nuova verità scoperta in qualunque genere influisca sopra lo spirito umano.
Quei lumi erano bastati a spegnere l'error grossolano delle antiche religioni, ma non solamente permettevano, anzi si prestavano ad un error sottile.
E quel tempo appunto per li suoi lumi inclinava al metafisico, all'astratto, al mistico, e quindi Platone trionfava in quei tempi.
V.
Plotino, Porfirio, Giamblico, e i seguaci di Pitagora, anch'esso astratto e metafisico.
L'Oriente poi, non solo allora, ma antichissimamente, aveva inclinato alla sottigliezza, ed anche alla profondità e verità, nella morale e nel resto.
Egiziani, Cinesi, Vecchio Testamento ec.
ec.
A distrugger l'error più [337]sottile vi volevano lumi molto più profondi, sottili e universali di quelli d'allora.
Tali sono quelli d'oggidì, così perfetti che sono interamente sterili d'errore, e da essi non può derivare error più sottile, come dai lumi antichi, il quale pur dia qualche vita al mondo.
Ai mali della filosofia presente, non c'è altro rimedio che la dimenticanza, e un pascolo materiale alle illusioni.
Del resto è vero che il Cristianesimo ravvivò il mondo illanguidito dal sapere, ma siccome, anche considerandolo com'errore, era appunto un errore nato dai lumi, e non dall'ignoranza e dalla natura, perciò la vita e la forza ch'ei diede al mondo, fu come la forza che un corpo debole e malato riceve da' liquori spiritosi, forza non solamente effimera, ma nociva, e produttrice di maggior debolezza.
Applicate quest'osservazione 1.
alla poca durata della vera e primitiva forza del Cristianesmo sotto ogni rapporto, in paragone dell'infinita durata della forza degl'istituti e religioni antiche, p.e.
presso i romani.
2.
alla qualità di questa forza, tutta tetra, malinconica ec.
in paragone della freschezza, della bellezza, allegria, varietà ec.
della vita antica: conseguenza naturale della [338]differenza dei dogmi.
3.
all'aspetto lugubre che presero tanto i vizi quanto le virtù dopo la propagazione intera del Cristianesimo, cioè dopo estinto quel primo fuoco febbrile della nuova dottrina (cosa da me osservata altrove): in maniera che si può dire che il mondo (quanto alla vita, e al bello) deteriorasse infinitamente se non a cagione del Cristianesimo, almeno a cagione della tendenza che lo produsse e doveva produrlo, e dopo la sua introduzione: giacchè prima restavano ancora molti errori più naturali, e quindi più vitali e nutritivi, non ostante la filosofia.
(17.
Nov.
1820.)
Un pensiero degno di essere sviluppato intorno alla perpetua superiorità degli antichi sopra i moderni a causa della maggior forza della natura, per anche non corrotta, o meno corrotta, sta nelle notes historiques de l'Éloge historique de l'Abbé de Mably, par l'abbé Brizard, avanti le Observations sur l'hist.
de France.
Kehll.
1789.
t.1.
p.114.
Note II.
(17.
Nov.
1820.)
Alla p.271.
pensiero ult.
Tale era l'idea che gli antichi si formavano della felicità ed infelicità.
Cioè l'uomo privo di quei tali vantaggi della vita [339]benchè illusorii, lo consideravano come infelice realmente, e così viceversa.
E non si consolavano mai col pensiero che queste fossero illusioni, conoscendo che in esse consiste la vita, o considerandole come tali, o come realtà.
E non tenevano la felicità e l'infelicità, per cose immaginare e chimeriche, ma solide, e solidamente opposte fra loro.
(18.
Nov.
1820.)
Il Laerzio Vit.
Platon.
l.3.
seg.79-80.
dice di Platone.
????????????????????????????? ??????????? ??????????????????????, (arbitratus est.
Interpr.) ?????????????????????????????????? ????????, ????????????????????????????????????????????????????.
(???????????????????????????????????, ???? ???????????? ??????????? ????????????????????????(narrationes.
Interpr.) ??????????????????? ????????????????????????????????????, (ut, quod incertum sit ista post mortem sic se habere, ad moniti mortales etc.
Interpr.
ma non bene) ??????????????????????????????.
Alla inclinazione degli uomini di partecipare altrui il piacere e il dolore, notata in altri pensieri, si dee riferire in gran parte la smania (attribuita principalmente alle donne, e propria soprattutto de' fanciulli, insomma degli uomini più leggeri e naturali) di rivelare il segreto [340]o la cosa che si dovrebbe, e spesso anche d'altronde si vorrebbe tener nascosta, di raccontar subito una nuova, una cosa scoperta, un piacere un timore un dolore una noia provata ec.
e tutta la loquacità che appartiene al riferire, (20.
Nov.
1820.) o al dir quello che si pensa nel momento, o si è pensato ec.
come i fanciulli non si possono tenere di ciarlare su qualunque soggetto.
In somma considerate gli antichi e i moderni: vedrete evidentemente una gradazione incontrastabile e notabilissima di grandezza, sempre in ragion diretta dell'antichità.
Cominciando dagli uomini di Omero, un palmo più alti dei moderni, come dicea quel francese, e dalle piramidi di Egitto ec.
discendete alle imprese nobilissime e grandiosissime, ai lavori immensi, alle fabbriche, alla solidità delle loro costruzioni fatte per l'eternità (cosa propria anche de' tempi bassi, e fino al cinque o secento), alla profondissima impronta delle monete, all'eroismo, e a tutti gli altri generi di grandezza che distinguono i greci, i romani ec.
E poi venendo ai tempi bassi e gradatamente ai moderni, vedete come l'uomo si vada sensibilmente impiccolendo, finchè giunge a quest'ultimo grado di piccolezza generale e individuale, e d'impotenza in cui lo vediamo oggidì.
In maniera che l'eterna fonte del grande (come del bello) sono gli scrittori, le opere d'ogni sorta, gli esempi, i costumi, i sentimenti degli antichi; e degli antichi si pasce ogni anima straordinaria de' nostri tempi.
(V.
p.338.
capoverso 1.) Che segno è questo? La ragione ingrandisce o [341]impiccolisce? La natura era grande o piccola?
(20 Nov.
1820.)
Una grandissima e universalissima fonte di errori, controsensi, oscurità, sviste, contraddizioni, dubbi, confusioni ec.
negli scrittori e filosofi tanto antichi che modernissimi, è il non aver considerata, e definita, e posta nelle basi del sistema dell'uomo, la nemicizia scambievole della ragione e della natura.
Posta la quale, che è tanto evidente, e universale, si rischiarano, e determinano, e risolvono infiniti misteri e problemi nell'ordine e composto delle cose umane.
Ma confondendo la ragione colla natura, il vero col bello, i progressi dell'intelligenza coi progressi della felicità e col perfezionamento dell'uomo, le nozioni e la natura dell'utile, il fine o scopo dell'intelligenza (ch'è la verità) col fine e scopo vero dell'uomo e della natura sua ec.
non si viene mai a capo di diciferare il mistero dell'uomo, e di accordare le infinite contraddizioni che par che s'incontrino in questa principalissima parte del sistema universale, cioè in quella che riguarda la nostra specie.
Il combattimento della carne e dello spirito, dei sensi e della mente, notato già dagli scrittori, massimamente religiosi, o non è sufficiente, o non e stato bene inteso ed applicato, [342]ed esteso quanto doveva; o è stato torto in senso contrario al giusto, e dedottene conseguenze della stessa specie.
ec.
ec.
ec.
(20.
Nov.
1820.)
Il lavoro della terra era la principal fatica e occupazione destinata all'uomo.
Ora è curioso l'osservare che la parte più oziosa della società è appunto quella la cui sostanza consiste in terre.
Quanto sia vero che i doveri e la morale determinata, non provengano da legge naturale nè sieno fondate sopra idee innate e comuni a tutti gli uomini, si può anche vedere per questo esempio.
Il rispetto e l'immunità degli araldi, considerati antichissimamente come persone sacre e inviolabili, e da Omero chiamati cari a Giove, entra nel diritto così detto universale delle genti, e l'abitudine ce la fa riguardare come un dover naturale.
Ora mettiamoci coll'immaginazione nello stato di natura, e vedremo che l'uomo non ha nessuna ripugnanza di far male al suo nemico, sotto qualunque aspetto se gli presenti, come non l'hanno gli altri animali, perchè il nemico è sempre nemico, e l'uomo inclina a nuocergli quanto e come e quando e dove mai possa.
Così che l'inviolabilità degli araldi non è fondata sull'istinto, non è insegnata dalla natura, ma è legge [343]di pura convenzione, cagionata dall'utilità e necessità sua, utilità e necessità riconosciuta dalla ragione e per via d'argomento, non istillata e ingenita negli animi dalla natura senza bisogno di riflessione.
E così il diritto delle genti, che si crede naturale, vediamo per questo esempio, che contiene una legge di pura convenzione, la quale prima ch'esistesse, non era colpa il contravvenirle, come si sarà mille volte fatto.
In questo proposito ecco alcune parole dell'Essai sur l'indifférence en matière de religion, alquanto dopo la metà del Capo 4.
Diciamolo pure, giacchè non v'ha verità più sconosciuta e più importante: la Religione dei popoli è tutta la loro morale.
Questo (per notarlo di passaggio) dopo aver nei capi precedenti voluto provar la religione colla morale, come fondamento di essa morale, e deriso Hobbes che toglie la coscienza, e dice che in natura non ci sono doveri.
E qui viene a dire che la morale non si può provare se non colla religione.
In ogni modo puoi veder gli esempi ch'egli adduce prima e dopo il detto luogo, per dimostrare la varietà delle coscienze, secondo la varietà delle religioni.
(21 Nov.
1820.).
V.
p.356.
fine.
La lingua italiana non si è mai tolto il potere di adoperar quelle parole, frasi, modi, che sebbene antichi e non usati, sieno però intesi da tutti senza difficoltà, e possano [344]cadere nel discorso senza affettazione: i quali sono infiniti per chi conosce la lingua, ma bene a fondo; e questi sono pochissimi o nessuno.
La lingua francese si è spogliata affatto di questa facoltà, e ammettendo facilmente vocaboli e modi nuovi (intorno ai quali si sgridano gl'italiani perchè non gli ammettono) non si è legate le mani se non per gli antichi, cioè per quelli ch'ella già possedeva, e ha creduto di far progressi quando ha perduto l'infinito che aveva (giacchè veramente era ricca), e guadagnato il poco che non aveva.
Nel che 1.
io non vedo come una lingua si possa accrescere, perchè anche in parità di partite, se quanto si guadagna, tanto si perde, la lingua sarà sempre stazionaria in fatto di ricchezza e varietà.
2.
se, com'è certissimo, infinite cose che non si sono potute esprimere se non con parole nuove, forestiere ec.
si potevano esprimere colle antiche, io non vedo perchè queste dovessero esser posposte.
Il caso è lo stesso in Italia, chi ben considera la ricchezza immensa de' nostri antichi scrittori.
3.
Le parole e modi che maggiormente conferiscono alla evidenza, efficacia, forza, grazia ec.
delle lingue sono sempre, e incontrastabilmente le antiche, siccome quelle che erano cavate più da presso dalla natura, e dall'oggetto significato (come deve necessariamente accadere nella formazione delle lingue), e però lo rappresentavano al [345]vivo, e ne destavano più fortemente, sensibilmente, facilmente e prontamente l'idea, secondo però 1° i diversi aspetti o parti più o meno vivi, principali, caratteristici, esprimibili; il diverso numero di aspetti, parti, o relazioni della cosa, considerato dagl'inventori della parola: 2° la diversa forza d'immaginazione, sentimento, delicatezza ec.
nei detti inventori: 3° la diversa loro facoltà di applicare il suono alia cosa: 4° il diverso carattere della nazione, clima, circostanze naturali, morali, politiche, geografiche intellettuali ec.: la dolcezza, o l'asprezza, la ruvidezza o gentilezza ec.
5° la diversa impressione prodotta dagli stessi oggetti ne' diversi popoli o individui.
Solamente quella grazia che non deriva dalla naturalezza, semplicità ec.
l'eleganza ec.
può guadagnare; ma quella che deriva dai detti fonti, (massime nelle frasi e modi) ed è la principale, e più solida e durevole; la forza poi assolutamente, l'evidenza e l'efficacia, non possono altro che perdere infinitamente coll'abolizione delle parole antiche, e peggio colla sostituzione delle nuove.
Qui ancora ha luogo la grande inferiorità dell'arte e della ragione alla natura, in tutto il bello, il grande, il forte, il grazioso ec.
(21.
Nov.
1820.)
Tutte le cose vengono a noia colla durata, anche i diletti più grandi: lo dice Omero, lo vediamo tuttogiorno.
La monotonia è insoffribile.
Ma un grande e forse sommo rimedio di questo male, è lo scopo.
Quando l'uomo si [346]propone uno scopo o dell'azione, o anche dell'inazione, trova diletto anche nelle cose non dilettevoli, anche nelle spiacevoli, quasi anche nella stessa monotonia; e quanto alle cose dilettevoli, l'uniformità e durata loro non nuoce al piacere di chi le dirigge a un fine.
Io non credo che per altra più capitale, universale ed intima ragione, gli studi sieno agli studiosi come un'eccezione dalla regola generale, cioè la continuazione di essi non pregiudichi quasi mai al piacere.
Vedete tutto giorno delle persone che non leggono per altro fine che di passare il tempo, trovar gran diletto nelle prime pagine di un libro, e non poterne arrivare al fine senza noia, quando anche quel libro abbia per se stesso tutti i mezzi per dilettare in seguito come nel principio.
Ma l'uniformità del diletto, senza uno scopo, produce inevitabilmente la noia, e perciò queste tali persone che leggono per solo divertimento, si stancano così presto, che non sanno concepire come nella lettura si trovi tanto divertimento, e cercano del continuo di variare e passare nauseosamente da un libro a un altro, senza trovar mai diletto in veruno, se non lieve e passeggero.
Al contrario lo studioso che della lettura si prefigge sempre uno scopo, quando anche leggesse per ozio e passatempo.
E così tutte le altre occupazioni [347]a cui l'uomo si affeziona, applicandoci un interesse, e uno scopo più o meno determinato, e più o meno grave e importante; dove la continuazione, la lunghezza e la monotonia non arrivano mai ad annoiare.
(22.
Nov.
1820.).
V.
p.359.
capoverso 1.
Le buone poesie sono ugualmente intelligibili agli uomini d'immaginazione e di sentimento, e a quelli che ne son privi.
E contuttociò quelli le gustano, e questi no, anzi non comprendono come si possano gustare, primieramente perchè non sono capaci nè disposti ad esser commossi, sublimati ec.
dal poeta; e oltracciò perchè sebbene intendano le parole, non intendono la verità, l'evidenza di quei sentimenti: il cuore non dimostra loro che quelle passioni, quegli effetti, quei fenomeni morali ec.
che il poeta descrive, vanno veramente così: e per tal modo le parole del poeta, benchè chiare, e da loro bene intese non rappresentano loro quelle cose e quelle verità che rappresentano altrui, ed intendendo le parole, non intendono il poeta.
Bisogna bene osservare che questo accade anche negli scritti filosofici, profondi, metafisici, psicologici ec.
affine di non maravigliarsi dei diversissimi, e spesso contrarissimi effetti che producono in diversi individui, e classi, e quindi del diverso concetto in cui son tenuti.
Perchè, ponete uno scritto di questo genere, pienissimo di verità, e composto con [348]tutta quella chiarezza d'espressioni, della quale possa mai esser suscettibile.
Le parole dicono lo stesso all'uomo profondo, e al superficiale: tutti comprendono ugualmente il senso materiale dello scritto, e in somma tutti intendono perfettamente quello che l'autore vuol dire.
E non perciò quello scritto è compreso da tutti, come si crede comunemente.
Perchè l'uomo superficiale; l'uomo che non sa mettere la sua mente nello stato in cui era quella dell'autore; insomma l'uomo che appresso a poco non è capace di pensare colla stessa profondità dell'autore, intende materialmente quello che legge, ma non vede i rapporti che hanno quei detti col vero, non sente che la cosa sta così, non iscuoprendo il campo che l'autore scopriva, non conosce i rapporti e legami delle cose ch'egli vedeva, e dai quali deduceva quelle conseguenze ec.
che per lui, e per chiunque gli somigli sono incontrastabili, per questi altri non sono neppur verità: vedranno le stesse cose, ma non conosceranno nè sentiranno che abbiano relazione insieme, e con quelle conseguenze che l'autore ne cava; non vedranno la relazione scambievole delle parti del sillogismo (giacchè ogni umana cognizione è un sillogismo): brevemente, intenderanno appuntino lo scritto, e non capiranno la verità di quello che dice, verità che esisterà realmente, e sarà compresa da altri.
Così pure non avranno tanta forza di mente da poter dubitare, e sentire la ragionevolezza e la verità del dubbio intorno alle cose che la natura o l'abito danno per certe.
Non basta intendere una proposizion vera, bisogna sentirne la verità.
C'è un senso della verità, come delle passioni, de' sentimenti, bellezze, ec.: del vero, come del bello.
Chi la intende, ma non la sente, intende ciò che significa quella verità, ma non intende che sia verità, perchè non ne prova il senso, cioè la persuasione.
In questo numero di persone va posta la maggior parte dei moderni apologisti della religione, uomini senza cuore, senza sentimento, senza tatto fino e profondo nelle cose della natura, insomma senza esperienza della verità, come quei lettori de' poeti che sono senza esperienza di passioni, entusiasmo, sentimenti ec.; i quali, [349]posto che intendano anche perfettamente il senso dei filosofi profondissimi che combattono, non intendono la verità che quivi si contiene, e vi danno nettamente, precisamente e consideratamente per falso, quello che voi saprete e sentirete ch'è vero, o viceversa.
Del resto per intendere i filosofi, e quasi ogni scrittore, è necessario, come per intendere i poeti, aver tanta forza d'immaginazione, e di sentimento, e tanta capacità di riflettere, da potersi porre nei panni dello scrittore, e in quel punto preciso di vista e di situazione, in cui egli si trovava nel considerare le cose di cui scrive; altrimenti non troverete mai ch'egli sia chiaro abbastanza, per quanto lo sia in effetto.
E ciò, tanto quando in voi ne debba risultare la persuasione e l'assenso allo scrittore, quanto nel caso contrario.
Io so che con questo metodo non ho trovato mai oscuri, o almeno inintelligibili, gli scritti della Staël, che tutti danno per oscurissimi.
(22 Nov.
1820.)
L'Essai sur l'indifférence en matière de religion, alquanto dopo il principio del capo V.
nel luogo dove tratta delle origini storiche del Deismo, dimostra i neri presentimenti che agitavano i Capi della Riforma intorno al futuro stato delle opinioni, della religione, e dei popoli.
Buon Dio, qual tragedia, esclamava uno di essi, vedrà mai la posterità! Pur troppo bene.
Essi cominciavano [350]a sentire e prevedere la febbre divorante e consuntiva della ragione, e della filosofia; la distruzione di tutto il bello il buono il grande, e di tutta la vita; l'opera micidiale e le stragi di quella ragione e filosofia che aveva avuto il primo impulso, e cominciò la sua trista devastazione in Germania, patria del pensiero, (come la chiama la Staël) non inducendo gli uomini da principio se non ad esaminar la religione, e negarne alcuni punti, per poi condurli alla scoperta di tutte le verità più dannose, e all'abbandono di tutti gli errori più vitali e necessari.
I lumi cagionati dal risorgimento delle lettere, erano appunto allora giunti a quel grado che bastava per cominciare l'infelicità e il tormento di un popolo, al quale la natura era stata meno larga dei mezzi di felicità, che sono l'immaginazione ricca e varia, e le illusioni.
Ne avevano naturalmente quanto bastava (e così gl'inglesi ai tempi di Ossian, come gli stessi germani ai tempi de' Bardi e di Tacito), ma non tanti, nè tanto forti da resistere ai lumi così lungamente, come i paesi meridionali, e soprattutto (la Spagna e) l'Italia, dove anche oggidì si vive poco, è vero, perchè manca il corpo e il pascolo materiale e sociale delle illusioni, ma si pensa anche ben poco.
(23.
Nov.
1820.)
La Spagna s'è trovata finora nello stesso caso.
Il suo clima, e la situazione geografica, e il governo ec.
[351]proteggevano le illusioni come in Italia, senza però lasciarnela profittare, nè proccurarsene punto di vita, massime esterna e sociale.
A tutto quello che ho detto di Teofrasto, si può aggiungere come altra cagione della qualità che ho notato in lui, il suo sapere enciclopedico, che apparisce dal catalogo delle sue opere, la massima parte perdute.
Il qual sapere, e la quale speculazione intorno ad ogni genere di scibile, egli non lo faceva servire, come Platone, all'immaginativa, per fabbricarne un sistema fondato sul brillante e sul fantastico, ma, come Aristotele, alla ragione, per discorrere delle cose sul fondamento del vero e dell'esperienza.
Nel qual caso l'estensione, e varietà del sapere, influisce necessariamente sulla profondità dell'intelletto, e il disinganno del cuore.
In somma conviene che il filosofo si ponga bene in mente, che la vita per se stessa non importa nulla, ma il passarla bene e felicemente, o se non altro, anzi soprattutto, il non passarla male e infelicemente.
E perciò non riponga l'utilità in quelle cose che semplicemente aiutano, conservano ec.
la vita, considerata quasi fosse un bene per se stessa, ma in quelle che la rendono [352]un bene, cioè felice da vero.
Ma felice da vero non la rende altro che il falso, ed ogni felicità fondata sul vero, è falsissima, o vogliamo dire, ogni felicità si trova falsa e vana, quando l'oggetto suo giunge ad esser conosciuto nella sua realtà e verità.
Ho veduto le lezioni di un tedesco, il sig.
Hufeland, dell'arte di prolungare la vita, lezioni dettate da lui per una cattedra ch'egli occupava, dedicata espressamente a quest'arte.
Prima bisognava insegnare a render la vita felice, e quindi a prolungarla.
Infelicissima com'è, stimerei molto più chi m'insegnasse ad abbreviarla, perchè non ho mai saputo che sia degno di lode, e giovi al pubblico colui che insegna a prolungare l'infelicità.
In vece di fondare queste cattedre che sono al tutto straniere anzi contrarie alla natura dei tempi, i principi dovrebbero proccurare che la vita dell'uomo fosse più felice, ed allora saremmo grati a chi c'insegnasse a prolungarla.
Se la durata fosse un bene per se stessa, allora sarebbe ragionevole il desiderio di viver lungamente in qualunque caso.
Nominando i nostri antenati, sogliamo dire, i buoni antichi, i nostri buoni antichi.
Tutto il mondo ha opinione che gli antichi fossero migliori di noi, tanto i vecchi che perciò gli lodano, quanto i giovani che perciò li disprezzano.
Il certo [353]è che il mondo in questo non s'inganna: il certo è che, senza però pensarvi, egli riconosce e confessa tutto giorno il suo deterioramento.
E ciò non solamente con questa frase, ma in cento altri modi; e tuttavia neppur gli viene in pensiero di tornare indietro, anzi non crede onorevole se non l'andare sempre più avanti, e per una delle solite contraddizioni, si persuade e tiene per indubitato, che avanzando migliorerà, e non potrà migliorare se non avanzando; e stimerebbe di esser perduto retrocedendo.
Quanto anche la religion cristiana sia contraria alla natura, quando non influisce se non sul semplice e rigido raziocinio, e quando questo solo serve di norma, si può vedere per questo esempio.
Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e negli esercizi della religione.
Questa non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl'invidiava intimamente e sinceramente, perchè questi eran volati al paradiso senza pericoli, e avean liberato i genitori dall'incomodo di mantenerli.
Trovandosi più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa [354]età, non pregava Dio che li facesse morire, perchè la religione non lo permette, ma gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si rannicchiava in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto.
Era esattissima negli uffizi che rendeva a quei poveri malati, ma nel fondo dell'anima desiderava che fossero inutili, ed arrivò a confessare che il solo timore che provava nell'interrogare o consultare i medici, era di sentirne opinioni o ragguagli di miglioramento.
Vedendo ne' malati qualche segno di morte vicina, sentiva una gioia profonda (che si sforzava di dissimulare solamente con quelli che la condannavano); e il giorno della loro morte, se accadeva, era per lei un giorno allegro ed ameno, nè sapeva comprendere come il marito fosse sì poco savio da attristarsene.
Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e vedendo i suoi figli brutti o deformi, ne ringraziava Dio, non per eroismo, ma di tutta voglia.
Non proccurava in nessun modo di aiutarli a nascondere i loro difetti, anzi pretendeva che in vista di essi, rinunziassero intieramente alla vita nella loro prima gioventù: se resistevano, se cercavano il contrario, se vi riuscivano in qualche minima parte, n'era indispettita, scemava quanto poteva colle parole e coll'opinion sua i loro successi (tanto de' brutti quanto de' belli, perchè n'ebbe molti), e non lasciava [355]passare anzi cercava studiosamente l'occasione di rinfacciar loro, e far loro ben conoscere i loro difetti, e le conseguenze che ne dovevano aspettare, e persuaderli della loro inevitabile miseria, con una veracità spietata e feroce.
Sentiva i cattivi successi de' suoi figli in questo o simili particolari, con vera consolazione, e si tratteneva di preferenza con loro sopra ciò che aveva sentito in loro disfavore.
Tutto questo per liberarli dai pericoli dell'anima, e nello stesso modo si regolava in tutto quello che spetta all'educazione dei figli, al produrli nel mondo, al collocarli, ai mezzi tutti di felicità temporale.
Sentiva infinita compassione per li peccatori, ma pochissima per le sventure corporali o temporali, eccetto se la natura talvolta la vinceva.
Le malattie, le morti le più compassionevoli de' giovanetti estinti nel fior dell'età, fra le più belle speranze, col maggior danno delle famiglie o del pubblico ec.
non la toccavano in verun modo.
Perchè diceva che non importa l'età della morte, ma il modo: e perciò soleva sempre informarsi curiosamente se erano morti bene secondo la religione, o quando erano malati, se mostravano rassegnazione ec.
E parlava di queste disgrazie con una freddezza marmorea.
Questa donna aveva sortito dalla natura un carattere sensibilissimo, ed era stata così ridotta dalla sola religione.
Ora questo che altro è se non barbarie? E tuttavia non è altro che un calcolo matematico, e una conseguenza immediata e necessaria dei [356]principii di religione esattamente considerati; di quella religione che a buon diritto si vanta per la più misericordiosa ec.
Ma la ragione è così barbara che dovunque ella occupa il primo posto, e diventa regola assoluta, da qualunque principio ella parta, e sopra qualunque base ella sia fondata, tutto diventa barbaro.
Così vediamo le tante barbarie delle religioni antiche, se ben queste fossero figlie dell'immaginazione.
E anche senza i principii religiosi, è pur troppo evidente che la sola stretta ragione, ci porta alle conseguenze specificate di sopra.
Non c'è che la pura natura la quale ci scampi dalla barbarie, con quegli errori ch'ella ispira, e dove la ragione non entra.
S'ella ci fa piangere la morte dei figli, non è che per un'illusione, perchè perdendo la vita non hanno perduto nulla, anzi hanno guadagnato.
Ma il non piangerne è barbaro, e molto più il rallegrarsene, benchè sia conforme all'esatta ragione.
Tutto ciò conferma quello ch'io voglio dire che la ragione spesso è fonte di barbarie (anzi barbarie da se stessa), l'eccesso della ragione sempre; la natura non mai, perchè finalmente non è barbaro se non ciò che è contro natura, (25.
Nov.
1820.) sicchè natura e barbarie son cose contraddittorie, e la natura non può esser barbara per essenza.
Alla p.343.
Vedilo ancora sulla fine del Capo 5.
da quel passo abbastanza lungo di Rousseau, Tutto ciò che sento esser bene, [357]è bene, in poi.
Dove l'autore insomma viene a concludere che non esiste legge naturale, o secondo i Deisti che combatte, o anche, come pare, secondo la propria persuasione, giacch'egli ne vuol dedurre che non esiste regola di condotta, esclusa la religione, solo canone dei doveri morali.
E nel principio propriamente del Capo 6.
dice, l'uomo ha riconosciuto dovunque ed in qualunque tempo la distinzione essenziale del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto; e malgrado i vari errori nella estimazione degli atti liberi considerati come virtuosi o viziosi, non v'ebbe mai alcun popolo che confondesse le nozioni opposte del delitto e della virtù.
Siamo d'accordo.
Così nel bello, tutti hanno la nozione della convenienza, e nessuno ne ha il tipo.
Ma stando così la cosa, le diverse opinioni non si possono chiamare errori, come voi fate; perchè non esiste il tipo del buono morale; e perchè non erra quell'etiope che crede la figura della sua nazione, la più perfetta e la sola bella nel genere umano.
Alla p.161.
I fasti della rivoluzione abbondano di altre prove di quello ch'io dico, e dimostrano qual fosse l'assunto dei riformatori.
Si eressero altari alla Dea ragione: Condorcet nel piano di educazione presentato all'Assemblea legislativa ai 21 e 22 Aprile 1792 proponeva l'abolizione e proscrizione anche della religion naturale, come irragionevole e contraria alla filosofia, e così di tutte le altre religioni.
(Essai sur l'indifférence en matière de religion Ch.5.
presso alla fine, nota) Non parlo del [358]nuovo Calendario, della festa all'Essere Supremo di Robespierre ec.
In somma lo scopo non solo dei fanatici, ma dei sommi filosofi francesi o precursori, o attori, o in qualunque modo complici della rivoluzione, era precisamente di fare un popolo esattamente filosofo e ragionevole.
Dove io non mi maraviglio e non li compiango principalmente per aver creduto alla chimera del potersi realizzare un sogno e un utopia, ma per non aver veduto che ragione e vita sono due cose incompatibili, anzi avere stimato che l'uso intiero, esatto, e universale della ragione e della filosofia, dovesse essere il fondamento e la cagione e la fonte della vita e della forza e della felicità di un popolo.
(27.
Nov.
1820.)
Il vigore e il ben essere del corpo conferisce alla serenità dell'animo, e la serenità dell'animo al vigore e al ben essere del corpo.
Come per lo contrario la debolezza o mal essere del corpo, e la tristezza dell'animo.
Così la natura aveva congegnata e ordinata ogni cosa alla più felice condizione dell'uomo.
Alla p.223.
Le dottrine non rimontano mai verso la loro sorgente, e la Riforma invano si sforzava d'arrestare il corso del fiume che la trascinava, dice l'Essai sur l'indifférence en matière de religion, a poco più di un terzo del Capo 6.
Così tutte le sette, istituzioni, corporazioni, ogni cosa umana si guasta e perde quando s'allontana da' suoi principii, e non c'è altro rimedio che richiamarvela, cosa ben difficile, perchè l'uomo non torna indietro senza qualche ragione universale, necessaria ec.
come sovversioni del globo, o di [359]nazioni, barbarie simile a quella che rinculò il mondo ne' tempi bassi, ec.: ma di spontanea volontà, e ad occhi aperti, e per sola ragione e riflessione, non mai; non essendo possibile che la causa del male, cioè la corruzione, la ragione, i lumi eccessivi ec.
siano anche la causa del rimedio.
Del resto la religion Cattolica non si mantiene meglio delle altre, dopo tanti secoli, se non per la somma cura dell'antichità, e del conservare lo stato primitivo, e bandire la novità, nello stesso modo che dice Montesquieu (l.
cit.
nel pensiero, a cui questo si riferisce) della costituzione d'Inghilterra custodita e osservata e protetta e richiamata sempre gelosamente dalla camera.
Alla p.347.
Questa pure è una cagione della gran differenza che passa fra i letterati e gl'illetterati, e anche fra i letterati di professione, e i letterati di semplice genio, ornamento, divertimento ec.
nel gustare gli scritti anche i più popolari, e adattati all'intelligenza e al diletto di chicchessia.
L'eloquenza massimamente giudiziaria, ma anche d'ogni altro genere, consiste in gran parte nell'appianare le scabrosità, riempiere i voti e le valli, agguagliare la superficie, e raddrizzare le storture delle cose.
E però succede bene spesso che ascoltando o leggendo un pezzo eloquente tu sei persuaso di una cosa, della quale da te stesso non ti saresti mai persuaso, e della quale dubiterai forse nel seguito, o la condannerai; credi fattibile, e facile una cosa, che ti pareva e tornerà a parerti impossibile [360]o difficile; ti svaniscono quelle incertezze, quelle difficoltà ec.
e tu sei costretto a non vedere e dimenticare quello che vedevi, a contraddire e condannare te stesso, anzi sovente a vedere e non vedere, ricordarti e dimenticare nello stesso tempo.
Tale è la proprietà non solo dell'eloquenza che strascina, ma anche di quella secca eloquenza, fondata sopra uno stretto ragionamento, e una dialettica per lo più ingannatrice (se non quanto al tutto, almeno quanto alle parti): eloquenza della quale fra gli antichi sono modelli i così detti Oratori attici, fra i moderni (parlo almeno degli oratori di professione) forse il solo Bourdaloue, oratore veramente e propriamente attico, il quale convince l'uomo di cose non sempre vere, se non altro, non interamente vere.
(27.
Nov.
1820.)
Non eadem omnibus esse honesta atque turpia, sed omnia maiorum institutis iudicari.
Corn.
Nep.
praef.
Alla p.329.
fine.
Nulla Lacedaemoni tam est nobilis vidua quae non ad scenam eat mercede conducta.
Magnis in laudibus totâ fuit Graeciâ, victorem Olympiae citari.
In scenam vero prodire, et populo esse spectaculo, nemini in eisdem gentibus fuit turpitudini.
Quae omnia apud nos partim infamia, partim humilia, atque ab honestate remota ponuntur.
Corn.
Nep.
praef.
(27.
Nov.
1820.)
L'uomo senza la cognizione di una favella, non può concepire l'idea di un numero determinato.
Immaginatevi di contare trenta o quaranta pietre, senz'avere una denominazione da dare a ciascheduna, vale a dire, una, due, tre, [361]fino all'ultima denominazione, cioè trenta o quaranta, la quale contiene la somma di tutte le pietre, e desta un'idea che può essere abbracciata tutta in uno stesso tempo dall'intelletto e dalla memoria, essendo complessiva ma definita ed intera.
Voi nel detto caso, non mi saprete dire, nè concepirete in nessun modo fra voi stesso la quantità precisa delle dette pietre; perchè quando siete arrivato all'ultima, per sapere e concepire detta quantità, bisogna che l'intelletto concepisca, e la memoria abbia presenti in uno stesso momento tutti gl'individui di essa quantità, la qual cosa è impossibile all'uomo.
Neanche giova l'aiuto dell'occhio, perchè volendo sapere il numero di alcuni oggetti presenti, e non sapendo contarli, è necessaria la stessa operazione simultanea e individuale della memoria.
E così se tu non sapessi fuorchè una sola denominazione numerica, e contando non potessi dir altro che uno, uno, uno; per quanta attenzione vi ponessi, affine di raccogliere progressivamente coll'animo e la memoria, la somma precisa di queste unità, fino all'ultimo; tu saresti sempre nello stesso caso.
Così se non sapessi altro che due denominazioni ec.
Eccetto una piccolissima quantità, come cinque o sei, che la memoria e l'intelletto può concepire senza favella, perchè arriva ad aver presenti simultaneamente tutti i pochi individui di essa quantità.
Nello stesso modo e per la stessa ragione [362]i numeri che rappresentano una quantità troppo grande, come centomila, un milione e simili, e più, un bilione, non ci destano se non un'idea confusa, quantunque noi sappiamo benissimo il loro significato, e l'estensione o quantità precisa e misurata, che comprendono: ma in questo caso non basta sapere interamente il significato della parola, per concepire l'idea significata (cosa che forse non accade in altro caso, se non in parole indefinite, o che esprimono idee indefinite): e ciò perchè l'operazione della mente non si può estendere in un medesimo tempo sopra tutte le parti di questa quantità, ed abbracciarle e concepirle chiaramente tutte in una volta, malgrado il soccorso della favella, il quale non basta quando le parti son troppe.
Per parti intendo p.
es.
le diecine, o anche le centinaia la somma delle quali, quando può esser concepita chiaramente ci desta un'idea abbastanza chiara della data quantità, a cagione dell'abitudine contratta coll'esercizio del discorso, la quale abitudine ci fa concepir facilmente e prontamente gl'individui compresi in ciascuna diecina.
In genere l'idea precisa del numero, o coll'aiuto della favella o senza, non è mai istantanea, ma composta di successione, più o meno lunga, più o meno difficile, secondo la misura della quantità.
(28.
Nov.
1820.).
V.
p.1072.
fine.
L'Essai sur l'indifférence en matière de Religion, Capo 7.
verso la fine, dice, Da una dottrina indigente nasce un culto indigente al par di essa.
Quindi quant'è maggiore il numero dei dogmi che una setta ha conservato, tanto maggior vita e pompa e grandezza ha il suo culto.
E vedilo in quello che segue perchè fa al mio proposito.
Questa osservazione di fatto si può addurre fra le tante altre in conferma di quello ch'io dico, che senza illusioni di cui l'uomo sia persuaso, non c'è vita ne azione, giacchè l'uomo [363]non opera senza persuasione, e se la persuasone non è illusoria, ma viene dalla ragione, l'uomo non opera, perchè la ragione non lo persuade ad operare, anzi ne lo distoglie, e lo getta nell'indifferenza.
La pompa e la vita del culto senza una persuasione della sua necessità, doverosità, importanza, non ha potuto durare.
Limitate le credenze, allargato il dubbio, allargata la ragione e l'indifferenza, e la secca speculazione delle cose, il culto è svanito, laddove si mantiene presso i cattolici, i quali ne conservano tutte le basi, cioè tutti i dogmi, le credenze ec.
tanto relative ad esso culto, quanto generalmente alla Religione.
Se non ch'egli va languendo anche tra noi, sia nel fatto, sia nell'impressione e l'effetto che produce, e il modo e l'animo con cui è considerato, e veduto o eseguito: e ciò in proporzione dei progressi dell'incredulità, o diminuzione della fede, perchè non si può dar gran cura, nè coltivare, nè promuovere, nè esser molto affetti e toccati, da quello che si considera come poco importante, e che non è in relazione colla nostra opinione.
(29.
Nov.
1820.)
I doveri dipendono dalle credenze; quanti saranno dunque i simboli, tante saranno le morali...
Chi non comprende che dal momento che si rigetta ogni autorità vivente (dunque la morale determinata deriva dall'autorità [364]non dalla natura), la regola de' costumi addiviene tanto variabile e tanto incerta quanto la regola della fede? Essai ec.
poco sotto al luogo citato nel pensiero precedente.
Ogni uomo ha diritto di giudicare di per se stesso, e la diversità delle opinioni è tanto naturale quanto la diversità de' gusti.
Dott.
Midleton (Middleton) Introductory Discourse to a free Enquiry into the miraculous powers.
(Discorso preliminare alla libera Disquisizione sopra i poteri miracolosi) p.38.
Quegli stessi che credono grave, o maggiore che non è, ogni leggera malattia che loro sopravviene, caduti in qualche malattia grave o mortale, la credono leggera, o minore che non è.
E la cagione d'ambedue le cose è la codardia che gli sforza a temere dove non è timore, e a sperare dove non è speranza.
La filosofia e la natura de' tempi e della vita presente s'ha per capital nemica della Religione, ed è vero.
Contuttociò se l'uomo doveva esser filosofo, far della ragione quell'uso che ora ne fa, conoscere tutto quello che ora conosce, e generalmente s'egli doveva vivere come ora vive, e se i tempi dovevano essere quali ora sono, o il sistema della natura e delle cose è totalmente assurdo e contraddittorio, o bisogna necessariamente ammettere una Religione.
Perchè se l'uomo doveva essere inevitabilmente infelice, come ora accade, ne [365]segue che al primo nell'ordine degli enti, è meglio il non essere che l'essere, ne segue che l'uomo non solo non deve amare nè conservare la sua esistenza, ma distruggerla; in maniera che la sua stessa esistenza rinchiuda non dirò un germe nè un principio di distruzione, ma quasi una distruzione formale e completa; ne segue che la vita ripugna alla vita, l'esistenza all'esistenza, giacchè l'uomo non verrebbe ad esistere se non per cercare di non esistere, quando conoscesse il suo vero destino.
La qual cosa è un'assurdità e una contraddizione sostanziale e capitale nel sistema della natura.
Per lo contrario se l'uomo non doveva essere quale ora è, se la natura l'aveva fatto diversamente, se gli aveva opposto ogni possibile ostacolo al conoscere quello che ha conosciuto e al divenire quello ch'è divenuto, allora dallo stato presente dell'uomo, e dalle assurdità che ne risultano, non si può dedur nulla intorno al vero, naturale, primitivo ed immutabile ordine delle cose; come se un animale si rompe una gamba, non se ne può dedur nulla intorno all'ordine generale, perchè questo è un inconveniente particolare.
Così lo stato presente dell'uomo, e le assurdità sue, dovranno esser considerate come una particolarità indipendente dall'ordine e dal sistema generale e [366]destinato, e costante, e primordiale.
Che se anche non c'è più rimedio per l'uomo, nemmeno per chi si tagli una gamba, o sia schiacciato da una pietra, c'è più rimedio.
Basta che il male non sia colpa della natura, non derivi necessariamente dall'ordine delle cose, non sia inerente al sistema universale; ma sia come un'eccezione, un inconveniente, un errore accidentale nel corso e nell'uso del detto sistema.
V.
p.370.
e 1079.
fine.
Hanter frequentare, visitare spesso, aver familiarità ec.
verbo che Girard nei Sinonimi fa derivare da hant (se ben mi ricordo) che nelle lingue del nord significa congiungere o darsi le mani, non potrebbe piuttosto derivare da ?????? Ma bisognerebbe anche vedere se quella parola settentrionale abbia nessuna relazione con questo verbo greco.
L'idea di una grave sventura (come anche di qualunque grande e strana mutazione di cose in bene come in male) che ci sopraggiunga, massimamente improvvisa, non si può concepire intera, se non altro ne' primi momenti; anzi è sempre confusissima, debolissima, oscurissima, e difettosa.
Non considero adesso l'impressione e la sorpresa e il dolore ec.
che deve naturalmente oscurar l'anima, e intorpidirla.
Ma ponete che vi si annunzi la morte di uno de' vostri cari e familiari, anche preveduta.
Il dispiacere, [367]la rimembranza delle relazioni avute con lui, la novità che introduce nella vostra vita, vale a dire il troncamento di tutte quelle relazioni, e il dover considerare quella persona in un modo tutto diverso dal passato, cioè come morta, come incapace di essere amata o beneficata, di amare e beneficare ec.
ec.
tutte queste cose che si presentano in folla alla vostra mente, vi cagionano una confusione un imbarazzo uno stupore tale, che voi in luogo di considerare ciascuna parte della cosa, non ne considerate nessuna, non siete capace di valutare nè l'estensione nè la profondità nè la natura della cosa, nè di formarvene un concetto preciso, e restandovi solamente l'idea in genere e confusamente, non siete capace di pensarvi, nè vi pensate formalmente, non dirò perchè non vogliate pensarvi, ma perchè non sapete pensarvi.
E quindi accade quella cosa osservatissima che le grandi mutazioni, sieno disgrazie, sieno fortune, al primo momento istupidiscono, e non è se non col tempo, che voi considerandone ciascuna parte, ne cominciate a piangere o rallegrarvene separatamente.
Giacchè questo pure è notabile, che l'atto del piangere o rallegrarsi ec.
in somma l'espressione ??? ?????? cade sempre sopra una parte della cosa, non già sul tutto, perchè l'anima non è capace di abbracciar questo tutto, in uno stesso tempo.
P.e.
nel [368]caso detto di sopra, voi comincerete a piangere per una determinata rimembranza, per una tal riflessione sopra il futuro o il presente, e per simili cose, che non potete ravvisare, e separare, e concepire nel primo momento, nè durante la prima impressione.
Ma finattanto che l'idea o la cosa vi si presenterà tutta intera, e voi non potrete distinguerne, e noverarne le parti, voi non piangerete mai, nè sarete commosso determinatamente, ma solo confusamente.
E neanche dopo lungo tempo, voi non piangerete mai per la considerazione totale e generale della disgrazia intera.
(1.
Dec.
1820.).
Si suol dire che la monotonia fa parere i giorni più lunghi.
Così è quanto alle parti del tempo considerate separatamente.
Ma quanto al complesso è tutto l'opposto, perchè un giorno pieno di varietà, terminato che sia ti parrà lunghissimo, anzi spesso ti avverrà di credere a prima giunta che una cosa fatta, accaduta, veduta, ec.
oggi, appartenga al giorno di ier o ier l'altro, perchè la moltiplicità delle cose allunga nella tua memora lo spazio, e il maggior numero degli accidenti, accresce l'apparenza del tempo.
All'opposto in una vita tutta uniforme, spesso ti avverrà (e m'è avvenuto) di credere che l'accaduto ieri o ier l'altro appartenga al giorno d'oggi, o quello di più giorni fa, al giorno di ieri.
E ciò per la ragione contraria, e perchè l'uniformità impiccolisce l'immagine delle distanze.
Così la monotonia [369]prolunga la vita in quanto la lunghezza è penosa, e l'abbrevia in quanto la lunghezza è piacevole e desiderata; e la tua vita passata nell'uniformità ti par brevissima e momentanea, quando ne sei giunto al fine.
(1.
Dec.
1820.).
Non è forse cosa che tanto promuova l'attività e l'impazienza di ottenere il fine che si desidera, quanto l'incertezza di ottenerlo, quando però questo vi prema, e l'idea di non ottenerlo vi attristi.
Non già solamente perchè l'incertezza, obbliga all'azione (laddove la certezza può dar luogo alla pigrizia) in quanto un fine incerto domanda maggior cura per ottenerlo.
Ma quando anche non domandi maggior cura, il che può ben accadere (perchè un fine può esser certo, posta però una grande attività per conseguirlo) e indipendentemente affatto dall'utilità e dal bisogno delle cure, tu sarai attivissimo e impazientissimo di ottenerlo, per questo solo che tu non puoi sopportare quell'incertezza, e che tu spasimi di liberarti dall'angustia che ti deriva dal dubbio di non riuscire ad un fine che tu desideri grandemente.
Angustia alla quale forse preferirai la certezza di non poterlo conseguire.
Anche materialmente m'è accaduto più volte di dubitare se alcuni miei sforzi corporali avrebbero potuto ottenere un fine che [370]mi premeva, e perciò raddoppiarli impazientemente, sebbene altri mi consigliava di riposare perchè la dilazione non faceva alcun danno.
Ma io non poteva sostenere l'incertezza di una cosa che m'importava, laddove se non avessi dubitato non avrei avuto difficoltà di aspettare.
E così la stessa mia impazienza poteva pregiudicare al fine, togliendomi il riposo necessario ec.
Così nel comporre ec.
Parimenti se tu devi compire una tale operazione in un dato spazio, e temi di non riuscirvi, l'impazienza e la sollecitudine tua non cresce in ragione del bisogno, ma ben da vantaggio, e, s'è possibile, tu vieni a capo dell'opera prima del termine prefisso.
(1.
Dec.
1820.).
V.
p.712.
capoverso 2.
Alla p.366.
pensiero 1.
Perciò coloro che deducono la necessità assoluta della Religione dallo stato presente dell'uomo, e dalla sua miseria, nihil agunt, se non provano ancora che questo stato gli era destinato, e ch'egli vivendo così, segue i suoi destini, e l'ordine assoluto delle cose, non arbitrario.
Perchè anche gli animali, p.e.
le formiche, le api, i castori, hanno fra loro tanta società quanto basta ai loro bisogni o comodi, e non per questo hanno Religione, o legge di sorta alcuna.
Anche gli animali hanno un uso sufficientissimo di ragione, hanno il principio ??? ????????, il principio di conoscenza innato in tutti gli esseri viventi, non già nel solo uomo; e non per questo se ne servono come l'uomo, nè sono infelici.
E non è provato che la società, quale ora è, sia lo stato naturale dell'uomo, [371]come per lo contrario è provato che l'uomo senza società, non ha per natura o istinto, nessuna idea di Religione, e non ne ha verun bisogno, tutti i suoi doveri non riguardando che se stesso, ed avendo il loro immobile fondamento nell'istinto che lo porta ad amarsi e conservarsi.
(2.
Dec.
1820.).
Sostengono come indubitato che l'uomo è perfettibile.
Vale a dire ch'egli può perfezionare se stesso, perfezionar l'opera della natura.
Considerate il sistema materiale del mondo, tanto nelle minime che nelle massime cose, tanto nell'organizzazione di un animale appena visibile, quanto nell'ordine degli astri, e voi troverete da per tutto un artifizio, una sapienza, una maestria tale, che non solamente non si può perfezionar nulla di quanto la natura ha fatto, non solamente non vi si può nè aggiungere nè levarne cosa alcuna, nè alterare in nessun modo senza guastare, ma quando anche noi avessimo quella stessa potenza di fare che ha avuto la natura, non c'è uomo d'ingegno così sottile e profondo e sublime, che fosse capace non dico di condurre a termine, ma di concepir solamente un piano così magistrale, così minuto, così strettamente legato insieme e corrispondente, così perfetto in ogni menomissima parte, come quello che vediamo eseguito dalla natura.
Io dunque dico all'uomo [372]il quale asserisce d'essere perfettibile, e di potersi, anzi doversi perfezionare da se: perfeziona il tuo corpo, la tua notomia, la tua costruzione organica, o almeno qualche parte di lei: se non puoi questo, almeno immagina un disegno più perfetto, più completo, più giusto, più conveniente, più esatto, più squisito di quello della natura, relativamente alla organizzazione ec.
del tuo corpo.
L'uomo si mette a ridere, e confessa che non solo non c'è cosa più perfetta, ma ch'egli con lunghissimo studio, dal principio del mondo in poi, ancora non è arrivato a comprenderne interamente tutta la perfezione, e ogni giorno rivela qualche altra cosa da ammirare, ed accresce la sua maraviglia.
Or come dunque non potendo perfezionare il tuo corpo, anzi non potendo neppur comprendere tutta la misura della sua perfezione naturale, presumi di perfezionare una parte tanto più nobile, astrusa, e difficile, qual'è lo spirito? Come dunque la natura tanto perfetta maestra, tanto accurata e puntuale e finita e intera in tutto il resto, e nominatamente nel tuo corpo, è stata così stupida e manchevole e difettosa nella parte più rilevante di te, in quella parte da cui dipendeva l'uso di quel tuo corpo così perfetto, e che anche doveva molto influire sugli altri ordini di enti? Come ti ha lasciato da far tanto in quella parte che più le doveva premere, non avendoti lasciato nulla da fare in quella che importava meno, e ch'era subordinata alla prima? Come soprattutto presumi di perfezionare, non solo il tuo spirito, [373]ma anche l'ordine vastissimo delle altre cose terrestri, in quanto ha stretta relazione e connessione e dipendenza cogli andamenti e lo stato della tua specie? (2.
Dec.
1820.).
La poesia e la prosa francese si confondono insieme, e la Francia non ha vera distinzione di prosa e di poesia, non solamente perchè il suo stile poetico non è distinto dal prosaico, e perch'ella non ha vera lingua poetica, e perchè anche relativamente alle cose, i suoi poeti (massime moderni) sono più scrittori, e pensatori e filosofi che poeti, e perchè Voltaire p.e.
nell'Enriade, scrive con quello stesso enjouement, con quello stesso esprit, con quella stess'aria di conversazione, con quello stesso tour e giuoco di parole di frasi di maniere e di sentimenti e sentenze, che adopra nelle sue prose: non solamente, dico, per tutto questo, ma anche perchè la prosa francese, oramai è una specie di poesia.
Filosofi, oratori, scienziati, scrittori d'ogni sorta, non sanno essere e non si chiamano eleganti, se non per uno stile enfatico, similitudini, metafore, insomma stile continuamente poetico, e montato principalmente sul tuono lirico.
E ciò massimamente è accaduto dopo l'introduzione de' poemi in prosa, siano poemi propriamente detti, siano romanzi, opere descrittive, sentimentali ec.
Ma [374]i francesi che si credono i soli maestri e modelli e conservatori, e zelatori dello scriver classico a' tempi moderni, non so in qual classico antico abbiano trovato questo costume, per cui non si sa essere elegante nè eloquente, senza andare a quella perpetua, dirò così, traslazione e ?????????e concitazione di stile, ch'è propria della poesia.
(L'eloquenza di Bossuet, è appunto di questo tenore; tutta Biblica, tutta in un gergo di convenzione; e lo stile biblico, e questo gergo forma l'eloquenza e l'eleganza ordinaria d'ogni sorta di scrittori francesi oggidì.) Non mai sedatezza, non mai posatezza, non semplicità, non familiarità.
Non dico semplicità nè familiarità distintiva di uno stile o di uno scrittore particolare, ma dico quella ch'è propria universalmente e naturalmente della prosa, che non è uno scrivere ispirato.
Osservino Cicerone, osservino gli scrittori più energici dell'antichità, e mi dicano se c'è uomo così cieco che non distingua subito come quella è prosa non poesia; se ridotta questa prosa in misura, avrebbe mai niente di comune colla poesia (come accadrebbe nelle loro prose); se la prosa antica la più elegante, eloquente, energica, consiste, o no, in uno stile separatissimo dal poetico.
Anche i loro scrittori de' buoni secoli, sebbene la lingua francese ha sempre inclinato a questo difetto, [375]nondimeno hanno un gusto e un sapore di prosa molto maggiore e più distinto (eccetto pochi), hanno non dico austerità, neanche gravità nè verecondia (pregi ignoti ai francesi) ma pur tanta posatezza e castigatezza di stile quanta è indispensabile alla prosa: come la Sévigné, Mme Lambert, Racine e Boileau nelle prose, Pascal ec.
Anzi letto Pascal, e passando ai filosofi e pensatori moderni, si nota e sente il passaggio e la differenza in questo punto.
(2.
Dic.
1820.).
V.
p.477.
capoverso 1.
La ragione è nemica della natura, non già quella ragione primitiva di cui si serve l'uomo nello stato naturale, e di cui partecipano gli altri animali, parimente liberi, e perciò necessariamente capaci di conoscere.
Questa l'ha posta nell'uomo la stessa natura, e nella natura non si trovano contraddizioni.
Nemico della natura è quell'uso della ragione che non è naturale, quell'uso eccessivo ch'è proprio solamente dell'uomo, e dell'uomo corrotto: nemico della natura, perciò appunto che non è naturale, nè proprio dell'uomo primitivo.
Spesso gli uomini irresoluti, preso che hanno un partito, sono costantissimi nel mantenerlo, a fronte delle maggiori difficoltà, appunto per irresoluzione, e perchè non si sanno risolvere a lasciar quello, e prenderne un altro; perchè ciò par loro più difficoltoso; perchè si spaventano di tornare un'altra volta a risolvere.
Forse questo effetto accade principalmente in quelli che sono irresoluti per infingardaggine, e che trovano più infingardo [376]e facile il proseguire che il tornare indietro.
Ma è comune, s'io non erro, a tutti gl'irresoluti.
(3.
Dic.
1820.)
L'Essai sur l'indifférence en matière de religion, prima o seconda pagina del Capo 9.
Ed è rimarcabile che tutti gli uomini...
uniscono costantemente all'idea della felicità, l'idea del riposo, che non è altro fuorchè quella pace profonda, inalterabile, di cui gode necessariamente un essere pervenuto alla sua perfezione, e che S.
Agostino chiama per eccellenza, la tranquillità dell'ordine...
In una parola non si trova felicità fuorchè nel seno dell'ordine; e l'ordine è la sorgente del bene, come il disordine è la sorgente del male, tanto nel mondo morale, quanto nel mondo fisico; tanto pei popoli, quanto per gl'Individui.
L'amore dell'ordine, o l'idea della necessità dell'ordine, che è quanto dire dell'armonia e convenienza, è innata, assoluta, universale, giacchè è il fondamento del raziocinio, e il principio della cognizione o del giudizio falso o vero.
Ma l'idea di un tal ordine, è variabile, dipendente dall'abitudine, opinione, ec.
è relativa, e particolare.
Il desiderio del riposo, non è in quanto riposo, o quiete, ma 1.
in quanto convenienza, armonia ec.
colle qualità e la natura della specie o dell'individuo.
2.
in quanto stabilità, o capacità di durare.
L'uomo e nessun altro essere, non può trovar bene se non se in [377]uno stato che armonizzi colle sue qualità e natura.
Senza questo stato, egli è in una condizione di contrasto, di sconvenienza, e perciò travaglioso, non per l'assenza della quiete assolutamente, ma dell'armonia relativa.
Se alla sua natura convenisse la guerra, il moto perpetuo, l'azione continua, egli sarebbe in istato di pena, e violento, quando fosse costretto al riposo propriamente detto, e non riposerebbe, vale a dire, non troverebbe felicità, se non che nella guerra o fatica.
Il riposo e la pace per lui sarebbe disordine, e la fatica e la guerra ordine.
Sicchè il riposo che noi desideriamo, non è riposo o quiete assolutamente, ma armonia colla nostra natura tanto specifica, quanto individuale.
Così diremo della stabilità, perchè quello che contrasta colla nostra natura, se anche ha l'atto della durata, non ha la potenza o il diritto, cosicchè l'uomo non ci può trovar quiete.
Al contrario nel caso opposto.
Ma questa quiete non è quiete assoluta, quasi che la quiete fosse essenzialmente e primordialmente buona; bensì è quiete relativa, o vogliamo dire armonia.
Non bisogna dunque usare le proposizioni astratte nelle cose relative, nè pretendere di aver dimostrato che noi amiamo naturalmente un tal ordine, perciò che amiamo l'ordine.
Amiamo l'ordine, l'amano tutti gli esseri; ma qual ordine? Odiamo il disordine, ma qual è questo disordine? Ciò bisogna [378]cercare, qui di nuovo i filosofi si dividono, e dal principio antecedente, incontrastabile e confessato, invano si presume di ricavar nulla di definito e concreto, circa la questione, dello stato e perfezione destinata particolarmente all'uomo, e desiderata da lui ardentemente.
Io dico dunque: lo stato di perfezione, quello stato di ordine, fuori del quale non c'è riposo, fuor del quale non c'è la tranquillità dell'ordine, nè la felicità, è per l'uomo, come per tutte le altre cose esistenti, quello stato in cui la natura l'ha posto di sua propria mano, e non quello in cui egli o si sia posto, o si debba porre da se.
Il Capo 9.
dell'Essai ec.
qui sopra citato è il più forte profondo e concludente forse di tutta l'opera, perchè le prove della Religione non sono dedotte dalla considerazione dell'uomo qual egli è, dalle opinioni ec.
ma dalla natura dell'uomo.
Farai bene a rileggerlo.
Ma ecco il suo raziocinio.
La felicità non si trova se non nella perfezione di cui l'essere è capace.
Un essere non è perfetto se le sue facoltà non sono perfettamente d'accordo fra loro, perfettamente sviluppate secondo la loro natura, e se non godono ciascuna del suo proprio oggetto secondo tutta l'estensione della sua capacità.
Non è perfetto s'egli non è in conformità colle leggi che risultano dalla sua natura.
Ma per conformarcisi [379]bisogna conoscerle.
Dunque l'uomo non sarà felice se non quando conosca se stesso, e i rapporti necessari che ha con altri esseri.
E deve poterli conoscere, altrimenti sarebbe un essere contraddittorio, perchè avendo un fine, cioè la perfezione o la felicità, non avrebbe alcun mezzo di pervenirvi.
L'uomo dunque inclinando alla perfezione o felicità, inclina sommamente alla cognizione del vero.
Dalla cognizione deriva l'amore o l'odio, ossia il giudizio relativo alla qualità buona o cattiva.
Dall'amore o l'odio deriva l'azione, perchè l'uomo non si può determinare se non a quello che crede bene.
L'ignoranza assoluta è uno stato di morte, perchè, supponendo che l'uomo non abbia un motivo per creder le cose buone o cattive, la sua indifferenza è totale, e non potendo amare nè odiare, non può scegliere, dunque non può agire, dunque non può vivere.
Sicchè conoscere, amare, operare; ecco tutto l'uomo.
L'oggetto della facoltà di conoscere, è la verità.
L'estensione di questa facoltà si misura dal desiderio.
L'uomo sente un desiderio infinito di conoscere e così di amare.
Dunque la sua facoltà conoscitiva, o l'intelligenza è capace di conoscere la verità infinita; la sua facoltà di amare, è capace di amare il Bene infinito.
Laddove la sua facoltà di agire essendo limitata, egli non sente un desiderio infinito di agire, come essere fisico.
Dunque la felicità dell'uomo [380]consiste nella perfezione della conoscenza; dell'amore, o sia disposizione dell'anima verso gli oggetti; e dell'azione che deriva da questi due principii.
Dunque consiste nel vero: perchè 1.
l'ignoranza assoluta è lo stesso che mancanza intera di cognizione, amore, e azione.
2.
l'errore ingannandolo sui suoi rapporti, e sull'accordo e sviluppo delle sue facoltà, contraddice alla perfezione, ossia distrugge l'armonia dell'uomo e delle sue facoltà colle leggi che risultano dalla sua natura, e quindi distrugge la sua felicità.
Ecco l'argomentazione.
Ecco le risposte.
Primieramente quanto alla verità, che cosa si debba intendere per verità, rispetto alla felicità dell'uomo, e per conseguenza qual sia il fine e lo scopo e l'oggetto vero della sua facoltà di conoscere, vedilo chiaramente esposto p.326.
di questi pensieri, capoverso 1.
Quello solo basterebbe a rispondere a tutto questo raziocinio.
Secondariamente, qual sia l'ordine, la perfezione l'accordo delle facoltà dell'uomo, la sua corrispondenza co' suoi rapporti, e colle leggi che risultano dalla sua natura, vedilo p.376-378.
donde rileverai che questo principio astratto, benchè vero, e confessato, non ha forza di provar nulla nella questione delle vere leggi, dei veri rapporti, e della vera natura particolare dell'uomo.
Veniamo al desiderio di conoscere.
Certamente bisogna che l'uomo conosca, cioè si possa determinare, perch'egli è libero.
Così accade anche al bruto.
[381]Bisogna che conosca bene per determinarsi bene.
Dunque bisogna che conosca il vero, e l'errore toglie la sua felicità.
Falsa conseguenza.
Bisogna che conosca quello che fa per lui.
La verità assoluta, e per così dire il tipo della verità, è indifferente per l'uomo.
La sua felicità può consistere nella cognizione e giudizio vero o falso.
Il necessario è che questo giudizio, convenga veramente alla sua natura.
La facoltà di formare questo giudizio non manca all'uomo ignorante, perchè tutto quello ch'egli deve sapere gli è insegnato dalla natura.
Bisogna esser bene stupido per ammetter l'ipotesi di un'ignoranza che lasci l'uomo nell'intera indifferenza, come quell'asino delle scuole, posto tra due cibi distanti e moventi d'un modo, il quale si morria di fame.
L'ignorante ignora il vero, ma non i motivi di determinarsi.
Anzi l'ignorante naturale, come il fanciullo, si determina molto più presto, facilmente e vivamente, risolutamente e certamente dell'uomo istruito o saggio.
Di più le stesse cose per natura loro indifferenti all'uomo, per poco che abbia perduto della natura, quelle cose che non possono essere oggetti di azione, come piante, sassi, e che so io, non sono indifferenti all'uomo primitivo nè al fanciullo, il quale da piccolissime minuzie, cava argomento di amarle o di odiarle, e trova notabili benchè immaginarie differenze, nelle cose più[382]indifferenti, ed esagera e ingrandisce le piccole differenze reali: sicchè non gli manca ma motivo di determinazione.
Anzi la ragione e la scienza è indifferentissima, e la natura e l'ignoranza è tutto l'opposto dell'indifferenza.
(V.
il mio discorso sui romantici, e la p.69.
di questi pensieri, capoverso 3.) Perchè l'immaginazione e l'errore dà molto più peso alle minuzie, che la ragione, e non ammette nè dubbi, nè freddezze nella stessa certezza, come la ragione che conosce la poca importanza di tutto, e perciò la poca differenza dell'utilità o bontà rispettiva.
Oltracciò la ragione e la scienza, tende evidentemente ad agguagliare il mondo sotto ogni rispetto, ed estinguere o scemare la varietà, perchè non c'è cosa più uniforme della ragione, nè più varia della natura; e così la scienza promuove sommamente l'indifferenza, perchè toglie o scema anche le differenze reali, e quindi i motivi di determinazione.
E quanto al dubbio, cagione principalissima d'indifferenza, lo stesso libro ch'io discuto reca un passo di Pascal, dove fra le altre cose (degne d'esser lette) si dice: conviene che ciascuno prenda il suo partito, e si collochi necessariamente o al dogmatismo, o al pirronismo...
Sostengo che non ha mai esistito un pirronista effettivo e perfetto.
La natura sostiene la ragione impotente, e l'impedisce di delirare fino a questo punto...
[383]La natura confonde i pirronisti, e la ragione confonde i dogmatizzanti (vale a dire quelli che ammettono e sostengono delle opinioni come certe).
(Pensées de Pascal, Ch.21) Infatti il dubbio non ha quasi esistito se non dopo la ragione e la scienza, e non c'è cosa così sicura in quello che crede come l'ignoranza; e l'uomo naturale, tutto quello che sa o crede sapere (e ciò per dettato della natura), lo tiene per certissimo e non ci prova ombra di dubbio.
Tanto è vero che l'ignoranza conduce alla totale indifferenza, e quindi all'inazione e alla morte: o piuttosto tanto è vero che si dia un'ignoranza assoluta, ossia uno stato dell'anima privo affatto di credenza, e di giudizi: tanto è stolto il confondere la mancanza della verità, colla mancanza dei giudizi, quasi non si dassero giudizi se non veri, o quasi dal detto principio risultasse la necessità di un giudizio vero assolutamente, e non piuttosto di un giudizio veramente utile e adattato alla natura dell'uomo.
Quanto al desiderio che ha l'uomo di conoscere, desiderio che si pretende infinito, come quello di amare, e a differenza di quello di operare
1° Non è vero ch'egli sia infinito per se, ma solo materialmente, e come desiderio del piacere, ch'è tutt'uno coll'amor proprio.
E non è vero che l'uomo [384]naturale sia tormentato da un desiderio infinito precisamente di conoscere.
Neanche l'uomo corrotto e moderno si trova in questo caso.
Egli è tormentato da un desiderio infinito del piacere.
Il piacere non consiste se non che nelle sensazioni, perchè quando non si sente, non si prova nè piacere nè dispiacere.
Le sensazioni non le prova il corpo, ma l'anima, qualunque cosa s'intenda per anima.
La sensazione dell'intelligenza, è il concepire.
Dunque l'oggetto della facoltà intellettiva, è il concepire.
(non il vero, come dirò poi.) L'uomo desidera un piacere infinito in tutte le cose, ma non può provare una certa infinità, se non se nella concezione, perchè tutto il materiale è limitato.
V.
la pag.388.
di questi pensieri, fine.
L'uomo dunque prova piacere nella maggior estensione possibile della concezione, ossia dell'atto della facoltà intellettiva.
V.
questi pensieri p.170.
fine, e p.178.
fine - 179.
principio.
Questo è indipendente dal vero.
L'uomo non desidera di conoscere, ma di sentire infinitamente.
Sentire infinitamente non può, se non colle facoltà mentali in qualche modo, ma principalmente coll'immaginazione, non colla scienza o cognizione, la quale anzi circoscrive gli oggetti, e quindi esclude l'infinito.
E da queste cose si potrà dedurre che anche la curiosità, o desiderio di conoscere, o piuttosto di concepire, [385]derivi [non] da una determinazione arbitraria della natura, a fare che il conoscere o concepire sia piacere, ma da questo stesso, che l'uomo desidera illimitatamente il piacere, contro quello che ho inclinato a credere nella teoria del piacere.
Del resto questo desiderio infinito di concepire, dev'essere essenzialmente comune anche ai bruti.
V.
p.180.
fine.
2° E tanto è miser l'uomo quant'ei si reputa, e tanto è beato quant'ei si reputa.
Così tanto è soddisfatto il desiderio di conoscere o concepire, dalla credenza di conoscere, quanto dalla vera conoscenza, e la verità assoluta è totalmente indifferente all'uomo anche per questo capo.
Anzi il desiderio infinito di concepire può ben essere in qualche modo e spesso appagato dalla natura col mezzo della immaginazione e delle persuasioni false ossiano errori; ma non mai dalla ragione col mezzo della scienza, nè dai sensi col mezzo degli oggetti reali.
Che se l'uomo avesse questa tendenza infinita non al concepire, ma precisamente al conoscere, cioè al vero, perchè la natura avrebbe posto tanti ostacoli a questa cognizione necessaria alla sua felicità? Perchè avrebbe radicate nella sua mente tante illusioni che appena il sommo incivilimento, e abito di ragionare, può estirpare, e non del tutto? Perchè la verità sarebbe così difficile a scoprire? Da che l'uomo tende infinitamente alla precisa cognizione, nessuna verità è indifferente per lui.
[386]Non solo la cognizione delle verità religiose, morali ec.
ma di qualunque verità fisica ec.
ec.
diviene necessaria alla sua felicità.
Ora quando anche si voglia supporre che l'uomo primitivo avesse mezzi sufficienti per conoscere le verità religiose e morali, (come par che supponga il nostro libro) è certo che non gli ebbe per infinite altre, è certo che infinite se ne ignorano ancora, che infinite se ne ignoreranno sempre, che la massima parte degli uomini è (tolto nella religione rivelata) ignorante quanto i primitivi, che i fanciulli lo sono parimente, anche quanto alla religione.
È certo che quantunque l'uomo conosca Dio ch'è infinito, non lo conosce nè lo può conoscere infinitamente (come neanche amare, quantunque l'autore presuma che la nostra facoltà di amare sia infinita, essendo infinito il desiderio); anzi limitatissimamente.
Dunque la sua cognizione non è infinita; dunque se la sua facoltà di conoscere è infinita, manca del suo oggetto, e perciò della sua felicità.
Dunque l'uomo non può esser felice: dunque ripeterò coll'autore egli è un essere contraddittorio, perchè avendo un fine, cioè la perfezione o la felicità, non ha alcun mezzo di pervenirvi.
E le illusioni che la natura ha poste saldissimamente in tutti noi, perchè ce le ha poste? Per contendergli espressamente la sua felicità? E se l'ignoranza è infelicità, perchè l'uomo esce dalle mani della natura, così strettamente infelice? In somma [387]le assurdità sono infinite quando non si vuol riconoscere che l'uomo esce perfetto dalle mani della natura, come tutte le altre cose; che la verità assoluta è indifferente all'uomo (quanto al bene, ma non sempre, anzi di rado, quanto al nuocergli); che lo scopo della sua facoltà intellettiva, non è la cognizione, in quanto cognizione derivata dalla realtà, ma la concezione, o l'opinione di conoscere, sia vera, sia falsa.
Che vuol dire che gl'ignoranti in luogo di esser più infelici, sono evidentemente i più felici?
Posti questi principii, dice l'autore, (cioè i sovresposti p.378-380.) consideriamo la filosofia e la Religione ne' loro rapporti colla felicità.
E segue mostrando che la filosofia non rivela nè prescrive nulla fuorchè il dubbio, tanto ne' principii o nelle verità, quanto ne' doveri: e la Religione tutto l'opposto.
Siamo d'accordo, ma la natura? l'avete dimenticata? Non c'è altra maestra che la filosofia o la religione? tutte due ascitizie e non inerenti alla natura dell'uomo.
Laddove tutti gli altri esser viventi, che hanno lo stesso desiderio infinito della felicità, ne hanno la maestra, gl'insegnamenti, e i mezzi in se stessi.
La natura non insegna nulla? non prescrive nulla? Concedo la vostra definizione della felicità, ammetto le facoltà dell'uomo che voi ammettere, dico che debbono esser d'accordo [388]fra loro, d'accordo colle leggi che risultano dalla loro natura, perfettamente sviluppate secondo la loro natura, godere del loro oggetto secondo la loro natura.
I principii son veri, l'applicazione è falsa.
Voi continuate a stare sull'assoluto invece di passare al relativo.
Cioè, la natura dell'uomo non è quella che voi dite.
Del resto so anch'io che la filosofia è più contraria alla natura che la religione, ma non ne segue che non ci siano altri insegnamenti se non della Religione o della filosofia, che non ci siano altre cognizioni, altri amori, altre azioni, cioè quelli che la natura ci ha ispirati e dettati; nè molto meno che questi non sieno analoghi alle nostre facoltà, ed alle leggi della nostra natura; nè che l'uomo naturale sia infelice ec.
ec.
ec.
e che le leggi della nostra natura non sieno quelle della nostra natura.
Convien conoscerle, dic'egli, per conformarcisi.
E io dico che l'uomo le conosce dal suo nascere, e dovea necessariamente conoscerle per non essere un ente contraddittorio, e bisognoso per esser felice, di cose che non possiede essenzialmente e primordialmente, al contrario di tutti gli altri enti.
(7.
Dic.
1820.)
Alla p.384.
Così il desiderio che ha l'uomo di amare, è infinito non per altro se non perchè l'uomo si ama di un amore senza limiti.
E conseguentemente desidera di trovare [389]oggetti che gli piacciano, di trovare il buono (intendendo per buono anche il bello, e tutto ciò che affetta gradevolmente qualunque delle nostre facoltà); desidera dunque di amare, ossia di determinarsi piacevolmente verso gli oggetti.
E lo desidera senza confini, tanto rispetto al numero di questi oggetti, quanto rispetto alla misura della loro bontà, amabilità, piacevolezza.
Questo è desiderio innato, inerente, indivisibile dalla natura non solo dell'uomo, ma di ogni altro vivente, perchè è necessaria conseguenza dell'amor proprio, il quale è necessaria conseguenza della vita.
Ma non prova che la facoltà di amare sia infinita nell'uomo: e così il desiderio infinito di conoscere non prova che la sua facoltà di conoscere sia infinita: prova solamente che il suo amor proprio è illimitato o infinito.
E infatti come si potrà dire che la facoltà nostra di conoscere o di amare sia infinita? - Ma noi possiamo conoscere un Bene infinito ed amarlo.
Bisognerebbe che lo potessimo conoscere infinitamente ed amare infinitamente.
Allora la conseguenza sarebbe in regola.
Ma non lo possiamo nè conoscere nè amare, se non imperfettissimamente.
Dunque la nostra cognizione e il nostro amore, benchè cadano sopra un Essere infinito, non sono infinite, nè possono mai [390]essere.
Dunque le nostre facoltà di conoscere e di amare sono essenzialmente ed effettivamente limitate come la facoltà di agire fisicamente, perchè non sono capaci nè di cognizione nè di amore infinito, nè in numero nè in misura, come non siamo capaci di azione infinita fisica.
(E se noi avessimo delle facoltà precisamente infinite, la nostra essenza si confonderebbe con quella di Dio).
Dunque il nostro desiderio infinito di conoscere (cioè concepire), e di amare, non può esser mai soddisfatto dalla realtà, ossia da questo, che la nostra facoltà di conoscere e di amare possieda realmente un oggetto infinito in quanto è infinito, e in quanto si possa mai possedere (altrimenti la possessione non sarebbe infinita): ma solamente può esser soddisfatto dalle illusioni (o false concezioni, o false persuasioni di conoscenza e di amore, e di possesso e godimento) e dalle distrazioni ovvero occupazioni (v.
p.168.
172-173.175.
ivi, fine-176.
principio): due grandi istrumenti adoperati dalla natura per la nostra felicità.
(8.
Dicembre.
1820.).
L'immaginarsi di essere il primo ente della natura e che il mondo sia fatto per noi, è una conseguenza naturale dell'amor proprio necessariamente coesistente con noi, e necessariamente illimitato.
Onde è naturale che ciascuna specie d'animali s'immagini, se non chiaramente, certo confusamente e fondamentalmente la stessa cosa.
Questo accade nelle specie o generi rispetto agli altri generi o specie.
Ma proporzionatamente lo vediamo accadere anche negl'individui, riguardo, non solo alle altre specie o generi, ma agli altri individui della medesima specie.
[391]Il bene non è assoluto ma relativo.
Non è assoluto nè primariamente o assolutamente nè secondariamente o relativamente.
Non assolutamente perchè la natura delle cose poteva esser tutt'altra da quella che è; non relativamente, perchè in questa medesima natura tal qual esiste, quello ch'è bene per questa cosa non è bene per quella, quello che è male per questa è bene per quell'altra, cioè gli conviene.
La convenienza è quella che costituisce il bene.
L'idea astratta della convenienza si può credere la sola idea assoluta, e la sola base delle cose in qualunque ordine e natura.
Ma l'idea concreta di essa convenienza è relativa.
Non si può dunque dire che un essere sia più buono di un altro, cioè abbia o contenga maggior quantità o somma di bene, perchè il bene non è bene se non in quanto conviene alla natura degli esseri rispettivi.
Solamente, questo si può dire degl'individui rispetto agli altri individui della stessa specie.
Ogni specie dunque, ed ogni individuo in quanto è conforme alla natura della sua specie, è perfetto, e possiede la perfezione: (perfezione relativa, ma non essendoci perfezione assoluta, cioè tipo di perfezione, nessun essere o specie è più perfetta di un'altra) possiede tutto il bene che è bene per [392]lui, perchè il resto non sarebbe bene: è tanto buono quanto può essere, perchè per lui non c'è buono fuori della sua natura; anzi fuori di questa, tutto è per lui cattivo, perchè non c'è bene assoluto.
Tutto ciò tanto nel fisico che nel morale.
(8.
Dicembre.
1820.).
Questo io credo che sia il sistema (Leibniziano se non erro) dell'Ottimismo.
Oltre il progresso dei lumi esatti; dello studio e imitazione degli esemplari tanto nazionali che antichi; della regolarità della lingua, dello scrivere e della poesia ridotti ad arte ec.
un'altra gran cagione dell'estinguersi che fece subitamente l'originalità vera e la facoltà creatrice nella letteratura italiana, originalità finita con Dante e il Petrarca, cioè subito dopo la nascita di essa letteratura, può essere l'estinzione della libertà, e il passaggio dalla forma repubblicana, alla monarchica, la quale costringe lo spirito impedito, e scacciato o limitato nelle idee e nelle cose, a rivolgersi alle parole.
Il cinquecento fu, si può dir, tutto monarchico in Italia e fuori, quanto al governo.
E le lettere italiane risorsero dal sonno del quattrocento, sotto Cosimo e Lorenzo de' Medici fondatori della monarchia toscana e distruttori di quella repubblica.
E in questo risorgimento (come poi sotto Leon X.) le lettere presero una forma regolare, una forma tutta diversa da quella del trecento, e (quel che è più) da quella che sogliono sempre prendere nel loro risorgimento [393]o nascere.
La letteratura italiana non è stata più propriamente originale e inventiva.
L'Alfieri è un'eccezione, dovuta al suo spirito libero, e contrario a quello del tempo, e alla natura de' governi sotto cui visse.
(8.
Dicembre.
1820.).
A quello che ho detto p.175.
fine- 176.
principio, riferisci quello che ho detto p.153.
capoverso primo.
I fanciulli parlano ad alta voce da se delle cose che faranno, delle speranze che hanno, si raccontano le cose che hanno fatte, vedute ec.
o che loro sono accadute, si lodano, si compiacciono, predicano ed ammirano ad alta voce le cose che fanno, e non v'è per loro tanta solitudine ed inazione materiale, che non sia piena società conversazione, ed azione spirituale; società ed azione non languida nè passeggera, ma energica, presente, simile al vero, accompagnata anche da gesti e movimenti fisici d'ogni sorta, durevole ed inesauribile.
(9.
Dic.
1820.)
Il mio sistema intorno alle cose ed agli uomini, e l'attribuir ch'io fo tutto o quasi tutto alla natura, e pochissimo o nulla alla ragione, ossia all'opera dell'uomo o della creatura, non si oppone al Cristianesimo.
1° La natura è lo stesso che Dio.
Quanto più attribuisco alla natura, tanto più a Dio: quanto più tolgo alla ragione, tanto più alla creatura.
Quanto più [394]esalto e predico la natura, tanto più Dio.
Stimando perfetta l'opera della natura, stimo perfetta quella di Dio; condanno la presunzione dell'uomo di perfezionar egli l'opera del creatore; asserisco che qualunque alterazione fatta all'opera tal qual è uscita dalle mani di Dio non può esser altro che corruzione.
Laddove coloro che si credono più amici della religione; attribuendo tutto o quasi tutto alla ragione, fanno dipendere la massima e principal parte dell'ordine umano ed universale, dalle facoltà della creatura.
Sostenendo la perfettibilità dell'uomo, sostengono che l'opera della natura, cioè di Dio, era imperfetta; che l'uomo può essere perfezionato non già da Dio, ma da se stesso; che per conseguenza la perfezione o felicità della prima delle creature terrestri derivi e debba derivare da essa e non da Dio.
2° Io ammetto anzi sostengo la corruzione dell'uomo, e il suo decadimento dallo stato primitivo, stato di felicità; come appunto fa il Cristianesimo.
S'io dico che l'uomo fu corrotto dall'abuso della ragione, dal sapere, e dalla società, questi sono i mezzi, o le cagioni secondarie della corruzione, e non tolgono che la causa originale non sia stata il peccato.
Io non credo che nessuna vera e soda ragion di fede provi la scienza infusa in Adamo.
S'egli ebbe subito un linguaggio, si può stimare, ed è ben verosimile che n'abbiano anche le bestie per servire a [395]quella tal società di cui abbisognano; a quella che sarebbe convenuta anche all'uomo nello stato primitivo, come conviene alle bestie che sono ancora in esso stato; a quella che Dio volle indicare (e non altro) quando disse: Non est bonum esse hominem solum: faciamus ei adiutorium simile sibi (Gen.
2.18.); a quella della quale ho detto bastantemente altrove.
E contuttociò le bestie non hanno scienza infusa, e dalla Genesi non risulta niente di questo, riguardo ad Adamo, anzi il contrario.
Giacchè qualunque cosa si voglia intendere per l'albero della scienza del bene e del male, è certo che il solo comando che Dio diede all'uomo dopo averlo posto in paradiso voluptatis (Gen.
c.2.
v.8.15.23.24.) (s'intende voluttà e felicità terrena, contro quello che si vuol sostenere, che all'uomo non sia destinata naturalmente se non se una felicità spirituale e d'un'altra vita), fu De ligno autem scientiae honi et mali ne comedas, in quocumque enim die comederis ex eo, morte morieris (Gen.
2.17.).
Non è questo un interdir chiaramente all'uomo il sapere? un voler porre soprattutte le altre cose (giacchè questo fu il solo comando o divieto) un ostacolo agl'incrementi della ragione, come quella che Dio conosceva essere per sua natura e dover essere la distruttrice della felicità, e vera perfezione [396]di quella tal creatura, tal quale egli l'aveva fatta, e in quanto era così fatta? Il serpente disse alla donna Scit enim Deus quod in quocumque die comederitis ex eo, aperientur oculi vestri, et eritis sicut dii, scientes bonum et malum.
(Gen.
3.5.) In maniera che la sola prova a cui Dio volle esporre la prima delle sue creature terrestri, per donargli quella felicità che gli era destinata, fu appunto ed evidentemente il vedere s'egli avrebbe saputo contenere la sua ragione, ed astenersi da quella scienza, da quella cognizione, in cui pretendono che consista, e da cui vogliono che dipenda la felicità umana: fu appunto il vedere s'egli avrebbe saputo conservarsi quella felicità che gli era destinata, e vincere il solo ostacolo o pericolo che allora se le opponesse, cioè quello della ragione e del sapere.
Questa fu la prova a cui Dio volle assoggettar l'uomo, se bene lo fece in un modo o materiale, o misterioso.
Di che cosa poi si trattava [?] È egli assurdo o cattivo per sua natura il desiderio di conoscere e discernere il bene ed il male? (che in somma è quanto dire la cognizione) Secondo voi altri apologisti della Religione, non è.
Ma all'autor della Religione parve che fosse, perchè l'uomo già sapeva abbastanza per natura, cioè per opera propria, immediata e primitiva di Dio, tutto ciò che gli conveniva sapere.
La colpa dell'uomo fu volerlo sapere per opera sua, cioè non [397]più per natura, ma per ragione, e conseguentemente saper più di quello che gli conveniva, cioè entrare colle sue proprie facoltà nei campi dello scibile, e quindi non dipendendo più dalle leggi della sua natura nella cognizione, scoprir quello, che alle leggi della sua natura, era contrario che si scoprisse.
Questo e non altro fu il peccato di superbia che gli scrittori sacri rimproverano ai nostri primi padri; peccato di superbia nell'aver voluto sapere quello che non dovevano, e impiegare alla cognizione, un mezzo e un'opera propria, cioè la ragione, in luogo dell'istinto, ch'era un mezzo e un'azione immediata di Dio: peccato di superbia che a me pare che sia rinnuovato precisamente da chi sostiene la perfettibilità dell'uomo.
I primi padri finalmente peccarono appunto per aver sognata questa perfettibilità, e cercata questa perfezione fattizia, ossia derivata da essi.
Il loro peccato, la loro superbia, non consiste in altro che nella ragione: ragione assoluta: ragione, parlando assolutamente, non male adoperata, giacchè non cercava se non la scienza del bene e del male.
Or questo appunto fu peccato e superbia.
Condannato ch'ebbe la donna e l'uomo, disse Iddio: Ecce Adam quasi unus ex nobis factus [398]est, sciens bonum et malum.
(Gen.
3.22.) E non aggiunse altro in questo proposito.
Dunque egli non tolse alla ragione umana quell'incremento che l'uomo indebitamente gli aveva proccurato.
Dunque l'uomo restò veramente simile a Dio per la ragione, restò più sapiente assai di quando era stato creato.
Dunque il decadimento dell'uomo, non consistè nel decadimento della ragione, anzi nell'incremento.
V.
p.433.
capoverso 1.
E sebben l'uomo ottenne precisamente quello che il serpente aveva promesso ad Eva, cioè la scienza del bene e del male, non però questa accrebbe la sua felicità, anzi la distrusse.
Questi mi paiono discorsi concludenti, e raziocini non istiracchiati ma solidi, e dedotti naturalmente e da dedursi dalle parole e dallo spirito bene inteso della narrazione Mosaica, e se ne può efficacemente concludere che lo spirito di questa narrazione, è di attribuire formalmente la corruzione e decadenza dell'uomo all'aumento della sua ragione, e all'acquisto della sapienza; considerar come corruttrice dell'uomo la ragione e il sapere: cioè come mezzi espressi di corruzione, perchè la causa primaria fu la disubbidienza, ma la disubbidienza a un divieto che proibiva appunto all'uomo di proccurarsi e di rendere efficaci questi mezzi di corruzione e d'infelicità.
[399]3° Avanti il peccato, ossia avanti il sapere, erat autem uterque nudus, Adam scilicet et uxor eius, et non erubescebant.
(Gen.
2.25.) Ma come prima Adamo ebbe mangiato del frutto, ET APERTI SUNT OCULI AMBORUM: cumque COGNOVISSENT se esse nudos, consuerunt folia ficus et fecerunt sibi perizomata.
(3.7.) E Dio disse loro: QUIS enim INDICAVIT TIBI quod nudus esses, nisi quod ex ligno de quo praeceperam tibi ne comederes, comedisti? (3.11.) Questi luoghi suggerirebbero vaste osservazioni sulla legge naturale, pretesa innata.
In sostanza è chiaro 1.
che la decadenza dell'uomo consistè nella decadenza dallo stato naturale o primitivo, giacchè subito dopo il peccato l'uomo provò una contraddizione colla sua natura, vergognandosi della nudità, ossia del modo nel quale era stato fatto: vergogna, e per conseguente dovere, che non esisteva innanzi alla corruzone.
2.
Che questa decadenza o corruzione in luogo di consistere in quella della ragione, fu anzi cagionata dal sapere, giacchè l'uomo allora seppe quello che prima non sapeva, e non avrebbe saputo nè dovuto sapere, cioè di esser nudo.
Quando aprirono gli occhi, come dice la Genesi, allora conobbero di esser nudi, e si vergognarono della loro natura (contro quello che prima era [400]avvenuto); e decaddero dallo stato naturale, o si corruppero.
Dunque l'aprir gli occhi, dunque il conoscere fu lo stesso che decadere o corrompersi; dunque questa decadenza fu decadenza di natura, non di ragione o di cognizione.
3.
Che l'uomo naturale sarebbe vissuto come gli altri animali senza vestimenti.
Questo è un gran colpo, tanto alla pretesa legge di natura, ingenita ed essenziale: quanto alla pretesa necessità, o naturale o primordiale e sostanziale disposizione dell'uomo alla società.
Una gran parte del bisogno che l'uomo ha dell'aiuto scambievole, che il bambino ha per lungo tempo de' genitori, consiste ne' vestimenti.
Di più, una gran parte del bisogno che l'uomo ha di una certa arte, di un certo uso della sua ragione, consiste nel bisogno de' vestimenti.
4° Quanto alla società, non quella primitiva, e tenue e comune anche agli animali, che ho definita di sopra, ma quella intera, e bisognosa di leggi, di costumi, di riti, di potere e sudditi, di comando e ubbidienza ec.
ec.
vedi quello che ne pensi la religion Cristiana p.112.
capoverso 1.191.
capoverso 2.
5° La descrizione che fa Mosè del paradiso terrestre, prova che i piaceri destinati all'uomo naturale in questa vita, erano piaceri di questa vita, materiali, sensibili, [401]e corporali, e così per tanto la felicità.
Oltracciò Dio pose Adamo in paradiso voluptatis ut OPERARETUR et custodiret illum.
(2.15.) Dunque sebben l'uomo fu condannato dopo il peccato a lavorar la terra maledetta nell'opera di esso, (3.17.) e scacciato dal paradiso di voluttà (3.23.) ut operaretur terram de qua sumptus est (ib.), si deve intendere a lavorarla con sudore, e con ingratitudine d'essa terra, secondo il contesto della Genesi, e non che la sua vita avanti il peccato, e la sua felicità dovesse consistere nella contemplazione, ed essere inattiva, ossia senza opere e occupazioni corporali ed esterne, e piacere di queste opere.
Infatti chi non vede che l'uomo corrotto, ossia l'uomo tal qual è oggi ha molto più bisogni degli altri viventi, molto più ostacoli a proccurarsi il necessario, e quindi ha mestieri di molto più fatica per la sua conservazione? Fatica di stento, comandata dalla ragione e dalla necessità, ma ripugnante alla natura: fatica non piacevole ec.
Laddove gli altri animali con poca fatica, e quasi nessuno stento si procacciano il bisognevole; non lavorano la terra, nè questa produce loro spinas et tribulos, (3.18.) cioè non contrasta ai loro desideri, ma somministra loro il necessario spontaneamente; ed essi raccolgono e non [402]seminano.
Intendo parlare di qualunque cibo del quale si pascano.
Del vestire, l'uomo abbisogna nello stato presente, essi no, ma nascono vestiti dalla natura.
La società primitiva qual è usata anche dagli animali; il raziocinio primitivo, ossia il principio di cognizione comune a tutti gli esseri capaci di scelta, erano destinati a supplire ai bisogni dell'uomo.
La società qual è, la ragione qual è ridotta, accresce smisuratamente questi bisogni: il mezzo di servire ai bisogni e di estinguerli, è divenuto padre, e cagione, e fonte perenne e abbondantissima di bisogni.
I bisogni naturali dell'uomo sarebbero pochissimi, come quelli degli altri anmali; ma la società e la ragione aumentano il numero e la misura de' suoi bisogni eccessivamente.
Questa distinzione fra' bisogni naturali, e sociali o fattizi, e nonpertanto inevitabili nel nostro stato, formava il fondamento della setta Cinica, la quale si prefiggeva di mostrare col fatto, di quanto poco abbisogni l'uomo naturalmente.
V.
l'epitaffio di Diogene nel Laerzio.
L'uomo fu dunque veramente condannato alla fatica, e fatica di stento; vi fu condannato a differenza degli altri animali; ed essendovi stato condannato sotto l'aspetto che ho esposto, non ne segue che la sua vita innanzi la corruzione dovesse essere inattiva, cioè dovesse [403]contenere meno attività ed occupazione fisica, di quello che ne contenga la vita degli altri animali.
6° Se la Religione ha poi divinizzato la ragione e il sapere; dato la preferenza allo spirito sopra i sensi; fatto consistere la perfezione dell'uomo nella ragione a differenza dei bruti; e in somma dato alla ragione il primato nell'uomo sopra la natura: tutto ciò non si oppone al mio sistema.
L'uomo era corrotto, cioè, come ho dimostrato, la ragione aveva preso il disopra sulla natura: e quindi l'uomo era divenuto sociale: quindi l'uomo era divenuto infelice, perchè prevalendo la ragione, la sua natura primitiva era alterata e guasta, ed egli era, decaduto dalla sua perfezione primigenia, la quale non consisteva in altro che nella sua essenza o condizione propria e primordiale.
Da questo stato di corruzione, l'esperienza prova che l'uomo non può tornare indietro senza un miracolo: lo prova anche la ragione, perchè quello che si è imparato non si dimentica.
In fatti la storia dell'uomo non presenta altro che un passaggio continuo da un grado di civiltà ad un altro, poi all'eccesso di civiltà, e finalmente alla barbarie, e poi da capo.
Barbarie, s'intende, di corruzione, non già stato primitivo [404]assolutamente e naturale, giacchè questo non sarebbe barbarie.
Ma la storia non ci presenta mai l'uomo in questo stato preciso.
Bensì ci dimostra che l'uomo tal quale è ridotto, non può godere maggior felicità che in uno stato di civiltà media, dove prevalga la natura, quanto è compatibile colla sua ragione già radicata in un posto più alto del primitivo.
Questo stato non è il naturale assoluto, ma è quello stabilito appresso a poco dalla religione, come dirò poi.
Lo stato naturale assoluto non poteva dunque tornare senza un miracolo.
Il discorso de' miracoli, è sopraumano, e non entra in filosofia.
Perchè dunque l'uomo corrotto com'è, non abbia mai ricuperato nè sia per ricuperare lo stato puramente naturale, e la felicità di cui godono tutti gli altri esseri, rimane, colla detta ragione, spiegato in filosofia.
In religione anche meglio; perchè Dio in pena del peccato, avendo condannato l'uomo all'infelicità della corruzione derivata da esso peccato, non voleva nè doveva fare questo miracolo.
Volendo mostrargli la sua misericordia, e dare al suo stato una perfezione compatibile colla sua condanna, cioè colla sua infelicità, non restava altro che perfezionare la sua ragione, cioè quella parte che aveva prevaluto immutabilmente nell'uomo [405]per la sua disubbidienza, e con ciò causata la sua corruzione.
La perfezion della ragione non è la perfezione dell'uomo assolutamente, ma bensì dell'uomo tal qual è dopo la corruzione.
Perchè la perfezione di un essere non è altro che l'intiera conformità colla sua essenza primigenia.
Ora l'essenza primigenia dell'uomo supponeva e conteneva l'ubbidienza della ragione, in somma tutto l'opposto della perfezion della ragione.
Questa perfezione dunque non poteva essere la sua felicità in questa vita, non essendo la perfezione dell'ente.
Non poteva dunque se non formare la sua felicità in un'altra vita, dove la natura dell'ente in certo modo si cambiasse.
La ragione (massime relativamente all'altra vita) non può essere perfezionata se non dalla rivelazione.
Fu dunque necessario che Dio rivelasse all'uomo la sua origine, e i suoi destini; quei destini che avrebbe conseguiti rimanendo nello stato naturale, e gli avrebbe conseguiti insieme colla felicità terrena.
Laddove il Cristianesimo chiama beato chi piange, predica i patimenti, li rende utili e necessari; in una parola suppone essenzialmente l'infelicità di questa vita, per conseguenza [406]naturale degli addotti principj.
Ma da questi segue ancora che la maggior felicità possibile dell'uomo in questa vita, ossia il maggior conforto possibile, e il più vero ed intero, all'infelicità naturale, è la religione.
Perchè (riassumendo il discorso) la perfezione primitiva o umana assolutamente, e quindi la felicità naturale, e quindi la felicità temporale, è impossibile all'uomo dopo la corruzione.
La ragione autrice di essa corruzione, avendo prevaluto per sempre, il miglior grado dell'uomo corrotto è la perfezione di essa ragione, che forma oggi la sua parte principale.
La perfezion della ragione non può condurre se non alla felicità di un'altra vita.
Quindi, e anche senza ciò, la perfezion della ragione e della cognizione, non può stare senza la rivelazione.
Dunque il migliore stato dell'uomo corrotto, è la Religione, e siccome è il migliore, cioè quello che più gli conviene, perciò, sebben suppone l'infelicità di questa vita, contiene però il maggior conforto, e quindi la maggior felicità, e quindi la maggior perfezione possibile dell'uomo in questa vita.
Ecco come la Religione si accorda mirabilmente col mio sistema, e quasi ne riceve una nuova prova.
[407]7° La perfezion della ragione consiste in conoscere la sua propria insufficienza a felicitarci, anzi l'opposizione intrinseca ch'ella ha colla nostra felicità.
V.
p.304.
capoverso 2.
Questa è tutta la perfettibilità dell'uomo, conoscersi incapace affatto a perfezionarsi, anzi ch'essendo egli uscito perfetto sostanzialmente dalle mani della natura, alterandosi non può altro che guastarsi.
Ora la Religione confonde appunto la nostra ragione, gli mostra la sua insufficienza, la corruttela che ha introdotto nell'uomo, e l'impossibilità ch'ell'ha di felicitarci: ed ecco la perfezion della ragione.
Perchè queste cose l'uomo non le avrebbe conosciute nel suo stato primitivo, ma prevaluta la ragione, egli non può giungere a maggior perfezione che di conoscere l'impotenza e il danno della ragione.
La perfezion della ragione consiste a richiamar l'uomo quanto è possibile al suo stato naturale; ritorno ch'essendo fatto mediante quella ragione stessa che ha corrotto l'uomo, ed avendo il suo fondamento in questa medesima corruttrice, non può più equivalere allo stato naturale, nè per conseguenza alla nostra perfezion primitiva, nè quindi proccurarci quella felicità che ci era destinata.
Ma contuttociò, riguardo a questa vita, è la miglior condizione che l'uomo possa sperare.
Ed ecco che la Religione favorisce infinitamente [408]la natura, come ho detto in parecchi altri luoghi, stabilisce moltissime di quelle qualità ch'eran proprie degli uomini antichi o più vicini alla natura, appaga la nostra immaginazione coll'idea dell'infinito, predica l'eroismo, dà vita, corpo, ragione e fondamento a mille di quelle illusioni che costituiscono lo stato di civiltà media, il più felice stato dell'uomo sociale e corrotto insanabilmente, stato dove si concede tanto alla natura, quanto è compatibile colla società.
Osservate infatti che lo stato di un popolo Cristiano, è precisamente lo stato di un popolo mezzanamente civile.
Vita, attività, piaceri della vita domestica, eroismo, sacrifizi, amor pubblico, fedeltà privata e pubblica degl'individui e delle nazioni, virtù pubbliche e private, importanza data alle cose, compassione e carità ec.
ec.
Tutte le illusioni che sublimavano gli antichi popoli, e sublimano il fanciullo e il giovane, acquistano vita e forza nel Cristianesimo.
Esempio della Spagna fino al 1820.
del suo eroismo contro i francesi ec.
Le sue stesse superstizioni non erano altro che illusioni, e però vita.
Osservate ancora che tutto quello che v'è di meno della civiltà media nello stato di un popolo, è contrario al Cristianesimo, o deriva da corruzione di esso, come nello stato de' bassi tempi, della Spagna ec.
Perchè il Cristianesimo puro, conduce, anzi equivale a una sufficiente e giusta civiltà, quanta nè più nè meno conviene all'uomo sociale.
D'altra parte osservate che nessun popolo al di qua della civiltà media, nessun popolo al di là, è stato mai cristiano, e viceversa nessun popolo cristiano veramente, è stato mai al [409]di qua nè al di là della civiltà media.
Le società o barbare assolutamente, o corrotte e barbare per corruzione, sono incivilite dal Cristianesimo, e portate al detto stato di civiltà media.
Esempio de' popoli barbari convertiti dalla predicazione del Vangelo.
All'opposto le società eccessivamente incivilite, e strettamente ragionevoli, (come anche gl'individui) non sono state mai cristiane.
Esempio de' nostri tempi.
In luogo delle qualità dette di sopra, i distintivi di queste società, sono l'egoismo, la morte, il tedio, l'indifferenza, l'inazione, la mala fede pubblica e privata, l'assenza di ogni eroismo, sacrifizio, virtù, di ogni illusione ispirata dalla natura nello stato primitivo, o sviluppatasi naturalmente nello stato sociale; di ogni illusione che forma la sostanza e la ragione della vita, e ch'essendo ispirata dalla natura è confermata dal Cristianesimo.
8° La detta perfezion della ragione è relativa a questa vita.
Ma la ragione non può esser perfetta se non è relativa all'altra vita.
Perchè quel richiamarci ch'ella deve fare alla natura, e alle illusioni naturali, essendo un richiamo fatto dalla ragione, non può esser altro che persuasione di esse illusioni.
Dopo ch'esse son conosciute, come ci torneremmo, se non [410]ci persuadessimo di nuovo che fossero vere? Un ritorno della ragione, non ragionato, ma solamente volontario, non può esser che vano, istabile e passeggero, come quello de' moderni filosofi sensibili, che cercando a più potere di riprendere le illusioni perdute, ci riescono, al più, momentaneamente, e del resto passano la vita nella freddezza, indifferenza e morte.
Dopo la cognizione pertanto, non possiamo tornare alle illusioni, cioè ripersuadercene, se non conoscendo che son vere.
Ma non son vere se non rispetto a Dio e ad un'altra vita.
Rispetto a Dio ch'è la virtù, la bellezza ec.
personificata; la virtù sostanza, e non fantasma, come nell'ordine delle cose create.
Rispetto a un'altra vita, dove la speranza sarà realizzata, la virtù e l'eroismo premiato ec.
dove insomma le illusioni non saranno più illusioni ma realtà.
Dunque la perfezion della ragione (tanto rispetto a questa come all'altra vita, perchè ho mostrato che la perfezione rispetto a questa vita dipende dalla perfezione rispetto all'altra) consiste formalmente nella cognizione di un altro mondo.
In questa cognizione dunque consiste la perfezione, e quindi la felicità dell'uomo corrotto.
Dunque l'uomo corrotto non poteva esser perfezionato nè felicitato se non dalla rivelazione, ossia dalla Religione.
Ed ecco strettamente [411]dimostrato e dichiarato come all'uomo corrotto sia necessaria quella cognizione, ch'era contraria alla natura dell'uomo primitivo; e come il Cristianesimo divinizzando la ragione e il sapere, non si opponga al mio sistema che divinizza la natura nemica della ragione e del sapere.
9° L'esperienza conferma che l'uomo qual è ridotto, non può esser felice sodamente e durevolmente (quanto può esserlo quaggiù) se non in uno stato (ma veramente) religioso, cioè che dia un corpo e una verità alle illusioni, senza le quali non c'è felicità, ma ch'essendo conosciute dalla ragione, non possono più parer vere all'uomo, come paiono agli altri viventi, se non per la relazione e il fondamento e la realtà che si suppongano avere in un'altra vita.
A questo effetto contribuirono anche le Religioni antiche, il Maomettismo, le sette d'ogni genere, e tutte quelle opinioni che hanno dato vita a un popolo o ad una società, e indottala ad operare.
Riferite a questo tutto quello che ho detto altrove della necessità di una persuasone per condurre alle azioni, e di una persuasione che abbia l'aspetto d'illusione e di passione, ec.
Giacchè la persuasione che tutto sia nullo, non conduce all'azione.
E la persuasione che le cose sieno cose, non può [412]aver fondamento nè ragione, se non se nell'idea e persuasione di un'altra vita.
Ma questa ci deve persuadere: dunque bisogna che la religione ci persuada, e non si può essere indifferenti circa la sua qualità e verità.
Altrimenti se la Religione si considera e si segue come una delle altre illusioni, questa non sarà più persuasione, e tanto le altre illusioni, quanto questa, mancheranno di nuovo del loro fondamento, e non ci potranno quindi condurre all'azione durevole, alla perfezione, alla felicità.
Ecco perchè la Religione si trova presso la culla di tutti i popoli; ecco perchè gl'imperi o stati fondati o conservati dalle opinioni religiose, sono distrutti dalla filosofia; ecco perchè la decadenza di Roma fu compagna della decadenza della sua Religione ec.
ec.
V.
gli altri pensieri.
Perchè indebolendoo mancando le credenze Religiose, indebolisce, o manca il principio di azione, cioè la credenza alle illusioni, o sia la persuasione della realtà delle cose, le quali non possono essere reali ed importanti se non rispetto ad un'altra vita.
E nello stesso modo, mancando quella tal Religione che realizza quelle tali illusioni, manca quel tale stato di un popolo, e la sostituzione di un'altra Religione, non riconduce quello stesso stato, anzi lo cambia.
E così avvenne del Cristianesimo rispetto al paganesimo in Roma.
Perchè l'uomo credendo [413](non dico conoscendo ma credendo) diversamente, opera diversamente.
Quindi resta giustificata anzi lodata la gelosia che gli antichi politici greci e Romani manifestarono sempre per le loro antiche credenze, colle quali doveva mancare e mancò il loro stato.
10° Dal sopraddetto segue che il Cristianesimo non prova che la verità assoluta non sia indifferente per l'uomo, non prova che la felicità dell'uomo consista nel conoscere.
Col prevaler della ragione e del sapere, l'uomo non potendo più credere quello che credeva naturalmente, bisognava ch'egli tornasse a crederlo mediante questa medesima ragione e questo sapere che non si poteva più estinguere.
La cognizione del vero gli era dunque necessaria, non come indirizzata al vero, ma come solo fonte di quella credenza che gli bisognava per riacquistare quella felicità che la stessa cognizione gli avea tolta.
Verità o errore, bastava ed importava solamente che l'uomo credesse quelle cose, senza le quali non poteva esser felice.
Ma l'errore l'avrebbe potuto credere stabilmente nello stato naturale, nello stato di ragione, non poteva credere stabilmente altro che il vero.
Bisognava dunque ch'egli trovasse verità reali in quelle opinioni e in [414]quei giudizi che formano e servono di base alla vita umana.
Ma queste opinioni e giudizi, non poteva trovarli realmente veri, se non supposta una Religione, e una Religion vera, cioè universalmente e stabilmente credibile.
Ecco dunque come la ragione non poteva condurre alla felicità senza la rivelazione.
La verità non era necessaria all'uomo in quanto verità, ma in quanto stabile credibilità.
Ora la verità sola è stabilmente credibile nello stato di ragione e di sapere.
E l'uomo senza credenza stabile, non ha stabile motivo di determinarsi, quindi di agire, quindi di vivere.
Ma siccome la verità era necessaria all'uomo, soltanto come unico fondamento di quelle credenze che sono necessarie alla sua vita, perciò tutta quella parte di verità che non serve di fondamento a queste credenze, è indifferente all'uomo, anzi nociva, anche nello stato presente di corruzione.
Al contrario di quello che accadrebbe se la felicità dell'uomo o naturale o corrotto dovesse necessariamente consistere nella cognizione assoluta; il cui oggetto essendo la verità assolutamente, nessuna minima verità sarebbe indifferente all'uomo, e l'uomo sarebbe infelice finchè non avesse conosciuta tutta la generale e particolare estensione della verità, perch'egli prima di questo punto, non sarebbe arrivato alla [415]sua perfezione.
Al qual punto però gli è formalmente impossibile di arrivare, come ho detto altrove.
V.
p.385-386.
e p.389-390.
Dove che la Religione, avendo insegnato all'uomo quelle verità che realizzano le credenze necessarie alla sua felicità, non solo non insegna, o suppone le altre verità, ma anzi, come ho detto di sopra, e come prova l'esperienza, non c'è maggior nemico della Religione che un secolo pieno di cognizioni.
E la Religion Cristiana si adatta e si deve adattare alla capacità dell'ignorante, e conviene, anzi trova il suo miglior posto nell'ignoranza delle altre verità.
Le quali anche astraendo dalla religione, pregiudicano alla felicità dell'uomo, quantunque già ragionevole, perchè non sono altro che un'estensione di questa ragione e sapere che distruggono la umana felicità, e un più vasto eccidio di quelle opinioni e illusioni parziali, che anche dopo prevaluta la ragione, possono esser credute stabilmente, se il sapere, l'esperienza ec.
non si applicano parzialmente a sradicarle, cioè finchè dura l'ignoranza parziale.
La quale può occupare maggiore o minore spazio, e quanto più ne occupa tanto più l'uomo è felice.
P.e.
le scoperte geografiche sono indifferenti alla religione.
Ma geometrizzando l'idea del mondo, distruggono quelle belle illusioni che ancora restavano a causa dell'ignoranza parziale intorno a questo capo.
[416]E la perfezione della ragione non consiste nella cognizione di queste verità, perchè non consiste nella cognizione della verità in quanto verità, ma in quanto stabile fondamento delle credenze necessarie o utili alla vita.
E ci deve richiamare alla natura o alla felicità naturale per una strada diversa dalla primitiva, la quale è irrevocabilmente perduta.
Ora se alcune delle dette credenze hanno già un fondamento stabile nell'ignoranza parziale, la ragione e il sapere, distruggendole nuocono alla nostra felicità, e non corrispondono alla loro perfezione la quale consiste in richiamarci alla natura.
Laddove scoprendo queste verità parziali ch'erano stabilmente nascoste, ci allontanano maggiormente dalla natura, e quindi dalla felicità.
V.
p.420.
capoverso 1.
11° Il mio sistema non si fonda sul Cristianesimo, ma si accorda con lui, sicchè tutto il fin qui detto suppone essenzialmente la verità reale del Cristianesimo: ma tolta questa supposizione il mio sistema resta intatto.
Frattanto osserverò che il Cristianesimo legandosi col mio sistema può supplire a spiegare quella parte della natura delle cose che nel mio sistema resta intatta, ovvero oscura e difficile.
1.
L'origine del mondo e dell'uomo, che [417]mediante il Cristianesimo resta spiegata colla creazione.
2.
Col Cristianesimo resta spiegato perchè l'uomo sia così facile a perdere il suo stato primitivo, e non si trovi, si può dir, popolo nè individuo che perfettamente conservi questo stato, ch'io predico pel solo perfetto, felice, destinatogli, e proprio suo: laddove tutti gli altri viventi appresso a poco (escluse alcune cause accidentali, e provenienti per lo più dall'uomo) conservano il loro primo stato.
(Sebbene si potrebbero forse addurre parecchi esempi di nazioni che conservano quasi interamente lo stato naturale, e ne sono felici e contente: nè hanno se non quanta società conviene ai loro bisogni, come ne hanno gli animali; peraltro con quel di più che conviene alla nostra specie, a causa dell'organizzazione, specialmente riguardo agli organi della favella.
Anche gli animali hanno più o meno società, proporzionatamente alla natura rispettiva, e le scimie più degli altri, perchè più si accostano alla nostra organizzazione).
Questo fenomeno si può naturalmente spiegare colla diversità dell'organizzazione, la quale in noi è tale che ci dà somma facilità di sperimentare, e quindi conoscere, e quindi alterare il nostro primo stato: giacchè l'esperienza è la sola madre della cognizione [418]e del sapere, come anche delle immaginazioni determinate (non della facoltà immaginativa): e questo in tutti i viventi: essendo riconosciute per favola le idee assolutamente innate.
Così forse anche la nostra diversa organizzazione interna, come del cervello ec.
Ma da questa spiegazione si potrebbe conchiudere che l'uomo dunque, in vece d'essere il primo degli enti nell'ordine delle cose terrestri, è anzi l'infimo, perch'è il più facile a perdere la sua felicità, ossia la perfezione; e quasi impossibilitato a conservarla.
(Questa conseguenza già non sarebbe assurda se non per chi si forma della perfezione un'idea assoluta, ossia considera la perfezione assolutamente secondo le nostre idee nello stato presente.
Chi considera la perfezione e ogni altra cosa come relativa, non avrebbe difficoltà di creder l'uomo l'infimo degli enti terrestri).
Il Cristianesimo spiega chiaramente perchè la ragione e il sapere corruttori dell'uomo, siano in lui così facili a prevalere, giacchè attribuisce la cagione originale e radicale della sua corruzione, al peccato, il quale introdusse lo squilibrio fra la ragione e la natura sua, ragione e natura ottimamente equilibrate o subordinate l'una all'altra, insomma combinate negli altri esseri viventi.
Ed è ben conforme alla ragione, e ben verisimile il supporre che Dio volendo manifestare la sua misericordia e tutta la sua gloria alla terra, e avendo scelto [419]di farlo, com'era naturale, nella più nobile delle creature terrestri, abbia voluto assoggettarla ad una prova, e permettere la sua corruzione e infelicità temporale, la quale ha dato luogo a tutta quella manifestazion di Dio, ch'è seguita dall'incremento della ragione umana, alla Redenzione ec.
Manifestazione che non avrebbe avuto luogo se l'uomo avesse conservato il suo grado e felicità naturale, ancorchè più perfetto, relativamente alla sua natura.
Questa supposizione è conforme non solo alla ragione, ma espressamente al Cristianesimo, il quale insegna (e non può altrimenti) che Dio permise il peccato dell'uomo per sua maggior gloria.
Ora, secondo lo stesso Cristianesimo, era certamente meglio che l'uomo non peccasse: ed egli sarebbe rimasto più perfetto e più buono non peccando, e non corrompendosi, e questo gli era destinato primordialmente.
Eppure Iddio permise che peccasse.
Dunque secondo lo stesso Cristianesimo, Dio permise un effettivo male, per un bene: permise una cosa contraria alla destinazione dell'uomo.
Dunque questa destinazione era meno atta alla gloria di Dio, secondo i suoi misteriosi giudizi.
[420]Altrimenti Dio avrebbe permesso un male (e sommo male qual è il peccato) senza motivo: avrebbe lasciato violare e guastare l'ordine da lui stabilito senza motivo; e non avrebbe fatto il meglio ma il peggio.
Così il Cristianesimo aiuta il mio sistema riempiendone le necessarie lagune nelle cose dove non arriva il nostro ragionamento: e di più l'appoggia precisamente; come apparisce dal sopraddetto, massime dalla esposizione di quei luoghi della Genesi, i quali somministrano una formale e stretta dimostrazion religiosa del punto principale del mio sistema, cioè che la corruzione e l'infelicità conseguente dell'uomo, è stata operata dalla ragione e dalla cognizione, (9-15.
Dic.
1820.) e consiste immediatamente nell'esso incremento loro.
Alla p.416.
L'ignoranza parziale può sussistere, come ho detto, anche nell'uomo alterato dalla ragione, anche nell'uomo ridotto in società.
Può dunque servire di stabile fondamento a un maggiore o minor numero di credenze naturali; dunque tener l'uomo più o meno vicino allo stato primitivo, dunque conservarlo più o meno felice.
Per [421]conseguenza quanto maggiore per estensione, e per profondità sarà questa ignoranza parziale, tanto più l'uomo sarà felice.
Questo è chiarissimo in fatto, per l'esperienza de' fanciulli, de' giovani, degl'ignoranti, de' selvaggi.
S'intende però un'ignoranza la quale serva di fondamento alle credenze, giudizi, errori, illusioni naturali, non a quegli errori che non sono primitivi e derivano da corruzione dell'uomo, o delle nazioni.
Altro è ignoranza naturale, altro ignoranza fattizia.
Altro gli errori ispirati dalla natura, e perciò convenienti all'uomo, e conducenti alla felicità; altro quelli fabbricati dall'uomo.
Questi non conducono alla felicità, anzi all'opposto, com'essendo un'alterazione del suo stato naturale, e come tutto quello che si oppone a esso stato.
Perciò le superstizioni, le barbarie ec.
non conducono alla felicità, ma all'infelicità.
V.
p.314.
Quindi è che dopo lo stato precisamente naturale, il più felice possibile in questa vita, è quello di una civiltà media, dove un certo equilibrio fra la ragione e la natura, una certa mezzana ignoranza, [422]mantengano quanto è possibile delle credenze ed errori naturali (e quindi costumi consuetudini ed azioni che ne derivano); ed escludano e scaccino gli errori artifiziali, almeno i più gravi, importanti, e barbarizzanti.
Tale appunto era lo stato degli antichi popoli colti, pieni perciò di vita, perchè tanto più vicini alla natura, e alla felicità naturale.
Le Religioni antiche pertanto (eccetto negli errori non naturali e perciò dannosi e barbari, i quali non erano in gran numero, nè gravissimi) conferivano senza dubbio alla felicità temporale molto più di quello che possa fare il Cristianesimo; perchè contenendo un maggior numero e più importante di credenze naturali, fondate sopra una più estesa e più profonda ignoranza, tenevano l'uomo più vicino allo stato naturale: erano insomma più conformi alla natura, e minor parte davano alla ragione.
(All'opposto la barbarie de' tempi bassi derivata da ignoranza non naturale ma di corruzione, non da ignoranza negativa ma positiva.
Questa non poteva conferire alla felicità, ma all'infelicità, allontanando maggiormente l'uomo dalla natura: se non in [423]quanto quell'ignoranza qualunque richiamava parte delle credenze e abitudini naturali, perchè la natura trionfa ordinariamente, facilmente, e naturalmente quando manca il suo maggiore ostacolo ch'è la scienza.
E però quella barbarie produceva una vita meno lontana dalla natura, e meno infelice, più attiva ec.
di quella che produce l'incivilimento non medio ma eccessivo del nostro secolo.
Del resto v.
in questo proposito p.162.
capoverso 1.
Tra la barbarie e la civiltà eccessiva non è dubbio che quella non sia più conforme alla natura, e meno infelice, quando non per altro, per la minor conoscenza della sua infelicità.
Del rimanente per lo stesso motivo della barbarie de' bassi tempi, è opposta alla felicità e natura, la barbarie e ignoranza degli Asiatici generalmente, barbareschi Affricani, Maomettani, persiani antichi dopo Ciro, sibariti, ec.
ec.
Così proporzionatamente quella della Spagna e simili più moderne ed europee.).
Ma il detto effetto delle antiche religioni non poteva durare, se non quanto durasse la credenza della verità reale di esse religioni: vale a dire, quanto durasse quella tal misura e profondità d'ignoranza che permettesse di credere veramente [424]e stabilmente dette religioni, e gli errori e illusioni naturali che vi erano fondate.
Prevalendo sempre più la ragione e il sapere, e scemando l'ignoranza parziale, quelle religioni più naturali e felici, ma perciò appunto più rozze, non potevano più esser credute, nè servire di fondamento a illusioni reali e stabili, alle azioni che ne derivano, e quindi alla felicità.
Le nazioni pertanto disingannandosi appoco appoco, perdevano colle illusioni ogni vita.
Bisognava richiamare quelle illusioni.
Ma come, se restavano e non potevano più allontanarsi la ragione e il sapere che le avevano distrutte, e la ragione e il sapere erano padroni dell'uomo? (qui osservate gl'inutili sforzi di Cicerone nelle Filippiche, dove si studiava di richiamare le illusioni come illusioni, non più come verità, perchè tali non erano più credute; e com'egli non avendo altro fondamento di esse illusioni, cercava di persuadersi dell'immortalità dell'anima, e del premio delle buone azioni nell'altra vita; insomma proccurava di farsi nuovamente una ragione delle illusioni col mezzo di una tal qual religione, e v.
gli altri pensieri).
Bisognava dunque richiamare quelle illusioni col consentimento, anzi col mezzo della [425]stessa ragione e sapere.
Dico col mezzo, perchè non c'era altro modo di richiamarle, se non tornare a giudicarle vere, e questo giudizio non poteva farlo se non la ragione e il sapere già stabilito.
Ma come quella stessa ragione e sapere che le avevano distrutte, potevano permettere che risorgessero, anzi introdurle di nuovo nell'anima? Sarebbe convenuto che la ragione rinegasse se stessa.
(come conviene ora a qualunque filosofo vuol vivere).
Non c'era altro mezzo se non che una nuova religione, ammessa e creduta per vera dalla ragione, e conforme ai lumi di quel tempo: la qual religione tornasse a far la base delle illusioni perdute: (altrimenti a che valeva nel nostro caso?) in maniera che queste ripigliassero l'aspetto stabile di verità agli occhi degli uomini.
In somma bisognava che questa religione, nuova base delle illusioni naturali e necessarie, fosse il parto della ragione e del sapere.
O parlando cristianamente, bisognava che una espressa rivelazione assicurasse la ragione, che quelle credenze ch'ella aveva ripudiate, erano vere.
Ecco dunque arrivata la necessità di una religione perfettamente ragionevole [426](cioè rivelata, perchè senza il fondamento della rivelazione, come può una perfetta ragione credere o tornare a credere quello che, umanamente parlando, è veramente falso?) o almeno perfettamente conforme a quella tal misura della ragione e sapere di quei tali tempi.
Ed ecco il punto in cui comparve il Cristianesimo, cioè quel momento in cui l'eccessivo progresso della ragione e del sapere, negando tutto o dubitando di tutto (perchè tutto è veramente falso o dubbio senza la rivelazione), spegnendo tutte le illusioni o credenze primitive, gettava l'uomo nell'inazione, nell'indifferenza, nell'egoismo (e quindi nella malvagità); riduceva la vita affatto morta, e barbara di quella orrenda barbarie nella quale, in maggior grado però, siamo caduti in questi ultimi secoli: quel momento in cui la virtù, l'eroismo, l'amor patrio, l'amore scambievole ec.
erano considerati per quei fantasmi che sono (umanamente parlando): quel momento in cui per conseguenza erano rotti tutti i legami sociali, e anche individuali, cioè dell'uomo con se stesso e con la vita: quel momento in cui non solo le illusioni primitive, ma anche quelle che si sviluppano naturalmente nell'uomo ridotto in società, (quali sono quasi tutte le illusioni sopraddette), erano pure estinte: [427]quel momento a cui forse si dee riferire il maggior progresso della setta scettica o Pirroniana.
(V.
Diog.
Laerz.
l.9.
Luciano passim, e Sesto Empirico, i quali furono bensì sotto Aurelio, e Comodo, cioè dopo nato il Cristianesimo, ma non però divulgato, anzi bambino).
Con ciò si potrà spiegare perchè il Cristianesimo fosse rivelato in quel tempo, e non prima nè dopo: e per la pienezza de' tempi famosa nel Vecchio Testamento si potrà ingegnosamente e sodamente intendere quel punto in cui la ragione e il sapere divenuti affatto soverchianti e preponderanti, aveano incominciato una devastazione, e una rivoluzione micidiale nell'uomo, e una mortificazione generale dei popoli colti e degl'individui.
In maniera che quello era il punto in cui (se esiste un Dio che curi le cose umane) una grande rivelazione del vero relativo all'uomo diveniva precisamente, e per la prima volta necessaria.
E il Cristianesimo fece certo un gran bene, e sostenne il mondo crollante, sovvenendo con una medicina composta della ragione, alla malattia mortale cagionata da essa ragione.
Ma appunto perchè la medicina era composta di ragione, e perchè le origini del Cristianesimo furono quelle che ho spiegate, cioè il guasto fatto dalla ragione e la necessità di un rimedio ragionevole, perciò [428]quel rimedio era bensì l'unico applicabile a quei tempi, e giovò, ma relativamente al peggiore stato in cui si era, non a quello anteriore al male.
Giacchè questo era necessariamente più naturale, e quindi più conducente alla felicità di quaggiù.
E infatti la vita, sebben tornò ad esser vita, fu però molto minore, meno attiva, meno bella, meno varia, e precisamente più infelice, giacchè il Cristianesimo non aveva insegnato all'uomo che la vita è ragionevole, e ch'egli deve vivere, se non insegnandogli che deve indirizzar questa ad un'altra vita, rispetto alla quale solamente, è ragionevole questa vita: e che questa sarebbe necessariamente infelice.
Ma il detto effetto non fu colpa del Cristianesimo, ma delle cause che aveano, come si è detto, prodotta la necessità di questo rimedio; cause che presto o tardi doveano necessariamente emergere dall'andamento che avea preso la ragione (ossia dalla superiorità che aveva acquistata, e che dovea naturalmente crescere e portar gli uomini a quel punto) e dallo stato di società, a cui l'uomo era irrevocabilmente ridotto.
Sicchè presto o tardi era indispensabile e certa la nascita del Cristianesimo, o di una [429]Religione ammissibile dalla ragione, anzi prodotta in certo modo da essa, e molto più ragionevole delle antiche le quali non erano conformi nè adattabili se non ad un grado di ragione e di sapere molto minore.
Quindi, posta la corruzione dell'uomo operata dalla ragione e dal sapere, l'uomo doveva necessariamente arrivare una volta, a quella poca felicità di vita, che il Cristianesimo stabilisce dogmaticamente, e anche produce attivamente, ma come seconda e necessaria, non come prima e libera cagione.
Era dico indispensabile presto o tardi il Cristianesimo, posta la corruzione operata dalla ragione, e lo era 1.
umanamente: perchè la ragione prima di arrivare a quell'estremo al quale è giunta oggidì, doveva naturalmente spaventarsi di se stessa; e vedendosi sparir dagli occhi la realtà delle cose, e quindi venirsi a distruggere la vita e il mondo, doveva considerar se stessa come assurda, e concludere che ci doveva esser qualche verità ignota la quale dasse alle cose quella realtà ch'essa non poteva più scoprire nè ammettere.
Quindi anche da se stessa [430]dovea rifugiarsi nel seno di una religione astratta e metafisica, adattata alla sua natura speculativa; di una religione misteriosa, e perciò appunto ragionevole, perchè la realtà delle cose di cui la ragione non poteva persuadersi chiaramente nè particolarmente colle sue forze, veniva stabilita dall'opinione verisimile, e creduta vera, di un Dio infallibile, e rivelatore di arcani, conducenti a stabilire in genere la detta realtà.
Così che la ragione sopra un fondamento oscuro, ma creduto vero, veniva a creder quelle cose, che dall'una parte non poteva credere sopra un fondamento chiaro e dettagliato; dall'altra parte le sembrava ancora assurdo il negare, a dispetto della natura e del sentimento intimo che le asseriva.
Sicchè la ragione anche da se, nel suo corso naturale, prima di distrugger tutto, doveva necessariamente immaginare, e persuadersi di una religion rivelata.
2.
molto più divinamente.
Perchè supposto un Dio, e che questi abbia cura delle sue creature, quando per non veder perire [431]il primo degli enti terrestri, e distruggersi immancabilmente la sua vita quaggiù, o ridursi all'ultima infelicità, non rimase altro mezzo che la credenza di una rivelazione, era troppo conveniente alla sua misericordia l'adoperarlo, e perchè questa credenza fosse stabile e certa, fare che fosse vera, cioè rivelar da vero.
Del resto sebbene io dico che la civiltà media è il migliore stato dell'uomo corrotto e sociale, e che il Cristianesimo lo mette nè più nè meno in questo stato, ciò non contraddice a quello ch'io soggiungo, che l'uomo era più felice prima che dopo il Cristianesimo.
Perchè questo stato di civiltà media può avere diversi gradi, cioè contener più o meno di natura, o di ragione; di credenze naturali o non naturali; e quindi essere più o meno felice.
Ma oggidì non essendo più possibile tornare allo stato di civiltà antica, pel maggiore incremento della ragione, sostengo che il più felice possibile in questa vita, è lo stato di vero e puro Cristianesimo.
V.
poi gli altri miei pensieri circa gli effetti del Cristianesimo (o delle cause che lo produssero) [432]sulla società, sulla qualità e sulla felicità di questa vita.
Del resto osservate che il Cristianesimo limita estremamente l'esercizio della ragione, di quella facoltà distruttrice della vita; di quella facoltà che l'aveva reso necessario; di quella al cui guasto egli è venuto a riparare; di quella che in certo modo l'invocò e lo produsse.
Perchè, tranne alcune proposizioni generali fondamentali, che hanno bisogno della ragione per esser giudicate e credute, vale a dire, l'esistenza, la provvidenza, la manifestazione, e l'infallibilità di un Dio, tutte le altre proposizioni particolari che la religione insegna, sono indipendenti dall'esame e dall'intervento della ragione.
E sebben questa, credendole, e regolando con esse le azioni e la vita, opera ragionevolmente e conseguentemente, in vista di quelle proposizioni generali, contuttociò, l'uso e l'esercizio suo resta scarsissimo nella vita cristiana, limitandosi al solo fondamento, e al solo generale, il quale esclude essenzialmente ogni operazion della ragione in tutti i particolari, che sono il [433]più, e che formano e regolano la vita.
Anche per questo capo il Cristianesimo conduce l'uomo alla civiltà media, ingiungendo l'inazione e l'acciecamento della ragione nella vita, sebbene essa ragione sia la fonte di questa inazione ec.
dipendente dalla persuasione attiva ch'ella ha, delle proposizioni fondamentali.
(18.
Dic.
1820.)
Alla p.398.
Di più, soggiunse Iddio: nunc ergo ne forte mittat manum suam, et sumat etiam de ligno vitae, et comedat, et vivat in aeternum.
(Gen.
3.22.) Dunque il ragionamento è chiaro.
S'egli mangerà del frutto dell'albero di vita, vivrà realmente in eterno: dunque avendo colto e mangiato dell'albero della scienza, aveva realmente acquistato essa scienza.
E Dio non gliel'aveva tolta, perchè nello stesso modo gli poteva togliere l'immortalità, se avesse mangiato dell'albero della vita.
Ora egli tanto non giudicava di togliergli quest'immortalità, nel caso che ne avesse mangiato, che anzi perchè non ne mangiasse (non per il peccato, ma per questo espresso motivo, secondo la chiarissima narrazione della Genesi) lo cacciò dal paradiso, dov'era quell'albero di vita.
Et emisit eum (segue immediatamente [434]la Gen.) Dominus Deus de paradiso voluptatis...
et collocavit ante paradisum voluptatis Cherubim, et flammeum gladium atque versatilem, AD CUSTODIENDAM VIAM LIGNI VITAE.
(23.24.) Vengano adesso i teologi, e mi dicano che la corruzione dell'uomo consistè nella ribellione della carne allo spirito, e nella superiorità acquistata da quella, ossia nell'assoggettamento della parte ragionevole e intellettiva.
Ovvero che questo fu il proprio effetto della corruzione e del peccato.
È vero, e dico anch'io, che allora incominciò quella nemicizia della ragione e della natura ch'io sempre predico, nemicizia che non ha luogo negli altri viventi, provveduti per altro di raziocinio, e del principio di cognizione.
Ma questa nemicizia, questo squilibrio, questo contrasto di due qualità divenute allora incompatibili, provenne e consistè nell'incremento e preponderanza acquistata dalla ragione; e la degradazione dell'uomo non fu quella della ragione nè della cognizione, nè l'offuscazione dell'intelletto.
Anzi dopo il peccato, e mediante il peccato l'uomo ebbe l'intelletto rischiaratissimo, acquistò la scienza del bene e del male, e divenne effettivamente per questa, quasi unus ex nobis, disse Iddio.
[435]Tutto ciò lo dice la Scrittura a lettere cubitali.
Allora insomma la ragione dell'uomo cominciò a contraddire alle sue 1.
inclinazioni, 2.
credenze primitive, cosa che per l'avanti non aveva fatto; e questa fu una ribellione della ragione alla natura, o dello spirito al corpo, non della natura alla ragione nè del corpo allo spirito.
Osservate che il mio sistema è l'unico che possa dare alla narrazion della Genesi, una spiegazione quanto nuova, tanto letterale, facile, spontanea, anzi tale che non può esser diversa, senza o far forza al testo, o considerarlo come assurdo.
E infatti secondo i teologi i quali considerano l'incremento della ragione e sapere come un bene assoluto per l'uomo, e la parte ragionevole come primaria in lui assolutamente ed essenzialmente (non accidentalmente, cioè posta la corruzione); secondo i teologi dico, il senso chiarissimo della Genesi, resta assurdissimo, giacchè pone l'incremento della ragione e l'acquisto della scienza come effetto preciso e diretto del peccato.
Laddove il mio sistema che pone la perfezion vera ed essenziale dell'uomo, nel suo stato primitivo, cioè in [436]quello stato in cui fu creato, ed uscì immediatamente dalle mani di Dio, e la sua corruzione nella preponderanza della ragione e del sapere, trova il senso letterale e incontrovertibile della Genesi, profondissimo, e conforme alla più sublime ed ultima filosofia.
(19.
Dic.
1820.)
Nella Genesi non si trova nulla in favore della pretesa scienza infusa in Adamo, eccetto quello che appartiene ad un certo linguaggio, come ho detto p.394.
fine.
Dio, dice la Genesi, adduxit ea (gli animali) ad Adam, ut videret quid vocaret ea: omne enim quod vocavit Adam animae viventis, (che forse è quanto dire: omnis enim anima vivens, quam vocavit Adam, cioè omne animal vivens) ipsum est nomen eius.
Appellavitque Adam nominibus suis cuncta animantia, et universa volatilia caeli, et omnes bestias terrae.
(Gen.
2.19.
et 20.) Questo non suppone mica una storia naturale infusa in Adamo, nè la scienza di quelle qualità degli animali che non si conoscono senza studio, ma solamente di quelle che appariscono a prima giunta agli occhi, all'orecchio ec.: qualità dalle quali ordinariamente son derivati i nomi di tutti gli oggetti sensibili [437]nei primordi di qualunque lingua; quei nomi dico e quelle parole che formano le radici degl'idiomi.
Del resto sostengo anch'io, anzi fa parte essenziale del mio sistema la proposizione che Adamo ebbe una scienza infusa: ma in questo modo.
Ogni essere capace di scelta, anzi tale che non si può determinare all'azione (neppure a quella necessaria per conservarsi, eccetto le azioni che chiamano hominis, se ce ne ha veramente) e per conseguenza non può vivere, senza un atto elettivo e definito della sua volontà, ha bisogno di credenze, cioè deve credere che le cose siano buone o cattive, e che quella tal cosa sia buona o cattiva, altrimenti la sua volontà non avrà motivo per determinarsi ad abbracciarla o fuggirla, per decidersi a fare o non fare, all'affermativo o al negativo.
E l'uomo e l'animale in questa indifferenza diverrebbe necessariamente come quell'asino delle scuole, di cui vedi p.381.
Le piante e i sassi che non si muovono da se, nè dipendono da se nell'azione e nella vita, non hanno bisogno di credenze, ma l'animale che dipende da se nell'azione e nella vita, ha bisogno di credere, giacchè non c'è altro motivo [438]nè mobile, nè altra forza, (eccetto l'estrinseche) che lo possa determinare, e definirne la scelta.
Qualunque essere non è macchina, ha bisogno di credenze per vivere.
Dunque anche gli animali, se non sono purissime macchine: dunque hanno anch'essi il principio di ragionamento, senza cui non v'è credenza, perchè il credere non è altro che tirare una conseguenza.
Ma io dico credenze, non cognizioni.
L'oggetto della cognizione è la verità; l'oggetto della credenza è una proposizione credibile, e dico credibile relativamente in tutto e per tutto alle qualità generali o individuali, essenziali o accidentali dell'essere che crede, perchè una cosa può esser credibile a una specie o genere, e non ad un'altra; a un individuo di quella specie o genere, e non ad un altro; a questo medesimo individuo oggi, e non domani.
La verità dunque non entra in questo discorso, ma solo bisogna sapere quali determinazioni a credere siano atte a produrre una determinazione ad operare, vantaggiosa (e questo veramente) all'essere pensante e vivente; e perciò quali determinazioni a credere, o sia quali credenze, sieno atte a produrre la sua felicità.
Io dunque dico che queste credenze determinanti l'uomo bene (cioè non altro che convenientemente alla sua propria e particolare essenza), e perciò conducenti [439]alla felicità, sono (come negli altri animali) le credenze ingenite, primitive, e naturali.
In questo modo io sostengo che Adamo ebbe non una scienza propriamente, ma delle credenze infuse: non la cognizione del vero, indifferente per lui, ma delle opinioni credute veramente vere da lui, opinioni di credere il vero (senza di che non v'è credenza), e opinioni veramente convenienti alla sua natura, e alla sua felicità, e quindi conducenti alla perfezione.
E Adamo ne dovette avere necessariamente, come gli altri animali, perchè senza credenze non c'è vita per quegli esseri che dipendono nell'operare dalla determinazione della propria volontà, come ho dimostrato.
Queste credenze ingenite, primitive e naturali, non sono altro se non quello che si chiama istinto, idee innate ec.
Gli animali ne hanno: non si contrasta: ma non perciò non son liberi: se non fossero liberi sarebbono macchine pure: l'istinto non è altro che quello che ho detto, cioè credenze ingenite.
Queste non tolgono la libertà, perchè non fanno altro che determinare la volontà, e non già forzare macchinalmente gli organi: nello stesso modo [440]che una credenza qualunque, o ingenita o acquistata, non toglie la libertà o la scelta all'uomo.
Che il ragionamento necessario per iscegliere sia determinato da principii naturali ed innati, o da principii acquistati colla cognizione, da principii veri, o da principii falsi ma creduti naturalmente veri; questo è indifferente alla libertà, com'è indifferente alla felicità relativa che ne dipende, il vero o il falso assoluto.
E il ragionamento della scelta, è ragionamento nello stessissimo modo, da qualunque principio parta.
Sicchè i bruti hanno istinto e insieme libertà piena.
L'uomo dunque che aveva libertà piena, aveva ancora ed ha tuttavia istinto.
Considerate l'uomo naturale, il fanciullo ec.
e vedrete quante sieno le sue azioni determinate da principii ingeniti, sieno principii di sola credenza, sieno anche di vera cognizione delle cose come sono.
P.e.
il bambino, applicategli le labbra alla mammella, ne succhia il latte senza maestro.
Ma è cosa già osservata, e quanto naturale ad accadere, tanto perciò appunto difficile ad esser notata dai più, e tuttavia degnissima d'esser sempre meglio osservata, che la forza dell'istinto, scema in proporzione che crescono le altre forze determinatrici dell'uomo, cioè la ragione e la cognizione; e così [441]in proporzione che l'uomo si allontana dalla natura, per la società, l'alterazione o sostituzione di altri mezzi a quelli che la natura ci aveva dato per gli stessi fini ec.
ec.
E come l'uomo perde la felicità naturale, così pure, anzi precedentemente, perde la forza attuale dell'istinto, e dei mezzi ingeniti di ottener questa felicità.
Perciò è un vero acciecamento il dire che il bruto ha dalla natura tutta quella istruzione che gli bisogna per esistere: l'uomo no: e dedurne ch'egli dunque ha bisogno di ammaestramento, di società ec.
insomma ch'egli esce imperfetto dalle mani della natura, e conviene che si perfezioni da se.
Anche l'uomo aveva naturalmente tutto il necessario; se ora non sente più d'averlo, viene che l'ha perduto; ha perduto la perfezione volendosi perfezionare, e quindi alterandosi e guastandosi.
Osserviamo l'uomo primitivo, il bambino, e proporzionatamente l'ignorante, e vedremo quanto essi o sappiano di quello che noi abbiamo scoperto; o credano di quello che noi non crediamo più, ma dovevamo credere, e avrebbe servito ai nostri bisogni veramente, ed era l'istrumento che ci conveniva, e che [442]la natura ci avea posto in mano; e sebben falso in assoluto, era vero in relativo, e pienamente sufficiente al suo fine, cioè insomma, alla nostra esistenza perfetta secondo la nostra particolare essenza, e quindi alla nostra felicità.
Ma bisogna ben intendere che cosa siano queste credenze ingenite, o vero istinto, e idee innate.
Idee precisamente innate non esistono in alcun vivente, e sono un sogno delle antiche scuole.
La natura influisce sulle idee o credenze di qualunque animale, non ponendoci identicamente e immediatamente quelle tali idee e credenze, ma mediatamente, cioè disponendo l'animale, e l'ordine delle cose relativo a lui, in tal maniera, che l'animale si determini naturalmente a credere questo e non quello.
Così che la credenza non è neppur essa determinata primitivamente, non più della volontà, ma deve anch'essa determinarsi prima di determinare la volontà.
Ma come le azioni o determinazioni della volontà sono naturali quando vengono da credenze naturali, così le credenze o determinazioni dell'intelletto sono naturali, quando sono conformi al modo in cui la natura avea disposto e provveduto che l'intelletto si determinasse; cioè ai mezzi di credenza che [443]la natura ci ha dati, come nelle credenze ci ha dato i mezzi di azione.
Tutti i moderni ideologi hanno stabilito che le idee o credenze, le più primitive, le più necessarie all'azione la più vitale, e quindi tutte le idee o credenze moventi del bambino appena nato, (e così d'ogni altro animale): tutte le idee o credenze determinanti o non determinanti, cioè relative o no all'azione, non vengono altro che dall'esperienza, e quindi non sono se non tante conseguenze tirate col mezzo di un raziocinio e di un'operazione sillogistica, da una maggiore ec.
(E qui osservate la necessità del raziocinio ne' bruti.)
Questa esperienza che deve necessariamente formare la base o come chiamano, le antecedenti del sillogismo, senza il qual sillogismo non v'è idea nè credenza, può esser di due sorte.
L'una è quella che deriva dalle inclinazioni naturali, passioni affetti ec.
tutte cose veramente ingenite, e assolutamente primitive, sebbene molte di esse possano svilupparsi più o meno, o nulla; possono alterarsi, corrompersi ec.
L'uomo che sente fame (quest'è un'esperienza) e si sente portato dalla natura al cibo (questa non è idea, ma inclinazione), ne deduce che bisogna cibarsi, che il cibo è cosa buona.
Ecco la conseguenza, cioè la [444]credenza.
Dunque si determina e risolve a cibarsi.
Ecco la determinazione della volontà prodotta dalla previa determinazione dell'intelletto, ossia dalla credenza.
Segue il cibarsi, cioè l'azione, che deriva dalla volontà determinata in quel modo.
L'altro genere di esperienza, è quello che appartiene ai sensi esterni.
E l'uno e l'altro genere di esperienza sono i soli fonti della cognizione in atto (non in potenza); i soli fonti o del credere o del sapere.
Qual conseguenza poi si debba tirare da una data esperienza, questo è ciò ch'è relativo, perchè l'uomo naturale, ne tira una; l'uomo sociale, istruito ec.
un'altra; quell'animale di diversa specie, un'altra: e via discorrendo.
E così son relative e si diversificano le credenze.
Sicchè la credenza è naturale, quando l'animale tira da quella esperienza, quella conseguenza che la natura ha provveduto che ne tirasse, e viceversa.
E quindi l'azione che ne deriva è naturale, quando proviene da una credenza naturale, ossia da una conseguenza tirata naturalmente, e viceversa.
E quindi la vita è naturale quando le azioni derivano da credenze naturali, e viceversa.
E quindi finalmente l'uomo è perfetto e felice come ogni altro vivente, quando la sua vita si compone di azioni naturali, e viceversa.
[445]Non sono dunque precisamente innate nè le idee nè le credenze, ma è innata nell'uomo la disposizione a determinarsi dietro quella tale esperienza, inclinazione ec.
a quella tal credenza o giudizio.
E in questo senso io nomino le idee innate e l'istinto.
E così appunto avviene nei bruti, i quali non hanno altre idee innate che in questo senso, e tuttavia generalmente parlando, tutti gli animali della stessa specie, hanno le stesse credenze cioè si determinano a credere nello stesso modo; e operando giusta tali credenze, sono tutti perfetti e felici relativamente alla loro essenza.
Tali credenze pertanto sono effettivamente naturali, e figlie legittime della natura, sebbene non partono immediatamente dalla sua mano.
Ma quod est caussa caussae, est etiam caussa caussati.
Nello stesso modo che le azioni conformi a dette credenze, sono naturali, sebbene eseguite immediatamente dall'individuo, e non dalla natura: sebben libere, e non forzate; come non sono forzate le azioni che derivano da credenze religiose, filosofiche ec.
le quali tuttavia, senza esser forzate, si chiamano e sono azioni religiose, filosofiche ec.
[446]L'uomo si allontana dalla natura, e quindi dalla felicità, quando a forza di esperienze di ogni genere, ch'egli non doveva fare, e che la natura aveva provveduto che non facesse (perchè s'è mille volte osservato ch'ella si nasconde al possibile, e oppone milioni di ostacoli alla cognizione della realtà); a forza di combinazioni, di tradizioni, di conversazione scambievole ec.
la sua ragione comincia ad acquistare altri dati, comincia a confrontare, e finalmente a dedurre altre conseguenze sia dai dati naturali, sia da quelli che non doveva avere.
E così alterandosi le credenze, o ch'elle arrivino al vero, o che diano in errori non più naturali, si altera lo stato naturale dell'uomo; le sue azioni non venendo più da credenze naturali non sono più naturali; egli non ubbidisce più alle sue primitive inclinazioni, perchè non giudica più di doverlo fare, nè più ne cava la conseguenza naturale ec.
E per tal modo l'uomo alterato, cioè divenuto imperfetto relativamente alla sua propria natura, diviene infelice.
(L'uomo può essere anche infelice accidentalmente per forze esterne, che gl'impediscano di conformar le azioni alle credenze, cioè di far quello ch'egli giudica buono per lui, o non far quello ch'egli giudica e crede [447]cattivo.
Tali forze sono le malattie, le violenze fattegli da altri individui, o da altre specie, o dagli elementi ec.
ec.
ec.
Quest'infelicità non entra nel nostro discorso.
Essa è appresso a poco l'infelicità antica.)
Da queste osservazioni deducete che propriamente la nemica della natura non è la ragione, ma la scienza e cognizione, ossia l'esperienza che n'è la madre.
Perchè anche le operazioni e tutta la vita dell'uomo naturale, e degli altri viventi, è perfettamente ragionevole, giacchè deriva da credenze tirate in forma di conseguenza, per via di sillogismo, da quei tali dati.
L'esperienza, crescendo oltre il dovere, cambia, altera, moltiplica soverchiamente le basi di questi sillogismi produttori delle credenze, e quindi alterando dette conseguenze o credenze, fa che non sia più ragionevole il determinarsi a credere quelle tali cose naturalmente credibili, e quindi a fare o fuggire quelle tali cose naturalmente da farsi o da fuggirsi.
Ma la ragione assolutamente in se stessa, è innocente; ed ha la sua intera azione anche [448]nello stato naturale; vale a dire, anche nello stato naturale l'uomo (e così nè più nè meno il bruto) è conseguente, e si determina a credere quello che gli par vero, per via di perfetto raziocinio; e si determina ad abbracciare o fuggire quello che crede veramente buono o cattivo per lui, rispetto alla sua natura generale e individuale, e alle sue circostanze di quel tal momento in cui si determina.
Del resto, come l'indifferenza assoluta, ossia la mancanza di ogni determinazione dell'intelletto, cioè di ogni credenza, sarebbe mortifera per l'animale libero, e dipendente dalla sua propria determinazione; così anche appresso a poco il dubbio, ch'è quasi tutt'uno col detto stato.
Così anche sarà cattiva e dannosa la difficoltà o lentezza al determinarsi (riferite a questo capo l'angoscia e il tormento dell'irresoluzione): e quindi lo stato dell'uomo sarà tanto più felice, quanto egli avrà maggior facilità e prontezza a determinarsi a credere (dal che poi segue l'operare); cioè a tirare una conseguenza da un tal dato; e con quanto maggior forza, ossia certezza, egli si determinerà al credere.
(s'intende già che la credenza sia buona per lui, perchè la supposizione contraria [449]è fuor del caso).
Ora è cosa dimostrata dalla continua esperienza, che l'uomo si determina al credere, tanto più facilmente, prontamente, e certamente, quanto più è vicino allo stato naturale, come appunto accade negli animali, che non hanno nè difficoltà nè lentezza nè dubbio intorno alle loro idee o credenze, innate nel senso detto di sopra.
E così il fanciullo, l'ignorante, ec.
E per lo contrario, quanto più si è lontani dallo stato naturale, cioè quanto più si sa, tanto maggior difficoltà e lentezza si prova alla determinazione dell'intelletto, e tanto minor forza, ossia certezza, ha questa determinazione o credenza.
Così che la certezza degli uomini nel credere (e quindi la determinazione e forza nell'operare, ch'è in ragion diretta colla certezza del credere) è in ragione inversa del loro sapere.
Hoc unum scio, me nihil scire: famoso detto di quell'antico sapiente.
E questa è la conclusione, la sostanza, il ristretto, la sommità, la meta, la perfezione della sapienza.
Laddove il fanciullo e l'ignorante, si può dire che crede di non ignorar nulla: e se non altro, crede di saper di certo tutto quello che crede.
E questa è la sommità dell'ignoranza.
(Onde credendo quello ch'è conforme alla natura, e credendolo in questo modo, ne viene a esser felice e [450]perfetto.) In maniera che, dove alla determinazione dell'uomo, non è necessario, anzi non può servir altro che la credenza; la cognizione la quale si vuol che sola sia capace a determinarlo, viene a esser nemica della credenza, e però della determinazione.
E in vece che l'ignoranza, tal qual è in natura, (non l'assoluta, cioè la negazione di ogni credenza, o determinazione dell'intelletto, che in natura non si dà) conduca l'uomo o l'animale all'indifferenza, come pretendono; ve lo conduce anzi il sapere (e l'eterna esperienza lo prova).
E l'uomo tanto meno, tanto più difficilmente, lentamente, e dubbiamente si determina, quanto più sa.
Tanto minore è la determinazione, quanto maggiore è il sapere.
E tanto è lungi che la credenza sia incompatibile coll'ignoranza, che per lo contrario è molto più compatibile coll'ignoranza che col sapere.
Se poi ancora dubitaste di quello ch'io dico, cioè che in Adamo fu primitivamente infusa la credenza come negli altri animali, e non la scienza propria; basta che osserviate quello che dice la Scrittura, che dopo il peccato egli acquistò la scienza del bene e del male.
La scienza del bene e del male, non è altro che la cognizione assoluta, [451]la credenza vera non più relativamente ma assolutamente, la cognizione delle cose come sono, cioè buone o cattive, non relativamente all'uomo, ma indipendentemente e assolutamente; la cognizione della realtà, della verità assoluta che per se stessa è indifferente all'uomo, e nociva quando il conoscerla è contrario alla natura del conoscente.
Se dunque Adamo l'acquistò dopo il peccato, non l'aveva per l'avanti.
In fatti la Scrittura dice espressamente che non l'aveva, e il serpente persuase alla donna di peccare per acquistarla.
Questo è un argomento vittorioso, ultimo, e decisivo.
Come poteva essere infusa primitivamente la scienza in Adamo, se dopo e mediante il peccato egli acquistò la scienza del bene e del male? E qual fosse l'effetto di questa precisa scienza, vedilo p.446-447.
(22.
Dic.
1820.)
È cosa mille volte osservata che gl'individui naturalmente son portati a misurar gli altri individui da se stessi, cioè a creder vero assolutamente quello ch'è vero soltanto relativamente a loro.
Anzi naturalmente, l'individuo appena può concepire formalmente un altro individuo di diverso carattere, indole, pensare, fare ec.
Al più concepirà che questo sia, perchè lo vede, ma non il come sia, non la espressa e definita costituzione di quell'individuo, diversa dalla sua.
Neanche nelle menome e accidentali differenze, e quotidiane e usuali.
Se dunque gl'individui, quanto più naturalmente le specie e i generi, rispetto alle altre specie e generi! se dunque le specie e i generi di uno stess'ordine di cose, quanto più tutto quest'ordine di cose complessivamente, rispetto a un altr'ordine, o esistente o possibile! [452]Ella è cosa certa e incontrastabile.
La verità, che una cosa sia buona, che un'altra sia cattiva, vale a dire il bene e il male, si credono naturalmente assoluti, e non sono altro che relativi.
Quest'è una fonte immensa di errori e volgari e filosofici.
Quest'è un'osservazione vastissima che distrugge infiniti sistemi filosofici ec.; e appiana e toglie infinite contraddizioni e difficoltà nella gran considerazione delle cose, massimamente generale, e appartenente ai loro rapporti.
Non v'è quasi altra verità assoluta se non che Tutto è relativo.
Questa dev'esser la base di tutta la metafisica.
(22.
Dic.
1820.)
In proposito della pretesa legge naturale, come in natura non esista idea nè legge di contratto, e come non ci possa assolutamente esser contratto obbligatorio in natura, ancorchè fatto realmente, e con tutta la possibile perfezione, vedilo nell'Essai sur l'indifférence en matière de Religion, una ventina di pagg.
dopo il principio del Capo X.
(22.
Dic.
1820.)
Tanto è vero che lo straordinario è fonte di [453]grazia, che gli uomini malvagi, purchè la loro malvagità abbia un carattere deciso, aperto, franco, coraggioso, sia una malvagità schietta forte e costante, non timida, indecisa, nascosta, variabile ec.
come quella di tutti: questi tali fanno per lo più fortuna colle donne a preferenza dei buoni.
Non già solamente perchè i malvagi sono più furbi dei buoni, ma propriamente per questo che sono malvagi, e perchè quel non so che di coraggioso, di fiero ec.
insomma di straordinario che ha quella tale malvagità, picca e piace, e rende amabile.
Così che lo stesso odioso diventa amabile, perciò appunto ch'essendo decisamente odioso, viene a essere straordinario.
(22.
Dic.
1820.)
Clarissimum deinde omnium ludicrum certamen, et ad excitandam (alii legunt exercitandum, sed non probatur) corporis animique virtutem efficacissimum, Olympiorum, initium habuit.
Velleius hist.
rom.
l.1.
c.8.
(22 Dic.
1820.)
Quale idea avessero gli antichi della felicità (e quindi dell'infelicità) dell'uomo in questa vita, della sua gloria, delle sue imprese; e come tutto ciò paresse loro solido e reale, [454]si può arguire anche da questo, che delle grandi felicità ed imprese umane, ne credevano invidiosi gli stessi Dei, e temevano perciò l'invidia loro, ed era lor cura in tali casi deprecari la divina invidia, in maniera che stimavano anche fortuna, e (se ben mi ricordo) si proccuravano espressamente qualche leggero male, per dare soddisfazione agli Dei, e mitigare l'invidia loro.
Deos immortales precatus est, ut, si quis eorum invideret OPERIBUS ac fortunae suae, in ipsum potius saevirent, quam in remp.
Velleio l.1.
c.10.
di Paolo Emilio.
E così avvenne essendogli morti due figli, l'uno 4 giorni avanti il suo trionfo, e l'altro 3 giorni dopo esso trionfo.
E v.
quivi le note Variorum.
V.
pure Dionigi Alicarnasseo l.12 c.20.
e 23.
ediz.
di Milano, e la nota del Mai al c.20.
V.
ancora questi pensieri p.197.
fine.
Così importanti stimavano gli antichi le cose nostre, che non davano ai desideri divini, o alle divine operazioni altri fini che i nostri, mettevano i Dei in comunione della nostra vita e de' nostri beni, e quindi gli stimavano gelosi delle nostre felicità ed imprese, come i nostri simili, [455]non dubitando ch'elle non fossero degne della invidia degl'immortali.
(23.
Dic.
1820.).
V.
p.494.
capoverso 1.
Come in quei popoli che non conoscono o non pregiano oro nè argento, il più ricco de' nostri, profondendo danaio, non sarebbe in onore, anzi se non avesse altro mezzo per esser pregiato, sarebbe posposto all'infimo di quella gente, e per danari non otterrebbe neanche il necessario; così dove l'ingegno o lo spirito non è in pregio, o non si sa valutare, l'uomo il più ingegnoso, il più spiritoso, il più grande, se non avrà altre doti, sarà dispregiato, e posposto agli ultimi.
Così s'egli avrà un certo ingegno o un certo spirito, che in quel paese non si pregi.
Così relativamente ai tempi.
In ciascun luogo e in ciascun tempo, bisogna spendere la moneta corrente.
Chi non è provveduto di questa, è povero, per molto ch'egli sia ricco d'altra moneta.
(23.
Dic.
1820.).
Tityrus et segetes, Aeneiaque arma legentur
Roma triumphati dum caput orbis erit.
Ovid.
Amorum l.1.
Fortunati ambo! si quid mea carmina possunt,
Nulla dies umquam memori vos eximet aevo:
[456]Dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum
Adcolet, imperiumque pater Romanus habebit.
Virg.
Aen.
IX.
446.
sque ego postera
Crescam laude recens, dum Capitolium
Scandet cum tacita virgine pontifex.
Hor.
Carm.
III.
od.30.
v.7.
Roma non è più la Regina del mondo, nè il padre Romano tiene le redini dell'imperio, nè il pontefice ascende più al Campidoglio colla Vestale, e questo da lunghissimo tempo; e tuttavia si leggono ancora i versi di Virgilio, e Niso ed Eurialo non son caduti dalla memoria degli uomini, e dura la fama di Orazio.
La fortuna giuoca nel mondo, e certo questi poeti non s'immaginavano che il tempo dovesse penar più a distruggere i versi loro, che l'immenso e saldissimo imperio Romano, opera di tanti secoli.
Ma quelle carte sono sopravvissute a quella gran mole, per mero giuoco della fortuna la quale ha distrutte infinite altre opere degli antichi ingegni, e conservate queste oltre allo spazio segnato dalla stessa speranza, dallo stesso amor proprio, dalla stessa forza immaginativa de' loro autori.
(23.
Dic.
1820.)
[457]Quanto sia vero che l'amore universale distruggendo l'amor patrio non gli sostituisce verun'altra passione attiva, e che quanto più l'amor di corpo guadagna in estensione, tanto perde in intensità ed efficacia, si può considerare anche da questo, che i primi sintomi della malattia mortale che distrusse la libertà e quindi la grandezza di Roma, furono contemporanei alla cittadinanza data all'Italia dopo la guerra sociale, e alla gran diffusione delle colonie spedite per la prima volta fuori d'Italia per legge di Gracco o di Druso, 30 anni circa dopo l'affare di C.
Gracco, e 40 circa dopo quello di Tiberio Gracco, del quale dice Velleio, (II.
3.) Hoc initium in urbe Roma civilis sanguinis, gladiorumque impunitatis fuit.
col resto, dove viene a considerarlo come il principio del guasto e della decadenza di Roma.
Vedilo l.2.
c.2.
c.6.
c.8.
init.
et c.15.
et l.1.
c.15.
fine.
colle note Varior.
Le quali colonie portando con se la cittadinanza Romana, diffondevano Roma per tutta l'Italia, e poi per tutto l'impero.
V.
in particolare Montesquieu, Grandeur etc.
ch.9.
p.99-101.
e quivi le note.
Ainsi Rome n'étoit pas proprement une Monarchie [458]ou une République, mais la tête d'un corps formé par tous les peuples du monde...
Les peuples...
ne faisoient un corps que par une obéissance commune; et sans être compatriotes, ils étoient tous Romains.
(ch.6.
fin.
p.80.
dove però egli parla sotto un altro rapporto.) Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che Cosmopolita, non si amò nè Roma nè il mondo: l'amor patrio di Roma divenuto cosmopolita, divenne indifferente, inattivo e nullo: e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu più patria di nessuno, e i cittadini Romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto.
(24.
Dic.
1820.)
Quanta parte abbia nell'uomo il timore più della speranza si deduce anche da questo, che la stessa speranza è madre di timore, tanto che gli animi meno inclinati a temere, e più forti, sono resi timidi dalla speranza, massime s'ella è notabile.
E l'uomo non può quasi sperare senza temere, e tanto più quanto la speranza è maggiore.
Chi spera teme, e il disperato non teme nulla.
Ma viceversa la speranza non [459]deriva dal timore, benchè chi teme speri sempre che il soggetto del suo timore non si verifichi.
(26.
Dic.
1820.)
Osservate che la passione direttamente opposta al timore, è la speranza.
E nondimeno ella non può sussistere senza produrre il suo contrario.
Le Filippiche di Cicerone, contengono l'ultima voce romana, sono l'ultimo monumento della libertà antica, le ultime carte dov'ella sia difesa e predicata apertamente e senza sospetto ai contemporanei.
D'allora in poi la libertà non fu più l'oggetto di culto pubblico, nè delle lodi, e insinuazioni degli scrittori (non solo romani, ma quasi possiamo dire di qualunque nazione, se non de' francesi ultimamente.
E infatti colla libertà romana spirò per sempre la libertà delle nazioni civilizzate.) Quelli che vennero dopo, la celebrarono nel passato come un bene, la biasimarono e detestarono nel presente come un male.
I suoi fautori antichi furono esaltati nelle storie, nelle orazioni, nei versi, come Eroi: i moderni biasimati ed esecrati come traditori.
Si alzarono statue e monumenti agli antichi liberali, si citarono, condannarono e proscrissero i moderni.
L'elogio della libertà, per una strana contraddizione, fu permesso ne' discorsi negli scritti e nelle azioni, fino ad un certo tempo.
Passato quel termine, gli scrittori mutano linguaggio, e maledicono nei contemporanei, quello che hanno divinizzato, [460]e divinizzano allo stesso tempo, negli antenati.
Tale è fra gli altri Velleio, grandissimo lodatore degli antichi fatti, libertà ec.
esecratore degli antichi nemici della libertà, e de' moderni amici; lodatore di Nasica ed Opimio uccisori di Tiberio e Caio Gracchi, (uomini per altro, secondo lui, egregi anzi sommi, se non in quanto attentarono alla libertà) ed esecratore della congiura contro Cesare ec.
Perchè appena egli arriva a costui, si cambia scena manifestamente e tutto a un tratto, e il suo linguaggio liberalissimo fino a quel punto, diviene abbiettissimo e servilissimo nel seguito.
Ed è tanto improvvisa e sensibile questa mutazione, ch'egli è anche gran panegirista di Pompeo l'immediato antagonista di Cesare: e di Pompeo repubblicano, perchè lo biasima dovunque egli manca ai doveri verso una patria libera.
(27.
Dic.
1820.).
V.
p.463.
capov.1.
Quelle rare volte ch'io ho incontrato qualche piccola fortuna, o motivo di allegrezza, in luogo di mostrarla al di fuori, io mi dava naturalmente alla malinconia, quanto all'esterno, sebbene l'interno fosse contento.
Ma quel contento placido e riposto, io temeva di turbarlo, alterarlo, guastarlo, e perderlo [461]col dargli vento.
E dava il mio contento in custodia alla malinconia.
(27.
Dic.
1820.)
Alla p.8.
capoverso 1 e p.10.
fine.
Non solamente nelle azioni naturali, o manuali, insomma materiali, ma in tutte quante le cose umane, è necessario l'abbandono o la confidenza: e per lo contrario la diffidenza, o il troppo desiderio, premura, attenzione e studio di riuscire è cagione che non si riesca.
Se tu non hai nulla da perdere ti diporterai franchissimamente nel mondo.
E acquisterai facilmente il buon tratto e la stima, quando non avrai più stima da conservare: o in proporzione.
E viceversa.
Che se ti troverai in un luogo, occasione ec.
dove ti prema assai di figurare, probabilmente sfigurerai.
E se parlando con una persona, ne avrai guadagnata la stima ti costerà moltissimo il non perderla, quando ti sarai accorto di possederla, e ti premerà di conservarla.
La qual cosa succede massimamente nell'amore, o anche nella galanteria, che cercando di conservare, si perde quella stima e quell'amore di una persona che si è guadagnato senza cercarlo.
Così discorrete di cento altri generi di cose.
La natura insomma è la sola potente, e l'arte non solo non l'aiuta, ma spesso la lega; e lasciando [462]fare si ottiene quello che non si può ottenere volendo fare.
La noncuranza dell'esito, e la sicurezza di riuscire è il più sicuro mezzo di ottenerlo, come la troppa cura, e il troppo timore di non riuscire, è cagione del contrario.
Nè si può nelle cose umane acquistar facilmente questa sicurezza, e schivar questo timore, senza una certa noncuranza, o senza esser preparato in alterutram partem.
E perciò i disperati, o quelli che hanno tutto perduto, e niente da perdere nè da conservare, riescono meglio degli altri nella vita.
Nè c'è un disperato così povero e impotente che non sia buono a qualche cosa nel mondo, da che è disperato.
E questo è il motivo per cui naturalmente, e non a caso, audaces fortuna iuvat.
(28.
Dic.
1820.).
Chiunque conosce intimamente il Tasso, se non riporrà lo scrittore o il poeta fra i sommi, porrà certo l'uomo fra i primi, e forse nel primo luogo del suo tempo.
Quanto a, preposizione italiana, usata anche in latino da Tacito, come ho detto in altro pensiero, deriva intieramente dal greco: ???? ????, ???? ??? ???? ec.
si dice nello stesso significato, e negli stessi casi.
[463]Alla p.460.
Se non altro non si potè più nè lodare nè insinuare e inculcare la libertà ai contemporanei espressamente, e la libertà non fu più un nome pronunziabile con lode, riguardo al presente o al moderno.
Quando anche non tutti si macchiassero della vile adulazione di Velleio, e Livio fosse considerato come Pompeiano nella sua storia, e sieno celeberrimi i sensi generosi di Tacito, ec.
Ma neppur egli troverete che, sebbene condanna la tirannia, lodi mai la libertà in persona propria.
Dei poeti, come Virgilio, Orazio, Ovidio non discorro.
Adulatori per lo più de' tiranni presenti, sebben lodatori degli antichi repubblicani.
Il più libero è Lucano.
(28.
Dic.
1820.)
L'egoismo comune cagiona e necessita l'egoismo di ciascuno.
Perchè quando nessuno fa per te, tu non puoi vivere se non t'adopri tutto per te solo.
E quando gli altri ti tolgono quanto possono, e per li loro vantaggi non badano al danno tuo, se vuoi vivere, conviene che tu combatta per te, e contrasti agli altri tutto quello che puoi.
Perchè di qualunque cosa tu voglia cedere, non devi aspettare nè gratitudine nè compenso, essendo abolito il commercio de' sacrifizi e liberalità e benefizi scambievoli: anzi se tu cedi un passo gli altri ti cacciano indietro venti passi, adoperandosi ciascuno per se con tutte le sue forze; onde bisogna che ciascuno [464]contrasti agli altri quanto può, e combatta per se fino all'ultimo, e con tutto il potere: essendo necessario che la reazione sia proporzionata all'azione, se ne deve seguire l'effetto, cioè se vuoi vivere.
E l'azione essendo eccessiva, dev'esserlo anche la reazione.
E quanto l'una è maggiore, tanto l'altra dee crescere necessariamente.
Come in una truppa di fiere affollate intorno a una preda, dove ciascuna è risoluta di non lasciare alle altre se non quanto sarà costretta; quella fiera che o restasse inattiva, o cedesse alle altre, o aspettasse che queste pensassero a lei, o finalmente non adoperasse tutte le sue forze; o resterebbe a digiuno, o perderebbe tanto, quanto meno forza avesse adoperata, o potuto adoperare.
Tutto quello che si cede è perduto, posto il sistema dell'egoismo universale.
Anche per altra parte, questo egoismo cagiona l'egoismo individuale, cioè non solo per l'esempio, ma pel disinganno che cagiona in un uomo virtuoso, la trista esperienza della inutilità, anzi nocevolezza della virtù e de' sacrifizi magnanimi: e per la misantropia che ispira il veder tutti occupati per se stessi, e non curanti del vostro vantaggio, non grati ai vostri benefizi, e pronti a danneggiarvi o beneficati o no.
[465]La qual cosa cambia il carattere delle persone, e introduce non solo materialmente, ma radicalmente l'egoismo, anche negli animi più ben fatti.
Anzi principalmente in questi, perchè l'egoismo non vi entra come passione bassa e vile, ma come alta e magnanima, cioè come passione di vendetta, e odio de' malvagi e degl'ingrati.
Si nocentem innocentemque idem exitus maneat, acrioris viri esse, merito perire: diceva Ottone Imp.
appresso Tacito Hist.
l.1.
c.21.
(2.
Gen.
1821.).
V.
p.607.
fine.
Velleio II.
76.
sect.3.
Adventus deinde in Italiam Antonii, praeparatusque (cioè apparatusque substantive) Caesaris contra eum, habuit belli metum: sed pax contra Brundisium composita.
Che vuol dire contra Brundisium? Gl'interpreti si storcono, e chi legge circa, chi difende la volgata.
Leggete: sed pax contra Brundisii composita.
Contra è avverbio.
Si temeva la guerra, ma all'incontro fu fatta la pace a Brindisi.
V.
però gl'istorici, e le edizioni di Velleio, posteriori a quella del Burmanno seconda e postuma, Lugd.
Bat.
1744.
ap.
Sam.
Luchtmans.
(2.
Gen.
1821.).
Post Brundisinam pacem.
Vel.
II.
86.
sect.3.
[466]Sopra ogni dolore d'ogni sventura si può riposare, fuorchè sopra il pentimento.
Nel pentimento non c'è riposo nè pace, e perciò è la maggiore o la più acerba di tutte le disgrazie, come ho detto in altri pensieri.
(2.
Gen.
1821.).
V.
p.476.
capoverso 1.
È cosa notata e famosa presso gli antichi (non credo però gli antichissimi, ma più secoli dopo Senofonte) che Senofonte non premise nessun preambolo alla ??????????????, sebbene dal secondo libro in poi, premetta libro per libro, il Laerzio dice un proemio, ma veramente un epilogo o riassunto brevissimo delle cose dette prima.
Vedi il Laerz.
in Xenoph.
Luciano, de scribenda histor.
ec.
E Luciano dice che molti per imitarlo non ponevano alcun proemio alle loro istorie.
Ed aggiunge, ???????????????????????(potentiâ) ????????????????????????????????????????.
Io qui non vedo maraviglia nessuna.
Esaminate bene quell'opera: non è una storia, ma un Diario o Giornale (si può dire, e per la massima parte militare) di quella Spedizione.
Infatti procede giorno per giorno, segnando le marce, contando le parasanghe ec.
ec.
infatti l'opera si chiude con una lista effettiva o somma dei giorni, spazi percorsi, nazioni ec.
lista indipendente dal resto, per la sintassi.
E di queste enumerazioni ne [467]sono sparse per tutta l'opera.
Non doveva dunque avere un proemio, non essendo propriamente in forma d'opera, ma di Commentario o Memoriale, ossiano ricordi, e materiali.
Chi si vuol far maraviglia di Senofonte, perchè non se la fa di Cesare? Il quale comincia i suoi Commentari de bello G.
e C.
ex abrupto, appunto come Senofonte.
E questo perchè non erano Storia ma commentari.
Nè pone alcun preambolo a nessuno de' libri in cui sono divisi.
Così Irzio.
Eccetto una specie di avvertimento indirizzato a Balbo e premesso al lib.8.
de b.
G.
(il quale era necessario non per l'opera in se, ma per la circostanza, ch'egli n'era il continuatore) nè quel libro, nè quello de b.
Alexandrino, nè quello de b.
Africano, nè quello d'autore incerto de b.
Hispaniensi non hanno alcun preambolo, ed entrano subito in materia.
Da queste osservazioni deducete 1.
un'altra prova che Senofonte è il vero autore della K.
A.
non Temistogene ec.
trattandosi di un giornale, che non poteva essere scritto o almeno abbozzato se non in praesentia, e dallo stesso Generale (come i commentarii di Cesare), o almeno da qualche suo intimo confidente.
Questa proprietà, di essere cioè scritta da un testimonio di [468]vista, anzi dal principale attore e centro degli avvenimenti non è comune a nessun'altra opera storica greca, che ci rimanga, anzi a nessun'antica, fuorchè ai commentarii di Cesare.
Perciò ella è singolarmente preziosa anche per questo capo, e propria più delle altre a darci la vera idea de' costumi, pensieri, natura degli antichi, e de' loro fatti; come le lettere di Cicerone in altro genere di scrittura, sono la più recondita e intima sorgente della storia di quei tempi.
V.
p.519.
capoverso 2.
2.
Che poco saggiamente Arriano volle scrivere l'???????????(?(??????(in 7.
libri perchè 7.
son quelli di Senofonte) a imitazione della detta opera.
Perch'egli non poteva scrivere, nè scrisse, nè intese o pensò di scrivere un giornale.
Quindi le due opere sono essenzialmente di diverso genere, cioè l'una un diario, l'altra una storia.
Meno male Onesicrito, in quello che scrisse d'Alessandro a imitazione pure di Senofonte.
Perch'egli fu compagno di Alessandro nella sua spedizione, come Senofonte di Ciro.
V.
il Laerz.
l.6.
in Onesicrito.
Del resto, se la storia ?????????? di Senofonte non ha proemio, ciò viene perch'era destinata a continuare e far tutto un corpo con quella di Tucidide.
Infatti gli antichi notando la mancanza del proemio nella K.
A.
non parlano di quest'altra.
[469]E v.
le ultime parole ??? ????????? e Dionigi Alicarnasseo nelle testimonianze de Xenophonte.
È osservabile che Senofonte in quest'altra opera riesce minor di se stesso, perchè si sforza d'imitar Tucidide, e ciò servilmente, volendo che il suo stile non si distinguesse da quello di Tucidide, e le due opere sembrassero tutt'una.
E tanto peggio, quanto lo stile di Tucidide è quasi l'opposto di quello ch'era proprio di Senofonte.
Infatti chi ha un poco di criterio, può facilmente notare nei libri ??? ?????????.
una brevità forzata, una differenza sensibile dallo stile delle altre opere Senofontee, uno studio impotente di esser efficace, rapido, forte ec.
Cosa contraria all'indole di Senofonte: e v.
Cicerone nei testimoni de Xenophonte ec.
e Dionigi Alicarnasseo parimente nelle testimonianze de Xenophonte.
Anzi nelle stesse frasi, parole, modi, insomma nell'esterno e materiale dello stile, Senofonte abbandona spesso il suo costume per seguir quello di Tucidide, così che anche l'esteriore dello stile riesce alquanto nuovo a chi ha l'orecchio assuefatto alle altre opere di Senofonte.
Fino nell'ortografia, Senofonte volendo assomigliarsi a Tucidide, scrive (contro quello che suole nelle altre [470]opere) ??? per ???, e così nei composti dov'entra questa preposizione: consuetudine ch'io credo familiare a Tucidide.
(2.
Gen.
1821.)
Quello che si è detto di sopra intorno ai proemi particolari di ciascun libro K.
A.
eccetto il primo, non è vero nel 6to...
il quale non ha proemio nessuno.
Se non che il capo 3.
cominciando con un breve epilogo, ho creduto lungo tempo che i due capi precedenti appartenessero al 5 libro, e il sesto cominciasse col 3zo capo.
E però vero che il detto epilogo non rinchiude se non le cose dette ne' due capi antecedenti, e non tutto il detto nella parte superiore dell'opera, come ciascun altro proemio premesso ai diversi libri.
(3.
Gen.
1821.)
La natura non è perfetta assolutamente parlando, ma la sola natura è grande, e fonte di grandezza.
Perciò tutto quello che è, o si accosta al perfetto, secondo la nostra maniera astratta di considerare, non è grande.
Osservatelo in tutte le cose: nelle opere di genio, poesia, belle arti ec.
nelle azioni, nei caratteri, nei costumi, nei popoli, nei governi ec.
Un uomo perfetto, non è mai grande.
Un uomo grande, non è mai perfetto.
[471]L'eroismo e la perfezione sono cose contraddittorie.
Ogni eroe è imperfetto.
Tali erano gli eroi antichi (i moderni non ne hanno); tali ce li dipingono gli antichi poeti ec.
tale era l'idea ch'essi avevano del carattere eroico; al contrario di Virgilio, del Tasso ec.
tanto meno perfetti, quanto più perfetti sono i loro eroi, ed anche i loro poemi.
(3.
Gen.
1821.)
Venga un filosofo, e mi dica.
Se ora si trovassero le ossa o le ceneri di Omero o di Virgilio ec.
il sepolcro ec.
quelle ceneri che merito avrebbero realmente, e secondo la secca ragione? Che cosa parteciperebbero dei pregi, delle virtù, della gloria ec.
di Omero ec.? Tolte le illusioni, e gl'inganni, a che servirebbero? Che utile reale se ne trarrebbe? Se dunque, trovatele, qualcuno, le dispergesse e perdesse, o profanasse disprezzasse ec.
che torto avrebbe in realtà? anzi non oprerebbe secondo la vera ed esatta ragione? Come dunque meriterebbe il biasimo, l'esecrazione degli uomini civili? E pur quella si chiamerebbe barbarie.
Dunque la ragione non è barbara? Dunque la civiltà dell'uomo sociale e delle nazioni, non si fonda, non si compone, non consiste essenzialmente negli errori e nelle illusioni? Lo stesso [472]dite generalmente della cura de' cadaveri, dell'onore de' sepolcri ec.
(3.
Gen.
1821.)
Velleio II.
98.
sect.2.
Quippe legatus Caesaris triennio cum his bellavit; gentesque ferocissimas, plurimo cum earum excidio, nunc acie, nunc expugnationibus, in pristinum pacis redegit modum; ejusque patratione, Asiae securitatem, Macedoniae pacem reddidit.
Eiusque patratione a che si riporta? Spiegano eiusque pacis Patratione (così l'indice Velleiano).
Ottimamente: fatta la pace, o con quella PACE, rendè LA PACE alla Macedonia.
Leggo: eiusque belli patratione, (4.
Gen.
1821.), ovvero eiusque patratione belli.
V.
p.477.
capoverso 2.
Non solo la facoltà conoscitiva, o quella di amare, ma neanche l'immaginativa è capace dell'infinito, o di concepire infinitamente, ma solo dell'indefinito, e di concepire indefinitamente.
La qual cosa ci diletta perchè l'anima non vedendo i confini, riceve l'impressione di una specie d'infinità, e confonde l'indefinito coll'infinito; non però comprende nè concepisce effettivamente nessuna infinità.
Anzi nelle immaginazioni le più vaghe e indefinite, e quindi le più sublimi e dilettevoli, l'anima sente espressamente una certa angustia, una certa difficoltà, un certo desiderio insufficiente, un'impotenza decisa di abbracciar tutta la misura di quella sua [473]immaginazione, o concezione o idea.
La quale perciò, sebbene la riempia e diletti e soddisfaccia più di qualunque altra cosa possibile in questa terra, non però la riempie effettivamente, nè la soddisfa, e nel partire non la lascia mai contenta, perchè l'anima sente e conosce o le pare, di non averla concepita e veduta tutta intiera, o che creda di non aver potuto, o di non aver saputo, e si persuada che sarebbe stato in suo potere di farlo, e quindi provi un certo pentimento, nel che ha torto in realtà, non essendo colpevole.
(4.
Gen.
1821.)
Velleio II.
90.
sect.4.
ut quae maximis bellis numquam vacaverant, eae sub C.
Antistio, ac deinde P.
Silio legato, ceterisque, postea etiam latrociniis vacarent.
Leggo, ceterisque postea, etiam etc.
Parla delle Spagne.
Velleio II.
102.
sect.2.
Mox in conloquium (cui se temere crediderat) circa Artageram graviter a quodam, nomine Adduo vulneratus.
Come non si ha da correggere: in conloquio?
Del vigore del corpo, quanto influisca sopra l'animo, e in genere come lo stato dell'animo corrisponda a quello del corpo, v.
alcune sentenze degli antichi nella nota del Grutero a Velleio II.
102.
sect.2.
[474]Di un francese di nazione o di costume, ch'a ogni tratto si buttava in ginocchio avanti alle donne.
Se raccontava loro, poniamo caso, una storietta galante, o una nuova di gazzetta, e quelle non ci credevano, per dimostrazione, per supplicarle a credere, come per impetrar fede o credenza, si buttava in ginocchio.
(5.
Gen.
1821.)
Dai tempi di Giulio Cesare in poi, Velleio nel tracciare, come suole, i caratteri delle persone illustri che descrive, trovate spessissimo che dopo aver detto come quel tale era pazientissimo de' travagli e de' pericoli, attivo nei negozi, vigilante al bisogno, atto alla guerra, o ai maneggi politici, soggiunge poi, che nell'ozio era molle ed effeminato, o almeno si compiaceva anche dell'ozio, e dei diletti pacifici, e insomma delle frivolezze, e che tanto era pigro e voluttuoso nell'ozio, quanto laborioso diligente e tollerante nel negozio.
V.
il libro II.
c.88.
sect.2.
c.98.
sect.3.
c.102.
sect.3.
c.105.
sect.3.
Dappertutto fa menzione dell'ozio, e sempre li trova inclinati anche a questo e non poco, sebbene sieno gli uomini più attivi di quel secolo.
Cosa ignota agli antichi Eroi romani, i quali nell'ozio non trovavano nè potevano trovare nessun piacere.
E infatti questo lineamento [475]nei ritratti sbozzati da Velleio non si trova prima del detto tempo che fu l'epoca della decisa e sviluppata corruzione de' Romani.
Di Lucullo e di Antonio è cosa ben nota in questo proposito.
(Di Scipione Emiliano parla bensì Velleio riguardo all'ozio, 1.13.
sect.3.
ma molto diversamente.) Notate dunque gli effetti dell'incivilimento e della corruzione.
Notate quanto ella porti per sua natura all'inazione, all'ozio, e alla pigrizia: che anche gli uomini più splendidi e attivi, in questa condizione della società, inclinano naturalmente all'inazione.
La causa è il piacere che nell'antico stato di Roma non si poteva trovar nell'ozio, e perciò l'uomo desiderando il piacere e la vita si dava necessariamente all'azione: e così accade in tutte le nazioni non ancora o mediocremente incivilite.
La causa è pure l'egoismo, per cui l'uomo non si vuole scomodare a profitto altrui, se non quanto è necessario, o quanto giova a se stesso.
La causa è la mancanza delle illusioni, delle idee di gloria, di grandezza di virtù di eroismo, ec.
tolte le quali idee, deve sottentrar quella di non far nulla, lasciar correre le cose, e godere del presente.
La causa [476]per ultimo nelle monarchie (come sotto Augusto) è la mancanza non solo delle illusioni, ma del principio di esse, non solo della vita dell'animo, ma della vita delle cose, cioè la mancanza di cose che realizzino e fomentino queste illusioni; la difficoltà o impossibilità di far cose grandi o importanti, e di essere o considerarsi come importante; la nullità, o piccolezza, e ristretta esistenza del suddito ancorchè innalzato a posti sublimi.
Del resto paragonate questo tratto del carattere Romano a quei tempi, col carattere francese oggidì, nazione snervata dall'eccessiva civiltà, col carattere de' loro uomini più insigni per l'azione; e ci troverete un'evidente conformità.
(5.
Gen.
1821).
V.
p.620.
fine.
e 629.
capoverso 1.
Alla p.466.
pensiero 1.
Quippe ita se res habet, ut plerumque, qui fortunam mutaturus Deus, (Voss.
leg.
cui fortunam.
al.
delent ?? qui, et melius) consilia corrumpat, efficiatq., QUOD MISERRIMUM EST, ut quod accidit, etiam merito accidisse videatur, et casus in culpam transeat.
Velleio II.
118.
sect.4.
(6.
Gen.
1821.)
Non punir mai l'ingiuria che non hai meritata, nè lasciare impunita quella che hai meritata.
[477]Perdona al tuo calunniatore, punisci il tuo detrattore.
Non far caso di chi ti schernisce a torto, ma piglia vendetta di chi ti motteggia a ragione.
(7.
Gen.
1821.)
Alla p.375.
principio.
In questo proposito, la differenza o dell'ingegno o del giudizio, si può vedere in Livio, il quale è il poeta della storia, poeta vero e grande, e degno di servir di studio e di maestro ai poeti; e nondimeno è il modello splendidissimo della più perfetta prosa.
Laddove costoro, e pessimi prosatori, (7.
Gen.
1821.) e non perciò migliori poeti ordinariamente.
V.
p.526.
capoverso 1.
Alla p.472.
Tanto più che quella guerra, come consistente in domar popoli affatto barbari, non pare che fosse finita con trattato, nè con altri mezzi artifiziali, ma solamente con quel semplice fine che deriva dalla forza.
V.
Floro IV.
12.
sect.17.
e Dione LIV.
34.
p.764-765.
dove nella nota 316.
citandosi questo passo di Velleio, pare che si sia letto appunto nel modo ch'io suggerisco.
(8.
Gen.
1821.)
Velleio I.
2.
sect.2.
di Codro: Immixtusque castris hostium, de industria, imprudenter, rixam ciens, [478]interemptus est.
È vero che, secondo la storia o la favola, Codro fu ucciso imprudenter, cioè senza sapere ch'egli fosse il Re degli Ateniesi e v.
il passo di Val.
Mas.
citato nelle note a questo luogo.
Ma che razza di costruzione è questa? De industria si riferisce al rixam ciens che vien dopo l'imprudenter; l'imprudenter all'interemptus est che vien dopo il rixam ciens.
Chi traspone e legge, de ind.
rix.
ciens, impr.
inter.
est.
Chi emenda oltracciò, de ind., ab imprudente, rix.
ciens, inter.
est.
A me pare che il luogo sia chiarissimo, la costruzione piana e facile, togliendo la virgola dopo de industria e dopo imprudenter, e trasportandola dopo hostium.
Giacchè il de industria, non ha nè deve aver niente che fare coll'immixtusq.
castris host.
il che già s'intende ch'era fatto de industria; ma solo col rixam ciens.
Ma ille imprudenter? grida il Lipsio.
Signor sì, de industria imprudenter, con istudiata imprudenza, pensatamente incauto.
Ed è una delle solite antitesi e giuocherelli Velleiani.
Imprudenter per imprudentemente, incaute, improvide si usa benissimo da ottimi scrittori.
(come imprudens, imprudentia, e così prudenter ec.) Il Forcellini cita Terenzio, [479]Nepote, Cesare.
(8.
Gen.
1821.)
Il veder morire una persona amata, è molto meno lacerante che il vederla deperire e trasformarsi nel corpo e nell'animo da malattia (o anche da altra cagione).
Perchè? Perchè nel primo caso le illusioni restano, nel secondo svaniscono, e vi sono intieramente annullate e strappate a viva forza.
La persona amata, dopo la sua morte, sussiste ancora tal qual'era e così amabile come prima, nella nostra immaginazione.
Ma nell'altro caso, la persona amata si perde
affatto, sottentra un'altra persona, e quella di prima, quella persona amabile e cara, non può più sussistere neanche per nessuna forza d'illusione, perchè la presenza della realtà, e di quella stessa persona trasformata per malattia cronica, pazzia, corruttela di costumi ec.
ec.
ci disinganna violentemente, e crudelmente: e la perdita dell'oggetto amato non è risarcita neppur dall'immaginazione.
Anzi neanche dalla disperazione, o dal riposo sopra lo stesso eccesso del dolore, come nel caso di morte.
Ma questa perdita è tale, che il pensiero e il sentimento non vi si può adagiar sopra in nessuna maniera.
[480]Da ogni lato ella presenta acerbissime punte.
(8.
Gen.
1821.)
Che il nostro pensare non sia altro che il pensare latino, perduto il significato proprio, e conservato il metaforico di ponderare col pensiero, come appunto il ponderare latino e italiano oggidì non ritiene se non la significazione traslata di considerare o meditare; e come gli antichi latini adoperassero veramente il loro pensare in maniera similissima alla presente italiana, vedilo in una nota dell'Heinsio a Velleio II.
129.
sect.2.
Consulta ancora il Forcellini, e l'Appendice.
Naturale nella maniera che noi ed i francesi lo sogliamo adoperare frequentemente: è naturale che questo succeda; il est bien naturel ec.
si adoperava anche in latino, sebbene i Lessicografi non l'abbiano osservato (nè il Forcellini, nè l'Appendice).
Asconio in Orat.
contra L.
Pison.
Argumento: Sed ut ego ab eo dissentiam, facit primum, quod Piso etc.
deinde, quod magis NATURALE est, ut in ipso recenti reditu invectus sit in Ciceronem (Piso), responderitque insectationi eius, qua revocatus erat ex provincia, quam [481](in altra edizione trovo prius quam, e vorrebbe dire potius quam, o magis quam, nel qual significato prius quam si trova in ottimi esempi appresso il Forcellini: e notate anche qui la somiglianza coll'italiano prima che, avanti innanzi anzi che, per piuttosto che; e similmente più presto che ec.) post anni intervallum.
Questo esempio è veramente notabile e forse unico ne' buoni scrittori.
V.
però la nota del Burmanno alle prime parole della sezione 4.
del capo 128.
lib.
II.
di Velleio, dove peraltro ?????????????????????.
(9.
Gen.
1821.)
Quanta sia la forza d'immaginazione nei fanciulli, e com'ella sia tale che le concezioni derivatene nella prima età, influiscono grandemente anche nel resto della vita, si può vedere ancora in questa osservazione minuziosa.
Noi da fanciulli per lo più concepiamo una certa idea, un certo tipo di ciascun nome di uomo: e la natura di questo tipo deriva dalle qualità delle prime o a noi più cognite e familiari persone che hanno portato quei tali nomi.
Formatoci nella fantasia questo tipo (il quale ancora corrisponde alle circostanze particolari di quelle persone relativamente [482]a noi, alle nostre simpatie, antipatie ec.) sentendo dare lo stesso nome ad un'altra persona diversa da quella su cui ci siamo formati il detto tipo, noi concepiamo subito di quella persona un'idea conforme al detto tipo.
E il nome può essere elegantissimo, e quella tal persona bellissima: se quel tipo è stato da noi immaginato e formato sopra una persona odiosa o brutta; anche quell'altra bellissima, ci pare che di necessità debba esser tale: almeno troviamo una contraddizione tra il nome e il soggetto; o proviamo una ripugnanza a credere quel soggetto diverso da quel tipo e da quell'idea ec.
Così viceversa e relativamente alle varie qualità dei nomi e delle persone.
Ed anche da grandi, e dopo che l'immaginazione ha perduto il suo dominio, dura per lungo tempo e forse sempre questo tale effetto, almeno riguardo ai primi momenti, e proporzionatamente alla forza dell'impressione ricevuta da fanciulli, e dell'immagine concepita.
Io da fanciullo ho conosciuto familiarmente una Teresa vecchia, e secondo che mi pareva, odiosa.
Ed allora e oggi che son grande provo una certa ripugnanza a persuadermi che il nome di Teresa possa appartenere [483]ad una giovane, o bella, o amabile: o che quella che porta questo nome, possa aver questa qualità: e insomma sentendo questo nome, provo sempre un impressione e prevenzione sfavorevole alla persona che lo porta.
E ordinariamente l'idea che noi abbiamo dell'eleganza, grazia, dolcezza, amabilità di un nome, non deriva dal suono materiale di esso nome, nè dalle sue qualità proprie e assolute, ma da quelle delle prime persone chiamate con quel nome, conosciute o trattate da noi nella prima età.
Anche però viceversa potrà accadere che noi da fanciulli concepiamo idea della persona, dal nome che porta, massime se si tratta di persone lontane, o da noi conosciute solamente per nome: e giudichiamo della persona, secondo l'effetto che ci produce il nome, col suono materiale, o col significato che può avere, o con certe relazioni con altre idee.
E questo ci avviene ancora da grandi, sia per conseguenza dell'idea concepita nella fanciullezza, sia anche assolutamente: perchè è certo che noi non ascoltiamo il nome, ovvero il cognome di persona a noi tanto ignota, che sopra quella denominazione non ci [484]formiamo una tal quale idea sì dell'esterno che dell'interno di quella persona.
Idea più o meno confusa, più o meno viva, secondo le circostanze; ma ordinariamente chiarissima e vivissima ne' fanciulli, sebbene per lo più falsissima.
E massimamente i fanciulli (sempre lontani dall'indifferenza), secondo questa idea, si determinano all'odio o all'amore, a un certo genio o contraggenio verso quelle tali persone, non conosciute se non per nome.
(10.
Gen.
1821.)
Non si è mai letto di nessun antico che si sia ucciso per noia della vita, laddove si legge di molti moderni, e v.
il Suicidio ragionato di Buonafede.
Nè perchè questo accade oggidì massimamente in Inghilterra, si creda che questo fosse comune in quel paese anche anticamente, senza che ne rimanga memoria.
Dai poemi di Ossian si vede quanto gli antichi abitatori di quel paese fossero lontani dal concepire la nullità e noia necessaria della vita assolutamente; e molto più dal disperarsi e uccidersi per questo.
Gli antichi Celti e gli altri antichi si uccidevano per disperazioni [485]nate da passioni e sventure, non mai considerate come inevitabili e necessarie assolutamente all'uomo, ma come proprie dell'individuo, perciò disgraziato e infelice, e disperantesi.
La disperazione e scoraggimento della vita in genere, l'odio della vita come vita umana (non come individualmente e accidentalmente infelice), la miseria destinata e inevitabile alla nostra specie, la nullità e noia inerente ed essenziale alla nostra vita, in somma l'idea che la vita nostra per se stessa non sia un bene, ma un peso e un male, non è mai entrata in intelletto antico, nè in intelletto umano avanti questi ultimi secoli.
Anzi gli antichi si uccidevano o disperavano appunto per l'opinione e la persuasione di non potere, a causa di sventure individuali, conseguire e godere quei beni ch'essi stimavano ch'esistessero.
(10.
Gen.
1821.)
[486]Il desiderio di mettere gli altri a parte delle proprie sensazioni (o piacevoli o dispiacevoli come ho detto in altri pensieri) si può notare massimamente, ed ha tanto maggior forza quanto ciascun individuo è più vicino alla natura.
I fanciulli non lo possono frenare in nessun modo, tanto che per amore, per preghiere, o per forza d'importunità, [487]non communichino ai circostanti, o a quelli ch'essi vanno a cercare a posta, quei piaceri, quei dispiaceri, in somma quelle sensazioni notabili, e per loro alquanto straordinarie, che hanno sperimentato o sperimentano; come udendo una buona o cattiva musica, o suono o canto di qualunque sorta, che li colpisca: vedendo qualunque oggetto che faccia loro impressione ec.
e tanto in bene quanto in male.
Gli uomini poi più rozzi e ignoranti e incolti, e generalmente il volgo, non si può tenere che in simili circostanze, non gridi al vicino, vedi vedi, senti senti.
E questa esclamazione è così naturale che anche in una gran moltitudine presente allo stesso spettacolo ec.
tutti o moltissimi esclameranno lo stesso, senza o essere ascoltati da nessuno in particolare, o anche curarsi precisamente di farsi udire da questo o da quello.
Ma nessuno si può tenere dall'esclamare in quel modo, dando evidente indizio della inclinazione naturale che li porta al desiderio e voglia di partecipare.
E osservate che questa esclamazione si pronunzia bene spesso anche [488]nella solitudine e senza nessuno uditore, quando l'uomo provi simili sensazioni in tal circostanza: e noi diciamo vedi e senti quando anche non c'è chi possa vedere o sentire, e cerchiamo così in tutti i modi di soddisfare illusoriamente una voglia che non può essere soddisfatta realmente.
E sebben questo accade tanto più, quanto l'individuo tiene del primitivo, e tanto più frequentemente, quanto più spesso egli è suscettibile di maravigliarsi, o di provar sensazioni forti e vive; contuttociò è frequentissimo anche negli uomini più colti ec.
e basterebbe fare attenzione per vedere quanto spesso ci avvenga nella giornata senza che noi ce ne accorgiamo.
Ci avvenga, dico, o in solitudine e fra noi stessi, o in compagnia.
Ed io non credo che vi sia uomo sì taciturno, e nemico del parlare, del conversare, e del communicarsi altrui, che provando una sensazione straordinariamente forte e viva, non sia costretto quasi suo malgrado, o senza riflessione, e senza avvedersene, a prorompere in simili esclamazioni, dinotanti il desiderio e l'intenzione di communicare e far parte altrui di ciò ch'egli prova.
(10 Gen.
1821.)
[489]Floro I.
8.
Haec est prima aetas populi Romani et quasi infantia, quam habuit sub regibus septem, quadam fatorum industria.
Tam variis ingenio, ut Reipublicae ratio et utilitas postulabat.
Quel quadam fatorum industria a che ha relazione? All'avere avuto il popolo Romano una prima età ovvero un'infanzia? Cosa veramente straordinaria e bisognosa di molto ingegno dei destini.
Leggi continuamente, quadam fatorum industria tam variis ingenio ec.
perchè le dette parole non si possono riportare se non a queste che seguono; e queste dipendono intieramente da quelle.
V.
però
le ultime ediz.
di Floro.
(11.
Gen.
1821.)
Floro I.
12.
Veientium quanta res fuerit, indicat decennis obsidio.
Tunc primum hiematum sub pellibus: taxata stipendio hiberna: adactus miles sua sponte iureiurando, "nisi capta urbe remeare." Spolia de Larte Tolumnio rege ad Feretrium reportata.
Denique non scalis, nec irruptione, sed cuniculo, et subterraneis dolis peractum urbis excidium.
[490]Tutto questo fa un periodo solo, e non va distinto se non colle minori interpunzioni.
L'hiematum sub pellibus, il taxata hiberna, l'adactus miles, lo spolia reportata, il peractum excidium, non istanno da se, ma dipendono dal Veientium quanta res fuerit, indicat; come apparisce sì dalle cose stesse, come quello che Floro soggiunge immediatamente: Ea denique visa est praedae magnitudo, cuius decimae Apollini Pythio mitterentur: universusque populus Romanus ad direptionem urbis vocaretur.
HOC TUNC VEII FUERE.
Le quali parole chiudono la dimostrazione dell'antica grandezza e forza di Veio.
V.
però le ult.
edizioni di Floro.
(11 Gen.
1821.)
?????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????; disse quella vecchia fantesca a Talete caduto in una fossa mentre andava contemplando le stelle.
(Laerz.
1.34.
in Thalete.) [491]?O???? ??? ????? ?????????????, ? ???????, (dum coelum suspiceret.
Ficin.) ??? ??? ????????, ??????? ??? ?????, (in foveam.
id.) ??????? ??? ??????? ??? ???????? ???????? (Thracia quaedam eius ancilla concinna et lepida.
id.) ????????? ???????, ?? ?? ??? ?? ?????? ?????????? ???????,(pervidere contenderet.
id.), ?? ?? ????????? ????? ??? ???? ?????, ???????? ?????.
????? ?? ?????, (obiici potest.
id.
aptius, cadit, convenit) ?????? ??? ?????? ???? ?? ????????? ????????? (in philosophia versantur.
id.) Platone nel Teeteto, ? ???? ?????????, alquanto prima della metà.
(p.127.
f.
Lugduni 1590.) E v.
il Menag.
ad Laert.
I.
34.
E Diogene Cinico si maravigliava ????????...
???? ???????????( (cioè gli astronomi) ????????? ??? ???? ??? ????? ??? ??? ???????, ?? ?? ?? ???? ???????? ???????? (Laerz.
VI.
28.
in Diogene Cynico.).
Tutto questo si può dire non solo dei sapienti ma degli uomini in generale, e compiangere non solo l'impotenza del sapere umano, non solo il cattivo giudizio nello scegliere, cioè il [492]curarsi delle cose poste fuori della nostra sfera, e a noi straniere, e lasciar le vicine, e importanti per noi; ma anche la cecità, la miseria, l'inutilità, la dannosità del sapere umano: quando tutte le cose che noi dovevamo sapere, ed ancora che possiamo sapere, sono veramente ?????????????????????????????, e finalmente la sommità, l'ultimo grado del sapere, consiste in conoscere che tutto quello che noi cercavamo era davanti a noi, ci stava tra' piedi, l'avressimo saputo, e lo sapevamo già, senza studio: anzi lo studio solo e il voler sapere, ci ha impedito di saperlo e di vederlo; il cercarlo ci ha impedito di trovarlo.
E guardando in alto per informarci delle cose nostre, che ci stavano tra' piedi visibilissime, chiarissime, e ordinatissime, non le abbiamo vedute, e non le vediamo; e siamo per conseguenza caduti e cadiamo in tante fosse, primieramente di errori, secondariamente, che peggio è, di mali e infelicità.
Quanto non si è studiato, che cosa non si è consultata, quali confronti non si son fatti, quali rapporti non osservati, quali secreti, quali misteri [493]scoperti o cercati di scoprire, quante scienze, quante arti, quante discipline inventate, quante istituzioni fatte, o politiche o morali o religiose ec.
per iscoprire la nostra origine, i nostri destini, la natura delle cose, l'ordine universale, la nostra felicità! Ma noi eravamo felici naturalmente, e tali quali eravamo nati, l'ordine delle cose era quello nè più nè meno che ci stava innanzi agli occhi, quello ch'esisteva prima dei nostri studi i quali non hanno fatto altro che turbarlo; la natura era quella che noi sentivamo senza studiarla, trovavamo senza cercarla, seguivamo senza osservarla, ci parlava senza interrogarla: il bene e il male era veramente quello che noi credevamo naturalmente tale: i nostri destini erano quelli ai quali correvamo naturalmente, come il fiume al mare: la verità reale era quella che sapevamo senz'avvedercene, e senza pensare o credere di sapere.
Tutto era relativo, e noi abbiamo creduto tutto assoluto: noi stavamo bene come stavamo, e perciò appunto ch'eravamo fatti così; ma noi abbiamo cercato il bene, come diviso dalla nostra essenza, [494]separato dalla nostra facoltà intellettiva naturale e primigenia, riposto nelle astrazioni, e nelle forme universali.
Si è ricorso al cielo e alla terra, ai sistemi i più difficili (siano chimerici o sodi), in milioni di guise, per trovare quella felicità, quella condizione conveniente a noi, nella quale eravamo già stati posti nascendo: e non s'è trovata, se non quanto si è potuto conoscere ch'ella era appunto quella che avevamo prima di pensare a cercarla.
(12.
Gen.
1821.)
Hic sive invidia deum, sive fato, rapidissimus procurrentis imperii cursus parumper Gallorum Senonum incursione subprimitur.
Floro I.
13.
principio, entrando a raccontare la prima guerra gallica.
Floro 1.
13.
ed.
Manhem.
Adeo tum quoque in ultimis religio publica privatis adfectibus antecellebat.
Perchè tum quoque? Forse ne' tempi seguenti, e massime in quelli di Floro, cioè di Traiano, la religione pubblica fu più a cuor de' Romani, che ne' primi tempi di Roma? O non più tosto ella venne indebolendo a proporzione del tempo, e all'età di Floro, era, si può dire, estinta nel fatto? [495]E non solo ai Romani, ma a tutti i popoli è sempre avvenuto e avviene lo stesso.
Questa era cosa confessata da tutti anche allora, e la somma religiosità dell'antica Roma era notissima e famosissima.
Leggi: Adeo tum in ultimis quoque: allora anche nell'infima plebe la religione pubblica prevaleva alle affezioni private, laddove in seguito fu tutto l'opposto.
Io credo però che in ultimis l'abbiano inteso per in ultimis rebus o casibus, negli estremi frangenti, e così abbiano spiegato: Tanto anche in quel tempo, cioè nell'ultima calamità.
Male.
In ultimis vuol dire negl'infimi, come apparisce dalle parole di Floro che precedono.
V.
il Forcellini, e le ult.
ediz.
di Floro.
V.
p.510.
capoverso 2.
Floro 1.
13.
avendo detto che i Romani distrussero la gente dei Galli Senoni in maniera che hodie nulla Senonum vestigia supersint, soggiunge con breve intervallo: ne quis exstaret in ea gente, quae incensam a se Romam urbem gloriaretur.
Che vada letto qui per quae non par da dubitare, e sarà già osservato.
Ma e così, [496]e in ogni modo, come avea da restare alcuno in quella gente, se questa era tutta distrutta? Leggo: ex ea gente: acciò non restasse nessuno DI quella gente.
Chiunque ha senso o di latinità o solamente di ragione, conoscerà che la preposizione in qui non ha luogo.
(12.
Gen.
1821.)
Chiunque è sommo in qualsivoglia professione per triviale o leggera o poco rilevante ch'ella sia, certo è che poteva esser grande in altra professione di più alto affare.
Perchè non si arriva alla perfezione in veruna cosa per piccola ch'ella sia, senza molta e singolare virtù, forza, capacità, facilità, e idoneità d'indole e d'ingegno.
(13.
Gen.
1821.)
Dicono e suggeriscono che volendo ottener dalle donne quei favori che si desiderano, giova prima il ber vino, ad oggetto di rendersi coraggioso, non curante, pensar poco alle conseguenze, e se non altro brillare nella compagnia coi vantaggi della disinvoltura.
Voltaire consiglia scherzosamente di bere, per dimenticare o liberarsi dall'amore.
[497]Ou bien buvez: c'est un parti fort sage.
Non so quanto bene.
Il vino, ossia la forza del corpo, come ho detto altrove, ed è vero, sebbene inclini all'allegrezza, e sopisca i dolori dell'animo, contuttociò dà risalto alle passioni dominanti o abituali di ciascheduno.
Bensì le rallegrerà, e darà speranza anche allo sventurato o disperato in amore.
V.
p.501 capoverso 1
Favella e favellare derivano evidentemente da fabula e fabulari mutato al solito il b in v, come da fabula diciamo pure favola; onde è come se dicessimo fabella e fabellare.
Qui non c'è niente di notabile o strano: la cosa va da se, e sarà stata notata da tutti gli Etimologi.
Ma che ha da far la favella e il favellare col favoleggiare e colle favole? Qui appunto consiste il singolare e l'osservabile in questa derivazione.
Perocchè l'antico e primitivo significato di fabula, non era favola, ma discorso, da for faris, quasi piccolo discorso, onde poi si trasferì al significato di ciancia [498]nugae, e finalmente di finzione e racconto falso.
Appunto come il greco ????? nel suo significato proprio, valeva lo stesso che ?????, verbum dictum oratio sermo colloquium, e da Omero non si trova, cred'io, adoperato se non in questa o simili significazioni, così esso come i suoi derivati.
Poi fu trasferito alla significazione di favola.
Il detto senso di fabula, fabulator, fabulo, fabulor, confabulor etc.
è evidente negli scrittori latini di tutti i buoni secoli, massime però ne' più antichi e più puri.
V.
il Forcellini in tutte queste voci.
Ma dopo, e massimamente ne' bassi tempi il significato usuale e comune di fabula nelle scritture non era altro che favola.
E tuttavia la nostra lingua ha ritenuto espressamente questa parola (la quale, come ho detto, è la stessa nostra di favella) nel suo antichissimo, primitivo e proprio valore.
Certo non è andata a pescare questo significato nelle antichissime memorie, e nei primi scrittori.
Bisogna dunque che la detta significazione tal qual era da principio sia pervenuta di mano in mano, e conservata e continuata senza [499]interruzione fino alla nascita e alle origini della nostra lingua.
Ora ciò non può essere stato se non per mezzo del volgo latino; tanto più che gli scrittori, quando anche avessero conservata in uso la detta significazione sino all'ultimo, non avrebbero mai potuto essi soli comunicarla al volgo, e renderla volgare, usuale, comune, propria e primitiva in una lingua nascente, quando il significato più comune di quella parola fose stato un altro.
E tale era infatti appresso gli scrittori.
Del resto come ????? e fabula vuol dire al tempo stesso discorso e favola, e da quel primo significato fu trasferito al secondo così viceversa nella nostra lingua novella e novellare, dal significato di favola o racconto, trasferiti a quello di ciance o di favella, hanno parimente nel tempo stesso il valore di favola e di discorso.
V.
la Crusca.
(13.
Gen.
1821.).
V.
p.871.
fine.
La fecondità e istabilità e velocità della immaginazione e concezione (vera o falsa, che [500]ciò non monta) ne' fanciulli, apparisce ancora da una osservazione che ho fatta in quelli che trovandosi in età di mezzana fanciullezza (6.
7.
8.
anni, o cosa simile), e sapendo già tanto e più di lingua da potere infilare un discorso, nondimeno sebbene sieno loquaci, anzi quanto più sono loquaci, (il che è segno di fecondità) tanto più esitano e stentano, nel fare un discorso continuato, un racconto ec.
Ho dunque notato che ciò non deriva principalmente dalla difficoltà di trovare o combinar le parole (anzi come ho detto, i più loquaci sono più soggetti a questo: i meno loquaci riescono molto meglio in un discorso abbastanza lungo e seguìto); ma dalla moltiplicità delle idee che si affollano loro in mente.
Onde non sanno scegliere, si confondono, saltano di palo in frasca, mutano anche totalmente e improvvisamente soggetto; i loro discorsi non hanno nè capo nè coda, e avendo incominciato colla testa dell'uomo, finiscono colla coda del pesce.
Quanta dunque non dev'essere l'attività interna, la moltiplicità delle occupazioni ancorchè disoccupatissimi, la facilità di distrarsi, e alleggerire o spegnere [501]i pensieri o le sensazioni dolorose, la varietà, e nel tempo stesso la vivacità delle immagini e concezioni (giacchè ciascuna è capace di strapparli intieramente da quella che presentemente gli occupa); in somma la vita dell'animo, e per conseguenza la felicità de' fanciulli anche i meno felici rispetto alle circostanze esteriori!
Alla p.497.
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Amorem sedat fames; sin minus, tempus:
Eis vero si uti non vales, laqueus.
Detto di Crate Cinico presso il Laerzio (VI.
86.
in Cratete Thebano) mentovato anche da altri scrittori, e riferito con qualche diversità da Stobeo, e da Suida.
V.
il Menagio e l'Aldobrandini.
(13.
Gen.
1821.).
Come gl'italiani per proprietà di lingua dicono muovere in maniera neutra per muoversi, andare, camminare ec.
così fra' latini, oltre i citati dal Forcellini, Floro 1.
13.
Sed quod ius apud barbaros? ferocius agunt.
Movent, et inde certamen.
Parla dei Galli Senoni conversis a Clusio, Romamque venientibus, come [502]soggiunge immediatamente.
E II.
8.
quum ingenti strepitu ac tumultu movisset ex Asia (Antiochus).
(14.
Gen.
1821.) V.
Sveton.
in D.
Julio c.60.1.
e quivi le note degli eruditi.
Come dice Dante Quinci si va, CHI vuole andar per pace, idiotismo assai comune e usitato nella nostra lingua, così anche i latini.
Floro II.
15.
sul principio: Atque SI QUIS trium temporum momenta consideret, primo commissum bellum, profligatum secundo, tertio vero confectum est.
Parla delle 3.
guerre Puniche.
(14.
Gen.
1821.).
Più manifesto, e conforme all'uso italiano è questo idiotismo (vero idiotismo, perchè non è locuzioneregolare, anzi falsa secondo la dialettica e la costruzione) in Orazio Od.
16.
l.
.2.
v.13.
VIVITUR parvo bene, CUI paternum ec.
cioè si cui (che neppur essa sarebbe locuzione regolarissima) ma è omesso il si, come appunto in italiano.
Floro II.
15.
Sed huius caussa belli (tertii Punici) (scil.
fuit), quod contra foederis legem (Carthago) adversus Numidas quidem semel parasset classem et exercitum, frequens autem Masinissae fines territabat.
Sed huic bono socioque regi favebatur.
Questa enallage o transizione da parasset a territabat qui non conviene.
Trovo però in altre edizioni territaret.
Ma di più quel quidem e quell'autem sono particelle avversative, o disgiuntive.
Ma come ora si legge, queste particelle non possono servire, ed effettivamente non servono ad altro, che a distinguere i Numidi da Massinissa.
[503]Laddove erano la stessa cosa, e contro Massinissa era stato quel preparativo di Cartagine che Floro dice contro i Numidi.
V.
gli storici.
Leggo: Masinissa (v.
però gli Storici, se ciò è vero di lui) e volentieri ancora trasferirei il quidem dopo semel.
La cagione di questa guerra fu che contro i patti Cartagine aveva una volta preparato esercito e flotta contro i Numidi.
Massinissa però frequentemente (vedete il frequens autem opposto al semel quidem, e così mi pare che debba essere in qualunque modo si voglia intendere questo luogo, perchè l'adversus Numidas quidem che opposizione o forza disgiuntiva ha con frequens autem?) infestava i di lei confini.
Ma (notate quel ma, che intendendo il luogo in altro senso, non istà convenientemente) i Romani favorivano questo buono e alleato principe.
(14.
Gen.
1821.)
In luogo che un'anima grande ceda alla necessità, non è forse cosa che tanto la conduca all'odio atroce, dichiarato, e selvaggio contro se stessa, e la vita, quanto la considerazione della necessità e irreparabilità de' suoi mali, infelicità, disgrazie [504]ec.
Soltanto l'uomo vile, o debole, o non costante, o senza forza di passioni, sia per natura, sia per abito, sia per lungo uso ed esercizio di sventure e patimenti, ed esperienza delle cose e della natura del mondo, che l'abbia domato e mansuefatto; soltanto costoro cedono alla necessità, e se ne fanno anzi un conforto nelle sventure, dicendo che sarebbe da pazzo il ripugnare e combatterla ec.
Ma gli antichi, sempre più grandi, magnanimi, e forti di noi, nell'eccesso delle sventure, e nella considerazione della necessità di esse, e della forza invincibile che li rendeva infelici e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato, e bestemmiavano gli Dei, dichiarandosi in certo modo nemici del cielo, impotenti bensì, e incapaci di vittoria o di vendetta, ma non perciò domati, nè ammansati, nè meno, anzi tanto più desiderosi di vendicarsi, quanto la miseria e la necessità era maggiore.
Di ciò si hanno molti esempi nelle storie.
Il fatto di Giuliano moribondo, non so se sia storia o favola.
Di Niobe, dopo la sua sventura, [505]si racconta, se non fallo, come bestemmiava gli Dei, e si professava vinta, ma non cedente.
Noi che non riconosciamo nè fortuna nè destino, nè forza alcuna di necessità personificata che ci costringa, non abbiamo altra persona da rivolger l'odio e il furore (se siamo magnanimi, e costanti, e incapaci di cedere) fuori di noi stessi; e quindi concepiamo contro la nostra persona un odio veramente micidiale, come del più feroce e capitale nemico, e ci compiaciamo nell'idea della morte volontaria, dello strazio di noi stessi, della medesima infelicità che ci opprime, e che arriviamo a desiderarci anche maggiore, come nell'idea della vendetta, contro un oggetto di odio e di rabbia somma.
Io ogni volta che mi persuadeva della necessità e perpetuità del mio stato infelice, e che volgendomi disperatamente e freneticamente per ogni dove, non trovava rimedio possibile, nè speranza nessuna; in luogo di cedere, o di consolarmi colla considerazione dell'impossibile, e della necessità indipendente da me, [506]concepiva un odio furioso di me stesso, giacchè l'infelicità ch'io odiava non risiedeva se non in me stesso; io dunque era il solo soggetto possibile dell'odio, non avendo nè riconoscendo esternamente altra persona colla quale potessi irritarmi de' miei mali, e quindi altro soggetto capace di essere odiato per questo motivo.
Concepiva un desiderio ardente di vendicarmi sopra me stesso e colla mia vita della mia necessaria infelicità inseparabile dall'esistenza mia, e provava una gioia feroce ma somma nell'idea del suicidio.
L'immobilità delle cose contrastando colla immobilità mia; nell'urto, non essendo io capace di cedere, ammollirmi e piegare; molto meno le cose; la vittima di questa battaglia non poteva essere se non io.
Oggidì (eccetto nei mali derivati dagli uomini) non si riconosce persona colpevole delle nostre miserie, o tale che la Religione c'impedisce in tutti i modi di creder colpevole, e quindi degna di odio.
Tuttavia anche nella Religione di oggidì, l'eccesso dell'infelicità indipendente [507]dagli uomini e dalle persone visibili, spinge talvolta all'odio e alle bestemmie degli enti invisibili e superiori: e questo, tanto più quanto più l'uomo (per altra parte costante e magnanimo) è credente e religioso.
Giobbe si rivolse a lagnarsi e quasi bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso, la sua vita, la sua nascita ec.
(15.
Gen.
1821.)
Gli adulatori e gli amici dei tiranni non guadagnano altro se non di essere esclusi dalla misericordia che le generazioni future porteranno all'età e generazioni loro.
E di partecipare all'odio senza essere stati esenti dai pericoli e dai mali, anzi tutto l'opposto, e spesso più degli altri.
(15.
Gen.
1821.)
Qual è la più grata compagnia? Quella che rileva l'idea che abbiamo di noi medesimi; quella che ci fa compiacere di noi stessi, che ci persuade di valer più che non credevamo, che ci mostra come lodevoli alcune qualità, dove non credevamo di meritar lode, o non tanta; [508]quella da cui partiamo con maggiore stima di noi, che ci lascia più soddisfatti di noi stessi.
Tutto è amor proprio nell'uomo e in qualunque vivente.
Amabile non pare e non è, se non quegli che lusinga, giova ec.
l'amor proprio degli altri.
Questa è una delle principali osservazioni ed artifizi per farsi stimare di buona compagnia, rendersi piacevole e amabile, farsi desiderare e far fortuna: nominatamente nella galanteria.
Cosa ben conosciuta dai professori di quest'ultima arte.
V.
quello che Lord Nelvil [dice] di Mad.
d'Arbigny presso la Staël nella Corinna.
Si desidera bene spesso la compagnia di qualcuno, ci si trova un pascolo un piacere nuovo e straordinario: nè si vede bene perchè, ma si attribuisce all'amabilità delle sue maniere e del suo carattere.
La ragion vera [è] ch'egli sa fare che noi ci stimiamo da più di quello che facessimo, o confermarci nella buona opinione che avevamo di noi.
(15.
Gen.
1821.)
Come noi diciamo in paragone, in comparazione per rispetto, appetto, verso, appresso, così Floro II.
15.
della terza Punica: et in comparatione priorum, [509]minimum labore.
Il Forcellini non ha esempio di questa locuzione, eccetto uno di Curzio che la contiene materialmente, ma non equivale nel senso; quas in comparatione meliorum, avaritia contempserat.
L'Appendice nulla.
(15 Gen.
1821.)
Il Petrarca nella canzone Italia mia.
Ed è questo del seme,
Per più dolor, del popol senza legge
Al qual, come si legge,
Mario aperse sì 'l fianco,
Che memoria de l'opra anco non langue,
Quando assetato e stanco,
Non più bevve del fiume acqua che sangue.
Non è stato osservato, ch'io sappia, che quest'ultima iperbole è levata di peso da Floro III.
3.
nel racconto che fa di quella medesima battaglia contro i Teutoni, della quale il Petrarca.
Ut victor Romanus de cruento flumine non plus aquae biberit quam sanguinis Barbarorum.
Giacchè l'armata Romana era assetata, e combattè quasi per l'acqua.
E forse Floro ha preso questa immagine da quel luogo di Tucidide nell'assedio di Siracusa, riferito ed esaminato da Longino.
(15.
Gen.
1821.).
V.
p.724.
principio.
[510]Floro III.
3.
Iam diem pugnae a nostro Imperatore petierunt, et sic proximum dedit.
In patentissimo, quem Raudium vocant, campo concurrere.
Leggerei: et hic p.
d..
(15.
Gen.
1821.)
Alla p.495.
Così II.
14.
vir ULTIMAE sortis Andriscus.
Così Velleio I.
II.
sect.1 qui se Philippum, regiaeque stirpis ferebat, cum esset ULTIMAE.
Del resto o sia sbaglio dei Codd.
o proprietà di Floro, e figura grammaticale a lui familiare, io trovo anche altre volte il quoque messo da lui piuttosto prima che dopo quello a cui pare che si dovrebbe effettivamente riferire, considerando il sentimento.
Così II.
14.
fine.
Sebbene quivi si potrà forse spiegare e tollerare.
Ma III.
6.
dove dice di Pompeo destinato alla guerra Piratica, Sic ille quoque ante felix, dignus nunc victoria Pompeius visus est.
Il quoque non par che si possa riportare se non all'ante e non all'ille (quantunque i pirati fossero stati già combattuti e vinti da P.
Servilio l'Isaurico) perchè la forza di questo luogo par che consista nella contrapposizione dell'ante felix, col dignus nunc victoria.
Onde pare che il luogo vada corretto.
V.
il Forcellini dove parla del quoque congiunto coll'et [511]o etiam.
V.
pure le ult.
ediz.
di Floro.
Alla p.96.
Dalla bianchezza di quella porca si crede che derivasse il nome di Alba dato alla città fondata da Ascanio, e questo pure può confermare il mio sospetto, avendola fondata Ascanio quasi nuova troia.
(15 Gen.
1821.)
In questi luoghi di Floro: Postquam rogationis dies aderat, ingenti stipatus agmine (Tib.
Gracchus) rostra conscendit: nec deerat obvia manu tota INDE (e non ha detto, nè anche accennato da che luogo) nobilitas, et tribuni in partibus (III.
14.): e: Quum se in Aventinum recepisset (C.
Gracchus), INDE quoque obvia Senatus manu, ab Opimio consule oppressus est (III.
15.) l'inde non par che si possa intendere se non per ibi o illuc, eo, ec.
E in questo senso si può paragonare l'uso di questa particella fatto da Floro, a quello che i nostri antichi fecero dell'onde, quinci, quindi.
V.
la Crusca.
e allo Spagnuolo donde che val sempre dove.
E bisogna notare che in questo senso Floro congiunge la particella inde col nome obvius.
E non perciò pare che significhi, o possa significare moto da luogo, ma stato, o moto a luogo.
(come gli antichi italiani, onde vai, per dove vai) QUO LOCO inter [512]se OBVII fuissent.
Sallust.
Cui mater MEDIÂ se se tulit OBVIA SILVÂ.
Virgil.
Questi esempi recati dal Forcellini fanno per l'uso di obvius in luogo.
Esempi di obvius unito a particelle o casi che indichino moto da luogo, non ne ha nè il Forcellini, nè l'Appendice, e in ogni modo qui non par che farebbero al caso.
Neanche ne hanno di obvius con particelle o casi indicanti moto a luogo, come illuc obvius, ovvero eo obvius, ovvero ad eum obvius o simili.
Solamente questo di Virgilio: Audeo TYRRHENOS EQUITES ire obvia CONTRA.
Del resto obvius negli esempi del Forcellini è assoluto, o unito al solito col dativo: obvius illi, mihi, ec.
Nè alla voce inde nè alla voce unde, il Forcellini o l'Appendice non hanno questi luoghi di Floro, nè altro esempio o cenno veruno nè pur lontano di questo significato.
(16.
Gen.
1821) V.
pur nella Crusca altronde per altrove, ed aggiungi questo esempio di Bernardino Baldi, egloga 10.
Melibea, verso il fine, (Versi e prose di Mons.
Bern.
Baldi.
Venetia 1590.
p.204.) Fuggiam fuggiamo altronde, Ch'a noi sen vien a volo Di vespe horrido stuolo, E sotto aurato manto il ferro asconde.
V.
nel Forc.
aliunde in un esempio per alibi.
V.
pure il Dufresne in inde, unde, aliunde, alicunde ec.
se ha nulla al caso.
V.
p.1421.
Difficilmente il dolor solo dell'animo, ha forza di uccidere, o cagionare un'estrema malattia, ed è più facile il fingere questi casi nei romanzi, che trovarne esempi reali nella vita: sebbene [513]molte volte si attribuiscono a dolor d'animo quelle infermità che vengono da tutt'altro, o almeno, anche da altre cause.
E massimamente è difficile e strano che il dolor d'animo, una sventura non corporale ec.
cagionino morte o malattia lungo tempo dopo nato, o avvenuta la detta sventura ec.
e che in somma la vita dell'uomo si vada consumando e si spenga a poco a poco per le sole malattie particolari dell'animo.
(non dico le generali, perchè certamente il cattivo stato del nostro animo influisce in genere moltissimo sulla durata della vita, la salute il vigore ec.) Qual è la cagione? Che il tempo medica tutte le piaghe dell'animo.
Ma come? Coll'assuefazione, lo so, e grandemente, ma non già con questa sola.
Una gran cagione del detto effetto, è ancora che le illusioni poco stanno a riprender possesso e riconquistare l'animo nostro, anche malgrado noi; e l'uomo (purchè viva) torna infallibilmente a sperare quella felicità che avea disperata; prova quella consolazione [514]che avea creduta e giudicata impossibile; dimentica e discrede quell'acerba verità, che avea poste nella sua mente altissime radici; e il disinganno più fermo, totale, e ripetuto, e anche giornaliero, non resiste alle forze della natura che richiama gli errori e le speranze.
(16.
Gen.
1821.)
Da fanciulli, se una veduta, una campagna, una pittura, un suono ec.
un racconto, una descrizione, una favola, un'immagine poetica, un sogno, ci piace e diletta, quel piacere e quel diletto è sempre vago e indefinito: l'idea che ci si desta è sempre indeterminata e senza limiti: ogni consolazione, ogni piacere, ogni aspettativa, ogni disegno, illusione ec.
(quasi anche ogni concezione) di quell'età tien sempre all'infinito: e ci pasce e ci riempie l'anima indicibilmente, anche mediante i minimi oggetti.
Da grandi, o siano piaceri e oggetti maggiori, o quei medesimi che ci allettavano da fanciulli, come una bella prospettiva, campagna, pittura ec.
proveremo un piacere, ma non sarà più simile in nessun modo all'infinito, o certo non sarà così intensamente, sensibilmente, durevolmente ed essenzialmente vago e indeterminato.
Il piacere di quella sensazione si determina subito e si circoscrive: appena comprendiamo [515]qual fosse la strada che prendeva l'immaginazione nostra da fanciulli, per arrivare con quegli stessi mezzi, e in quelle stesse circostanze, o anche in proporzione, all'idea ed al piacere indefinito, e dimorarvi.
Anzi osservate che forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranza della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono come un influsso e una conseguenza di lei; o in genere, o anche in ispecie; vale a dire, proviamo quella tal sensazione, idea, piacere, ec.
perchè ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sensazione immagine ec.
provata da fanciulli, e come la provammo in quelle stesse circostanze.
Così che la sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un'immagine degli oggetti, ma della immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso della immagine antica.
E ciò accade frequentissimamente.
(Così io, nel rivedere quelle stampe piaciutemi vagamente da fanciullo, [516]quei luoghi, spettacoli, incontri, ec.
nel ripensare a quei racconti, favole, letture, sogni ec.
nel risentire quelle cantilene udite nella fanciullezza o nella prima gioventù ec.) In maniera che, se non fossimo stati fanciulli, tali quali siamo ora, saremmo privi della massima parte di quelle poche sensazioni indefinite che ci restano, giacchè la proviamo se non rispetto e in virtù della fanciullezza.
E osservate che anche i sogni piacevoli nell'età nostra, sebbene ci dilettano assai più del reale, tuttavia non ci rappresentano più quel bello e quel piacevole indefinito come nell'età prima spessissimo.
(16.
Gen.
1821.)
Oltre la compassione, si può notare come indipendente affatto dall'amor proprio, un altro moto naturale, che sebbene somiglia alla compassione, non per ciò è la stessa cosa.
Ed è quella certa sensibilissima pena che noi proviamo nel vedere p.e.
un fanciullo fare una cosa la quale noi sappiamo che gli farà male: un uomo che si esponga a un manifesto pericolo; una persona vicina a cadere in qualche precipizio, senz'avvedersene.
[517]E simili.
Questo dei mali non ancora accaduti.
Allora proviamo ancora un'assoluta necessità d'impedirlo, se possiamo, e se no una pena assai maggiore.
Certo è che il veder uno che si fa male o sta per soffrire, o volontariamente, o non sapendo ec.
il vederlo, e non impedirlo, o non sentirsi accorare non potendo, è contro natura.
Nell'atto dei mali parimente, vedendo qualcuno cadere ec.
ancorchè quel male non sia degli orribili e stomachevoli all'apparenza, contuttociò ne proviamo naturalmente e indeliberatamente gran pena.
E chi osserverà bene, questi moti sono distinti dalla compassione, la quale vien dietro al male, e non lo precede, o accompagna.
Anche nelle cose inanimate, o negli esseri d'altra specie dalla nostra, vedendo a perire, o in pericolo di perire o guastarsi, un oggetto bello, prezioso, raro, utile, e che so io, un animale ec.
proviamo lo stesso sentimento doloroso, la stessa necessità di esclamare, d'impedirlo potendo.
ec.
E ciò, quantunque quella cosa [518]non appartenga a veruno in particolare, e la sua perdita o guasto non danneggi nessuno in particolare.
Così che quel sentimento dispiacevole che noi proviamo allora, si riferisce immediatamente all'oggetto paziente, forse ancora quand'esso abbia un possessore, e che questo c'interessi.
Dicono che la donna è ben forte, quando può vedere a rompere la sua porcellana senza turbarsi.
Ma non solamente le donne; anche gli uomini; e non solamente nelle cose proprie, anche nelle altrui, o comuni, o di nessuno, purch'elle sieno di un certo conto, provano nei detti casi la detta sensazione, indipendentemente dalla volontà.
La radice di questo sentimento non par che si possa trovare nell'amor proprio.
Par che la natura nostra abbia una certa cura di ciò ch'è degno di considerazione, e una certa ripugnanza a vederlo perire, sebbene affatto alieno da noi.
V.
la pagina seguente.
L'orrore della distruzione (il quale si potrebbe in ultima analisi riportare all'amor proprio) non par che [519]abbia parte in questo, almeno principalmente.
Noi vediamo perire tuttogiorno senza ripugnanza, o cura d'impedirlo, mille cose di cui non facciamo conto.
(17.
Gen.
1821.)
Alla pagina superiore.
Par ch'ella ci abbia tutti incaricati in solido, di provvedere per parte nostra alla conservazione di tutto il buono, (osservate queste parole, le quali potrebbero estender di molto questo pensiero, p.e.
al morale, al bello di ogni genere e immateriale ec.), e impedirne la distruzione, e che questa danneggi positivamente ciascuno per la sua parte.
In questo aspetto forse si potrebbe riferire alla lunga all'amor proprio, e forse no.
Alla p.468.
Oltre che nella Salita di Ciro l'autore parla di Senofonte con un tale temperamento di modestia, e di amore, col quale chiunque conosca il cuore umano, leggendo la detta opera, riconosce a prima vista che l'uomo non parla nè può parlare se non di se stesso.
(17.
Gen.
1821)
[520]L'intiera filosofia è del tutto inattiva, e un popolo di filosofi perfetti non sarebbe capace di azione.
In questo senso io sostengo che la filosofia non ha mai cagionato nè potuto cagionare alcuna rivoluzione, o movimento, o impresa ec.
pubblica o privata; anzi ha dovuto per natura sua piuttosto sopprimerli, come fra i Romani, i greci ec.
Ma la mezza filosofia è compatibile coll'azione, anzi può cagionarla.
Così la filosofia avrà potuto cagionare o immediatamente o mediatamente la rivoluzione di Francia, di Spagna ec.
perchè la moltitudine, e il comune degli uomini anche istruiti, non è stato nè in Francia nè altrove mai perfettamente filosofo, ma solo a mezzo.
Ora la mezza filosofia è madre di errori, ed errore essa stessa; non è pura verità nè ragione, la quale non potrebbe cagionar movimento.
E questi errori semifilosofici, possono esser vitali, massime sostituiti ad altri errori per loro particolar natura mortificanti, come quelli derivati da un'ignoranza barbarica e diversa dalla naturale; anzi contrari ai dettami ed alle [521]credenze della natura, o primitiva, o ridotta a stato sociale ec.
Così gli errori della mezza filosofia, possono servire di medicina ad errori più anti-vitali, sebben derivati anche questi in ultima analisi dalla filosofia, cioè dalla corruzione prodotta dall'eccesso dell'incivilimento, il quale non è mai separato dall'eccesso relativo dei lumi, dal quale anzi in gran parte deriva.
E infatti la mezza filosofia è la molla di quella poca vita e movimento popolare d'oggidì.
Trista molla, perchè, sebbene errore, e non perfettamente ragionevole, non ha la sua base nella natura, come gli errori e le molle dell'antica vita, o della fanciullesca, o selvaggia ec.: ma anzi finalmente nella ragione, nel sapere, in credenze o cognizioni non naturali e contrarie alla natura: ed è piuttosto imperfettamente ragionevole e vera, che irragionevole e falsa.
E la sua tendenza è parimente alla ragione, e quindi alla morte, alla distruzione, e all'inazione.
E presto o tardi, ci [522]deve arrivare, perchè tale è l'essenza sua, al contrario degli errori naturali.
E l'azione presente non può essere se non effimera, e finirà nell'inazione come per sua natura è sempre finito ogni impulso, ogni cangiamento operato nelle nazioni da principio e sorgente filosofica, cioè da principio di ragione e non di natura inerente sostanzialmente e primordialmente all'uomo.
Del resto la mezza filosofia, non già la perfetta filosofia, cagionava o lasciava sussistere l'amor patrio e le azioni che ne derivano, in Catone, in Cicerone in Tacito, Lucano, Trasea Peto, Elvidio Prisco, e negli altri antichi filosofi e patrioti allo stesso tempo.
Quali poi fossero gli effetti de' progressi e perfezionamento della filosofia presso i Romani è ben noto.
Osservate ancora che il movimento e il fervore cagionato oggidì dalla mezza filosofia, va perdendo di giorno in giorno necessariamente tanti fautori e promotori ec.
quanti si vanno di mano in mano perfezionando nella filosofia coll'esperienza ec.
e quanti di semifilosofi, divengono o diverranno appoco appoco filosofi.
(17.
Gen.
1821.)
Nisi quod magnae indolis signum est, sperare [523]semper.
Floro IV.
8.
Sed quanto efficacior est fortuna quam virtus! et quam verum est quod moriens (Brutus) efflavit, "non in re, sed in verbo tantum esse virtutem." Floro IV.
7.
Floro IV.
6.
Quid contra duos exercitus necesse fuit venire in cruentissimi foederis societatem? Trasponete l'interrogativo dopo exercitus.
Così vuole il contesto, e anche la semplice osservazione di questo passo, perch'io non so come il venire in foederis societatem con due eserciti (di Antonio e di Lepido), s'abbia da poter dire contra duos exercitus.
V.
le ult.
ediz.
di Floro.
(18.
Gen.
1821.)
Molto acutamente Floro dice di Antonio il triumviro: Desciscit in regem: nam aliter salvus esse non potuit, nisi confugisset ad servitutem.
(IV.
3.) Ottimamente di un uomo corrotto e depravato come Antonio: non poteva essere se non signore o servo: libero e uguale agli [524]altri, non poteva.
E così quasi tutti i Romani di quello e de' seguenti tempi: così la massima parte degli uomini d'oggidì.
Non c'è altro stato che non convenga loro, fuorchè l'uguaglianza e la libertà.
Non saprebbero se non regnare, o come fanno, servire.
Ma servendo, sarebbero più adattati al regno che alla libertà.
E tale è la natura degli uomini servi per carattere, e corrotti dall'incivilimento, spogli di virtù, di magnanimità, di entusiasmo, di sentimenti e passioni grandi forti e nobili, d'integrità, di coraggio, d'ingegno, di eroismo, capacità di sacrifizi, ec.
ec.
Tutte cose necessarie a mantenersi individualmente, e a mantenere relativamente e generalmente lo stato uguale e libero di un popolo.
In chi domina l'egoismo, non può che servire o regnare.
Così i nostri principi.
Regnano, e saprebbero servire.
(Così i nostri magistrati, ministri, grandi.
Regnano e servono.
Sanno riunir l'una cosa all'altra.
Le mettono effettivamente in opera ambedue.) Ma come sarebbero capacissimi di servitù (e perciò appunto che regnano come fanno, e che son tali signori), così sarebbero incapaci di libertà e di uguaglianza.
Questa non può nè convenire particolarmente, nè conservarsi in una nazione, senza le qualità e le forze della natura.
Un uomo o una nazione snaturata, non può esser libera, nè [525]molto meno uguale: non può se non regnare o servire.
La libertà richiede homines non mancipia, ????????????????????????, e chi è schiavo o dei padroni servendo, o di se stesso, dell'egoismo, e delle basse inclinazioni regnando, non può comportare lo stato libero, nè uguale.
L'amor di se stesso è inseparabile dall'uomo.
Questo lo porta ad innalzarsi.
Dove l'innalzamento ec.
in somma la soddisfazione dell'amor proprio è impossibile, quivi l'uomo non può vivere.
Ora nello stato di perfetta libertà ed uguaglianza, l'individuo non fa progressi senza virtù e pregi veri, perchè la sua fortuna, gli onori, le ricchezze, i vantaggi ec.
dipendono dalla moltitudine, la quale non potendo giudicare secondo gli affetti e inclinazioni particolari, perchè queste son varie e infinite, e non si accordano insieme, bisogna che giudichi secondo le regole e le opinioni universali, cioè le vere.
Chi dunque manca di virtù e pregi veri (e tali sono gli uomini corrotti), non può sopportare la libertà e l'uguaglianza, nè trovar vita in questo stato.
(18.
Gen.
1821.)
Sane quod Poematis delectari se ait, id [526]non abhorret ab huius compendii scriptore, quando stylus eius est in historia declamatorius, ac Poetico propior, adeo ut etiam hemistichia Virgilii profundat: dice G.
G.
Vossio di Floro.
(de Historic.
latt.
l.1.) Nel lib.
IV.
c.11.
dove Floro dice di Antonio il triumviro: patriae, nominis, togae, fascium oblitus, pare che questa sia un'imitazione di Orazio: (Od.
5.
l.3.
v.10.)
Anciliorum, NOMINIS et TOGAE
BLITUS aeternaeque Vestae.
(18.
Gen.
1821.).
V.
p.723.
fine.
Alla p.477.
Floro è noto per il molto che ha di poetico, non solo nell'invenzione, nell'immaginazione, evidenza, fecondità, come Livio, ma nella sentenza e nella frase, anzi non tanto nella facoltà, quanto nella maniera, nello stile, e nella volontà.
E in ogni modo Floro ha tanto di gravità, nobiltà, posatezza, ed ancora castigatezza, in somma tanto sapor di prosa, quanto non si troverà facilmente in nessun moderno, se non forse, ma dico forse, in qualcuno de' nostri cinquecentisti.
E quella stessa dose di pregi (senza [527]i quali però non ci può esser buona nè vera prosa) basterebbe per fare ammirare uno scrittore de' nostri tempi, e farlo giudicare sommo ed unico.
(Aggiungete tutto quello che spetta alla lingua: eleganza, purità sufficientissima, armonia, varietà ec.
forma de' periodi, e loro disposizione e connessione ec.) Ora i migliori e sommi prosatori francesi, in ordine a questi pregi, non sono degni di venir nemmeno in confronto con uno de' peggiori ed infimi classici latini.
(19.
Gen.
1821.)
I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto.
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(Elegiae scriptor non satis probatus) ?I????3???.
(Ita enim se habet res) ??????? ??? ??? ????????????? ???????????, ?????????????? (si quid prosa oratione scribere velint, praestant) ?????????? ?? ???????????? ????????, ????????.
(si poeticae sibi partes vindicare velint, non assequuntur) ????? ?? ??? ?????? ????? (scil.
?? ??? ?????????) ?? ?? ?????? ?????.
Laerz.
in Xenocrate, l.4.
segm.
[528]15.
E v.
se ha nulla in questo proposito il Menagio.
(19.
Gen.
1821.)
Come i piaceri così anche i dolori sono molto più grandi nello stato primitivo e nella fanciullezza, che nella nostra età e condizione.
E ciò per le stesse ragioni per le quali è maggiore il diletto.
Primieramente (massime ne' fanciulli) manca l'assuefazione al bene e al male.
Il bene dunque e il male dev'essere molto più sensibile ed energico relativamente all'animo loro, che al nostro.
Poi (e questo è il punto principale, e comune a tutti gli uomini naturali) il dolore, la disgrazia ec.
nel fanciullo, e nel primitivo, sopravviene all'opinione della felicità possibile, o anche presente; contrasta vivissimamente coll'aspetto del bene, creduto e reale e grande, del bene o già provato, o sperato con ferma speranza, o veduto attualmente negli altri; è l'opposto e la privazione di quella felicità che si crede vera, importante, possibilissima, anzi destinata all'uomo, posseduta dagli altri, [529]e che sarebbe posseduta da noi, se quell'ostacolo non ce l'impedisse, o per ora, o per sempre.
Ed anche l'idea del male assoluto, cioè indipendentemente dalla comparazione del bene, è forse maggiore in natura, che nello stato di civiltà e di sapere.
Osservate ancora che dolor cupo e vivo sperimentavamo noi da fanciulli, terminato un divertimento, passata una giornata di festa ec.
Ed è ben naturale che il dolore seguente dovesse corrispondere all'aspettativa, al giubilo precedente.
E che il dolore della speranza delusa sia proporzionato alla misura di detta speranza.
Non dico alla misura del piacere provato, realmente, perchè infatti neanche i fanciulli provano mai soddisfazione nell'atto del piacere, non potendo nessun vivente esser soddisfatto se non da un piacere infinito, come ho detto altrove.
Anzi il nostro dolore, dopo tali circostanze, era inconsolabile, non tanto perchè il piacere fosse passato, quanto perchè non avea corrisposto alla speranza.
Dal che seguiva talvolta una specie di rimorso o pentimento, come se non avessimo goduto [530]per nostra colpa.
Giacchè l'esperienza non ci aveva ancora istruiti a sperar poco, preparati a veder la speranza delusa, assuefatti a consolarci facilmente di tali e maggiori perdite ec.
Insomma considerando in quella età le cose come importanti, o più importanti di quello che le consideriamo in altra età, (così relativamente e in particolare, come in generale e assolutamente) è naturale che come i piaceri, così i dolori di quell'età sieno maggiori in proporzione dell'importanza che gli oggetti del dolore o del piacere hanno nella nostra opinione.
Così nella speranza di qualche bene, quale non era la nostra inquietudine, i nostri timori, i nostri palpiti, le nostre angosce ad ogni piccolo ostacolo, o apparenza di difficoltà, che si opponesse al conseguimento della detta speranza!
E se poi l'oggetto stesso della speranza (ancorchè minimo, rispetto alle nostre opinioni presenti) non si conseguiva, quale non era la nostra disperazione! In maniera che forse in seguito, nelle più grandi sventure della vita, non abbiamo provato, nè proveremo mai tanto dolore e accoramento, come per quelle minime sventure fanciullesche.
[531]Lascio stare il timore e lo spavento proprio di quell'età (per mancanza di esperienza e sapere, e per forza d'immaginazione ancor vergine e fresca): timor di pericoli di ogni sorta, timore di vanità e chimere proprio solamente di quell'età, e di nessun'altra; timor delle larve, sogni, cadaveri, strepiti notturni, immagini reali, spaventose per quell'età e indifferenti poi, come maschere ec.
ec.
(V.
il Saggio sugli Errori popolari degli antichi.) Quest'ultimo timore era così terribile in quell'età, che nessuna sventura, nessuno spavento, nessun pericolo per formidabile che sia, ha forza in altra età, di produrre in noi angosce, smanie, orrori, spasimi, travaglio insomma paragonabile a quello dei detti timori fanciulleschi.
L'idea degli spettri, quel timore spirituale, soprannaturale, sacro, e di un altro mondo, che ci agitava frequentemente in quell'età, aveva un non so che di sì formidabile e smanioso, che non può esser paragonato con verun altro sentimento dispiacevole dell'uomo.
Nemmeno il timor dell'inferno in un moribondo, credo che possa essere così intimamente terribile.
Perchè la ragione e l'esperienza rendono inaccessibili a qualunque sorta di sentimento, quell'ultima e profondissima [532]parte e radice dell'animo e del cuor nostro, alla quale penetrano e arrivano, e la quale scuotono e invadono le sensazioni fanciullesche o primitive, e in ispecie il detto timore.
(20.
Gen.
1821.).
V.
p.535 capoverso 1.
Quid dulcius, quam habere, quicum omnia audeas sic loqui, ut tecum? Quis esset tantus fructus in prosperis rebus, nisi haberes, qui illis aeque, ac tu ipse, gauderet? Cic.
Lael.
sive de Amicitia.
Cap.6.
(20.
Gen.
1821.)
Il piacere umano (così probabilmente quello di ogni essere vivente, in quell'ordine di cose che noi conosciamo) si può dire ch'è sempre futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro.
L'atto proprio del piacere non si dà.
Io spero un piacere; e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere.
Io ho provato un piacere, ho avuto una buona ventura: questo non è piacevole se non perchè ci dà una buona idea del futuro; ci fa sperare qualche godimento più o meno grande; ci apre un nuovo campo di speranze; ci persuade di poter godere; ci fa conoscere la possibilità di arrivare a certi desideri; ci mette [533]in migliori circostanze pel futuro, sia riguardo al fatto e alla realtà, sia riguardo all'opinione e persuasone nostra, ai successi, alle prosperità che ci promettiamo dietro quella prova, quel saggio fattone.
ec.
Io provo un piacere: come? ciascuno individuale istante dell'atto del piacere, è relativo agl'istanti successivi; e non è piacevole se non relativamente agl'istanti che seguono, vale a dire al futuro.
In questo istante il piacere ch'io provo, non mi soddisfa, e siccome non appaga il mio desiderio, così non è ancora piacere, ma ecco che senza fallo io lo proverò immediatamente; ecco che il piacere crescerà, ed io sarò intieramente soddisfatto.
Andiamo più avanti: ancora non provo vero piacere, ma ora (chi ne dubita?) sono per provarlo.
Questo è il discorso, il cammino, l'occupazione, l'operazione, e la sensazione dell'animo nell'atto di qualunque siasi piacere.
Giunto l'ultimo istante, e terminato l'atto del piacere, l'uomo non ha provato ancora il piacere: resta dunque o scontento: o soddisfatto comunque per una opinione debole, falsa, e poco, anzi niente persuasiva, [534]di averlo provato; e va ruminando, e compiacendosi di quello che ha sentito, e provando così un altro piacere, il di cui oggetto è bensì passato, ma non il piacere (perchè come può esser passato quello che non è mai stato, e che è sempre futuro?) e l'atto di questo nuovo piacere è composto di una successione d'istanti della stessa natura che l'altro atto; e quindi parimente futuro: o finalmente resta con una certa letizia e si rallegra, perchè quantunque non possa il suo piacere riferirsi più agl'istanti successivi di quell'atto, ch'è già finito, si riferisce ad altri atti; l'idea del così detto piacere provato, gli dà un'idea di quelli ch'egli crede di poter provare; concepisce una migliore idea del futuro, una speranza, un disegno, una risoluzione o di proccurarsi altri piaceri, o qualunque ella sia.
Così prova un piacere, ma sempre ed ugualmente futuro.
Così p.e.
se tu sei stato lodato, o ti sei trovato in una occasione di brillare, di gloria, ec.
L'atto di quel piacere è stato quale l'ho descritto: ma finito l'atto, lo vai ruminando a parte a parte, e torna un altro atto di piacere composto alla stessa guisa, e fondato o sul semplice gusto della [535]ricordanza, o sulla relazione che quel preteso piacere ha col futuro, con quei piaceri o beni che tu (come credi) puoi dunque o devi provare, coll'idea che ti dà della futura vita, coi disegni, coll'idea di te stesso, delle tue forze ec.
colle speranze o reali, o rispetto all'opinione e immaginazione tua; insomma tutto futuro, tanto riguardo all'atto del nuovo piacere presente, quanto agli oggetti di esso piacere.
Così il piacere non è mai nè passato nè presente, ma sempre e solamente futuro.
E la ragione è, che non può esserci piacer vero per un essere vivente, se non è infinito; (e infinito in ciascuno istante, cioè attualmente) e infinito non può mai essere, benchè confusamente ciascuno creda che può essere, e sarà, o che anche non essendo infinito, sarà piacere: e questa credenza (naturalissima, essenziale ai viventi, e voluta dalla natura) è quello che si chiama piacere; è tutto il piacer possibile.
Quindi il piacer possibile non è altro che futuro, o relativo al futuro, e non consiste che nel futuro.
(20.
Gen.
1821.).
V.
p.612.
capoverso 1.
Alla p.532.
Questo si può osservare [536]anche negli effetti fisici o esterni delle dette sensazioni interne, sieno relativi alla salute, sieno ai moti, ai gesti, sieno alle risoluzioni e azioni alle quali strascinano i fanciulli e i primitivi, e ciò con tale irresistibilità, e violenza infallibile, quale non ha verun'altra sensazione interna nelle altre età e condizioni, ma solamente alcune delle esterne e fisiche.
Tant'è, l'immaginazione, o le sensazioni interne, hanno, si può dire nella fanciullezza, e nello stato naturale, la stessa o simile forza e certezza, delle sensazioni e forze esterne e meccaniche in quella e nelle altre età o condizioni.
(20.
Gen.
1821.)
Nihil est enim appetentius similium sui, nihil rapacius, quam natura.
Cic.
Lael.
sive de Amicit.
c.14.
(21 Gen.
1821.)
Alla p.135.
Fructus enim ingenii et virtutis, omnisque praestantiae, tum maximus capitur, cum in proximum quemque confertur.
Cic.
Lael.
sive de Amicit.
c.19.
fine.
E v.
il capoverso superiore.
(21.
Gen.
1821.)
È degna di esser veduta, consultata, e anche [537]tradotta e riportata all'occasione, la bella disputazione di Tullio (Lael.
sive de Amicitia c.13.
Nam quibusdam etc.
sino alla fine) contro quei filosofi greci i quali dicevano caput esse ad beate vivendum, securitatem; qua frui non possit animus, si tamquam parturiat unus pro pluribus: e quindi venivano a prescrivere il curam fugere, e l'honestam rem actionemve, NE SOLLICITUS SIS, aut non suscipere, aut susceptam deponere.
La qual filosofia, è presso a poco la filosofia dell'inazione e del nulla, la filosofia perfettamente ragionevole, la filosofia de' nostri giorni.
E quella disputazione di Tullio si può avere per una disputazione contro l'egoismo, sebbene, a quei tempi, ancora ignoto di nome.
Quae est enim ista securitas? dice Cicerone; e segue facendo vedere a che cosa porti.
Ma il principale è, che non solamente porta a mille assurdità e scelleraggini (secondo natura, non secondo ragione, ma Cicerone chiama la natura, optimam bene vivendi ducem.
c.5.): ma non ottiene neanche il suo fine, ch'è la felicità dell'individuo [538]in qualunque modo ottenuta.
Anzi al contrario, l'impedisce, e la toglie di natura sua, ed è contraddittoria e incompatibile colla felicità dell'individuo nello stato sociale.
Eccoci tutti seguaci di quella setta o dogma che Cicerone impugna.
Eccoci tutti filosofi a quella maniera.
Eccoci tutti egoisti.
Ebbene? siamo noi felici? che cosa godiamo noi? Tolto il bello, il grande, il nobile, la virtù dal mondo, che piacere, che vantaggio, che vita rimane? Non dico in genere, e nella società, ma in particolare, e in ciascuno.
Chi è o fu più felice? Gli antichi coi loro sacrifizi, le loro cure, le loro inquietudini, negozi, attività, imprese, pericoli: o noi colla nostra sicurezza, tranquillità, non curanza, ordine, pace, nazione, amore del nostro bene, e non curanza di quello degli altri, o del pubblico ec.? Gli antichi col loro eroismo, o noi col nostro egoismo?
(21.
Gen.
1821.).
È cosa evidente e osservata tuttogiorno, che gli uomini di maggior talento, sono i più difficili a risolversi tanto al credere, quanto all'operare; i più incerti, i più barcollanti, e temporeggianti, i più tormentati da quell'eccessiva pena dell'irresoluzione: i più inclinati e soliti a lasciar le cose [539]come stanno; i più tardi, restii, difficili a mutar nulla del presente, malgrado l'utilità o necessità conosciuta.
E quanto è maggiore l'abito di riflettere, e la profondità dell'indole, tanto è maggiore la difficoltà e l'angustia di risolvere.
(21.
Gen.
1821.)
Ma non perciò è segno di molto talento il soler sempre e subito determinarsi a non credere (come anche a non fare).
Anzi perciò appunto è indizio di piccolo spirito.
Il non credere, è una determinazione: e gli uomini veramente sapienti, e profondi, ed esperti, sanno quante cose possano essere, quanto sia difficile il negare, quanto sia vero che dall'incertezza e oscurità delle cose, dalla difficoltà di affermare, deriva necessariamente anche quella di negare, cioè affermare che una cosa non è, genere anch'esso di affermazione.
E però se una cosa non manca affatto di prova, o di prova sufficiente a muover dubbio, o s'ella non è del tutto assurda, o riconosciuta evidentemente da lui stesso per falsa o col fatto, o colla ragione; eccetto in questi casi, [540]il vero saggio e filosofo e conoscitore delle cose in quanto (sono conoscibili), ???????????????????????, e ritiene come l'assenso così anche il dissenso.
Ma uomini di non molto ingegno, bensì di molta apparenza, o desiderio di essa apparenza, credono mostrar talento quando al primo aspetto di una proposizione o cosa non ordinaria, o difficile a credere (o non concorde colle loro opinioni e principii, o non ben dimostrata o fondata), si determinano subito a non credere.
E se ne compiacciono seco stessi, e si credono forti di spirito, perchè sanno determinatamente e prontamente non credere, quando è tutto l'opposto.
E se bene in questo si mescola spesse volte l'ostentazione, non è però che non lo facciano ordinariamente di buona fede, e con verità, e che l'interno non corrisponda alle parole.
Giacchè hanno veramente questa facilità di risolversi a non credere.
Perchè appunto sono lontani dalla vera e perfetta sapienza, e cognizione delle cose.
(22.
Gen.
1821.)
Sic enim mihi perspicere videor, ita natos esse nos, [541]ut inter omnes esset societas quaedam; (ecco l'amore universale, notato anche da Cicerone, e naturale, perchè la natura, e tutti gli animali tendono più che ad altro al loro simile; preferiscono nella inclinazione, nell'amore, nella società, il loro simile, allo straniero e diverso.
Questo è il vero confine dell'amore universale secondo natura, non quelli che gli assegnano i nostri filosofi.
Ma seguitiamo) maior autem, ut quisque proxime accederet.
Itaque cives, potiores, quam peregrini; et propinqui quam alieni.
(Così che nel conflitto degl'interessi di coloro che nobis proxime accedunt, cogl'interessi degli stranieri, alieni, lontani, quelli vincono nell'animo, nella inclinazione, e nella natura nostra: e non già nella sola parità di circostanze, ma quando anche o il bene, o la salute e incolumità de' vicini, porti agli strani un danno sproporzionato; quando anche si tratti di un solo o pochi vicini, e di molti lontani; quando si tratti della sola sua patria in comparazione di tutto il mondo.
E tali sono realmente gli effetti e la misura dell'amore dei bruti verso i loro [542]figli ec.
rispetto agli altri loro simili: delle api di un alveare, rispetto alle altre ec.
E v.
il pensiero seguente.) Cum his enim amicitiam NATURA IPSA peperit.
Cic.
Lael.
sive de Amicitia c.5.
sulla fine.
(22.
Gen.
1821.)
Quapropter a natura mihi videtur potius, quam ab indigentia, orta amicitia, et applicatione magis animi cum quodam sensu amandi, quam cogitatione, quantum illa res utilitatis esset habitura.
Quod quidem quale sit, etiam in bestiis quibusdam animadverti potest; quae ex se natos ita amant ad quoddam tempus, et ab eis ita amantur, ut facile earum sensus appareat.
Quod in homine multo est evidentius.
Cic.
Lael.
sive de Amicitia c.8.
(22.
Gen.
1821.)
Della superiorità delle forze della natura, della fortuna, dello spontaneo, dell'amor naturale e fortuito (materia del pensiero precedente), sopra quelle della ragione, della provvidenza (umana), dell'arte, dell'amore ragionato e proccurato, cose sempre deboli, e più eleganti (a tutto dire) che forti e potenti; è degno di esser veduto un luogo insigne ed elegante di [543]Frontone (Ad M.
Caes.
l.1.
epist.8.
ediz.
principe.
pag.58-61.) simile in parte ad un altro nelle Lodi della Negligenza.
(p.371.).
(22.
Gen.
1821.)
La superiorità della natura su la ragione e l'arte, l'assoluta incapacità di queste a poter mai supplire a quella, la necessità della natura alla felicità dell'uomo anche sociale, e l'impossibilità precisa di rimediare alla mancanza o depravazione di lei, si può vedere anche nella considerazione dei governi.
Più si considera ed esamina a fondo la natura, le qualità, gli effetti di qualsivoglia immaginabile governo; più l'uomo è saggio, profondo, riflessivo, osservatore, istruito, esperto; più conchiude e risolve con piena certezza, che nello stato in cui l'uomo è ridotto, non già da poco, ma da lunghissimo tempo, e dall'alterazione, depravazione, e perdita della società (non dico natura) primitiva in poi, non c'è governo possibile, che non sia imperfettissimo, che non racchiuda essenzialmente i germi del male e della infelicità maggiore o minore de' popoli e degli individui: non c'è nè c'è stato [544]nè sarà mai popolo, nè forse individuo, a cui non derivino inconvenienti, incomodi, infelicità (e non poche nè leggere) dalla natura e dai difetti intrinseci e ingeniti del suo governo, qualunque sia stato, o sia, o possa essere.
Insomma la perfezione di un governo umano è cosa totalmente impossibile e disperata, e in un grado maggiore di quello che sia disperata la perfezione di ogni altra cosa umana.
Eppure è certo che, se non tutti, certo molti governi sarebbono per se stessi buoni, e possiamo dire perfetti, e l'imperfezione loro sebbene oggidì è innata ed essenziale per le qualità irrimediabili e immutabili degli uomini nelle cui mani necessariamente è riposto (giacchè il governo non può camminar da se, nè per molle e macchine, nè per ministerio d'Angeli, o per altre forze naturali o soprannaturali, ma per ministerio d'uomini); tuttavia non è imperfezione primitiva, e inerente all'idea del governo stesso, indipendentemente dalla considerazione de' suoi ministri, nè inerente alla natura dell'uomo, ancorchè ridotto in società.
Consideriamo.
[545]Il governo monarchico assoluto e dispotico, ossia giustamente e con verità, ossia che l'uomo odia naturalmente la servitù, e soffre di miglior animo i mali della cattiva e sregolata libertà; o che questo è il peccato, il flagello, il difetto, la sventura dominante del nostro secolo, e de' passati, dall'estinzione, possiamo dire, della libertà Romana, in poi: per qualunque ragione, è considerato come il più imperfetto e barbaro e contrario al buon senso, alla retta ragione, alla natura, in somma per il peggiore di tutti i governi.
Tale sarà oggidì; non mica in principio: anzi in principio, lo giudico e credo il più perfetto, e posso dire il solo perfetto, e ragionevole e naturale.
Cioè, posto che v'abbia ad essere un governo, io dico che questo, nello stato primitivo della società, non doveva nè poteva esser altro che il monarchico assoluto; e non volendo questo, non c'era ragione di volere un governo.
L'uomo per natura è libero, e uguale a qualunque altro della sua specie.
Ma nello [546]stato di società, non è così.
La ragione, il principio, lo scopo della società, non è altro che il ben comune di coloro che la compongono e si uniscono in un corpo più o meno esteso.
Senza questo fine, la società manca della sua ragione.
E siccome ella è non solamente irragionevole se non ha questo fine, ma è ancora non pure inutile ma dannosa all'uomo, se sussiste senza conseguirlo; perciò se il detto fine non si realizza, conviene sciorre la società, perchè questa per se stessa, e indipendentemente dal detto fine, porta all'uomo più nocumento che vantaggio, anzi solo nocumento.
Ora il ben commune di un corpo o società, non si può ottenere, se non per la cospirazione di tutti i membri di lei a questo fine.
Così accade in tutte le cose: che un effetto, il quale deve risultare da molte cagioni, e da molte forze, operanti ciascuna per la sua parte; non può realizzarsi senza l'accordo e cospirazione congiunta e convenevole di tutte queste forze, verso il detto effetto.
Ecco il principio d'unità: principio che risulta necessariamente dallo scopo della società, ch'è il ben comune.
E perciò, come nel ben [547]comune, e non in altro, consiste la ragione della società; così questa rinchiude essenzialmente il principio di unità.
A segno che società, considerandola bene, importa per sua natura, unità, vale a dire unione di molti: la quale unione è imperfetta, se non è perfettamente una, in quello che concerne la sua ragione e il suo scopo: giacchè nel rimanente, dove la società non ha bisogno di unità, l'uomo sebbene associato, è come fuori della società, e conserva le sue qualità naturali, vale a dire la sua libertà, la cura di se stesso, e de' suoi negozi ec.
In somma nelle altre parti indipendenti dal ben comune, la società non sussiste, e non è società, sebbene ella sussista nel medesimo tempo, in quello che spetta alla sua ragione e destinazione e scopo.
Ma le volontà degl'individui riuniti in corpo, gl'interessi, o le opinioni che ciascuno ha sopra i suoi vantaggi, e così sopra qualunque altra cosa, sono infinite, e diversissime.
Quindi le forze di ciascuno, non possono cospirare ad un solo fine, tra perchè non tutti si curano di proccurarlo; e perchè le opinioni, le volontà ec.
quando [548]anche si accordino nel cercarlo assolutamente, non si accordano relativamente nel determinarlo, sia in genere e totalmente; sia in parte, e in particolare; sia riguardo ai tempi, alle opportunità di cercarlo e proccurarlo ec.
E l'uno crede o vuole che questo sia o debba essere il fine; l'altro che sia o debba esser quello: l'uno che questo giovi al fine convenuto e stabilito; l'altro che noccia o non giovi: l'uno che bisogni cercare il detto fine, oggi, o in questa maniera; l'altro che bisogni aspettare fino a domani, o cercarlo in quest'altro modo.
E così, chi non si cura del ben comune, non corrisponde al fine della società, è inutile e dannoso alla società.
Chi se ne cura, non cospira, nè può cospirar cogli altri, sia positivamente, sia negativamente, cioè col fare, o coll'astenersi dal fare, secondo i bisogni, e i fini ec.
Dunque neppur egli corrisponde al fine della società, il quale non può risultare se non dall'accordo dei membri verso il ben comune: altrimenti ciascuno poteva senza società, proccurarlo da se; e la società era inutile.
[549]In un corpo dunque perfettamente libero e uguale, manca affatto l'unità, solo mezzo di ottenere il solo scopo della società; anzi solo costituente della società: e però in un corpo libero ed uguale, non esiste se non il nome e la sembianza della società; vale a dire che più persone si trovano insieme di luogo, ma non in società.
Come dunque lo scopo della società è il ben comune; e il mezzo di ottenerlo, è la cospirazione degl'individui al detto bene, ossia l'unità; così l'ordine, lo stato vero, la perfezione della società, non può essere se non quello che produce e cagiona perfettamente questa cospirazione e unità.
Giacchè la perfezione di qualunque cosa, non è altro che la sua intera corrispondenza al suo fine.
Come dunque riunire ad un sol centro le opinioni, gl'interessi, le volontà di molti? Non c'è altro mezzo che subordinarle, e farle dipendere e regolare da una sola opinione, volontà, interesse; vale a dire dalle opinioni, volontà, interessi di un solo.
L'unità è ottenuta; ma perch'ella sia vera unità, bisogna che questo solo, sia veramente solo; cioè possa pienamente [550]diriggere e regolare e determinare le opinioni interessi volontà di ciascuno; e disporre per conseguenza delle forze di ciascuno: in somma che tutti i membri di quella tal società, dipendano intieramente da lui solo, in tutto quello che concerne lo scopo di detta società, cioè il di lei bene comune.
Ecco dunque la monarchia assoluta e dispotica.
Eccola dimostrata, non solamente buona per se stessa, ma inerente all'essenza, alla ragione della società umana, cioè composta d'individui per se stessi discordanti.
Colla monarchia assoluta e dispotica, l'unità è, come dissi, ottenuta.
Questo è il mezzo per conseguire il bene comune.
Ma esso bene, cioè il fine, sarà ottenuto? Tanto sarà ottenuto, quanto le opinioni, le volontà di quel solo corrisponderanno e tenderanno effettivamente al detto fine; e quanto i suoi interessi saranno tutta una cosa cogl'interessi comuni.
Ecco la necessità di un principe quasi perfetto: irreprensibile nei giudizi e opinioni [551]prudenza ec.
per discernere e determinare il vero bene universale e i veri mezzi di ottenerlo; irreprensibile nelle volontà, e quindi nei costumi, nella coscienza, nelle inclinazioni, nelle opere, nella vita (in quanto concerne il detto fine), per diriggere effettivamente le sue forze e quelle de' sudditi a quel fine, nel quale egli giudica riposto il comun bene.
Se il principe non è tale, siamo da capo.
Siccome egli è divenuto l'anima e la testa, e in somma la forza movente della società, anzi si può dire che la forza attiva e negativa della società sia tutta riposta e rinchiusa in lui; così quanto egli non mira al ben comune (o per difetto di giudizio, o di volontà), tanto la società manca di nuovo della sua ragione, si allontana dal suo fine, e diventa di nuovo inutile e dannosa.
E tanto più dannosa, quanto maggiori sono i mali che derivano dalla servitù, dall'esser tutti destinati al bene di un solo, dall'impiegare le loro forze non più pel loro bene, nè pubblico, nè pure individuale, ma per li capricci, e le soddisfazioni di un solo, il quale può anche volere, e spesso vuole il danno comune, e così tutti sono obbligati non solo a non proccurare il loro bene, ma il loro [552]male.
In somma tutte le calamità che derivano dalla tirannia, stato direttamente contrario alla natura di tutti i viventi d'ogni specie, e quindi certa sorgente d'infelicità.
Così la società diviene un male infinito, diviene formalmente l'infelicità degli uomini che la compongono: infelicità maggiore o minore, in proporzione che il principe, il quale viene a racchiudere in se stesso la società, si allontana per qualunque motivo dal di lei fine, ch'è divenuto in diritto e in dovere il suo proprio fine.
Se dunque la società non può stare, anzi non esiste senza unità; e la perfetta unità non può stare senza un principe assoluto; nè questo principe corrisponde al fine di essa unità, e società, e di se stesso, se non è perfetto; perchè il governo monarchico e la società sia perfetta, è necessario che il principe sia perfetto.
Perfezione ancorchè relativa, non si dà fra gli uomini, nè fra gli animali, nè fra le cose.
Ed ecco lo stato di società necessariamente imperfetto.
Ma parlando di quella perfezione che è nell'uso e nella vita comune (Cic.
de Amicit.
c.5.); un principe [553]perfetto in questo senso si poteva trovare nei principii della società.
1.
Perchè la virtù, le illusioni che la producono e conservano, esistevano allora: oggi non più.
2.
Perchè la scelta può cadere sopra il più degno e il più capace, tanto per ingegno e giudizio, quanto per buona e retta volontà, di corrispondere al fine del principato e della società, ossia 1° di conoscere, 2° di proccurare il ben comune di quel corpo che lo sceglieva.
Se dunque i primi popoli, le prime società, scelsero al principato quell'uomo che eminebat per doti dell'animo e del corpo, vere e convenienti alla detta dignità, o piuttosto uffizio e incarico; certo i primi popoli provviddero quanto può l'uomo, al fine della società, vale a dire al bene comune; e quindi alla perfezione della società.
Se questa scelta, questo patto sociale, di ubbidire pel comune vantaggio ad un solo che fosse degno e capace di conoscerlo e proccurarlo, abbia mai avuto luogo effettivamente; non [554]appartiene al mio proposito.
Questo discorso non considera nè deve considerare altro che la ragione delle cose, e quindi come avrebbero dovuto andare, e avrebbero potuto andare da principio, e secondo natura; non come sono andate, o vanno.
Del resto negli scarsi vestigi storici che rimangono delle antichissime monarchie (e questo discorso non appartiene se non alle antichissime e primitive), non mancherebbero esempi e argomenti di effettiva e realizzata corrispondenza del primitivo governo monarchico, col pubblico bene delle rispettive società.
Così nei popoli Americani, così nei selvaggi (dove la tirannia par che s'ignori, sebbene si conosca la monarchia, o militare, o civile), così negli antichi Germani, de' quali Tacito ed altri; così fra i Celti, de' quali Ossian; così fra i greci Omerici, sebben questi appartengono precisamente a un grado di monarchia posteriore al primitivo.
Insomma considerando le storie de' primi tempi, si può vedere che l'idea della tirannia, sebbene antica, non è però antichissima: [555]bensì antichissima e primordiale nella società è l'idea della monarchia assoluta.
V.
Goguet, Origine delle scienze e delle arti.
Assoluta s'intende, non mica in modo che questa parola fosse pronunziata, e stabilita, e riconosciuta per costituente la natura di quel tale governo.
Ma senza tante definizioni, e sanzioni, e formole, e spirito geometrico, gli antichi popoli si sottomettevano col fatto al reggimento di un solo assolutamente; senza però neppur pensare ch'egli dovesse esser padrone della vita, dell'opera, e delle sostanze loro a capriccio, ma in vantaggio di tutti; giacchè le esattezze, le definizioni, le circoscrizioni, le formole chiare e precise, non sono in natura, ma inventate e rese necessarie dalla corruzione degli uomini, i quali oggidì hanno bisogno di stringere ed essere stretti con leggi, patti, obbligazioni (o morali o materiali) distintissime, minutissime, specificatissime, numerosissime, matematiche ec.
perchè si tolga alla malizia ogni sutterfugio, ogni scanso, ogni equivoco, ogni libertà, ogni campo aperto e indeterminato.
E già vengo a quesa corruzione.
[556]Essendo gli uomini quali ho detto di sopra, si poteva trovare un principe e capace e buono.
Essendo la società nello stato primitivo e naturale, senza troppe regole, senza troppa ambizione, senza impegni, senz'altre corruzioni e impedimenti; si poteva e scegliere il detto uomo, e morto, sceglierne altro similmente degno.
Ridotti gli uomini allo stato di depravazione (e il nostro discorso comprende tanto l'antica, quanto la moderna depravazione, perchè anche l'antica bastava all'effetto che dirò), non fu più possibile trovare un principe perfetto.
Quando anche si fosse trovato, non fu più possibile, ch'egli divenuto principe, si conservasse tale: sì per la corruzione individuale degli uomini; sì per la generale della società; i costumi mutati, le illusioni cominciate a scoprire, la virtù cominciata a conoscere inutile o meno utile di certi vizi, gli esempi che hanno forza di guastare qualunque divina indole.
In somma non fu più possibile che l'uomo anche più perfetto, avuto in mano il potere, non se ne abusasse.
Quando anche [557]fosse stato possibile questo ancora, la depravazione della società, la malizia nata e cresciuta, l'ambizione ec.
e quindi la necessità di regole fisse, strette, e indipendenti dall'arbitrio, rendevano impossibile la scelta del successore.
Bisognò dunque, perch'ella fosse certa e invariabile commetterla al caso, e stabilire il regno ereditario.
E dove questo non fu stabilito, non si guadagnò altro che un aumento di mali nelle turbolenze della scelta, perchè la società ridotta com'era, non poteva più scegliere nè senza turbolenza, nè un principe degno.
Dacchè il monarca non fu più o eleggibile, o bene scelto, la monarchia divenne il peggiore di tutti gli stati.
Perchè un uomo veramente perfetto per quell'incarico, essendo raro da principio, rarissimo in seguito, com'era possibile, che senza una scelta accurata, si potesse trovare quest'uomo rarissimo, capace del principato? Com'era possibile che [558]l'azzardo della nascita, o di una scelta parimente, si può dir casuale, perchè diretta da tutt'altro che dal vero, si combinasse a cadere appunto in quest'uomo sommo e quasi unico, difficilissimo a trovare anche mediante la più matura considerazione e cura? Tanto più che la corruzione della società, esigeva allora in un perfetto principe, maggiori e più difficili qualità che per l'addietro: così che non solo il buono era più straordinario di prima, ma inoltre un principe che sarebbe stato perfetto una volta, non era più sufficientemente perfetto per allora.
La perfezione dunque del principe cosa essenziale alla monarchia, non fu più nè considerata, nè possibile, nè effettiva, e non entrò più nell'ordine della società.
E siccome, oltre che la perfezione era rarissima, il principe era tale in forza non della perfezione, ma del caso, perciò, egli poteva non solo non essere il migliore, ma anche il peggiore degl'individui: e ciò non solo per accidente, ma anche perchè la natura della sua condizione, il potere, l'adulazione ec.
contribuivano [559]positivamente, definitamente, e necessariamente a farlo tale.
Da che dunque il principe fu cattivo, o non perfetto, la monarchia perdè la sua ragione, perchè non poteva più corrispondere al suo scopo, cioè al ben comune.
L'unità restava, ma non il di lei fine: anzi l'unità in vece di condurre al detto fine, era un mezzo di allontanarlo, e renderlo impossibile.
Così anche la società, perduta la sua ragione e il suo scopo, cioè il comun bene, tornava ad essere inutile e dannosa, con quel di più che risultava dall'assurdità, barbarie, e pregiudizio sommo, dell'esser tutti nelle mani di un solo, inteso a danneggiarli.
In questo stato tornava meglio, o sciorre affatto la società, o diminuire, laxare, quell'unità, ch'essendo da principio e in natura il massimo e più necessario de' beni sociali, così dopo la corruzione, è il sommo de' mali, e l'istrumento e sorgente delle più terribili infelicità.
[560]Allora fu che i popoli abbandonando, e distruggendo il loro primo, vero, e naturale governo, inerente alla vera natura della società, si rivolsero ad altri governi, alle repubbliche ec.
divisero i poteri, divisero in certo modo l'unità; ripigliando quella parte di libertà e di uguaglianza, che restava loro sotto la primitiva monarchia, andarono anche più oltre, e ne ripigliarono tanta, quanta non era compatibile colla natura e ragione della società.
Ed era ben naturale, perchè quel monarca assoluto che doveva disporre di quest'altra porzione di libertà ec.
non esistendo più pel comun bene, non doveva più sussistere, nè sussisteva.
Così le repubbliche d'ogni qualsivoglia sorta, e in ragione e in fatto sono posteriori alla monarchia assoluta, e l'idea e l'esistenza della tirannia non è antichissima, ma nella teoria, ed effettivamente nella storia, precede immediatamente l'idea e l'esistenza degli stati liberi.
Giacchè l'antichissima e primitiva forma e idea di governo, non è altra che quella dell'assoluta monarchia.
Osservate la storia greca, osservate la romana.
V.
Goguet loc.
cit.
Dovunque e sempre la monarchia [561]precede la libertà, e la libertà nasce dalla corrotta monarchia, come dalla libertà anche più corrotta successivamente, e più cattiva di quello che fosse nel suo primo rinascimento, nasce una nuova monarchia: libertà e nuova monarchia tutte due cattive, perchè tutte due derivate da cattivo principio.
Eccetto che la libertà ed uguaglianza naturale precede la monarchia primitiva, o nello stato dell'uomo insociale e solitario, o in quella prima infanzia della società, dov'ella è piuttosto un'adunanza materiale d'uomini che una società.
Riprendendo il filo del discorso: coll'influenza, la forza, la viridità, l'osservanza della natura, era finita la perfezione e l'utilità dell'assoluta monarchia: coll'assoluta monarchia era finito lo stato vero ed essenziale della società.
Lungi dunque dalla natura, e lungi dall'essenza di se stessa, la società non poteva esser più felice.
Nè vi poteva più esser governo perfetto, non solo perchè l'uomo era allontanato dalla natura, fuor della [562]quale non v'è perfezione in qualunque stato; ma anche e principalmente perchè quel solo governo che potesse da principio esser perfetto, perchè il solo conveniente all'essenza della società, era da circostanze irrimediabili e perpetue escluso per sempre dalla perfezione; ed anche (presso questo o quel popolo) escluso effettivamente ed intieramente dalla società.
La natura, sola fonte possibile di felicità anche all'uomo sociale, è sparita.
Ecco l'arte, la ragione, la meditazione, il sapere, la filosofia si fanno avanti per supplire all'assenza o corruzone della natura, rimediarci, sostituire i loro (pretesi) mezzi di felicità, ai mezzi della natura; occupare in somma il luogo da cui la natura era cacciata, e far le di lei veci; condurre l'uomo cioè a quella felicità, a cui la natura lo conduceva.
Quante forme di governo non sono state ideate! quante messe in pratica! quanti sogni, quante chimere, quante utopie ne' pensieri de' filosofi! certo essi erravano ne' principii, giacchè pretendevano d'immaginare un governo perfetto, e [563](lasciando tutto il resto, lasciando le assurdità e impossibilità nell'applicazione delle loro teoriche al fatto) la perfezione possibile del governo non è altra che quella che ho detta; perfezione semplicissima, e che non ha bisogno di studi, meditazioni, esperienze, complicazioni per esser trovata e conseguita; anzi non è perfezione se è complicata, ma non può esser altro che semplicissima.
Fra tante miserie di governi che quasi facevano a gara, qual fosse il più imperfetto e cattivo, e il meglio adattato a proccurare l'infelicità degli uomini; egli è certo ed evidente, che lo stato libero e democratico, fino a tanto che il popolo conservò tanto di natura da esser suscettibile in potenza ed in atto, di virtù di eroismo, di grandi illusioni, di forza d'animo, di buoni costumi; fu certamente il migliore di tutti.
L'uomo non era più tanto naturale, da potersi trovar uno che reggesse al dominio senza corrompersi, e senza abusarne: e dopo inventata la malizia, il potere senza limiti, non poteva più sussistere, nè per parte del principe che ne [564]abusava inevitabilmente, nè per parte del popolo.
Perchè se questo non era costretto e circoscritto da freni, da leggi, da forze, in somma da catene, non era più capace di ubbidire spontaneamente, di badare tranquillamente alla sua parte, di non usurpare, non sacrificare il vicino, o il pubblico a se stesso, non aspirare all'occasione anche al principato, in somma non era capace di non tendere alla ??????????in ogni cosa.
L'ubbidienza e sommissione totale al principe, e l'esser pronto a servirlo, non è insomma altro che un sacrifizio al ben comune, un esser pronto a sacrificarsi per gli altri, un contribuire pro virili parte al pubblico bene.
Dico quando la detta sommissione è spontanea.
Ma l'egoismo non è capace di sacrifizi.
Dunque la detta sommissione spontanea non era più da sperare; la comunione degl'interessi d'ogni individuo coll'interesse pubblico era impossibile.
Nato dunque l'egoismo, nè il popolo poteva ubbidir più se non era servo, nè il principe comandare senza esser tiranno.
(V.
p.523.
capoverso ult.) Le cose non andavano più alla buona, nè secondo natura, e questo o quello non andava in questo o quel modo, se non per una necessità certa e definita: ed era divenuta indispensabile, quella che ora lo è molto più, in proporzione della maggior corruttela, cioè la matematica delle cose, delle regole, delle forze.
[565]Ma restava ancora nel mondo tanta natura, tanta forza di credenze naturali o illusioni, da poter sostenere lo stato democratico, e conseguirne una certa felicità e perfezione di governo.
Uno stato favorevolissimo alle illusioni, all'entusiasmo ec.
uno stato che esigge grand'azione e movimento: uno stato dove ogni azione pubblica degl'individui è sottoposta al giudizio, e fatta sotto gli occhi della moltitudine, giudice, come ho detto altrove, per lo più necessariamente giusto; uno stato dove per conseguenza la virtù e il merito non poteva mancar di premio; uno stato dove anzi era d'interesse del popolo il premiare i meritevoli, giacchè questi non erano altro che servitori suoi, ed i meriti loro, non altro che benefizi fatti al popolo, il quale conveniva che incoraggisse gli altri ad imitarli; uno stato dove, se non altro, e malgrado le ultime sventure individuali, non può quasi mancare al merito, ed alle grandi azioni il premio della gloria, quel fantasma immenso, quella molla onnipotente nella società; uno stato, del [566]quale ciascuno sente di far parte, e al quale però ciascuno è affezionato, e interessato dal proprio egoismo, e come a se stesso; uno stato dove non c'è molto da invidiare, perchè tutti sono appresso a poco uguali, i vantaggi sono distribuiti equabilmente, le preminenze non sono che di merito e di gloria, cose poco soggette all'invidia, e perchè la strada per ottenerle è aperta a ciascheduno, e perchè non si ottengono se non per mezzo e volontà di ciascheduno, e perchè ridondano in vantaggio della moltitudine; in somma uno stato che sebbene non è il primitivo della società, è però il primitivo dell'uomo, naturalmente libero, e padrone di se stesso, e uguale agli altri (come ogni altro animale), e quindi moltissimo della natura sola sorgente di perfezione e felicità: un simile stato finchè restava tanta natura da sostenerlo, e quanta bastava perch'egli fosse ancora compatibile colla società; era certamente dopo la monarchia primitiva, il più conveniente all'uomo, il più fruttuoso alla vita, il più felice.
[567]Tale fu appresso a poco lo stato delle repubbliche greche fino alle guerre persiane, della romana fino alle puniche.
Ma come l'uguaglianza è incompatibile con uno stato il cui principio è l'unità, dal quale vengono necessariamente le gerarchie; così la disuguaglianza è incompatibile con quello stato, il cui principio è l'opposto dell'unità, cioè il potere diviso fra ciascheduno, ossia la libertà e democrazia.
La perfetta uguaglianza è la base necessaria della libertà.
Vale a dire, è necessario che fra quelli fra' quali il potere è diviso, non vi sia squilibrio di potere; e nessuno ne abbia più nè meno di un altro.
Perchè in questo e non in altro è riposta l'idea, l'essenza e il fondamento della libertà.
Ed oltre che senza questo, la libertà non è più vera, nè intera; non può neanche durare in questa imperfezione.
Perchè, come l'unità del potere porta il monarca ad abusarsene, e passare i limiti; così la maggioranza del potere, porta il maggiore ad abusarsene, e cercare di accrescerlo; e così le [568]democrazie vengono a ricadere nella monarchia.
Nè solamente la ??????????del potere, ma ogni sorta di ?????????, è incompatibile e mortifera alla libertà.
Nella libertà non bisogna che l'uno abbia sopra l'altro nessun avvantaggio se non di merito o di stima, in somma di cose che non possano essere nè invidiate per parte degli altri, nè abusate, e portate oltre i limiti da chi le possiede.
Altrimenti nascono le invidie negli uni, il desiderio di maggior superiorità negli altri.
Questi cercano d'innalzarsi, quelli di non restare al di sotto, o di conseguire gli stessi vantaggi.
Quindi fazioni, discordie, partiti, clientele, risse, guerre, e alla fine vittoria e preponderanza di un solo, e monarchia.
Perciò gli antichi legislatori, come Licurgo, o i savi repubblicani, come Fabrizio, Catone ec.
proibivano le ricchezze, gastigavano chi possedeva troppo più degli altri (come fece Fabrizio nella censura), proscrivevano il sapere, le scienze, le arti, la coltura dello spirito, insomma ogni sorta di ?????????.
Perciò tutte le repubbliche e democrazie vere, sono state povere e ignoranti [569]finchè ha durato il loro ben essere.
Perciò gli Ateniesi arrivavano ad esser gelosissimi anche del troppo merito, della virtù segnalata, della mera gloria, ancorchè spoglia di onori esterni; ed è osservabile che la superiorità del merito anche fra i Romani fu tanto più sfortunata, quanto la democrazia era più perfetta, cioè ne' primi tempi, come in Coriolano, in Camillo ec.
Colle ricchezze, il lusso, le aderenze, la coltura degl'ingegni, la troppa disuguaglianza delle dignità, ed onori esteriori, del potere ec.
ed anche la sola eccessiva sproporzione del merito e della pura gloria, perirono, e sempre periranno tutte le democrazie.
Ma siccome è impossibile la durevole conservazione della perfetta uguaglianza, e la perfetta uguaglianza è il fondamento essenziale, e la conservatrice sola e indispensabile della democrazia, così questo stato non può durar lungo tempo, e si risolve naturalmente nella monarchia, se non è abbastanza fortunato per cader piuttosto nell'oligarchia, o nel governo degli ottimati, cioè nell'aristocrazia, le quali [570]però non sono ordinariamente, anzi si può dir sempre, fuori che un altro gradino alla monarchia.
V.
p.608.
capoverso 1.
Il solo preservativo contro la troppa e nocevole disuguaglianza nello stato libero, è la natura, cioè le illusioni naturali, le quali diriggono l'egoismo e l'amor proprio, appunto a non voler nulla più degli altri, a sacrificarsi al comune, a mantenersi nell'uguaglianza, a difendere il presente stato di cose, e rifiutare ogni singolarità e maggioranza, eccetto quella dei sacrifizi, dei pericoli, e delle virtù conducenti alla conservazione della libertà ed uguaglianza di tutti.
Il solo rimedio contro le disuguaglianze che pur nascono, è la natura, cioè parimente le illusioni naturali, le quali fanno e che queste disuguaglianze non derivino se non dalla virtù e dal merito, e che la virtù e l'eroismo comune della nazione, le tolleri, anzi le veda di buon occhio, e senza invidia, e con piacere, come effetto del merito, e non si sforzi di arrivare a quella superiorità, se non per lo stesso mezzo della virtù e del merito.
E che quelli che hanno conseguita la detta superiorità, sia di gloria, sia di uffizi e dignità (giacchè quella di ricchezze, e altri tali vantaggi, non ha luogo finchè dura nella [571]repubblica l'influenza della natura), non se ne abusino, non cerchino di passar oltre, sieno contenti, anzi impieghino il poter loro a mantener l'uguaglianza e libertà, si comunichino agli altri, diminuiscano l'invidia de' loro vantaggi col fuggire l'orgoglio, la cupidigia, il disprezzo o l'oppressione degli inferiori ec.
ec.
ec.
E tutto questo accadeva effettivamente nei primi e migliori tempi delle antiche democrazie, cioè ne' più vicini alla natura, e per gli effetti e le opere e i costumi, e materialmente per l'età.
Ma spente le illusioni, scemata o tolta la natura, tornato in campo il basso egoismo fomentato dai vantaggi e dai mezzi d'ingrandimento nei superiori, irritato negl'inferiori dalla stessa inferiorità, aggiunte le ricchezze, il lusso, le clientele, gl'impegni, le ambitiones, la filosofia, l'eloquenza, le arti, e le altre infinite corruzioni e ?????????? della società, le democrazie s'indebolirono, crollarono e finalmente caddero.
E qui torniamo al principio del nostro discorso, [572]cioè come i governi che paiono e si trovano oggi imperfettissimi, e talora insostenibili, fossero o perfetti, o buoni, ed anche utilissimi da principio, e durante i costumi naturali.
E come non vi sia peste, nè maggiore nè più certa a qualsivoglia stato pubblico, che la corruzione, e l'estinzione della natura.
E come quei governi che durando la natura erano buoni, cessata la natura divengono senz'altro pessimi.
E come alla natura non si può supplire, e la mancanza di lei non ha rimedio nessuno; nè senza lei si può mai sperare perfezione o felicità di governo fino alla fine dei secoli; ma tutto (e sia pure il governo il più profondamente studiato, combinato, e perfettamente filosofico) sarà sempre imperfettissimo, pieno di elementi discordanti, mal adattato all'uomo (al quale nulla si può più adattare, quand'egli non è più quello che dovrebb'essere), inetto alla vera felicità; e quindi o in fatto, o certo nella vera teorica, precario, istabile, mal situato, mal piantato, barcollante, incongruente, incoerente, [573]falso ec.
Il che si potrà anche vedere da quello che segue.
Tutti i vari governi per li quali andò successivamente o simultaneamente errando o lo spirito umano, o il caso, o la forza delle circostanze particolari, non servirono ad altro che a disperare i veri filosofi (certamente pochi), convinti dall'esperienza della necessaria imperfezione, infelicità, contraddizione e sconvenienza di tutto quello che 1° mancava di natura sola norma vera e invariabile d'ogni istituzione mondana; 2° non corrispondeva all'essenza e alla ragione della società, la quale richiede la monarchia assoluta.
Quasi tutte però le diverse aberrazioni della società in ordine ai governi, vennero a ricadere in questa monarchia, stato naturale della società, e il mondo, massime in questi ultimi secoli, era divenuto, si può dir, tutto monarchico assoluto.
Specialmente poi dall'abuso e corruzione della libertà e democrazia, nata immediatamente dall'abuso e corruzione della [574]monarchia assoluta, era nata pure immediatamente una nuova monarchia assoluta.
Ma non già quella primitiva, quella ch'era buona ed utile e conveniente alla società durante l'influenza della natura, e mediante questa sola: ma quella che può essere nell'assenza della natura; cioè quella tanto essenzialmente pessima, quanto la primitiva è sostanzialmente e solamente ottima: Insomma la tirannia, perchè la monarchia assoluta senza natura, non può esser altro che tirannia, più o meno grave, e quindi forse il pessimo di tutti i governi.
E la ragione è, che tolte le credenze e illusioni naturali, non c'è ragione, non è possibile nè umano, che altri sacrifichi un suo minimo vantaggio al bene altrui, cosa essenzialmente contraria all'amor proprio, essenziale a tutti gli animali.
Sicchè gli interessi di tutti e di ciascuno, sono sempre infallibilmente posposti a quelli di un solo, quando questi ha il pieno potere di servirsi degli altri, e delle cose loro, per li vantaggi e piaceri suoi, sieno anche capricci, insomma per qualunque soddisfazione sua.
Il mondo ha marcito appresso a poco in questo stato dal principio dell'impero romano, fino al nostro secolo.
Nell'ultimo secolo, la filosofia, la cognizione delle cose, l'esperienza, lo studio, l'esame delle storie, degli uomini, i confronti, i paralelli, il commercio scambievole d'ogni sorta d'uomini, di nazioni, di costumi, le scienze d'ogni qualità, le arti ec.
ec.
hanno fatto progressi tali, che tutto il mondo rischiarato e istruito, si è rivolto a considerar se stesso, e lo stato suo, e quindi principalmente [575]alla politica ch'è la parte più interessante, più valevole, di maggiore e più generale influenza nelle cose umane.
Ecco finalmente che la filosofia, cioè la ragione umana, viene in campo con tutte le sue forze, con tutto il suo possibile potere, i suoi possibili mezzi, lumi, armi, e si pone alla grande impresa di supplire alla natura perduta, rimediare ai mali che ne son derivati, e ricondurre quella felicità ch'è sparita da secoli immemorabili insieme colla natura.
Giacchè insomma la felicità e non altro, è o dev'esser lo scopo di questa nostra oramai perfetta ragione, in qualunque sua opera: come questo è lo scopo di tutte le facoltà ed azioni umane.
Che saprà fare questa ragione umana venuta finalmente tutta intiera al paragone della natura, intorno al punto principale della società? Lascio gli esperimenti fatti in Francia negli ultimi del passato, e nei primi anni di questo secolo.
Riconosciuta per indispensabile la monarchia, e d'altronde la monarchia [576]assoluta per tutt'uno colla tirannia, la filosofia moderna s'è appigliata (e che altro poteva?) al partito di puntellare.
Non idee di perfetto governo, non ritrovati, scoperte, forme di essenziale e necessaria perfezione.
Modificazioni, aggiunte, distinzioni, accrescere da una parte, scemare dall'altra, dividere, e poi lambiccarsi il cervello per equilibrare le parti di questa divisione, toglier di qua, aggiunger di là: insomma miserabili risarcimenti, e sostegni, e rattoppature e chiavi, e ingegni d'ogni sorta, per mantenere un edifizio, che perduto il suo ben essere, e il suo stato primitivo, non si può più reggere senza artifizi che non entrano affatto nell'idea primaria della sua costruzione.
La monarchia assoluta s'è cangiata in molti paesi (ora mentre io scrivo s'aspetta che lo stesso accada in tutta Europa) in costitutiva.
Non nego che nello stato presente del mondo civile, questo non sia forse il miglior partito.
Ma insomma questa non è un'istituzione che abbia il suo fondamento e la sua ragione nell'idea e nell'essenza o della società in generale e assolutamente, o [577]del governo monarchico in particolare.
È un'istituzione arbitraria, ascitizia, derivante dagli uomini e non dalle cose: e quindi necessariamente dev'essere istabile, mutabile, incerta e nella sua forma, e nella durata, e negli effetti che ne dovrebbero emergere perch'ella corrispondesse al suo scopo, cioè alla felicità della nazione.
1° Tutto quello che non ha il suo fondamento nella natura della cosa, ha un'esistenza sostanzialmente precaria.
La cosa può restare, e la modificazione perire, alterarsi, dimenticarsi abbandonarsi, diversificarsi in mille guise, non ottenere il suo scopo, restare quanto al nome e all'apparenza, non quanto al fatto.
Insomma le convengono tutte quelle proprietà, che nelle scuole si attribuiscono all'accidente, e che lo definiscono.
Di più, ancorchè resti, e resti in tutta la sua relativa perfezione o integrità, difficilmente può giovare, e valere, e tornare in bene, non avendo la sua propria ragione nell'essenza e natura della cosa.
2° La ragione e l'essenza della monarchia consiste in questo, che alla società è necessaria [578]l'unità.
L'unità non è vera se il capo o principe non è propriamente e interamente uno.
Questo non vuol dir altro se non che essere assoluto, cioè padrone egli solo di tutto quello che concerne il suo fine, cioè il bene comune.
Quanto più si divide il potere, tanto più si pregiudica all'unità, dunque tanto più si viola, si allontana e si esclude la ragione e la perfezione e della monarchia e della società.
Così che lo stato costituzionale non corrisponde alla natura e ragione nè della società in genere, nè della monarchia in specie.
Ed è manifesto che la costituzione non è altro che una medicina a un corpo malato.
La qual medicina sarebbe aliena da quel corpo, ma questo non potrebbe vivere senza lei.
Dunque bisogna compensare l'imperfezione della malattia, con un'altra imperfezione.
E così appunto la costituzione non è altro che una necessaria imperfezione del governo.
Un male indispensabile per rimediare o impedire un maggior male.
Come un cauterio in un individuo affetto da reumi ec.
Che sebbene quell'individuo vive [579]mediante quel cauterio, altrimenti non vivrebbe; e sebbene è libero da quel male, contro il quale è diretto quel rimedio: contuttociò quello stesso rimedio è un male, un vizio, un'imperfezione: e sebbene non nuoce più il primo male, nuoce il rimedio: e quell'individuo non è mica perfetto nè sano.
Così una gamba di legno a chi ha perduto la naturale.
Il quale cammina bensì con quella gamba, che altrimenti non potrebbe sostenersi: ma non perciò resta ch'egli non sia imperfetto.
Ed ecco (per conclusione del mio discorso) come quei governi e quelle cose d'ogni genere, che da principio e secondo natura, sarebbero ed erano perfette, tolta la natura, non possono più esserlo malgrado qualunque sforzo della ragione, del sapere, dell'arte: e queste non possono mai riempiere il luogo della natura, e fare perfettamente le di lei veci: anzi rimediando a un male, ne introducono necessariamente un altro: perchè esse stesse introdotte che sono in qualunque genere di cose, ne formano un'imperfezione, e rendono quella tal cosa imperfetta per ciò solo che le contiene.
(22-29.
Gen.
1821.)
Da tutto il sopraddetto deducete questo corollario.
L'uomo è naturalmente, primitivamente, [580]ed essenzialmente libero, indipendente, uguale agli altri, e queste qualità appartengono inseparabilmente all'idea della natura e dell'essenza costitutiva dell'uomo, come degli altri animali.
La società è nello stesso modo primitivamente ed essenzialmente dipendente e disuguale, e senza queste qualità la società non è perfetta, anzi non è vera società.
Pertanto l'uomo in società bisogna che necessariamente si spogli e perda delle qualità essenziali, naturali, ingenite, costitutive, e inseparabili da se stesso.
Le quali egli può ben perdere in fatto, ma non in ragione, perchè come si può considerare un essere spoglio di una sua qualità intrinseca, costitutiva, e indipendente affatto dalle circostanze e dalle forze, o esterne o accidentali, perch'essendo primitiva e naturale, è necessaria, e durevole in ragione, quanto dura quell'essere che la contiene, e ne è composto? Sarebbe lo stesso che voler considerare un uomo senza la facoltà del pensiero, la quale è parimente indipendente dagli accidenti.
In questa ipotesi, sarà un altro [581]essere, ma non un uomo.
Dunque un uomo privo della libertà e della uguaglianza in ragione, sarebbe privo dell'essenza umana, e non sarebbe un uomo, ch'è impossibile.
Nè egli si può condannare a perdere realmente e radicalmente questa qualità, neppure spontaneamente: e nessuna promessa, contratto, volontà propria e libera, lo può mai spogliare in minima parte del diritto di seguire in tutto e per tutto la sua volontà, oggi in un modo, domani in un altro: e come egli ha potuto adesso volontariamente ubbidire, e promettere di ubbidire per sempre; così l'istante appresso egli può disubbidire in diritto, e non può non poterlo fare.
V.
p.452.
capoverso 1.
Dunque la società, spogliando l'uomo in fatto, di alcune sue qualità essenziali e naturali, è uno stato che non conviene all'uomo, non corrisponde alla sua natura; quindi essenzialmente e primitivamente imperfetto, ed alieno per conseguenza dalla sua felicità: e contraddittorio nell'ordine delle cose.
Del resto tutto quello ch'io dico della necessità dell'unità, e quindi dipendenza [582]soggezione e disuguaglianza nella società, non appartiene e non ha forza in quanto a quella società veramente primordiale, che entra nell'essenza, ordine e natura della specie umana e degli animali: società imperfetta in quanto società; perfetta in quanto all'essenza vera e primitiva dell'uomo e degli animali, e all'ordine delle cose, dove nulla è perfetto assolutamente, ma relativamente.
Volendo appurare l'idea della società, ne risulta direttamente la conseguenza che ho detto, cioè la necessità dell'unità, e quindi della monarchia ec.
Ma questi appuramenti, queste circoscrizioni, queste esattezze, queste strettezze, queste sottigliezze, queste dialettiche queste matematiche non sono in natura, e non devono entrare nella considerazione dell'ordine naturale, perchè la natura effettivamente non le ha seguite.
E non solo non è imperfetto quello che non corrisponde geometricamente alle dette idee, purchè però sia naturale; ma anzi non può esser perfetto tutto quello che vien ridotto e conformato alle dette idee, perchè non è più conforme al suo [583]stato essenziale e primitivo.
E dovunque ha luogo la perfezione matematica, ha luogo una vera imperfezione (quando anche questa rimedii ad altri più gravi inconvenienti e corruzioni), cioè discordanza dalla natura, e dall'ordine primitivo delle cose, il quale era combinato in altro modo, e fuor del quale non v'è perfezione, benchè questa non sia mai assoluta, ma relativa.
La stretta precisione entra nella ragione e deriva da lei, non entrava nel piano della natura, e non si trovava nell'effetto.
È necessaria ai nostri tempi, dove l'ordine delle cose è corrotto, ed è come degnissimo d'osservazione altrettanto evidente e osservato, che la stretta precisione delle leggi, istituzioni, statuti governi ec.
insomma delle cose, è sempre cresciuta in proporzione che gli uomini e i secoli sono stati più guasti: ed ora è venuta al colmo, perchè anche la corruzione è eccessiva, e ha passato tutti i limiti.
L'appresso a poco, il facilmente e simili altre idee, non convengono ai sistemi presenti, dove nulla è, se può non essere: convengono ottimamente [584]alla natura, dove infinite cose erano, e potevano non essere, ma la natura aveva provveduto bastantemente, quando avea provveduto che non fossero, e non erano in fatto.
Altrimenti come si sarebbe potuta corromper la natura, e l'ordine delle cose, in quel modo in cui vediamo che ha fatto? Della qual corruzione, tutti, più o meno, bisogna che convengano.
Ma ciò non avrebbe potuto accadere se tutto quello che era, non avesse potuto non essere, nè essere nè andare altrimenti.
Il qual effetto è lo scopo della ragione e de' presenti sistemi, sempre diretti a rendere impossibile il contrario, se il sistema appartiene alla pratica, e a dimostrare impossibile il contrario, se il sistema appartiene alla speculativa.
Questa pure è una gran fonte di errori ne' filosofi, massime moderni, i quali assuefatti all'esattezza e precisione matematica, tanto usuale e di moda oggidì, considerano e misurano la natura con queste norme, credono che il sistema della natura debba corrispondere a questi principii; e non credono naturale quello che non è preciso e matematicamente esatto: quando anzi per lo contrario, [585]si può dir tutto il preciso non è naturale: certo è un gran carattere del naturale il non esser preciso.
Ma il detto errore è fratello di quello che suppone nelle cose il vero, il bello, il buono, la perfezione assoluta.
Nella natura e nell'ordine delle cose bisogna considerare la disposizion primitiva, l'intenzione, il come le cose andassero da principio, il come piaccia alla natura che vadano, il come dovrebbero andare; non la necessità, nè il come non possano non andare.
Ed egli è certissimo che, sebben l'ordine delle cose andava naturalmente nell'ottimo modo possibile, e regolarissimamente, contuttociò andava alla buona; e la massima parte delle cagioni corrispondeva agli effetti sufficientemente (che questo si richiede alla provvidenza dell'effetto voluto: la sufficienza della causa), non necessariamente.
E ciò non solo negli uomini, ma negli animali, e in tutti gli altri ordini di cose.
E perciò appunto si trovano e accadono tuttogiorno nel mondo tanti inconvenienti, aberrazioni, accidenti particolari contrari all'ordine generale: e non parlo già di quelli soli che derivano da noi, ma di quelli indipendenti [586]affatto dall'azione e dall'ordine nostro.
I quali accidenti che si chiamano mali, disastri, ec.
danno tanto che fare ai filosofi, i quali non vedono come possano aver luogo nell'opera della natura: ed alcuni sono stati così temerari, che siccome la ragione nelle sue piccole opere si sforza di escludere la possibilità d'ogni accidente particolare contrario a quel tal ordine generale; così hanno creduto che se la ragione umana avesse presieduto all'opera della natura, questi accidenti non avrebbero avuto luogo.
Ma le dette imperfezioni accidentali non entrano nel piano della natura, (sebbene neppur questo possiamo dire non conoscendo l'intero ordine ed armonia delle cose): non ne sono però matematicamente e necessariamente esclusi; e sono da lei quasi permessi, in quel modo come dicono i Teologi che Dio permette il peccato, ch'è sommo male e imperfezione, ma accidentale: e in ogni modo il piano, il sistema, la macchina della natura, è composta e organizzata in altra maniera da quella della ragione, e non risponde all'esattezza matematica.
[587]Così dunque la società veramente primordiale, e naturale alla specie umana, come a quelle dei bruti, senza principato, senza soggezione, senza disuguaglianza, senza gradi, senza regole, poteva benissimo corrispondere al fine, cioè al comun bene, come vi corrisponde quella delle formiche: al qual fine non può mai corrispondere una società più stretta e formata, se manca di unità.
Ma quella primissima società camminava alla buona, e così alla buona conseguiva l'intento della natura, e la sua destinazione.
Nè per questo era necessario opporsi alla natura, e introdurre una contraddizione tra il fatto e il diritto, una contraddizione nell'ordine delle cose umane, introducendo qualità contrarie alle qualità ingenite ed essenziali dell'uomo; vale a dire la soggezione e disuguaglianza contrarie alla libertà ed uguaglianza naturale.
Che se le api hanno un capo, e quindi soggezione e disparità, questo non fa obbiezione veruna.
Tutto essendo relativo, la natura che ha fatto gli uomini liberi e uguali, e così infinite altre specie di animali; poteva far le api (e altre tali specie, [588]se ve ne ha) disuguali e soggette.
E siccome ella lo ha fatto, dando una superiorità ingenita e naturale a certi individui di quella specie, sopra gli altri individui; perciò, come lo stato dell'uomo e degli altri animali non può esser perfetto senza libertà ed uguaglianza, perchè queste sono naturali in loro; così per lo contrario lo stato delle api non è perfetto senza soggezione e disuguaglianza, perchè la loro specie è così fatta e ordinata da natura, e la perfezione consiste nello stato naturale.
Negli uomini dunque non c'è nulla di simile, nè si può dedur nulla in proposito loro, dall'esempio delle api.
Perchè le piccole (certo piccole in proporzione della disparità delle api), dico le piccole disparità o superiorità di forze, di statura, d'ingegno ec.
che s'incontrano negli uomini, sono disparità o superiorità accidentali, e provenienti da cause subalterne; come sono inferiorità accidentali quelle che vengono da malattie, da cadute, disgrazie d'ogni genere ec.
Sono dico accidentali queste o superiorità, o inferiorità, cioè non sono regolari, e non appartengono all'ordine primitivo, costante, invariabile, [589]essenzale della specie, come la disparità delle api.
Che se queste tali superiorità dessero a chi le possiede, un diritto di comandare e di essere ubbidito, 1.
dove molti le possedessero in ugual grado, o non si saprebbe a chi ubbirire, o tutti quei tali dovrebbero comandare, ed ecco svanita l'idea dell'unità: 2.
dove non ci fosse disparità nessuna, il principato non sarebbe naturale, dove ci fosse, sarebbe naturale: 3.
e di più siccome le disparità possono nascere accidentalmente in diversi tempi, perciò in una stessa società anzi generazione di uomini, oggi non sarebbe naturale il principato, domani sì: 4.
il fanciullo futuro superiore di forze ec.
siccome ancora non è tale, e forse non diverrà tale, se non per cause accidentalissime, e imprevedibili; così non avrebbe ancora nessun'ombra di quel diritto al comando, che avrà poi per natura: 5.
questo diritto supposto naturale, non dovrebbe tuttavia durare se non quanto durasse la superiorità in quello o in quei tali; sicchè questi perdendo il vigore del corpo, o dell'ingegno, o dell'animo, la virtù, il coraggio ec.
per malattie, per disgrazie, per circostanze, per cangiamento e corruzione di [590]opinioni, di costumi ec.
per abuso fatto del corpo, o in ogni modo invecchiando, il che è inevitabile; perderebbero essenzialmente non solo in fatto ma in diritto quel comando, che si suppone avessero naturalmente e per se.
V.
p.609.
capoverso 1.
Insomma gli accidenti sono del tutto fuori d'ogni considerazione, intorno all'ordine primitivo e stabile, e alla natura di qualunque cosa.
(29-31 Gen.
1821.)
Del resto quanto sia facile, ovvia, e primitiva l'idea che a qualunque società, per poco ch'ella sia formata, e che declini dalla primissima forma di società, comune si può dire a tutte le specie di viventi, è necessaria l'unità, cioè un capo, e questo veramente uno, cioè assoluto, si può vedere e nelle storie d'ogni nazione, e in ogni genere di società, pubblica, privata ec.
nelle milizie, nelle compagnie di cacciatori, o in qualunque compagnia, che abbia uno scopo comune, e sia destinata tutta insieme a un oggetto qualunque.
Io mi sono abbattuto a sentire un uomo di nessuna o coltura, o acutezza naturale d'ingegno, il quale a una compagnia di negoziatori, che si mettevano a girare il mondo, per far guadagno [591]mediante un capitale comune e indivisibile (cioè un panorama), dava questo consiglio: Sceglietevi e riconoscete un capo, e ubbiditelo in tutto.
(che altro è questo se non l'idea precisa della necessità della monarchia assoluta?) Altrimenti ciascuno cercando il suo interesse più dell'altrui, cosa contrarissima all'interesse e allo scopo comune, l'uno farà pregiudizio all'altro, e al tutto; e così ciascuno sarà pregiudicato, e la discordia (cioè il contrario dell'unità) v'impedirà di conseguire quello che cercate.
(31.
Gen.
1821.).
V.
p.598.
capoverso 1.2.3.
Quod si hoc apparet in bestiis, volucribus, nantibus, agrestibus, cicuribus, feris, primum ut se ipsae diligant; (id enim pariter cum omni animante nascitur) (dunque Cicerone riconosceva le bestie per dotate di libertà) deinde, ut requirant, atque appetant, ad quas se applicent, eiusdem generis animantes; idque faciunt cum desiderio, et cum quadam similitudine amoris humani: quanto id magis in homine fit natura, qui et se ipse diligit, et alterum anquirit, cuius animum [592]ita cum suo misceat, ut efficiat paene unum ex duobus? Cic.
Lael.
sive de Amicit.
c.21.
fine.
Della nostra naturale inclinazione di partecipare agli altri le nostre alquanto straordinarie sensazioni o piacevoli o dispiacevoli, v.
un luogo insigne di Cic.
(Lael.
sive de Amicit.
tutto il c.23.) il qual passo, io credo che sia stata la prima fonte di questa osservazione, tanto familiare e nota ai moderni.
(31.
Gen.
1821.)
Cic.
Lael.
sive de Amicit.
c.
II.
Quod si rectum statuerimus, vel concedere amicis, quidquid velint, vel impetrare ab iis, quidquid velimus, PERFECTA QUIDEM SAPIENTIA SIMUS, SI NIHIL HABEAT RES VITII; sed loquimur de iis amicis, qui ante oculos sunt, quos videmus, aut de quibus memoriam accepimus, aut quos novit vita communis.
Leggi si perfecta q.
s.
simus, nihil h.
r.
v.
come richiede evidentemente il senso, che altrimenti zoppica, e sibi non constat.
(31.
Gen.
1821.).
Communicare per particeps fieri, essere, o venire a parte, del qual significato il Forcellini [593]non reca esempi, se non tre di cattiva lega, e di bassa latinità ed autorità (l'Appendice nulla) si trova presso Cicerone: (Lael.
sive de Amicit.
c.7.) Itaque, si quando aliquod officium exstitit amici in periculis aut adeundis, aut communicandis, (cioè nel prender parte ai pericoli dell'amico) quis est, qui id non maximis efferat laudibus? V.
un non so che di simile nella Crusca.
Alla p.307.
Quid autem interest, ab iis, qui postea nascentur sermonem fore de te, cum ab iis nullus fuerit, qui ante nati sint, qui nec pauciores, et certe meliores fuerunt viri? L'Affricano maggiore al minore, presso Cicerone, Somn.
Scipion.
c.7.
V.
p.643.
capoverso 3.
Quid autem est horum in voluptate? melioremne efficit, aut laudabiliorem virum? an quisquam in potiundis voluptatibus gloriando sese, et praedicatione effert? (Cic.
Paradox.
I.
c.3.
fine) Oggi sibbene, o M.
Tullio, nè c'è maggior gloria per la gioventù, nè scopo alla carriera loro più brillantemente, manifestamente e concordemente proposto, nè mezzo di ottener lode e stima più sicuro e comune, che quello [594]di seguire e conseguire le voluttà, ed abbondarne, e ciò più degli altri.
L'oggetto delle gare ed emulazioni della più florida parte della gioventù, non è altro che la voluttà, e il trionfo e la gloria è di colui che ne conseguisce maggior porzione, e che sa e può godere e immergersi nei vili piaceri più degli altri.
Le voluttà sono lo stadio della gioventù presente: tanto che già non si cercano principalmente per se stesse, ma per la gloria che ridonda dall'averle cercate e conseguite.
E se non di tutte le voluttà si può gloriare colui che le ottiene, in quel momento medesimo, in cui le gode, (sebbene di moltissimi generi di voluttà accade tuttogiorno ancor questo) certo desidererebbe di poterlo fare, di aver testimoni del suo godimento: anzi questo godimento consiste per la massima parte nella considerazione e aspettativa del vanto che gliene risulterà: e subito dopo, non ha maggior cura, che di divulgare e vantarsi della voluttà provata; e questo anche a rischio di chiudersi l'adito a nuove voluttà; e colla certezza di nuocere, tradire, essere [595]ingiusto e ingrato verso coloro onde ha ottenuta la voluttà che cercava.
E sebbene certamente neanche oggi la voluttà rende l'uomo migliore, lo rende però più lodevole agli occhi della presente generazone, il che tu o Marco Tullio, sti mavi che non potesse avvenire.
(1 Feb.
1821.)
Quella frase o metafora nostra volgarissima e familiare di cuocere per molestare, travagliare, tormentare, e affligger l'animo (così la Crusca v.
Cuocere §.3.), fu parimente presso i latini nel verbo coquere, e ciò anche ne' più antichi.
O Tite, si quid ego adiuvero, CURAMQUE levasso,
QUAE nunc TE COQUIT, et versat in pectore fixa,
Ecquid erit pretii?
Ennio presso Cicerone (Cato maior seu de Senect.
c.1.) Il Forcellini ne porta anche altri due esempi, l'uno di Virgilio, l'altro di Stazio.
L'Appendice nulla.
???????????????????????????????????????????.
L'ignoranza fa l'uomo pronto, [596]la considerazione ritenuto; L'ignoranza fa che l'uomo si risolva facilmente, la ragione difficilmente.
In latino traducono così: Inscitia quidem audaciam, consideratio autem tarditatem fert.
Sentenza di Tucidide, lib.2.
nell'orazione funebre detta da Pericle, che incomincia, ?? ??? ?????? ??? ?????? ??? ?????????.
Sentenza celebre presso gli antichi.
Luciano: (in Epist.
ad Nigrinum, quae praemittitur Nigrino, seu de Philosophi moribus) ???????????? ?? (scamperò) ??????? ??? ?? ?????????? ????????, ??? ? ?????? ??? ???????, ???????? ?? ?? ??????????? ???????????.
Imperitia audaces, res autem considerata timidos efficit.
Plinio (Epist.
IV.
7.): Hanc ille vim, (seu quo alio nomine vocanda est intentio quicquid velis obtinendi) si ad potiora vertisset, quantum boni efficere potuisset? quamquam minor vis bonis, quam malis inest, ac sicut ?????? ??? ??????, ???????? ?? ????? ?????, ita recta ingenia debilitat verecundia, perversa [597]confirmat audacia.
S.
Girolamo: (Epist.
126.
ad Evagr.) (così è numerata nella mia ediz.
t.3.
p.31.
a.) Tuum certe spiritualem illum interpretem non recipies; qui imperitus sermone et scientia, tanto supercilio et auctoritate Melchisedek Spiritum Sanctum pronunciavit, ut illud verissimum comprobarit, quod apud Graecos canitur: imperitia confidentiam, eruditio timorem creat.
Stupeo, o stupesco, stupefacio, stupefio, stupidus, ec.
coi composti, non solo si sono conservati materialmente nel verbo stupire, stupefare, stupidire ec.
ec.
ma se ben questi sono restati nella nostra lingua seccamente e nudamente, e senza il significato etimologico (che vuol dire, diventar di stoppa), come infinite altre parole delle quali resta quasi il corpo e non l'anima, tuttavia la nostra lingua conserva ancora per altra parte quella prima metafora, diventar di stoppa, e l'usa familiarmente per istupire ec.
sebbene non sia registrata nella Crusca.
(1.
Feb.
1821.)
[598]Alla p.591 Igitur initio reges (nam in terris nomen imperii id primum fuit) (cioè, il primo governo, le premier pouvoir, come traduce Dureau-Delamalle, la più antica signoria, come traduce Alfieri, fu regia, vale a dire assoluta) diversi, pars ingenium, alii corpus exercebant: etiam tum vita hominum sine cupiditate agitabatur, sua cuique satis placebant.
(Cioè, l'egoismo non turbava l'ordine pubblico).
Sallustio, Bell.
Catilinar.
c.2.
Ius bonumque apud eos, (i romani de' primi tempi della repubblica) non legibus magis quam naturâ valebat.
Sallustio, Bell.
Catilinar.
c.9.
Regium imperium, quod initio conservandae libertatis atque augendae reipublicae fuerat.
Sallustio, Bell.
Catilinar.
c.6.
fine.
At populo romano nunquam ea copia fuit, (praeclari ingenii scriptorum) quia prudentissimus quisque (cioè, ceux qui avaient le plus de lumières, Dureau-Delamalle, qual più saggio vi era, Alfieri) negotiosus maxume erat: ingenium nemo sine corpore exercebat: (luogo degno di essere riportato qualunque volta io discorrerò di questa materia) optimus quisque facere quam dicere, [599]sua ab aliis benefacta laudari, quam ipse aliorum narrare, malebat.
Sallustio, Bell.
Catilinar.
c.8.
fine.
In hoc sumus sapientes, quod naturam optimam ducem, tanquam deum, sequimur, eique paremus...
Quid enim est aliud, gigantum modo bellare cum diis, nisi naturae repugnare? Cic.
Cato mai.
seu de Senect.
c.2.
Sentenze attissime o congiunte o separate, a servire di epigrafe o motto a qualche mio libro.
V.
p.601 capoverso 1.
Alla p.291.
margine.
Nemo enim est tam senex, qui se annum non putet posse vivere.
Cic.
Cato mai.
seu de Senect.
c.7.
fine.
E lo dice in proposito dei contadini che seminano ancorchè vecchissimi per l'anno futuro.
Qual cosa è più lontana dal noto e comune significato del verbo latino defendere, quanto il significato di proibire nel francese défendre, nello spagnuolo defender e nel difendere italiano presso gli antichi? E pure il significato proprio e primitivo del latino defendere (admodum propria et Latina huius verbi significatio, [600]ut ait Gell.
l.9.
c.1.
dice il Forcellini) è molto simile, e si accosta moltissimo alla detta significazione francese, e antica italiana: ed è questa, arceo, prohibeo, depello, propulso, come dice il Forcellini, il quale ne porta molti esempi di diverse età di scrittori.
Ora, come il verbo prohibeo, che ha questa medesima significazione, aveva ancora presso i latini espressamente quella di proibire o défendre (v.
il Forcellini) così è ben verisimile che il verbo defendere unisse (se non presso i noti scrittori, presso gli antichissimi, e presso il volgo) questo significato al sopraddetto.
In ogni modo è chiaro [che] l'uso del defendere in francese e nel vecchio italiano, per proibire, deriva dall'antichissimo, primo, e proprio significato di quel verbo latino; il quale, se anche è stato ridotto al significato di proibire, solamente nelle origini della nostra lingua, lo è stato però certo in forza della conservazione costante di quell'antichissimo significato, non più noto agli scrittori di quei tempi, e quindi necessariamente al solo volgo, e che si crederebbe perduto da lunghissimo tempo, se non [601]avessimo questa prova della sua costante conservazione fino all'ultima età della lingua latina.
(2 Feb.
1821.)
Alla p.599 Omnia vero, quae secundum naturam fiunt, sunt habenda in bonis.
Cic.
Cato mai.
seu de Senect.
c.19.
in proposito della morte dei vecchi.
(3.
Feb.
1821.)
Cic.
Cato mai.
seu de Senect.
c.23.
Et ex vita ita discedo, tamquam ex hospitio, non tamquam ex domo.
Il contesto vuol che si legga: At ex vita.
Quid enim habet vita commodi? quid non potius laboris? Sed habeat sane: habet certe tamen, aut satietatem, aut modum.
Non lubet enim mihi deplorare vitam, quod multi, et ii docti, saepe fecerunt; neque me vixisse poenitet; quoniam ita vixi, ut non frustra me natum existimem.
Cic.
Cato mai.
seu de Senect.
c.23.
in persona di Catone.
La mente nostra non può non solamente conoscere, ma neppur concepire alcuna cosa oltre i limiti della materia.
Al di là, non possiamo con qualunque possibile sforzo, immaginarci una [602]maniera di essere, una cosa diversa dal nulla.
Diciamo che l'anima nostra è spirito.
La lingua pronunzia il nome di questa sostanza, ma la mente non ne concepisce altra idea, se non questa, ch'ella ignora che cosa e quale e come sia.
Immagineremo un vento, un etere, un soffio (e questa fu la prima idea che gli antichi si formarono dello spirito, quando lo chiamarono in greco ???????da ????, e in latino spiritus da spiro: ed anche anima presso i latini si prende per vento, come presso i greci ???? derivante da ????, flo spiro, ovvero refrigero); immagineremo una fiamma; assottiglieremo l'idea della materia quanto potremo, per formarci un'immagine e una similitudine di una sostanza immateriale; ma una similitudine sola: alla sostanza medesima non arriva nè l'immaginazione, nè la concezione dei viventi, di quella medesima sostanza, che noi diciamo immateriale, giacchè finalmente è l'anima appunto e lo spirito che non può concepir se stesso.
In così perfetta oscurità pertanto ed ignoranza su tutto quello che è, o si suppone fuor della materia, con che [603]fronte, o con qual menomo fondamento ci assicuriamo noi di dire che l'anima nostra è perfettamente semplice, e indivisibile, e perciò non può perire? Chi ce l'ha detto? Noi vogliamo l'anima immateriale, perchè la materia non ci par capace di quegli effetti che notiamo e vediamo operati dall'anima.
Sia.
Ma qui finisce ogni nostro raziocinio; qui si spengono tutti i lumi.
Che vogliamo noi andar oltre, e analizzar la sostanza immateriale, che non possiamo concepir quale nè come sia, e quasi che l'avessimo sottoposta ad esperimenti chimici, pronunziare ch'ella è del tutto semplice e indivisibile e senza parti? Le parti non possono essere immateriali? Le sostanze immateriali non possono essere di diversissimi generi? E quindi esservi gli elementi immateriali de' quali sieno composte le dette sostanze, come la materia è composta di elementi materiali.
Fuor della materia non possiamo concepir nulla, la negazione e l'affermazione sono egualmente assurde: ma domando io: come dunque sappiamo che l'immateriale è indivisibile? Forse l'immateriale, e l'indivisibile nella nostra mente sono tutt'uno? sono gli attributi di una stessa idea? [604]Primieramente ho già dimostrato come l'idea delle parti non ripugni in nessun modo all'idea dell'immateriale.
Secondariamente, se l'immateriale è indivisibile e uno per essenza, non è egli diviso, non ha egli parti, quando le sostanze immateriali, ancorchè tutte uguali, sono pur molte e distinte? Dunque non vi sarà pluralità di spiriti, e tutte le anime saranno una sola.
Dopo tutto ciò, come possiamo noi dire che l'anima, posto che sia immateriale, non può perire per essenza sua propria? Se lo spirito non può perire per ciò che non si può sciogliere, così anche perchè non si può comporre, non potrà cominciare.
Meglio quei filosofi antichi i quali negando che le anime fossero composte, e potessero mai perire, negavano parimente che avessero potuto nascere, e volevano che sempre fossero state.
Il fatto sta che l'anima incomincia, e nasce evidentemente, e nasce appoco appoco, come tutte le cose composte di parti.
Oltracciò non osserviamo noi nell'anima [605]diversissime facoltà? la memoria, l'intelletto, la volontà, l'immaginazione? Delle quali l'una può scemare, o perire anche del tutto, restando le altre, restando la vita, e quindi l'anima.
Delle quali altri son più, altri meno forniti: come dunque la sostanza dell'anima è per natura, uguale tutta quanta?
Ma queste sono facoltà, non parti dell'anima.
Primo, l'anima stessa non ci è nota, se non come una facoltà.
Secondo, se l'anima è perfettamente semplice, e, per maniera di dire, in ciascheduna parte uguale alle altre parti, e a tutta se stessa, come può perdere una facoltà, una proprietà, conservando un'altra, e continuando ad essere? Come può accader questo, se noi pretendiamo cum simplex animi natura esset, neque haberet in se quidquam admistum dispar sui, atque dissimile, non posse eum dividi: quod si non possit, non posse interire? (Cic.
Cato mai.
seu de Senect.
c.21.
fine, ex Platone.) V.
p.629.
capoverso 2.
In somma fuori della espressa volontà e [606]forza di un Padrone dell'esistenza, non c'è ragione veruna perchè l'anima, o qualunque altra cosa, supposta anche e non ostante l'immaterialità debba essere immortale; non potendo noi discorrere in nessun modo della natura di quegli esseri che non possiamo concepire; e non avendo nessun possibile fondamento per attribuire ad un essere posto fuori della materia, una proprietà piuttosto che un'altra, una maniera di esistere, la semplicità o la composizione, l'incorruttibilità o la corruttibilità.
(4.
Feb.
1821.)
Cum proelium inibitis, (moneo vos ut) memineritis vos divitias, decus, gloriam, praeterea libertatem atque patriam in dextris vestris portare.
Parole che Sallustio (B.
Catilinar.
c.61 al.58.) mette in bocca a Catilina nell'esortazione ai soldati prima della battaglia.
Osservate la differenza dei tempi.
Questa è quella figura rettorica che chiamano Gradazione.
Volendo andar sempre crescendo, Sallustio mette prima le ricchezze, poi l'onore, poi la gloria, poi la libertà, [607]e finalmente la patria, come la somma e la più cara di tutte le cose.
Oggidì, volendo esortare un'armata in simili circostanze, ed usare quella figura si disporrebbero le parole al rovescio: prima la patria, che nessuno ha, ed è un puro nome; poi la libertà che il più delle persone amerebbe, anzi ama per natura, ma non è avvezzo neanche a sognarla, molto meno a darsene cura; poi la gloria, che piace all'amor proprio, ma finalmente è un vano bene; poi l'onore, del quale si suole aver molta cura, ma si sacrifica volentieri per qualche altro bene; finalmente le ricchezze, per le quali onore, gloria, libertà, patria e Dio, tutto si sacrifica e s'ha per nulla: le ricchezze, il solo bene veramente solido secondo i nostri valorosi contemporanei: il più capace anzi di tutti questi beni il solo capace di stuzzicar l'appetito, e di spinger davvero a qualche impresa anche i vili.
(4.
Feb.
1821.)
Alla p.465.
Bisogna combattere ad armi uguali, chi non vuol restare sicuramente inferiore.
Dunque [608]tutto il mondo oggidì essendo armato di egoismo, bisogna che ciascuno si provveda della medesima arma, anche i più virtuosi e magnanimi, se voglion far qualche cosa.
Alla p.570.
principio.
Perchè come gli oligarchi e gli ottimati a forza di fazioni, di clientele, di largizioni, di artifizi di ogni sorta, hanno vinto la plebe in cui risiedeva il potere, e l'hanno vinta colle forze comuni: così questi pochi nei quali risiede ora il potere; mediante l'egoismo e la ?????????, inevitabile quando la virtù e la natura è sparita dal mondo, non si accordano neppure intorno agl'interessi comuni di questa piccola società, il cui solo bene era divenuto loro scopo: e ciascuno cercando il ben proprio, si dividono di nuovo in partiti; il partito vincitore, si suddivide di nuovo per gli stessi motivi; finattanto che più presto o più tardi, la vittoria e il potere resta in mano di un solo, il quale essendo indivisibile, finalmente il governo divenuto monarchia, piglia [609]una forma stabile.
Così accadde in Roma.
Gli uomini chiari per gloria militare o domestica, per ricchezze, potere, eloquenza ec.
esercitavano già una specie di oligarchia, quando questa, abbassati tutti gli altri, si venne a ristringere nei primi Triumviri, finattanto che Cesare tolti di mezzo gli altri triumviri, ristrinse tutto in lui solo.
Così nel secondo triumvirato.
(4.
Feb.
1821.)
Alla p.590./6.
Anche durando in quel tale che si suppone monarca per diritto di natura, tutte le qualità che gli davano questo diritto; posto il caso che un altro membro di quella medesima società, arrivasse o coll'età, o coll'esercizio del corpo o dello spirito ec.
ec.
a possedere quelle stesse qualità in maggior grado, o anche maggiori, o più numerose qualità; il primo monarca perderebbe il suo diritto che si suppone naturale, alla monarchia, e non solo ancora vivendo, ma essendo ancor tale, quale incominciò a regnare, e per se medesimo in tutto e per tutto lo stesso, a ogni modo non dovrebbe più [610]regnare.
(4.
Feb.
1821.)
Neanche l'amor proprio è infinito, ma solamente indefinito.
Non è infinito, dico io non già secondo l'origine e il significato proprio di questa voce, ma secondo la forza che le sogliamo attribuire: come diciamo che Dio è infinito, perchè contiene perfettamente e realmente in se stesso tutta l'infinità.
Laddove sebbene l'uomo, e qualunque vivente, si ama senza confine veruno, e l'amor proprio non ha limiti nè misura, nè per durata nè per estensione, contuttociò l'animo umano o di qualunque vivente non è capace di un sentimento il quale contenga la totalità dell'infinito, e in questo senso dico io che l'amor proprio non è infinito: e che quantunque non abbia limiti, non deriva da questo che l'animo nostro abbia niente d'infinito, non più che quello di qualsivoglia animale.
E così non si può dedur nulla in questo proposito, dalla infinità dei nostri desideri, conseguenza della sopraddetta e spiegata [611]infinità dell'amor proprio.
Nè dalla nostra infinita, o vogliamo dire indefinita capacità di amare, cioè di essere piacevolmente affetti e inclinati verso gli oggetti; conseguenza dell'infinito amor del piacere, il quale deriva immediatamente e necessariamente dall'amor proprio infinito, o senza limiti nè misura.
(4.
Feb.
1821.)
Alla p.112.
Prima di Gesù Cristo, o fino a quel tempo, e ancor dopo, da' pagani, non si era mai considerata la società come espressamente, e per sua natura, nemica della virtù, e tale che qualunque individuo il più buono ed onesto, trovi in lei senza fallo e inevitabilmente, o la corruzione, o il sommo pericolo di corrompersi.
E infatti sino a quell'ora, la natura della società, non era stata espressamente e perfettamente tale.
Osservate gli scrittori antichi, e non ci troverete mai quest'idea del mondo nemico del bene, che si trova a ogni passo nel Vangelo, e negli scrittori moderni ancorchè profani.
Anzi (ed avevano [612]ragione in quei tempi) consideravano la società e l'esempio come naturalmente capace di stimolare alla virtù, e di rendere virtuoso anche chi non lo fosse: e in somma il buono e la società, non solo non parevano incompatibili, ma cose naturalmente amiche e compagne.
(4.
Feb.
1821.)
Alla p.535.
fine.
Così anche il piacere della speranza, non è mai piacere presente, nemmeno in quanto speranza; cioè l'atto del piacere della speranza, cammina in quel medesimo modo che ho notato nell'atto del piacere presente, o della rimembranza o considerazione del piacere passato.
(5.
Feb.
1821.)
Non è veramente furbo chi non teme, o presume e confida con certezza, di non poter essere ingannato, trappolato ec.: perchè non conosce dunque e non apprezza a dovere le forze della sua stessa furberia.
E per la stessa ragione non è sommo in veruna professione chi non è modesto; e la modestia, e lo stimarsi da non molto, e il credere intimamente e sinceramente di non aver conseguito tutto quel merito che si potrebbe e dovrebbe conseguire, questi dico sono segni e [613]distintivi dell'uomo grande, o certo sono qualità inseparabili da lui.
Perchè quanto più si possiede e si conosce a fondo una qualunque (ancorchè piccola) professione, tanto più se ne sentono e valutano le difficoltà; si conosce quanto la perfezione e la sommità sia difficile in essa: perchè le difficoltà della perfezione si sanno e si conoscono generalmente in ogni cosa, ma non si sentono così vivamente e precisamente, come in una professione intimamente posseduta: tanto più si comprende e vede e tocca con mano, quanto sia facile l'andar sempre più oltre, e il perfezionare anche ciò che si crede perfetto.
In somma quanto più l'uomo apprezza e stima una buona professione: e l'apprezza e stima quanto meglio la conosce; tanto meno apprezza se stesso.
Perchè mettendosi in confronto non già cogli altri cultori di quella professione (i quali forse gli cederanno), ma colla professione stessa; resta sempre malcontento del paragone, si trova lontano dall'uguaglianza, e riabbassa sempre più l'idea di se stesso.
(5.
Feb.
1821.)
[614]????????????? ???? ?????? ?? ??????????????, ??????? ????? ???????? ?????.
Isocrate, ???? ???????? ???? ????????? ?????.
Detto convenientissimo a quasi tutti i padri, le madri, e gli educatori de' nostri tempi.
(5.
Feb.
1821.)
È cosa notabile come l'uomo sommamente sventurato, o scoraggito della vita, e deposta già e complorata la speranza della propria felicità, ma non perciò ridotto a quella disperazione che non si acquieta se non colla morte; naturalmente, e senza veruno sforzo sia portato a servire e beneficar gli altri, anche quelli che o gli sono del tutto indifferenti, o anche odiosi.
E non già per vigore di eroismo, chè l'uomo in tale stato non è capace di nessun vigore d'animo; ma in certo modo, come non avendo più interesse nè speranza per te, trasporti l'interesse e la speranza agli affari altrui, e così cerchi di riempiere l'animo tuo, di occuparlo, e di rendergli i due sopraddetti sentimenti, cioè cura di qualche cosa, ossia scopo, e speranza, senza [615]i quali la vita non è vita, non si conosce, manca del senso di se stessa.
Il fatto sta che quando l'uomo si trova in tali circostanze, cioè disperato in maniera, non da odiarsi, (ch'è la ferocia della disperazione) ma da noncurarsi, e metter se stesso fuori della sfera de' suoi pensieri; non solo prova compiacenza nel servir gli altri, ma prende anche per gli affari loro (ancorchè, come ho detto di persone indifferenti) una certa affezione, un certo impegno, un desiderio ec.
tutto languido bensì, perchè l'animo suo non è più capace di sentimento vivo e forte, ma pur tale, ch'egli non è stato mai animato verso il bene altrui così sensibilmente.
E ciò accade anche appena l'uomo si riduce alla detta condizione, così che avviene in lui come un cangiamento improvviso: ed accade anche negli uomini stati infetti di egoismo.
In somma la persona degli altri sottentra nell'animo suo, quasi intieramente, alla persona propria, ch'è sparita, e messa in non cale e per perduta, come quella che non può più sperare, e non è più capace della felicità, senza cui la vita manca del suo fine, e scopo.
E il desiderio e la cura [616]e la speranza della felicità, che non possono più diriggersi alla felicità propria, riconosciuta impossibile, e nel cercar la quale sarebbero vane, e quindi non più sufficienti all'animo umano; si rivolgono alla felicità altrui: e ciò spontaneamente, e senz'ombra di eroismo.
E l'animo dell'uomo che mancatogli lo scopo della felicità, è moralmente morto, risorge a una languida vita, ma tuttavia risorge e vive in altrui, cioè nello scopo dell'altrui felicità, divenuto lo scopo suo.
Come quei corpi di sangue corrotto e malsano, e quindi incapaci di vita, che alcuni medici spogliavano (o proponevano di spogliare) del sangue proprio, e restituivano ad una certa salute, colla introduzione del sangue altrui, o di qualche animale; quasi cangiando la persona, e trasformando quella che non poteva più vivere, in un'altra capace di vita: e così conservando la vita di una persona, per se stessa inetta a vivere.
Ed è anche una cagione del detto effetto, quella ch'io son per dire.
L'uomo che sebbene disperato, non perciò si odia (cosa che avviene per [617]lo più, non mica, come parrebbe, prima che l'uomo cominci ad odiarsi, ma dopo che si è sommamente, ed inutilmente odiato, e così l'amor proprio, tentato ogni mezzo di soddisfarsi, resta del tutto mortificato, e l'animo esaurito d'ogni forza, si riduce alla calma, e alla quiete dello spossamento, e perde affatto la capacità di ogni sentimento vivo) l'uomo dico il quale senza odiarsi, solamente considera se stesso, e la vita sua come inutile, prova una compiacenza e soddisfazione, una (ma leggerissima) consolazione, nel trovar dove adoprare se stesso e la vita, che altrimenti non servirebbe più a nulla; e l'uso qualunque di se stesso e della vita, gittata già come cosa inutilissima, sebbene a lui non giovi nulla, sebbene egli non sia più capace d'illusioni, nè di credersi buono a gran cose; tuttavia lo conforta, rappresentandolo a se stesso, come alquanto meno inutile; o se non altro (e piuttosto) col pensiero di avere almeno adoprato, e non gittato affatto, quell'avanzo di esistenza, e di forza viva e materiale.
(5.
Feb.
1821.).
[618]Vedendosi esclusi essi dalla vita, cercano di vivere in certo modo in altrui, non per amor loro, e quasi neanche per amor proprio, ma perchè, sebben tolta la vita, resta però loro l'esistenza da occupare e da sentire in qualche maniera.
(6.
Feb.
1821.)
La disperazione della natura è sempre feroce, frenetica, sanguinaria, non cede alla necessità, alla fortuna, ma la vuol vincere in se stesso, cioè coi propri danni, colla propria morte ec.
Quella disperazione placida, tranquilla, rassegnata, colla quale l'uomo, perduta ogni speranza di felicità, o in genere per la condizione umana, o in particolare per le circostanze sue; tuttavolta si piega, e si adatta a vivere e a tollerare il tempo e gli anni; cedendo alla necessità riconosciuta; questa disperazione, sebbene deriva dalla prima, in quel modo che ho spiegato di sopra p.616.
fine, 617.
principio, tuttavia non è quasi propria se non della ragione e della filosofia, e quindi specialmente e singolarmente propria de' tempi moderni.
Ed ora infatti, si può dir che qualunque ha [619]un certo grado d'ingegno e di sentimento, fatta che ha l'esperienza del mondo, e in particolare poi tutti quelli ch'essendo tali, e giunti a un'età matura, sono sventurati; cadono e rimangono sino alla morte in questo stato di tranquilla disperazione.
Stato quasi del tutto sconosciuto agli antichi, ed anche oggi alla gioventù sensibile, magnanima, e sventurata.
Conseguenza della prima disperazione è l'odio di se stesso, (perchè resta ancora all'uomo tanta forza di amor proprio, da potersi odiare) ma cura e stima delle cose.
Della seconda, la noncuranza e il disprezzo e l'indifferenza verso le cose; verso se stesso un certo languido amore (perchè l'uomo non ha più tanto amor proprio da aver forza di odiarsi) che somiglia alla noncuranza, ma pure amore, tale però che non porta l'uomo ad angustiarsi, addolorarsi, sentir compassione delle proprie sventure, e molto meno a sforzarsi, ed intraprender nulla per se, considerando le cose come indifferenti, ed avendo quasi perduto il tatto e il senso dell'animo, e coperta di un callo tutta la facoltà sensitiva, desiderativa ec.
insomma le passioni e gli affetti d'ogni sorta; e quasi perduta per lungo uso, e forte e lunga pressione, quasi tutta l'elasticità delle [620]molle e forze dell'anima.
Ordinariamente la maggior cura di questi tali è di conservare lo stato presente, di tenere una vita metodica, e di nulla mutare o innovare, non già per indole pusillanime o inerte, che anzi ella sarà stata tutto l'opposto, ma per una timidità derivata dall'esperienza delle sciagure, la quale porta l'uomo a temere di perdere a causa delle novità, quel tal quale riposo o quiete o sonno, in cui dopo lunghi combattimenti e resistenze, l'animo suo finalmente s'è addormentato e raccolto, e quasi accovacciato.
Il mondo è pieno oggidì di disperati di questa seconda sorta (come fra gli antichi erano frequentissimi quelli della prima specie).
Quindi si può facilmente vedere quanto debba guadagnare l'attività, la varietà, la mobilità, la vita di questo mondo; quando tutti, si può dire, i migliori animi, giunti a una certa maturità, divengono incapaci di azione, ed inutili a se medesimi, e agli altri.
(6.
Feb.
1821.)
Floro IV.
12.
verso la fine: Hic finis [621]Augusto bellicorum certaminum fuit: idem rebellandi finis Hispaniae.
Certa mox fides et aeterna; CUM IPSORUM INGENIO IN PACIS PARTES PROMTIORE: tum consilio Caesaris.
Dopo aver letto tutto ciò che Floro dice delle virtù guerriere degli Spagnuoli II.
17.
18.
III.
22.
e in quel medesimo capo che ho citato, nelle cose che precedono immediatamente il riferito passo; (notate che Floro, si crede per congettura dai critici, oriundo Spagnuolo) considerando l'assedio famosissimo di Sagunto; ricordandosi di quel luogo di Velleio dove fra le altre molte cose del valore Spagnuolo, arriva a dire che la Spagna in tantum Sertorium armis extulit, ut per quinquennium dijudicari non potuerit, Hispanis Romanisne in armis plus esset roboris, et uter populus alteri pariturus foret; (II.90 sect.3.) dopo, dico, tutto questo e le altre infinite prove che si hanno del singolar valore Spagnuolo antico e moderno, fa maraviglia che Floro chiami l'indole [622]e l'ingegno degli Spagnuoli, promtius in pacis partes.
Ma questa è appunto la proprietà dei popoli meridionali, famosa presso gli scrittori filosofici moderni, massime stranieri.
Somma disposizione all'attività, ed al riposo: egualmente atti a guerreggiare valorosamente e disperatamente, ed a trovar piacevole e cara la pace, ed anche abusarne, ed esserne ridotti alla mollezza, e all'inerzia.
Tante risorse trovano questi popoli nella loro immaginazione, nel loro clima, nella loro natura, che la loro vita è occupata internamente, ancorchè neghittosa e nulla all'esterno.
Leur vie n'est qu'un rêve, dice la Staël.
Tanta è l'attività della loro anima, che questa come è capacissima di condurli ad una somma attività nel corpo (anzi alla sola vera attività esterna, perchè la sola che abbia il suo principio nell'attività interiore, come si vede nel paragone fra i soldati meridionali, e i settentrionali, che sono operosi piuttosto come macchine ubbidienti ad ogni impulso, che come viventi) così anche li dispensa dall'attività del corpo, e ne li compensa, ogni volta che questa manca: trovando essi bastante vita nel [623]loro interno, nel loro individuo.
Anzi questa proprietà, pregiudica bene spesso all'attività esterna, e per una soprabbondanza di vita interiore rende il mezzogiorno rêveur, indolente, insouciant (quantunque, offerta l'occasione, l'attività del corpo, ch'è l'effetto dell'entusiasmo e dell'immaginazione, o che allora è forte e viva, quando proviene da questi principii, prorompe vivamente; eccetto se l'assuefazione non ha di troppo intorpiditi certi popoli, come l'italiano).
Ailleurs, c'est la vie qui, telle quelle est, ne suffit pas aux facultés de l'ame; ici, (parla dei contorni di Napoli) ce sont les facultés de l'ame qui ne suffisent pas à la vie, et la surabondance des sensations inspire une rêveuse indolence dont on se rend à peine compte en l'éprouvant.
(Staël, Corinne l.
II.
ch.1.
Paris 1812.
5me édit.
t.2.
p.176.) Così infatti vediamo accaduto negl'italiani terribili anticamente, ed anche modernamente nella guerra, e oziosissimi e negligentissimi, e nulla curanti di novità e di movimento nella pace.
Così negli [624]Spagnuoli, popolo intieramente pacifico nell'ultimo secolo, e fortissimo guerriero e belligero nei due precedenti; e così anticamente bellicosissimo, o certo valorosissimo in difendersi fino ad Augusto; e da indi in poi, eternamente pacifico e fedele, come dice Floro: e similmente nel principio di questo secolo, passato in un attimo da un lunghissimo e profondissimo riposo, a una guerra possiamo dire spontanea, certo nazionale, e vivissima, e generale, ed atrocissima.
Così nei francesi valorosi in guerra, ed effeminati e molli nella pace.
Come appunto i fanciulli, giacchè anche questo effetto deriva dalle stesse cagioni, i quali sebbene attivissimi naturalmente, con tutto ciò obbligati dalle circostanze, all'inazione esterna, la suppliscono e compensano ed occupano intieramente, con una vivissima azione interna.
E per azione interna, intendo sì nei fanciulli, come nei detti popoli, anche quella che si dimostra al di fuori, ma che si occupa di bagattelle, e di nullità, ed in queste ritrova bastante pascolo e vita all'anima: e per conseguenza non deriva, [625]non si fonda, non è sufficiente all'uomo, se non in forza dell'energia, dell'immaginazione, delle facoltà insomma e della vita interna.
Tutto l'opposto accade nei Settentrionali, bisognosi di attività e di movimento e di novità e varietà esterna, se vogliono vivere, giacchè non hanno altra vita, mancando dell'interna.
E perciò in apparenza molto più attivi degli altri popoli, ma in realtà, e se vince la naturale tendenza ed indole, torpidissimi.
Gli orientali si possono, cred'io, mettere insieme coi meridionali in questo punto.
(7.
Feb.
1821.)
Lo scopo dei governi (siccome quello dell'uomo) è la felicità dei governati.
Forse che la felicità e la diuturnità della vita, sono la stessa cosa? Hanno sempre che dire delle turbolenze e pericoli degli antichi stati, e pretendono che costassero all'umanità molto più sangue e molte più vite, che non costano i governi ordinati e regolari e monarchici, ancorchè guerrieri, ancorchè tirannici.
Sia pure: che ora non voglio contrastarlo.
[626]Orsù, ragguagliamo le partite, dirò così, delle vite.
Poniamo che negli stati presenti, che si chiamano ordinati e quieti, la gente viva, un uomo per l'altro, 70 anni l'uno: negli antichi che si chiamano disordinati e turbolenti, vivessero 50 soli anni, a distribuir tutta la somma delle vite, ugualmente fra ciascheduno.
E che quei 70 anni sieno tutti pieni di noia e di miseria in qualsivoglia condizione individuale, che così pur troppo accade oggidì; quei cinquanta pieni di attività e varietà ch'è il solo mezzo di felicità per l'uomo sociale.
Domando io, quale dei due stati è il migliore? quale dei due corrisponde meglio allo scopo, che è la felicità pubblica e privata, in somma la felicità possibile degli uomini come uomini? cioè felicità relativa e reale, e adattata e realizzabile in natura, tal qual ella è, non riposta nelle chimeriche e assolute idee, di ordine, e perfezione matematica.
Oltracciò domando: la somma vera della vita, dov'è maggiore? in quello stato dove ancorchè gli uomini vivessero cent'anni l'uno, quella vita monotona e inattiva, sarebbe (com'è realmente) esistenza, ma non vita, [627]anzi nel fatto, un sinonimo di morte? ovvero in quello stato, dove l'esistenza ancorchè più breve, tutta però sarebbe vera vita? Anche ponendo dall'una parte 100 anni di esistenza, e dall'altra non più che 40, o 30 di vita, la somma della vita, non sarebbe maggiore in quest'ultima? 30 anni di vita non contengono maggior vita che 100 di morta esistenza? Questi sono i veri calcoli convenienti al filosofo, che non si contenti di misurar le cose, ma le pesi, e ne stimi il valore.
E non faccia come il secco matematico che calcola le quantità in genere e in astratto, ma relativamente alla loro sostanza, e qualità, e natura, e peso, e forza specifica e reale.
Aggiungo poi questo ancora.
Nego che la mortalità negli stati antichi fosse maggiore altro che in apparenza.
Lascio i tiranni, lascio i capricci, le passioni, le voglie de' principi, e non cerco se queste costino alla umanità più sangue, che non i disordini e le turbolenze di un popolo libero.
Dico che la vitalità negli stati antichi era tanto maggiore che nei presenti, non solo da compensare abbondantemente ogni cagione o principio di mortalità, ma da preponderare, [628]e far pendere la bilancia dalla parte della vita: brevemente, dico che la somma della vita negli stati antichi era maggiore che nei presenti; e questo non già per cause accidentali, o in maniera che potesse non essere: ma per cause essenziali, e inerenti alla natura di quegli stati; anzi tali, che tolti quegli stati, o simili a quelli, la somma della vita non può essere se non molto minore; la vitalità fuori di quelli o simili stati, non può esser tanta.
Gli esercizi e l'attività continua del corpo primieramente, e poi (che non poco, anzi sommamente contribuisce al ben essere fisico, e alla durata della vita) gli esercizi ed attività dell'anima, la varietà, il movimento, la forza delle azioni ed occupazioni, la rarità della noia, dell'inerzia ec.
conseguenze necessarie degli stati antichi, erano cause così grandi e certe di vitalità, come sono grandissime e certissime cause di mortalità (e mortalità ben più vasta, insita, e necessaria che non quella che deriva dalle turbolenze) i contrari delle predette cose, e nominatamente la mollezza, il lusso, i vizi corporali e spirituali ec.
ec.
conseguenze tutte necessarie degli stati presenti: insomma la corruzione fisica e morale, la continua noia, o mal essere [629]dell'animo ec.
Così che non è vero che le cagioni di morte (e così dico, le cagioni di miserie, di sventure, dolori ec.) fossero maggiori anticamente, anzi all'opposto sono maggiori oggidì.
Ed intendendo anche per vita, l'esistenza strettamente, si viene a conchiudere che la somma di questa, era maggiore negli antichi governi, e a causa degli antichi governi, che ne' presenti, e a causa de' presenti.
(8.
Feb.
1821.)
Alla p.476.
Vedi il ritratto di Silla in Sallustio Bell.
Iugurthin.
c.99.
Alla p.605.
fine.
Ma quando anche si supponga lo spirito, assolutamente semplice e senza parti, non segue ch'egli non possa perire.
Conosciamo noi la natura di un tal essere cosiffatto, per poter pronunziare s'egli è immortale o mortale? Non c'è che una maniera di perire, cioè il disciogliersi? Nella materia non ce n'è altra, e però noi non conosciamo se non questa maniera; ma parimente non conosciamo altra maniera d'essere che quella della materia.
Se una cosa può essere in maniera a noi del tutto [630]ignota e inconcepibile, anche può perire in maniera del tutto ignota e inconcepibile all'uomo.
Dico può perire, non dico perisce, perchè non posso, come non si può dire umanamente il contrario, non perisce, ovvero, non può perire perchè la materia perisce in altro modo, ed ella non può perire come la materia.
Dico può perire, perchè non è più difficile nè inverisimile una tal maniera di perire, che una tal maniera di essere; (una maniera, dico, inconcepibile all'uomo) una tal morte, che una tale esistenza.
Tutte due sono ugualmente fuori della nostra portata, la quale non si estende una mezza linea al di là della materia.
Vo anche più avanti, e dico, che se la semplicità è principio necessario d'immortalità, neanche la materia può perire.
Se la materia è composta, sarà composta di elementi che non sieno composti.
Non cerco ora se questi elementi sieno quelli de' chimici, o altri più remoti e primitivi; ma andiamo pur oltre quanto vogliamo, dovremo sempre arrivare e fermarci in alcune sostanze veramente semplici, e che non abbiano in se quidquam admistum dispar [631]sui, atque dissimile.
Queste sostanze dunque, se non c'è altra maniera di perire, fuorchè il risolversi, in che si risolveranno, o si possono risolvere? Dunque non potranno perire.
Direte, che anche queste, essendo pur sempre materia, hanno parti, e quindi sono divisibili e risolvibili, e possono perire, ancorchè tutte le parti sieno tra loro uguali, e di una stessa sostanza.
Bene; ma queste parti come possono perire? - Anch'esse avranno parti, finattanto che sono materia - Or via, suddividiamo queste parti, quanto mai si voglia; se non si arriverà mai a fare ch'elle non abbiano altre parti, e non sieno materia (come certo non si arriverà); neanche si arriverà a fare che la materia perisca.
Perchè questa ancorchè ridotta a menomissime parti, una di queste minime particelle, è si può dir tanto lontana dal nulla, quanto tutta la materia o qualunque altra cosa esistente, cioè tra essa e il nulla, ci corre un divario, e uno spazio infinito: chè dall'esistenza nel nulla, come dal nulla nell'esistenza, non si può andar mica per gradi, ma solamente per salto, e salto infinito.
[632]Dunque in un essere semplicissimo e senza parti, non c'è maggior principio nè ragione d'immortalità, di quello che sia nella materia, e nell'essere il più composto possibile.
Ma se per principio d'immortalità in un ente semplice e senza parti, intendono l'impossibilità di cangiar natura, e per perire non intendono l'annullarsi, giacchè neanche la materia si può naturalmente annullare, e tanta materia esiste oggi nè più nè meno, quanta è mai esistita; ma intendono il risolversi nei suoi elementi; dico io che quelle semplicissime sostanze delle quali la materia e qualunque cosa composta, deve necessariamente costare, non possono neppur esse risolversi, nè cangiar natura, ancorchè divise in quante parti, e quanto menome si voglia.
E la quantità di queste parti sarà sempre la stessa, e però di quelle primitive sostanze, ancorchè materiali ancorchè divise quanto si voglia, esisterà sempre la stessissima quantità, o divisa o congiunta che sia; e tutta questa quantità, e perciò tutta quella sostanza sarà sempre della stessissima natura.
In maniera che anche per questa parte, una sostanza supposta semplicissima e immateriale, non può contenere [633]maggiore immortalità, cioè immutabilità e incorruttibilità che i principii della materia, i quali non sono una supposizione, ma debbono necessariamente e realmente esistere.
(9.
Feb.
1821.)
Quand on est jeune, on ne songe qu'à vivre dans l'idée d'autrui: il faut établir sa réputation, et se donner une place honorable dans l'imagination des autres, et être heureux même dans leur idée: notre bonheur n'est point réel; ce n'est pas nous que nous consultons, ce sont les autres.
Dans un autre âge, nous revenons a nous; et ce retour a ses douceurs, nous commençons à nous consulter et à nous croire.
Mme.
la Marquise de Lambert, Traité de la Vieillesse, verso la fine: dans ses Oeuvres complètes, Paris 1808.
1re édit.
complète.
p.150.
Il vient un temps dans la vie qui est consacré à la vérite, qui est destiné à connoître les choses selon leur juste valeur.
La jeunesse et les passions fardent tout.
Alors nous revenons aux plaisirs simples; nous commençons à nous consulter [634]et à nous croire sur notre bonheur.
Ib.
p.153.
Queste riflessioni sono osservabili.
Non solo nella vecchiezza, ma nelle sventure, ogni volta che l'uomo si trova senza speranza, o almeno disgraziato nelle cose che dipendono dagli uomini, comincia a contentarsi di se stesso, e la sua felicità, e soddisfazione, o almeno consolazione a dipender da lui.
Questo ci accade anche in mezzo alla società, o agli affari del mondo.
Quando l'uomo vi si trova male accolto, o annoiato, o disgraziato, o in somma trova quello che non vorrebbe, ricorre a se stesso, e cerca il bene e il piacere nell'anima sua.
L'uomo sociale, finch'egli può, cerca la sua felicità e la ripone nelle cose al di fuori e appartenenti alla società, e però dipendenti dagli altri.
Questo è inevitabile.
Solamente o principalmente l'uomo sventurato, e massime quegli che lo è senza speranza, si compiace della sua compagnia, e di riporre la sua felicità nelle cose sue proprie, e indipendenti dagli altri; e insomma segregare la sua felicità, dall'opinione e dai vantaggi che ci risultano dalla società, e ch'egli non può conseguire, o sperare.
Forse per questo, o anche [635]per questo, si è detto che l'uomo che non è stato mai sventurato non sa nulla.
L'anima, i desideri, i pensieri, i trattenimenti dell'uomo felice, sono tutti al di fuori, e la solitudine non è fatta per lui: dico la solitudine o fisica, o morale e del pensiero.
Vale a dire che se anche egli si compiace nella solitudine, questo piacere, e i suoi pensieri e trattenimenti in quello stato, sono tutti in relazioni colle cose esteriori, e dipendenti dagli altri, non mai con quelle riposte in lui solo.
Non è però che la felicità o consolazione dell'uomo sventurato o vecchio, sieno riposte nella verità, e nella meditazione e cognizione di lei.
Che piacere o felicità o conforto ci può somministrare il vero, cioè il nulla? (se escludiamo la sola Religione).
Ma altre illusioni, forse più savie perchè meno dipendenti, e perciò anche più durevoli, sottentrano a quelle relative alla società.
E questo è in somma quello che si chiama contentarsi di se stesso, e omnia tua in te posita ducere, con che Cicerone (Lael.
sive de Amicit.
c.2.) definisce la sapienza.
Un sistema, [636]un complesso, un ordine, una vita d'illusioni indipendenti, e perciò stabili: non altro.
(9.
Feb.
1821.)
"La solitude" dit un grand homme, "est l'infirmerie des ames." Mme.
Lambert, lieu cité ci-dessus, p.153.
fine.
Nous ne vivons que pour perdre et pour nous détacher.
Mme Lambert, lieu cité ci-dessus, p.145.
alla metà del Traité de la Vieillesse.
Così è.
Ciascun giorno perdiamo qualche cosa, cioè perisce, o scema qualche illusione, che sono l'unico nostro avere.
L'esperienza e la verità ci spogliano alla giornata di qualche parte dei nostri possedimenti.
Non si vive se non perdendo.
L'uomo nasce ricco di tutto, crescendo impoverisce, e giunto alla vecchiezza si trova quasi senza nulla.
Il fanciullo è più ricco del giovane, anzi ha tutto; ancorchè poverissimo e nudo e sventuratissimo, ha più del giovane più fortunato; il giovane è più ricco dell'uomo maturo, la maturità più ricca della vecchiezza.
Ma Mad.
Lambert dice questo in altro senso, cioè rispetto alle perdite così dette reali, che si fanno coll'avanzar dell'età.
(9.
Feb.
1821.) Ma siccome nessuna cosa si possiede realmente, così nulla si può perdere.
Bensì quel detto è vero per quest'altra parte, relativamente alla condizione presente degli uomini, e [637]dello spirito umano, e della società.
(10.
Feb.
1821.)
Io non soglio credere alle allegorie, nè cercarle nella mitologia, o nelle invenzioni dei poeti, o credenze del volgo.
Tuttavia la favola di Psiche, cioè dell'Anima, che era felicissima senza conoscere, e contentandosi di godere, e la cui infelicità provenne dal voler conoscere, mi pare un emblema così conveniente e preciso, e nel tempo stesso così profondo, della natura dell'uomo e delle cose, della nostra destinazion vera su questa terra, del danno del sapere, della felicità che ci conveniva, che unendo questa considerazione, al manifesto significato del nome di Psiche, appena posso discredere che quella favola non sia un parto della più profonda sapienza, e cognizione della natura dell'uomo e di questo mondo.
V.
quest'allegoria notata, e sebbene non profondamente, tuttavia bastantemente spiegata nel morceau détaché di Mad.
Lambert intitolato Psyché en grec.
Ame.
(così) dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus p.284-285.
E forse l'allegoria sopraddetta sarà stata osservata anche dagli altri, e così credo.
Certo è che, o la non la significa nulla, o significa quel ch'io dico, e mostra che il mio sistema piacque agli antichissimi: con altro sistema la non si spiega.
Del resto combinando quest'osservazione, col racconto della Genesi, [638]dove l'origine immediata della infelicità e decadimento dell'uomo, si attribuisce manifestamente al sapere, come ho dimostrato altrove; mi si fa verisimile che in somma queste gran massime: l'uomo non è fatto per sapere, la cognizione del vero è nemica della felicità, la ragione è nemica della natura, ultimo frutto ed apice della più moderna e profonda, e della più perfetta o perfettibile filosofia che possa mai essere; fossero non solamente note, ma proprie, e quasi fondamentali dell'antichissima sapienza, se non altro di quella arcana e misteriosa, come l'orientale, e come l'egiziana dalla quale è chi pretende derivata, almeno in parte, la mitologia e la sapienza greca.
(10.
Feb.
1821.)
Vorranno i puristi che quando manca alla lingua nostra il vocabolo di una tal cosa, piuttosto che formarne uno nuovo, o adottarne uno straniero, o derivarne uno da lingue antiche, si usino circollocuzioni.
Lascio quanto le circollocuzioni troppo frequenti (e converrebbe che fossero frequentissime) tolgano di grazia, di forza, di proprietà, di rapidità al discorso, ed inceppino, ritardino, [639]impaccino, infastidiscano lo scrittore e il lettore, in qualunque caso.
Ma dico primieramente che si daranno infinite occorrenze, dove una di quelle cose che non hanno vocabolo italiano, accada di esprimerla frequentissimamente, tratto tratto, più volte nello stesso periodo.
Ora quando a grande stento si sarà trovata una circollocuzione che equivalga veramente, al che sarà spesso necessario ch'ella sia lunghissima, come ripeterla a ogni tratto, e in un periodo stesso più volte? come variarla, se appena se n'è trovata una che equivalga? come abbreviarla, se tolta qualche parola, ella non ha più la stessa forza, e non dice tutto, non esprime più quella tale idea, se non è tutta distesa ed intera? Una parola si adatta a prendere tutte le positure, s'introduce da per tutto, si maneggia facilmente, speditamente, e a beneplacito.
Ma una circollocuzione, un corpo grosso e disadatto, che se non ha tanto di luogo, non può entrare o giacere, come troverà sito, dirò così, in quelle pieghe, in quei cantoni, in quegli spicoli, in quegli spazietti, [640]in quei passaggetti, in quelle rivolte (rivolture, rivoltatine, che in tutti questi modi si può dire, come dice il Firenzuola, le rivolture degli orecchi) in quelle giratine, in quelle tortuosità, in quelle angustie e stretture del discorso o del periodo, così frequenti, dove spessissimo vorrà e dovrà entrare quella tale idea, ed entrerebbe la parola, la circollocuzione non già?
Dico in secondo luogo che infinite cose vi sono, le quali non si possono esprimere mediante veruna circollocuzione.
Verbigrazia quello che i francesi intendono così spesso per la parola génie (usata nello stesso senso dal Magalotti, come dice il Monti nella Biblioteca Italiana).
Come esprimere per circollocuzione quello che non si può definire? Dove manca la facoltà della definizione, manca parimente della circollocuzione.
E queste tali cose che s'intendono chiaramente, facilmente, e pienamente, per via di una parola convenuta, ma non si potrebbero nè definire adequatamente, nè dare ad intendere per nessuna circollocuzione, sono infinite in ogni genere, massimamente poi nelle materie filosofiche della natura ch'elle sono oggidì, nelle materie astratte ec.
Ed è ben naturale, [641]perchè le parole son fatte per le cose: a quella tal cosa, corrisponde quella tal parola; altre parole, ancorchè molte non corrispondono.
Sussiste la cosa, sussiste l'idea, sussiste la maniera di significarla e definirla, ma quella maniera, quel mezzo, e non altro.
Ogni volta che qualunque disciplina o cognizione, o speculazione umana, ma specialmente la filosofia, e la metafisica che considera i principii e gli elementi delle cose, i quali poco o nulla cadono nel sermone e nell'uso comune, le intimità, i secreti, le parti delle cose rimote e segregate dai sensi e dal pensiero dei più; ogni volta, dico, che questa ha ricevuto qualche incremento, o preso qualche nuovo sentiero, o cercata o trovata qualche novità, è stata necessaria, ed effettivamente adoperata la novità delle parole in qualunque lingua.
Lascio la latina che prima di Lucrezio e Cicerone era affatto impotente nelle materie filosofiche, e che tuttavolta aveva, come abbiamo noi nella francese, il sussidio e la miniera di una lingua sorella, ricchissima in questo genere, come negli altri.
La novità della filosofia di Platone, domandava la novità delle parole in quella medesima [642]lingua greca, sì ricca per ogni capo, e segnatamente nelle materie filosofiche tanto familiari alla Grecia da lunghissimo tempo.
E Platone inventava nuove parole, e tali, che in quella stessa lingua, così pieghevole, e trattabile; così non solamente ricca, ma feconda; così avvezza alle novità delle parole; così facile così suscettibile così spontaneamente adattabile alla formazione di nuove voci, riuscivano strane, assurde e ridicole ai volgari, al comune, alla gente che considera l'effetto, cioè la novità della voce, e non pesa la cagione, cioè la novità delle cose, e delle speculazioni.
Come ???????????che noi possiamo dire mensalità, e ???????? calicità.
(non c'è di meglio per esprimere in italiano questa parola: così mi sono accertato.) V.
Laerz.
(in Diog.
Cyn.
l.6.
segm.53.) e il Menag.
se ha nulla, e potrai anche riportare quel fatto che il Laerz.
riferisce in proposito.
Tanto le astrazioni ec.
sono lontane dall'uso comune.
E queste e altre tali parole le formava Platone, certo non più lodato per la sapienza di quello che fosse per la purità ed eleganza della favella Attica, e dello stile, e per tutti i pregi della eloquenza, [643]della elocuzione, e del bello scrivere e dire.
(10.
Feb.
1821.)
Non è bisogno che una lingua sia definitamente poetica, ma certo è bruttissima e inanimata quella lingua che è definitamente matematica.
La migliore di tutte le lingue è quella che può esser l'uno e l'altro, e racchiudere eziandio tutti i gradi che corrono fra questi due estremi.
(11.
Feb.
1821.)
Les enfans aiment à être traités en personnes raisonnables.
Mme.
de Lambert, Lettre à madame la supérieure de la Madeleine de Tresnel, sur l'éducation d'une jeune demoiselle; ou Lettre III.
dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, (p.633.) p.356.
Che rileva dunque che tu sia famoso tra coloro che nasceranno, se fosti ignoto a coloro che nacquero prima? (tra coloro, o quei che verranno, se fosti ignoto a coloro, o quelli che furono?) I quali non cedono alla posterità rispetto al numero, e indubitatamente la vincono rispetto alla virtù.
[644](Il numero dei quali non cede a quello de' posteri, e la virtù indubitatamente prevale, o senza fallo prevale.).
(11.
Feb.
1821.)
Non c'è forse persona tanto indifferente per te, la quale salutandoti nel partire per qualunque luogo, o lasciarti in qualsivoglia maniera, e dicendoti, non ci rivedremo mai più, per poco d'anima che tu abbia, non ti commuova, non ti produca una sensazione più o meno trista.
L'orrore e il timore che l'uomo ha, per una parte, del nulla, per l'altra, dell'eterno, si manifesta da per tutto, e quel mai più non si può udire senza un certo senso.
Gli effetti naturali bisogna ricercarli nelle persone naturali, e non ancora, o poco, o quanto meno si possa, alterate.
Tali sono i fanciulli: quasi l'unico soggetto dove si possano esplorare, notare, e notomizzare oggidì, le qualità, le inclinazioni, gli affetti veramente naturali.
Io dunque da fanciullo aveva questo costume.
Vedendo partire una persona, quantunque a me indifferentissima, considerava [645]se era possibile o probabile ch'io la rivedessi mai.
Se io giudicava di no, me le poneva intorno a riguardarla, ascoltarla, e simili cose, e la seguiva o cogli occhi o cogli orecchi quanto più poteva, rivolgendo sempre fra me stesso, e addentrandomi nell'animo, e sviluppandomi alla mente questo pensiero: ecco l'ultima volta, non lo vedrò mai più, o, forse mai più.
E così la morte di qualcuno ch'io conoscessi, e non mi avesse mai interessato in vita, mi dava una certa pena, non tanto per lui, o perch'egli mi interessasse allora dopo morte, ma per questa considerazione ch'io ruminava profondamente: è partito per sempre - per sempre? sì: tutto è finito rispetto a lui: non lo vedrò mai più: e nessuna cosa sua avrà più niente di comune colla mia vita.
E mi poneva a riandare, s'io poteva, l'ultima volta ch'io l'aveva o veduto, o ascoltato ec.
e mi doleva di non avere allora saputo che fosse l'ultima volta, e di non [646]essermi regolato secondo questo pensiero.
(11.
Feb.
1821.)
Nessun secolo de' più barbari si è creduto mai barbaro, anzi nessun secolo è stato mai, che non credesse di essere il fiore dei secoli, e l'epoca più perfetta dello spirito umano e della società.
Non ci fidiamo dunque di noi stessi nel giudicare del tempo nostro, e non consideriamo l'opinione presente, ma le cose, e quindi congetturiamo il giudizio della posterità, se questa sarà tale da poter giudicarci rettamente.
(12.
Feb.
1821.)
La somma della teoria del piacere, e si può dir anche, della natura dell'animo nostro e di qualunque vivente, è questa.
Il vivente si ama senza limite nessuno, e non cessa mai di amarsi.
Dunque non cessa mai di desiderarsi il bene, e si desidera il bene senza limiti.
Questo bene in sostanza non è altro che il piacere.
Qualunque piacere ancorchè grande, ancorchè reale, ha limiti.
Dunque nessun piacere possibile è proporzionato ed uguale alla [647]misura dell'amore che il vivente porta a se stesso.
Quindi nessun piacere può soddisfare il vivente.
Se non lo può soddisfare, nessun piacere, ancorchè reale astrattamente e assolutamente, è reale relativamente a chi lo prova.
Perchè questi desidera sempre di più, giacchè per essenza si ama, e quindi senza limiti.
Ottenuto anche di più, quel di più similmente non gli basta.
Dunque nell'atto del piacere, o nella felicità, non sentendosi soddisfatto, non sentendo pago il desiderio, il vivente non può provar pieno piacere; dunque non vero piacere, perchè inferiore al desiderio, e perchè il desiderio soprabbonda.
Ed eccoti la tendenza naturale e necessaria dell'animale all'indefinito, a un piacere senza limiti.
Quindi il piacere che deriva dall'indefinito, piacere sommo possibile, ma non pieno, perchè l'indefinito non si possiede, anzi non è.
E bisognerebbe possederlo pienamente, e al tempo stesso indefinitamente, perchè l'animale fosse pago, cioè felice, cioè l'amor proprio suo che non ha limiti, fosse definitamente soddisfatto: cosa [648]contraddittoria e impossibile.
Dunque la felicità è impossibile a chi la desidera, perchè il desiderio, sì come è desiderio assoluto di felicità, e non di una tal felicità, è senza limiti necessariamente, perchè la felicità assoluta è indefinita, e non ha limiti.
Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di non poter essere soddisfatto.
Ora questo desiderio è conseguenza necessaria, anzi si può dir tutt'uno coll'amor proprio.
E questo amore è conseguenza necessaria della vita, in quell'ordine di cose che esiste, e che noi concepiamo, e altro non possiamo concepire, ancorchè possa essere, ancorchè fosse realmente.
Dunque ogni vivente, per ciò stesso che vive (e quindi si ama, e quindi desidera assolutamente la felicità, vale a dire una felicità senza limiti, e questa è impossibile, e quindi il desiderio suo non può esser soddisfatto) perciò stesso, dico, che vive, non può essere attualmente felice.
E la felicità ed il piacere è sempre futuro, cioè non esistendo, nè potendo esistere realmente, esiste solo nel desiderio del vivente, e nella speranza, o aspettativa che ne segue.
Le [649]présent n'est jamais notre but; le passé et le présent sont nos moyens; le seul avenir est notre objet: ainsi nous ne vivons pas, mais nous espérons de vivre, dice Pascal.
Quindi segue che il più felice possibile, è il più distratto dalla intenzione della mente alla felicità assoluta.
Tali sono gli animali, tale era l'uomo in natura.
Nei quali il desiderio della felicità cangiato nei desiderii di questa o di quella felicità, o fine, e soprattutto mortificato e dissipato dall'azione continua, da' presenti bisogni ec.
non aveva e non ha tanta forza di rendere il vivente infelice.
Quindi l'attività massimamente, è il maggior mezzo di felicità possibile.
Oltre l'attività, altri mezzi meno universali o durevoli o valevoli, ma pur mezzi, sono gli altri da me notati nella teoria del piacere, p.e.
(ed è uno de' principali) lo stupore 1.
di carattere e d'indole: gli uomini così fatti sono i più felici: gli uomini incapaci di questa qualità, sono i più infelici: sii grande e infelice, detto di D'Alembert, Éloges de l'Académie Françoise (così, Françoise) dice la natura agli uomini grandi, agli uomini sensibili, passionati ec.: il senso vivo del desiderio di felicità li tormenta: questo desiderio [650]bisogna sentirlo il meno possibile, quantunque innato, e continuo necessariamente.
2.
derivato da languore o torpore ec.
artefatto, come per via dell'oppio, o proveniente da lassezza ec.
ec.
3.
derivato da impressioni straordinarie, dalla maraviglia di qualunque sorta, da avvenimenti, da cose vedute, udite ec.
insomma da sensazioni straordinarie di qualsivoglia genere: 4.
dalla immaginazione, dall'estasi che deriva dalla fantasia, da un sentimento indefinito, dalla bella natura ec.
e v.
la teoria del piacere.
Notate che l'immaginazione la vivacità, la sensibilità, le quali nocciono alla felicità per la parte dello stupore, giovano per la parte dell'attività.
E perciò sono piuttosto un dono della natura (ancorchè spesso doloroso), di quello che un danno; perchè effettivamente l'attività è il mezzo di distrazione il più facile, più sicuro e forte, più durevole, più frequente e generale e realizzabile nella vita.
(12.
Feb.
1828.).
Les passions même les plus vives ont besoin de la pudeur pour se montrer dans une forme séduisante: elle doit se répandre sur toutes vos actions; elle doit parer et embellir [651]toute votre personne.
On dit que Jupiter, en formant les passions, leur donna à chacune sa demeure; la pudeur fut oubliée, et quand elle se présenta, on ne savoit plus où la placer; on lui permit de se mêler avec toutes les autres.
Depuis ce temps-là, elle en est inséparable.
Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa fille, dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, (p.633.), p.60-61.
Che vuol dir questo, se non che niente è buono senza la naturalezza? Applicate questi detti della Marchesa anche alla letteratura, inseparabile parimente dal pudore, e a quello ch'io dico del sentimento, e del genere sentimentale nel Discorso sui romantici.
(13.
Feb.
1821.)
La curiosité est une connoissance commencée, qui vous fait aller plus loin et plus vite dans le chemin de la vérité.
Mme de Lambert, lieu cité ci-dessus, p.72.
Non intendo pienamente il sentimento della marchesa, ma il fatto è questo.
La curiosità o il desiderio di conoscere, non è per la massima parte, se non l'effetto della conoscenza.
Esaminate la natura, e [652]vedrete quanto la curiosità sia piccola, leggera e debole nell'uomo primitivo; come non gli cada mai nella testa il desiderio di saper quelle cose che non gli appartengono, o che sono state nascoste dalla natura (p.e.
le cose fisiche, astronomiche ec.
le origini i destini dell'uomo, degli animali, delle piante, del mondo); com'egli sia incapace d'intraprendere qualche seria operazione per informarsi di cosa veruna, e molto meno di cosa difficile a conoscersi (e queste sono appunto quelle che non si dovevano conoscere, e l'ignoranza delle quali, basta alla felicità dell'uomo, ancorchè informato di altre cose facili ed ovvie).
Piuttosto l'immaginazione sua supplisce, e gli fa credere di sapere una causa, che realmente non è quella ec.
In somma non è niente vero, che l'uomo sia portato irresistibilmente verso la verità e la cognizione.
La curiosità, qual è oggidì, e da gran tempo, è una di quelle qualità corrotte, con uno sviluppo e un andamento non dovuto, come tante altre qualità, passioni ec.
buone ed utili, anzi necessarie in [653]quel grado che la natura aveva dato loro, ma pessime e mortifere, quando sono passate ad altri gradi, e sviluppatesi più del dovere, e modificatesi diversamente.
Così che sebbene queste qualità e passioni sieno naturali in radice, ed umane, non perciò sono naturali, quali si trovano oggidì, nè dal loro stato presente si deve giudicare della natura e costituzione dell'uomo, nè dedurne intorno ai nostri destini quelle conseguenze che se ne deducono.
(13.
Feb.
1821.).
V.
p.657.
capoverso 1.
Les femmes apprennent volontiers l'Italien, qui me paroît dangereux, c'est la langue de l'Amour.
Les Auteurs Italiens sont peu châtiés; il règne dans leurs ouvrages un jeu de mots, une imagination sans règle, qui s'oppose à la justesse de l'esprit.
Mme Lambert, lieu cité ci-dessus, p.73-74.
(13.
Feb.
1821.)
Plus il y a de monde, (cioè, più gente ci sta d'intorno, più ci troviamo in mezzo al mondo attualmente) et plus les passions acquièrent d'autorité.
Ib.
p.81.
Un philosophe [654]assuroit: "...
que plus il avoit vu de monde, plus les passions acquéroient d'autorité..." Mme Lambert, Lettre à madame de ***, ou Lettre XV.
dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, p.395.
Così è generalmente: ma all'uomo veramente sventurato accade tutto il contrario.
Ogni volta ch'egli si presenta nel mondo, vedendosi respinto, il suo amor proprio mortificato, i suoi desideri frustrati, o contrariati, le sue speranze deluse, non solamente non concepisce veruna passione fuorchè quella della disperazione, ma per lo contrario, le sue passioni si spengono.
E nella solitudine, essendo lontane le cose e la realtà, le passioni, i desiderii, le speranze se gli ridestano.
(13.
Feb.
1821.)
Modérez votre goût pour les sciences extraordinaires, elles sont dangereuses, et elles ne donnent ordinairement que beaucoup d'orgueil; elles démontent les ressorts de l'ame...
Notre ame a bien plus de quoi jouir, qu'elle n'a de quoi connoître: (i mezzi di godere che quelli di conoscere: questo è il senso, [655]come apparisce dal contesto, e da altri luoghi delle sue opere paralleli a questo) nous avons les lumières propres et nécessaires à notre bien être; mais nous ne voulons pas nous en tenir là; nous courons après des vérités qui ne sont pas faites pour nous...
Ces réflexions dégoûtent des sciences abstraites.
Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa fille, dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, p.74-75-76.
Nous avons en nous de quoi jouir, mais nous n'avons pas de quoi connoître.
Nous avons les lumières propres et nécessaires à notre bien être; mais nous courons après des vérités qui ne sont pas faites pour nous...
Ces réflexions dégoûtent des vérités abstraites.
La même, Traité de la Vieillesse, l.
c.
p.146-147.
(13.
Feb.
1821.)
Examinez votre caractère, et mettez à profit vos défauts; il n'y en a point qui ne tienne à quelques vertus, et qui ne les favorise.
La Morale n'a pas pour objet de détruire la nature, mais de la perfectionner.
Mme Lambert, Avis d'une Mère a sa fille, lieu cité ci-dessus, p.84.
E segue mostrando con parecchi esempi, come ciascuna [656]imperfezione conduca, serva, e quasi racchiuda qualche virtù, conchiudendo: Il n'y a pas une foiblesse, dont, si vous voulez, la vertu ne puisse faire quelque usage.
ib.
p.
citée.
Da queste osservazioni fatte anche da molti altri, si può dedurre una verità molto generale ed importante, cioè con quanto leggere modificazioni quelle qualità umane che si chiamano viziose, e si presumono vizi naturali e inerenti, si riducano e si trovino, non esser altro che buone e giovevoli qualità, e come in origine e nella prima costituzione dell'uomo fosse buono ancor quello che ora pare essenzialmente e primitivamente cattivo, perciocchè essendosi facilmente corrotte quelle prime qualità naturali, e distoltesi dal loro fine, e non conoscendosi più a qual buon fine potessero esser destinate; la depravazione nostra ch'è opera dell'uomo, si prende per vizio naturale ed innato; e si confonde il mal uso delle qualità che si chiamano naturali, col buon uso a cui la natura le aveva destinate, e che ora non si scuopre più facilmente.
[657]In somma da tutto ciò si conferma la dottrina della perfezione naturale, e primitiva dell'uomo, considerando come sieno originalmente buone anche quelle qualità, che per una parte si hanno per naturali ed innate, e sono; per l'altra, si hanno per naturalmente cattive, e non sono: ma questo errore fa che la natura si creda viziosa, e bisognosa della ragione.
La qual ragione, anch'essa, abbiamo spessissimo dimostrato ch'è un sommo vizio, e contuttociò ell'è innata.
Ma tal quale era innata, non era vizio; bensì è vizio tal quale ella si trova, ed è adoperata oggidì.
(14.
Feb.
1821.)
Alla p.653.
Effettivamente la curiosità naturale, porta l'uomo, il fanciullo ec.
a voler vedere, sentire ec.
una cosa o bella, o straordinaria, o notabile relativamente all'individuo.
Ma non lo stimola mica e non lo tormenta, per saper la cagione di quel tale effetto che gli è piaciuto di vedere, udire ec.
Anzi l'uomo naturale ordinariamente, si contiene nella maraviglia, [658]gode del piacere che deriva da lei, e se ne contenta.
Così che la curiosità primitiva non porta l'uomo naturalmente, se non a desiderare e proccurarsi la cognizione di quelle cose, ch'essendo facili a conoscere (e l'uomo naturale desidera di conoscerle fino a quel punto fino al quale son facili), e quindi non essendo state nascoste dalla natura; la cognizione loro non nuoce all'ordine primitivo, non altera l'uomo, non isconviene alla sua natura, non pregiudica alla sua felicità e perfezione: non entrando quei tali oggetti nell'ordine delle cose che la natura ha voluto fossero sconosciute e ignorate.
Così si vede anche negli altri animali.
(14.
Feb.
1821.)
La ragione di quanto ho più volte osservato circa la difficoltà anzi impossibilità di riuscire in quelle cose che si fanno con troppo impegno, e tanto più quanto queste cose sono naturali, e quanto la perfezione loro consiste nella naturalezza, è questa.
Non riesce bene e secondo natura, se non quello che si fa naturalmente.
[659]Ma i detti mezzi non sono naturali, e il servirsi di essi non è secondo natura.
Dunque ec.
Non basta che un'operazione sia naturale: ma quanto più è o dev'esser naturale, tanto più bisogna farla naturalmente.
Anzi non è naturale, se non è fatta naturalmente.
(14.
Feb.
1821.)
L'invenzione e l'uso delle armi da fuoco, ha combinato perfettamente colla tendenza presa dal mondo in ordine a qualunque cosa, e derivata naturalmente dalla preponderanza della ragione e dell'arte, colla tendenza, dico, di uguagliar tutto.
Così le armi da fuoco, hanno uguagliato il forte al debole, il grande al piccolo, il valoroso al vile, l'esercitato all'inesperto, i modi di combattere delle varie nazioni: e la guerra ancor essa ha preso un equilibrio, un'uguaglianza che sembrava contraria direttamente alla sua natura.
E l'artifizio, sottentrando alla virtù, [660]ed agguagliandola, e anche superandola, e rendendola inutile, ha pareggiato gl'individui, tolta la varietà, spento quindi anche nella guerra, l'entusiasmo quasi del tutto, spenta l'emulazione, e toltale la materia, spento l'eroismo, giacchè tanto vale un soldato eroe, quanto un Martano, o se anche non l'ha spento, l'ha confuso colla viltà, e reso indistinguibile, e quindi senza eccitamento e senza premio: in fine ha contribuito sommamente anche per questa parte a mortificare il mondo e la vita.
Tanto è vero che il bello, il grande, il vario, non si trova se non che nella natura, e si perde subito appena si esce da lei, appena sottentrano l'arte e la ragione, in qualunque cosa.
(14 Feb.
1821.)
Diogene, ???????????? ????? ? ???????, ???, ????, ?????, ?? ???????? ??? ???????????; Laerz.
in Diog.
Cyn.
6.68.
Dalla nota del Menag.
si rileva ch'egli l'ha inteso della insensibilità dell'atto della morte.
[661]Delle diverse opinioni intorno alla pretesa legge naturale, v.
alcuni sentimenti e dommi di Diogene, ap.
Laert.
in Diog.
Cyn.
VI.
72-73.
e quivi il Menagio, il quale riporta in proposito alcune parole di Sesto Empirico, la cui opera Pyrronianarum Hypotyposeon, e l'altra Adversus Mathematicos, ossia adversus cuiusvis generis dogmaticos, è tutta relativa a questo argomento, ed a quello ch'io sostengo, che non c'è verità nessuna assoluta.
(14.
Feb.
1821.)
Dell'influenza del corpo sull'animo, e dell'esercizio sulla virtù, v.
le sentenze di Diogene, ap.
Laert.
in Diog.
Cyn.
VI.
70.
e quivi il Menag.
se ha nulla.
(14.
Feb.
1821.)
On aime à savoir les foiblesses des personnes estimables, non già solamente di quelle che si odiano o invidiano, ma di quelle che si amano, si ammirano, si trattano, ci obbligano e ci giovano coi loro benefizi, consigli ec.
e in questo senso lo dice Mad.
Lambert, La Femme Hermite.
Nouvelle Nouvelle.
[662]dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus (p.633.), p.229.
Tu puoi però applicarti questo pensiero, e rendertelo proprio, giacchè Mad.
lo stende, lo spiega, e l'applica in maniera ordinaria, così che il pensiero sembra comune, non fa gran colpo e non se ne osserva l'originalità.
Essa lo applica principalmente alla confidenza che ne deriva verso quelle tali persone: et j'étois trop heureuse de trouver en elle, non-seulement des conseils, mais de ces foiblesses aimables qui nous rendent plus indulgens pour celles d'autrui.
Ma si può considerare questa verità molto più in grande, dilatarla, osservarne i rapporti, applicarla anche al teatro, alla poesia, a' romanzi ec.
ed alle arti imitatrici, e confermarne quella regola di Aristotele, che il protagonista non sia perfetto.
(15.
Feb.
1821.)
Je crois que son estime (si parla di una persona amata, ma da cui non si spera nulla, e alla quale non si è mai dichiarato il proprio amore) doit être le prix de tout ce que je fais de bien; et je fais encore plus [663]grand cas d'elle (de son estime) que de tous les sentimens les plus tendres que je pourrois lui supposer.
(Quella che parla è una donna, e l'amato è un uomo).
Mme.
Lambert, Lieu cité ci-dessus, p.234.
Messer tale sentendo dire che la vita è una commedia, disse che oggidì è piuttosto una prova di commedia, ovvero una di quelle rappresentazioni, che talvolta i collegiali, o simili fanno per loro soli.
Perchè non ci sono più spettatori, tutti recitano, e la virtù e le buone qualità che si fingono, nessuno le ha, e nessuno le crede negli altri.
Anzi proponeva questo mezzo di fare che il mondo cessasse finalmente di essere un teatro, e la vita diventasse per la prima volta, almeno dopo lunghissimo tempo, un azion vera.
S'ella fu mai tale, fu perchè gli uomini, se non altro la maggior parte, erano veramente buoni, o tendevano alla virtù.
Questo ora è impossibile, e non è [664]più da sperare.
Dunque si cercasse il detto fine per un altro verso, quasi opposto.
Si riformassero il Galateo, le leggi, gl'insegnamenti pubblici e privati, l'educazione de' fanciulli, i libri di Morale, i vocabolari ec.
In maniera che quello che non è più necessario, anzi è disutile e dannoso in sostanza, non fosse più necessario neanche in apparenza.
Così si toglierebbe agli uomini la necessità di mentir sempre, e inutilmente, perchè non ingannano più nessuno; l'imbarazzo in cui questa li pone tante volte; la contraddizione fra l'esteriore, e l'interiore; la falsità ec.
si ricondurrebbe la verità nel mondo; la vita resterebbe nè più nè meno la stessa qual è oggidì, ma solamente tolto questo linguaggio e queste maniere di convenzione, e questo genere aereo ed inutile di bienséances, e di onore, e di riguardi a un pubblico che pensa ed opera come te, si toglierebbero agli uomini molti incomodi, e fatiche, e attenzioni, e sollecitudini [665]vane; e la vita sarebbe un fatto e non una rappresentazione: finalmente si concorderebbero una volta insieme quelle due cose discordi ab eterno, i detti e i fatti degli uomini.
Sperava e prognosticava che il mondo si sarebbe stancato di tante apparenze divenute inutili da che non servono più ad ingannare, e da che la commedia non è più spettacolo, e tutti sono attori.
Che avrebbe messo d'accordo la sostanza coll'apparenza, non già cambiando la sostanza, che Dio ce ne scampi, ma lasciandola intatta, e cambiando l'apparenza, les bienséances, il linguaggio ec.
cioè facendo che apparisca e si dica quello ch'è vero.
E notava che il mondo sembra che già inclini a questo, e non i fatti coi detti, ma i detti si comincino ad accomodare, ad accordare, a pacificare coi fatti; ed oramai vengano a trattato con questi loro nemici, e domandino essi le condizioni di pace.
E che forse [666]anche oggidì l'esteriore coll'interiore, i detti coi fatti sono più d'accordo che non furono da grantempo.
(16.
Feb.
1821.)
Je sentis que c'étoit quelque chose de bien douloureux, que de savoir ce que l'on aime attaché à quelque chose de parfait: (cioè la persona amata, a qualche altra persona perfetta, e degna dell'amor suo: e in questo senso lo dice Mad.
Lambert) mais loin que mon intérêt ait pris sur la justice que je devois à mon amie, (amata da colui ch'era amato dalla persona che parla, ed è una donna) ma délicatesse et la crainte de lui manquer ont augmenté son mérite à mes yeux.
Mme.
de Lambert lieu cité ci-dessus, (p.661.
fine), p.265.
fine.
Elle (l'imagination) nous donne de ces joies sérieuses qui ne font rire que l'esprit.
(cioè, il bello spirito, il bell'umore).
Mme de Lambert, Réflexions nouvelles sur les [667]femmes, dans ses Oeuvres complètes citées ci-dessus, (p.633.), p.166.
(16.
Feb.
1821.)
Quello che ho detto in altro pensiero intorno all'idea che i fanciulli si formano dei nomi, si deve estendere assai, perchè ordinariamente e generalmente, il fanciullo dal primo individuo che vede, si forma l'idea di tutta la specie o genere, in ogni sorta di cose; dal primo soldato, l'idea di tutti i soldati, dal primo tempio, l'idea di tutti i tempii ec.
E se la forma vivamente e durevolmente, se però altri individui della stessa specie, non vengono frequentemente o nella stessa fanciullezza, o poi, a scancellare l'idea concepita sul primo individuo.
Senza ciò, e massimamente se le idee di altri individui non sottentrano a quella del primo durante la fanciullezza, l'idea del primo si conserva per lunghissimo tempo anche nelle altre età, e serve nella nostra mente di tipo, a tutti gli altri individui della stessa specie di cui ci dobbiamo formare un'idea per relazione o cosa tale, e che non ci cadono sotto i sensi.
P.e.
avendo io di due anni veduto un colonnello, l'idea [668]ch'io mi formo naturalmente della persona di questo o di quel colonnello, ch'io non conosco di veduta, e in astratto, del colonnello, è ancora modellata su quella figura, quelle maniere ec.
Anche da ciò si deve inferire quanto sieno importanti le benchè minime impressioni della fanciullezza, e quanto gran parte della vita dipenda da quell'età; e quanto sia probabile che i caratteri degli uomini, le loro inclinazioni, questa o quell'altra azione ec.
derivino bene spesso da minutissime circostanze della loro fanciullezza, e come i caratteri ec.
e le opinioni massimamente (dalle quali poi dipendono le azioni, e quasi tutta la vita) si diversifichino bene spesso per quelle minime circostanze, e accidenti, e differenze appartenenti alla fanciullezza, mentre se ne cercherà la cagione e l'origine in tutt'altro, anche dai maggiori conoscitori dell'uomo.
(16.
Feb.
1821.).
V.
p.675.
principio
Quella maravigliosa facilità che hanno [669]i fanciulli di passare immediatamente dal più profondo dolore alla gioia, dal pianto al riso ec.
e viceversa, e ciò per minime cagioni; questa somma volubilità e versatilità d'indole e d'immaginazione, non dev'ella esser causa di una molto maggiore felicità, o molto minore miseria che nelle altre età?
(16.
Feb.
1821.)
L'orgueil nous sépare de la société: notre amour-propre nous donne un rang à part qui nous est toujours disputé: l'estime de soi-même qui se fait trop sentir est presque toujours punie par le mépris universel.
Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa fille, dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, (p.633.), p.99.
fine.
Così è naturalmente nella società, così porta la natura di questa istituzione umana, la quale essendo diretta al comun bene e piacere, non sussiste veramente, se l'individuo non accomuna [670]più o meno cogli altri la sua stima, i suoi interessi, i suoi fini, pensieri, opinioni, sentimenti ed affetti, inclinazioni, ed azioni; e se tutto questo non è diretto se non a se stesso.
Quanto più si trova nell'individuo il se stesso, tanto meno esiste veramente la società.
Così se l'egoismo è intero, la società non esiste se non di nome.
Perchè ciascun individuo non avendo per fine se non se medesimo, non curando affatto il ben comune, e nessun pensiero o azione sua essendo diretta al bene o piacere altrui, ciascuno individuo forma da se solo una società a parte, ed intera, e perfettamente distinta, giacchè è perfettamente distinto il suo fine; e così il mondo torna qual era da principio, e innanzi all'origine della società, la quale resta sciolta quanto al fatto e alla sostanza, e quanto alla ragione ed essenza sua.
Perciò l'egoismo è sempre stata la peste della società, e quanto è stato maggiore, tanto peggiore è stata [671]la condizione della società; e quindi tanto peggiori essenzialmente quelle istituzioni che maggiormente lo favoriscono o direttamente o indirettamente, come fa soprattutto il dispotismo.
(Sotto il quale stato la Francia era divenuta la patria del più pestifero egoismo, mitigato assai dalla rivoluzione, non ostante gl'immensi suoi danni, come è stato osservato da tutti i filosofi.) L'egoismo è inseparabile dall'uomo, cioè l'amor proprio, ma per egoismo, s'intende più propriamente un amor proprio mal diretto, male impiegato, rivolto ai propri vantaggi reali, e non a quelli che derivano dall'eroismo, dai sacrifizi, dalle virtù, dall'onore, dall'amicizia ec.
Quando dunque questo egoismo è giunto al colmo, per intensità, e per universalità; e quando a motivo e dell'intensità, e massime dell'universalità si è levata la maschera (la quale non serve più a nasconderlo, perchè troppo vivo, e perchè tutti sono animati dallo stesso sentimento), allora la natura del commercio sociale (sia relativo alla conversazione, [672]sia generalmente alla vita) cangia quasi intieramente.
Perchè ciascuno pensando per se (tanto per sua propria inclinazione, quanto perchè nessun altro vi pensa più, e perchè il bene di ciascheduno è confidato a lui solo), si superano tutti i riguardi, l'uno toglie la preda dalla bocca e dalle unghie dell'altro; gl'individui di quella che si chiama società, sono ciascuno in guerra più o meno aperta, con ciascun altro, e con tutti insieme; il più forte sotto qualunque riguardo, la vince; il cedere agli altri qualsivoglia cosa, o per creanza, o per virtù, onore ec.
è inutile, dannoso e pazzo, perchè gli altri non ti son grati, non ti rendono nulla, e di quanto tu cedi loro, o di quella minore resistenza che opponi loro, profittano in loro vantaggio solamente, e quindi in danno tuo.
E così, per togliere un esempio dal passo cit.
di Mad.
di Lambert, si vede nel fatto che oggidì, il disprezzo degli altri, e la stima aperta e ostentata di se stesso, non solamente non è più così dannosa come [673]una volta, ma bene spesso è necessaria, e chi non sa farne uso non guadagna nulla in questo mondo presente.
Perchè gli altri non sono disposti ad accordarti spontaneamente, e in forza del vero, e del merito nulla, come di nessuna altra cosa, così neanche di stima, e bisogna quindi che tu la conquisti come per forza, e con guerra aperta e ostilmente, mostrandoti persuasissimo del tuo merito, ad onta di chicchessia, disprezzando e calpestando gli altri, deridendoli, profittando d'ogni menomo loro difetto, rinfacciandolo loro, non perdonando nulla agli altri, cercando in somma di abbassarli e di renderteli inferiori, o nella conversazione o dovunque con tutti i mezzi più forti.
Che se oggidì ti vuoi procacciare la stima degli altri, col rispetto, buona maniera verso loro, col lusingare il loro amor proprio, dissimulare i loro difetti ec.
e quanto a te, colla modestia, col silenzio ec.
ti succede tutto l'opposto.
Essi profittano di te e de' tuoi riguardi verso loro, per innalzarsi, e della tua poca resistenza quanto a te, per deprimerti.
Quello che concedi [674]loro, l'adoprano in loro mero vantaggio, e danno tuo; quello che non ti arroghi o non pretendi, o quel merito che tu dissimuli, te lo negano e tolgono, per vederti inferiore ec.
Così, nel modo che ho detto ritornano effettivamente nel mondo i costumi selvaggi, e di quella prima età, quando la società non esistendo, ciascuno era amico di se solo, e nemico di tutti gli altri esseri o dissimili o simili suoi, in quanto si opponevano a qualunque suo menomo interesse o desiderio, o in quanto egli poteva godere a spese loro.
Costumi che nello stato di società son barbari, perchè distruttivi della società, e contrari direttamente all'essenza ragione, e scopo suo.
Quindi si veda quanto sia vero, che lo stato presente del mondo, è propriamente barbarie, o vicino alla barbarie quanto mai fosse.
Ogni così detta società dominata dall'egoismo individuale, è barbara, e barbara della maggior barbarie.
(17.
Feb.
1821.)
[675]Alla pag.668.
fine.
E questa non è forse una delle minime cagioni di quella verità Quot homines, tot sententiae, detto di Terenzio, (Phorm.
Act.
2.
sc.4.
ver.14.) Quot homines, tot sententiae: suus cuique mos.
(Negli adagi del Manuzio questo proverbio è riportato così, quot homines, non capita.) E similmente Oraz.
(Sat.
l.2.
sat.1.
v.27-28.) Quot capitum vivunt, totidem studiorum Millia.
Ed Euripide (in Phoenissis):
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Cunctis idem si pulchrum, et egregium foret,
Nulla esset anceps hominibus contentio.
At nunc simile nil, nil idem mortalibus:
Nisi verba forsan inter istos concinunt,
At re tamen, factisque convenit nihil.
[676]E Cicerone (de Fin.
bon.
et mal.
c.5.
verso il fine): sed quot homines, tot sententiae: falli igitur possumus.
Luogo omesso dal Manuzio.
Riferite le dette sentenze alla opinione comune, che si dia verità assoluta, anche tra gli uomini.
(17.
Feb.
1821.)
Non siamo dunque nati fuorchè per sentire, qual felicità sarebbe stata se non fossimo nati?
(18.
Feb.
1821.)
ENFIN ELLES AIMENT L'AMOUR, ET NON PAS L'AMANT.
Ces personnes se livrent à toutes les passions les plus ardentes.
Vous les voyez occupées du jeu, de la table: tout ce qui porte la livrée du plaisir est bien reçu.
Parla di quelle donne galanti qui ne cherchent et ne veulent que les plaisirs de l'amour, di quelle che ne cherchent dans l'amour que les plaisirs des sens, (o della galanteria dell'ambizione ec.) que celui d'être fortement occupées et entraînées, et que celui d'être aimées; di quelle che [677]possono associer d'autres passions à l'amour, e lasciare du vide dans (leur) son coeur, e che après avoir tout donné, possono non essere uniquement (occupées) occupé de ce qu'on aime; di quelle che se font une habitude de galanterie, et NE SAVENT POINT JOINDRE LA QUALITÉ D'AMIE A CELLE D'AMANT; di quelle che NE CHERCHENT QUE LES PLAISIRS, ET NON PAS L'UNION DES COEURS, e conseguentemente ÉCHAPPENT A TOUS LES DEVOIRS DE L'AMITIÉ: in somma delle donne d'oggidì tutte quante, e in fatti ancor ella sebbene distingue le donne amanti in tre specie, conchiude il discorso di questa specie, così: Voilà l'amour d'usage et d'à-présent, et où les conduit une vie frivole e dissipée.
Mme.
de Lambert, Réflexions nouvelles sur les femmes, dans ses oeuvres complètes, citées ci-dessus (p.633.) p.179.
(18.
Febbraio 1821.)
[678]Il faut convenir que les femmes sont plus délicates que les hommes en fait d'attachement.
Il n'appartient qu'à elles de faire sentir par un seul mot, par un seul regard, tout un sentiment.
Mme.
de Lambert, lieu cité ci-dessus, p.187.
Gli esercizi della persona che egli faceva in compagnia di cotali gentili uomini, non solamente per allora li furon cagione della fermezza e gagliardìa del corpo, ma eziandio dell'animo.
- Lo dice di Antonio Giacomini Tebalducci Malespini, famoso militare fiorentino, ancor giovane, Jacopo Nardi, Vita d'Antonio Giacomini Tebalducci Malespini, ediz.
di Lucca, Francesco Bertini, 1818.
[in] 8.
p.19..
(18 Feb.
1821.)
Nous n'avons qu'une portion d'attention et de sentiment; dès que nous nous livrons aux objets extérieurs, le sentiment dominant s'affoiblit: nos desirs ne sont-ils pas plus vifs et plus forts dans la retraite? Mme.
de Lambert, lieu cité ci-derrière (p.677.
fine) p.188.
[679]La solitudine è lo stato naturale di gran parte, o piuttosto del più degli animali, e probabilmente dell'uomo ancora.
Quindi non è maraviglia se nello stato naturale, egli ritrovava la sua maggior felicità nella solitudine, e neanche se ora ci trova un conforto, giacchè il maggior bene degli uomini deriva dall'ubbidire alla natura, e secondare quanto oggi si possa, il nostro primo destino.
Ma anche per altra cagione la solitudine è oggi un conforto all'uomo nello stato sociale al quale è ridotto.
Non mai per la cognizione del vero in quanto vero.
Questa non sarà mai sorgente di felicità, nè oggi; nè era allora quando l'uomo primitivo se la passava in solitudine, ben lontano certamente dalle meditazioni filosofiche; nè agli animali la felicità della solitudine deriva dalla cognizione del vero.
Ma anzi per lo contrario questa consolazione della solitudine deriva all'uomo oggidì, e derivava primitivamente dalle illusioni.
Come ciò fosse primitivamente, in quella vita occupata o da continua [680]sebben solitaria azione, o da continua attività interna e successione d'immagini disegni ec.
ec.
e come questo accada parimente ne' fanciulli, l'ho già spiegato più volte.
Come poi accada negli uomini oggidì, eccolo.
La società manca affatto di cose che realizzino le illusioni per quanto sono realizzabili.
Non così anticamente, e anticamente la vita solitaria fra le nazioni civili, o non esisteva, o era ben rara.
Ed osservate che quanto si racconta de' famosi solitari cristiani, cade appunto in quell'epoca, dove la vita, l'energia, la forza, la varietà originata dalle antiche forme di reggimento e di stato pubblico, e in somma di società, erano svanite o sommamente illanguidite, col cadere del mondo sotto il despotismo.
Così dunque torna per altra cagione ad esser proprio degli stati e popoli corrotti, quello ch'era proprio dell'uomo primitivo, dico la tendenza dell'uomo alla solitudine: tendenza stata interrotta dalla prima energia della vita sociale.
Perchè oggidì è così la cosa.
La presenza e l'atto della società spegne le illusioni, [681]laddove anticamente le fomentava e accendeva, e la solitudine le fomenta o le risveglia, laddove non primitivamente, ma anticamente le sopiva.
Il giovanetto ancora chiuso fra le mura domestiche, o in casa di educazione, o soggetto all'altrui comando, è felice nella solitudine per le illusioni, i disegni, le speranze di quelle cose che poi troverà vane o acerbe: e questo ancorchè egli sia d'ingegno penetrante, e istruito, ed anche, quanto alla ragione, persuaso della nullità del mondo.
L'uomo disingannato, stanco, esperto, esaurito di tutti i desideri, nella solitudine appoco appoco si rifà, ricupera se stesso, ripiglia quasi carne e lena, e più o meno vivamente, a ogni modo risorge, ancorchè penetrantissimo d'ingegno, e sventuratissimo.
Come questo? forse per la cognizione del vero? Anzi per la dimenticanza del vero, pel diverso e più vago aspetto che prendono per lui, quelle cose già sperimentate e vedute, ma che ora essendo lontane dai sensi e dall'intelletto, tornano a passare per la immaginazione sua, e quindi abbellirsi.
Ed egli torna a sperare [682]e desiderare, e vivere, per poi tutto riperdere, e morire di nuovo, ma più presto assai di prima, se rientra nel mondo.
Dalle dette considerazioni segue che oggi l'uomo quanto è più savio e sapiente, cioè quanto più conosce, e sente l'infelicità del vero, tanto più ama la solitudine che glielo fa dimenticare, o glielo toglie dagli occhi, laddove nello stato primitivo l'uomo amava tanto più la solitudine, quanto maggiormente era ignorante ed incolto.
E così l'ama oggidì, quanto più è sventurato, laddove anticamente, e primitivamente la sventura spingeva a cercare la conversazione degli uomini, per fuggire se stesso.
La qual fuga di se stesso oggi è impossibile nella società all'uomo profondamente sventurato, e profondamente sensibile, e conoscente; perchè la presenza della società, non è altro che la presenza della miseria, e del vuoto.
Perchè il vuoto non potendo essere riempiuto mai se non dalle illusioni, e queste non trovandosi nella società quale è oggi, resta che sia meglio riempiuto dalla solitudine, dove le illusioni [683]sono oggi più facili per la lontananza delle cose, divenute loro contrarie e mortifere, all'opposto di quello ch'erano anticamente.
(20.
Feb.
1821.)
La sua compagnia (di Antonio Giacomini) ne' collegi de' magistrati fu qualche volta ad alcuni non molto gioconda.
Nondimeno il suo parere le più volte prevaleva agli altri, e specialmente nel consiglio degli ottanta e de' richiesti e pratiche, nelle quali PIÙ LARGHE consultazioni l'autorità de' PARTICOLARI cittadini cede e dà luogo alle vere e ferme ragioni molto più facilmente, che non fa ne' magistrati DI MINOR NUMERO D'UOMINI.
Jacopo Nardi, Vita d'Antonio Giacomini.
Lucca per Francesco Bertini 1818.
p.85-86.
(22.
Feb.
1821.)
Nardi ec.
l.
cit.
qui sopra p.83.
Di quelle doti e di quelle virtù che o per natura o per instituto e lezione tutte furono sue.
Che ha da far qui la lezione? oltre che lo stesso Nardi p.102.
dice ch'egli non aveva dato opera alle scienze.
Leggi ed elezione, opposto a natura.
Ma v.
l'altra ediz.
del 1597.
Firenze, Sermartelli, in 4°
(23.
Feb.
1821.)
[684]Lorenzo de' Medici, Apologia ec.
nel fine: Non mi sarebbe TANTA fatica.
Leggi STATA.
L'errore è nell'ediz.
di Lucca per Francesco Bertini dietro il Nardi, Vita del Giacomini, p.
ult.
136.
Non so delle altre stampe.
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??.5 ????? ????????? ???? ??????,
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Aristofane, Pluto, o la Ricchezza, Atto 4.
Scena 3.
(23.
Feb.
1821.).
Alla p.241 ...che il mondo, o qualche buona parte del mondo sia quello che in greco si dice diglottos, e noi possiamo dire bilingue.
Come veramente oggidì quasi tutto il mondo civile è bilingue, cioè parla tanto le sue lingue particolari, quanto, al bisogno, la francese.
Eccettuato la stessa Francia, la quale non è bilingue, non solamente rispetto al grosso della nazione, ma anche de' letterati e dotti, pochi sono [685]quelli che intendono bene, o sanno veramente parlare altra lingua fuori della propria loro.
Il che se derivi da superbia nazionale, o da questo che usandosi la loro favella per tutto il mondo, non hanno bisogno d'altra per ispiegarsi con chicchessia, o vero, quanto alla intelligenza ed uso de' libri forestieri, dalla facilità e copia delle traduzioni che hanno, questo non è luogo da ricercarlo.
(23.
Feb.
1821.)
La lingua italiana porta pericolo, non solo quanto alle voci o locuzioni o modi forestieri, e a tutto quello ch'è barbaro, ma anche, (e questo è il principale) di cadere in quella timidità povertà, impotenza, secchezza, geometricità, regolarità eccessiva che abbiamo considerata più volte nella lingua francese.
In fatti da un secolo e più, ella ha perduto, non solamente l'uso, ma quasi anche la memoria di quei tanti e tanti idiotismi, e irregolarità felicissime della lingua nostra, nelle quali principalmente consisteva la facilità, l'onnipotenza, la varietà, [686]la volubilità, la forza, la naturalezza, la bellezza, il genio, il gusto la proprietà ((((((((), la pieghevolezza sua.
Non parlo mica di quelle inversioni e trasposizioni di parole, e intralciamenti di periodi alla latina, sconvenientissimi alla lingua nostra, e che dal Boccaccio e dal Bembo in fuori, e più moderatamente dal Casa, non trovo che sieno stati adoperati e riconosciuti da nessun buono scrittore italiano.
Ma parlo di quella libertà, di quelle tanto e diversissime figure della dizione, per le quali la lingua nostra si diversificava dalla francese dell'Accademia, era suscettibile di tutti gli stili, era così lontana dal pericolo di cadere nell'arido, nel monotono, nel matematico, e in somma di quelle che la rendevano similissima nel genio, nell'indole, nella facoltà, nel pregio alle lingue antiche, e specificatamente alla greca, alla quale si accostava da vicino anche nelle forme particolari e speciali, cioè non solamente nel genere, ma anche nella specie: siccome alla latina si accosta sommamente per la qualità individuale de' vocaboli e delle frasi.
Ma oggidì ella va a perdere, anzi ha già perduto presso [687]il più degli scrittori, le dette qualità che sono sue vere, proprie, intime, e native; e dico anche presso quegli scrittori che a gran fatica arrivano pure a preservarsi dai barbarismi.
(e qui riferite quello che ho detto altrove, come in detti scrittori facciano pessima comparsa le parole e modi italiani, in una tessitura di lingua che per quanto non sia barbara, non è l'italiana: e gli antichi accidenti in una sostanza tutta moderna e diversa.) E così anche la lingua nostra si riduceva ad essere una processione di collegiali, come diceva, se non erro, il Fénélon, della francese.
Del che mi pare che bisogni stare in somma guardia, tanto più, quanto la inclinazione, lo spirito, l'andamento dei tempi, essendo tutto geometrico, la lingua nostra corre presentissimo rischio di geometrizzarsi stabilmente e per sempre, di inaridirsi, di perdere ogni grazia nativa (ancorchè conservi le parole e i modi, e scacci i barbarismi), di diventare unica come la francese, laddove ora ella si può chiamare un aggregato di più lingue, ciascuna adattata al suo soggetto, o anche a questo [688]e a quello scrittore; e così divenuta impotente, in luogo di contenere virtualmente tutti gli stili (secondo la sua natura, e quella di tutte le belle e naturali lingue, come le antiche, non puramente ragionevoli), ne contenga uno solo, cioè il linguaggio magrissimo ed asciuttissimo della ragione, e delle scienze che si chiamano esatte, e non sia veramente adattata se non a queste, che tale infatti ella va ad essere, e lo possiamo vedere in ogni sorta di soggetti, e fino nella poesia italiana moderna de' volgari poeti.
Come appunto è accaduto alla lingua francese, perchè ancor ella da principio, ed innanzi all'Accademia, e massime al secolo di Luigi 14.
non era punto unica, ma l'indole sua primitiva e propria somigliava moltissimo all'indole della vera lingua italiana, e delle antiche; era piena d'idiotismi, e di belle e naturalissime irregolarità; piena di varietà; subordinatissima allo scrittore (notate questo, che forma la difficoltà dello scrivere, come pure dell'intendere la nostra lingua a differenza della francese) e suscettibile di prendere quella forma e quell'abito che il soggetto richiedesse, o il carattere dello scrittore, o che questi volesse darle; adattata [689]a diversissimi stili; piena di nerbo, o di grazia, di verità, di proprietà, di evidenza, di espressione; coraggiosa; niente schiva degli ardiri com'è poi divenuta; parlante ai sensi ed alla immaginativa, e non solamente, come oggi, all'intelletto; (sebbene anche al solo intelletto può parlare la lingua italiana, se vuole) pieghevole, robusta, o delicata secondo l'occorrenza; piena di sève, di sangue e di colorito ec.
ec.
Delle quali proprietà qualche avanzo se ne può notare nella Sévigné, e nel Bossuet e in altri scrittori di quel tempo.
Talmente che s'ella fosse rimasta quale ho detto, non sarebbe mai stata universale, con che vengo a dir tutto.
E s'ella prima della sua mortifera riforma, avesse avuto tanto numero di cultori quanto n'ebbe l'italiana, che l'avessero condotta secondo il suo carattere primitivo, e d'allora, alla perfezione, come fu condotta la nostra, sarebbe anche più evidente questo ch'io dico [690]della prima e originale natura della lingua francese, la quale ben si congettura efficacemente dalla considerazione de' loro antichi scrittori, ma non si può pienamente sentire perch'ella non ebbe scrittore perfetto in quel primo genere, o non ne ebbe quanto basta.
Nè quel primo genere prese mai stabilità, ma quando le fu data forma stabile e universale nella nazione, fu ridotta, quale oggi si trova, ad essere in ogni possibile genere di scrittura, piuttosto una serie di sentenze e di pensieri esattissimamente esposti e ordinati, che un discorso.
Dove l'intelletto e l'utilità non desidera nulla, ma l'immaginazione il bello, il dilettevole la natura, i sensi ec.
desiderano tutto.
(24.
Feb.
1821.)
Il secolo del cinquecento è il vero e solo secolo aureo e della nostra lingua e della nostra letteratura.
Quanto alla lingua moltissimi disconvengono da questo ch'io dico, volendo che il suo vero secol d'oro, fosse il trecento.
Ma osservino.
Quasi tutti gli scrittori del cinquecento, toscani o non toscani, hanno bene e convenientemente [691]adoperata la nostra lingua, e tutti più o meno possono servire di norma al bello scrivere, e sarebbe ammirato e studiato uno scrittore d'oggidì che avesse tanti pregi di lingua quanto l'infimo de' mediocri scrittori di quel tempo.
Questo è ben altro che ammirare la felicità della Francia dove tutti appresso a poco scrivono bene quanto alla lingua.
Considerate quello che ho detto altrove del sommo divario fra la nostra lingua e la francese, e non vi parrà poca meraviglia che una lingua così difficile, varia, ricca, immensa, pieghevole e subordinata allo scrittore, come l'italiana, trovasse un secolo, dove tutti o la massima parte la scrivessero bene, e questo in ogni sorta di soggetti e di stili, in ogni qualità di scrittori, e anche in quelle cose che si scrivevano e si scrivono correntemente e senza studio, come lettere e cose tali, dove il cinquecento è sempre quasi [692]perfetto modello della buona lingua italiana a tutti i secoli.
Diranno che anche nel trecento accadeva lo stesso.
Voglio lasciar passare questa proposizione, che ben considerata parrà forse falsissima.
Ma supponendo che sia verissima, che maraviglia che scriva bene, chi in questo medesimo, che egli scrive, porta inseparabilmente la ragione dello scriver bene? Giacchè noi diciamo che i trecentisti scrivevano bene, perciò appunto ch'erano trecentisti; e indistintamente tutto quello ch'è del trecento, o imita e somiglia la scrittura di quel secolo, si approva e si dice bene scritto, perchè appartiene al trecento.
E si dà a quel secolo autorità di regolare il nostro giudizio intorno alla bella lingua italiana, non a noi di giudicare se quel secolo usasse una bella lingua.
Io so e dico che la usava bellissima, e do ragione e lodo quelli che colle debite restrizioni e condizioni fanno degli scrittori del trecento i modelli [693]o il fondamento e la sorgente della buona lingua italiana di tutti i secoli.
Quest'autorità l'hanno avuta tutti i padri di tutte le buone e belle lingue (come della latina ec.): e l'hanno avuta non già per capriccio o pregiudicata opinione de' successori, ma per la forza della natura che operava in quei padri effettivamente, e perchè la natura è la massima fonte del bello.
Ma non perciò le dette qualità derivavano in quei padri da merito loro, nè essi ponevano (eccetto pochissimi) veruno studio alla bellezza e all'ordine della lingua.
Nel modo che Omero certamente non sudava per seguire e praticare le regole del poema epico, le quali non esistevano, anzi sono derivate dal suo poema, e quella maniera ch'egli ha tenuto è poi divenuta regola.
Ma Omero come ingegno sovrano ch'egli era, studiava la natura e gli uomini e il bello per creare le regole che ancora non esistevano: laddove i trecentisti erano quasi tutti uomini da poco e ignorantissimi, e scrivevano quello che veniva loro nella [694]penna.
E quanto è venuto loro nella penna, tanto si è giudicato che fosse il più bel fiore della nostra lingua, non dico ingiustamente, ma certo senza merito loro.
V.
p.705.
Aggiungete che fuori de' Toscani, pochissimi in quel secolo scrivevano la lingua nostra in modo che si potesse sopportare, all'opposto del cinquecento dove tutta l'Italia scriveva correttamente e leggiadramente, così che il trecento, quando anche non valessero le suddette ragioni, non si potrebbe riputare il migliore della nostra lingua, nè paragonare al cinquecento se non quanto alla Toscana.
Quanto alla letteratura nessuno disconviene da quello ch'io dico, perchè il trecento ebbe tre o quattro letterati famosi, ma nel resto ebbe non letteratura ma ignoranza.
Quello però ch'io dico, sarebbe molto più riconosciuto in Italia e fuori, e si giudicherebbe meglio, e con maggiore convincimento, quanto sia vero che il cinquecento [695]sia l'ottimo ed aureo secolo della letteratura italiana, anzi in questo pregio superi non solo tutti gli altri secoli italiani, ma anche tutti i migliori secoli delle letterature straniere; se si ponesse mente a questo ch'io son per dire.
Primieramente la stessa universalità che ho notata in quel secolo rispetto alla buona lingua, si deve anche notare rispetto al buono stile: e ciò in tutti i generi e di soggetti, e di scrittori nelle scritture più familiari e usuali ec.
insomma con tutte quelle particolarità che ho notate quanto alla lingua p.691.
Collo studio, e la giusta applicazione delle norme greche e latine, lo stile del cinquecento generalmente aveva acquistato tal nobiltà e dignità, e tant'altra copia di pregi, che quasi era venuto alla perfezione, eccetto principalmente una certa oscurità ed intralciamento, derivante in gran parte dalla troppa lunghezza de' periodi, e dalla troppa copia [696]delle figure di dizione, e dall'eccessivo ed eccessivamente continuato concatenamento delle sentenze; vizio tutto proprio di quel secolo, il quale voleva forse con ciò dare al discorso quella gravità che ammirava ne' latini, ma che si doveva conseguire con altri mezzi (quali sono quegli altri molti che lo stesso secolo ha ottimamente adoperati): vizio ignoto si può dire al trecento, e a tutti gli altri secoli ancorchè viziosissimi: vizio provenuto anche dal soverchio studio dei latini, la cui imitazione è pericolosa per questa parte ancora, come per le trasposizioni; vizio che avrebbe potuto molto correggersi con un maggiore studio de' greci, ma principalmente degli ottimi e primi, perchè i più moderni declinarono anch'essi (sebbene valenti) a questo difetto, e ad un'indole di scrittura più latina che greca: vizio che non saprei se appartenga più allo stile ovvero alla lingua: vizio finalmente che se non togliere, certo si può moltissimo [697]alleggerire con una diversa punteggiatura, come si è fatto da molti presso i latini, i quali pure ne avevano gran bisogno, tanto per la lunghezza de' periodi talvolta, i quali si sono divisi col mezzo de' punti, quanto massimamente e sempre per la qualità della loro costruzione.
La detta perfezione prima o dopo quel secolo non si è mai veduta in nessunissimo stile nè italiano nè forestiero, dai latini in poi (dico quanto allo stile non ai pensieri): nessun'altra nazione ci è pervenuta in veruno de' suoi migliori secoli; e forse quello stesso maggior grado di perfezione che lo stile forestiero ha conseguito ne' suoi secoli d'oro, non si troverà che fosse così universale negli scrittori nazionali di quel tempo, com'era la detta perfezione in Italia nel cinquecento.
Secondariamente il pregio letterario del cinquecento è meno [698]conosciuto, e stimato assai meno del vero, perchè non si conosce la somma e singolare ricchezza di quel secolo.
Eccetto gli scrittori toscani registrati in buona parte dalla Crusca fra' testi di lingua, e perciò ricercati per farne serie, e per lusso, e simili motivi, e ristampati per uso di lingua, gli altri toscani, non adoperati dall'antica Crusca, e la massima parte de' cinquecentisti non toscani, non sono letti quasi da nessuno, conosciuti di pregio da pochissimi dotti, di nome solo da pochissimi altri, e ignorati di nome e di tutto dalla moltitudine dei letterati, da tutto il resto degli odierni italiani, e da tutti quanti gli stranieri.
E tuttavia è somma la copia di quegli scrittori che essendo così ignorati, sono tuttavia o più degli altri, o quanto gli altri che si conoscono, pregevolissimi e degnissimi di considerazione, di studio, e d'immortalità.
E giacciono in quelle vecchie stampe, in preda ai tarli, e alla polvere [699](se però sono stati mai stampati, come p.e.
la storia del Baldi, di cui parla il Perticari, è ms.), in fondo alle librerie, scorrettissimamente, e sordidamente stampati, senza veruno che si curi di guardarli.
Da quelle poche operette insigni del cinquecento ristampate in questi ultimi anni, e da quelle che si è proposto di ristampare, e che si è veduto come non cedano forse a veruna delle già note e famose, si può conoscere quanta ricchezza di quel secolo, quanta gloria nostra, sia oscurata e sepolta dalla dimenticanza, dall'ignoranza, dalla pigrizia, dalla noncuranza di questo secolo.
Che se porrete mente quanto minore sia il numero de' buoni cinquecentisti noti alla universalità degl'italiani, rispetto a quelli conosciuti dai letterati, i quali pur tanti ne ignorano; e quanto pochi fra quei medesimi conosciuti universalmente fra noi, si conoscano fuori d'Italia; non vi farete più maraviglia se la fama del [700]cinquecento letterato è oramai nell'Europa, piuttosto nome che fatto; piuttosto un avanzo di antica tradizione, che opinione presente; potendosi contar sulle dita i cinquecentisti noti fuori d'Italia.
E così dico proporzionatamente di tutta l'altra nostra letteratura.
Ma gli stranieri hanno ben ragione, se non ne sanno più, di quello che ne sappiamo noi stessi, i quali generalmente ci troviamo appresso a poco nel medesimo caso.
Del resto quello ch'io dico della perfezione di stile nei cinquecentisti si deve intendere dei prosatori, non dei poeti.
Anzi io mi maraviglio come quella tanta gravità e dignità che risplende ne' prosatori, si cerchi invano in quasi tutti i poeti di quel secolo, e bene spesso anche negli ottimi.
I difetti dello stile poetico di quel secolo, anche negli ottimi, sono infiniti, massime la ridondanza, gli epiteti, i sinonimi accumulati (al contrario delle prose) ec.
lasciando i più essenziali difetti di arguzie, insipidezze ec.
anche nell'Ariosto e nel Tasso.
E non è dubbio che Dante e Petrarca (sebbene non senza gran difetti di stile) furono nello stile più vicini alla [701]perfezione che i cinquecentisti, e così lo stile poetico del trecento (riguardo a questi due poeti) è superiore al cinquecento: (tanto è vero che la poesia migliore è la più antica, all'opposto della prosa, dove l'arte può aver più luogo).
E dal trecento in poi lo stil poetico italiano non è stato richiamato agli antichi esemplari, massime latini, nè ridotto a una forma perfetta e finita, prima del Parini e del Monti.
V.
gli altri miei pensieri in questo proposito.
Parlo però del stile poetico, perchè nel resto se si eccettuano quanto agli affetti il Metastasio e l'Alfieri (il quale però fu piuttosto filosofo che poeta), quanto ad alcune (e di rado nuove) immagini il Parini e il Monti (i quali sono piuttosto letterati di finissimo giudizio, che poeti); l'Italia dal cinquecento in poi non solo non ha guadagnato in poesia, ma ha avuto solamente [702]versi senza poesia.
Anzi la vera poetica facoltà creatrice, sia quella del cuore o quella della immaginativa, si può dire che dal cinquecento in qua non si sia più veduta in Italia; e che un uomo degno del nome di poeta (se non forse il Metastasio) non sia nato in Italia dopo il Tasso.
(27.
Feb.
1821.)
Camillo Porzio, La congiura de' Baroni del Regno di Napoli contra il Re Ferdinando I.
ediz.
terza, cioè Lucca 1816.
per Franc.
Bertini, p.23.
E vedeva ciascuno che indugiava più l'occasione che il lor animo, ad offendersi, e che con ogni picciola scintilla di fuoco infra di loro si poteva eccitare grandissimo incendio.
Che vuol dire, l'occasione indugiava ad offenderti? oltre che il lor animo era già offeso, e gravissimamente, come viene dal dire.
Leggi ad accendersi, lezione confermata ancora dal seguito del surriferito passo.
Ivi, p.24.
Affermando il Re essergli stato rimesso da' suoi predecessori (il tributo alla Chiesa) [703]e che si doveva per il regno di Napoli e di Sicilia; ma che egli allora solo quello di Napoli possedeva.
Rimesso potrebbe valer condonato, e predecessori riferirsi al Papa: potrebbe valer mandato, e predecessori riferirsi al Re.
Senso sempre oscurissimo.
Io leggerei: predecessori che e' o ch'e'.
V.
p.708.
capoverso 2.
Ivi, p.37.
Suavissima riputo e verissima la sentenza che c'insegna li costumi de' soggetti andar sempre dietro all'usanze de' dominatori.
Leggi savissima.
(27.
Feb.
1821.)
Non possiamo nè contare tutti gli sventurati, nè piangerne uno solo degnamente.
Allo sviluppo ed esercizio della immaginazione è necessaria la felicità o abituale o presente e momentanea; del sentimento, la sventura.
Esempio me stesso: e il mio passaggio dalla facoltà immaginativa, alla sensitiva, essendo quella in me presso ch'estinta.
(28.
Feb.
1821.)
[704]L'uomo dev'esser libero e franco nel maneggiare la sua lingua, non come i plebei si contengono liberalmente e disinvoltamente nelle piazze, per non sapere stare decentemente e con garbo, ma come quegli ch'essendo esperto ed avvezzo al commercio civile, si diporta francamente e scioltamente nelle compagnie, per cagione di questa medesima esperienza e cognizione.
Laonde la libertà nella lingua dee venire dalla perfetta scienza e non dall'ignoranza.
La quale debita e conveniente libertà manca oggigiorno in quasi tutti gli scrittori.
Perchè quelli che vogliono seguire la purità e l'indole e le leggi della lingua, non si portano liberamente, anzi da schiavi.
Perchè non possedendola intieramente e fortemente, e sempre sospettosi di offendere, vanno così legati che pare che camminino fra le uova.
E quelli che si portano liberamente, hanno quella libertà de' plebei, che deriva dall'ignoranza della lingua, dal non saperla maneggiare, e dal non curarsene.
E questi in comparazione [705]degli altri sopraddetti, si lodano bene spesso come scrittori senza presunzione.
Quasi che da un lato fosse presunzione lo scriver bene (e quindi anche l'operar bene, e tutto quello che si vuol fare convenientemente, fosse presunzione); dall'altro lato scrivesse bene chi ne dimostra presunzione.
Quando anzi il dimostrarla, non solamente in ordine alla buona lingua, ma a qualunque altra dote della scrittura, è il massimo vizio nel quale scrivendo si possa incorrere.
Perchè in somma è la stessa cosa che l'affettazione; e l'affettazione è la peste d'ogni bellezza e d'ogni bontà, perciò appunto che la prima e più necessaria dote sì dello scrivere, come di tutti gli atti della vita umana, è la naturalezza.
(28.
Feb.
1821.)
Alla p.694.
Perchè la lingua non era ancora formata nè stabilita, nè il suo corpo ordinato, e neppure la sua gramatica.
Essi la formavano, ma per forza del tempo, e [706]di circostanze accidentali ed estrinseche, non come Omero per forza del suo proprio ingegno formava l'Epopea.
(Eccettuo però Dante Petrarca e il Boccaccio: e nel secondo massimamente ritrovo una forma ammirabilmente stabile, completa, ordinata, adulta, uguale, e quasi perfetta di lingua, degnissima di servire di modello a tutti i secoli quasi in ogni parte.) Quindi non è maraviglia se quel trecentista andava per una strada, quest'altro per un'altra; se non ci è maggiore difficoltà che mettergli d'accordo tra loro, e coll'ordine della lingua, anche in cose essenziali, e ordinare la forma e i precetti della lingua sopra i trecentisti; se formicano d'imperfezioni e di scorrezioni; se non sono uguali neppure, nè in verun modo a se stessi ec.
ec.
ec.
Formata che fu la lingua, allora divenne possibile, necessaria e difficilissima la perfezion sua: la qual perfezione da nessun secolo è stata portata nè in così alto grado, nè in tanta universalità come nel cinquecento.
[707]Ed ecco in qual senso e per quali ragioni io dico che il cinquecento fu il vero ed unico secol d'oro della nostra lingua; cioè rispetto all'adoprarla, dove che il trecento l'avea preparata; rispetto allo spendere quel tesoro che il trecento avea magnificamente e larghissimamente accumulato; e in tal maniera che della lingua sarà sempre poverissimo chi non si provvederà immediatamente a quel tesoro: essendo veramente il trecento la sorgente ricchissima inesausta e perenne della nostra lingua; sorgente aperta e necessaria a tutti i secoli.
(28.
Feb.
1821.)
Perchè in fatti il secol d'oro di una lingua o di qualunque altra disciplina, non è quello che la prepara, ma quello che l'adopra, la compone de' materiali già pronti, e la forma; giacchè realmente quel secolo che formò e determinò la lingua italiana fu più veramente il cinquecento che il trecento, lasciando stare che i primi precetti della lingua nostra furono dati, s'io non erro, in quel secolo, dal Bembo.
Ma il cinquecento [708]formò e determinò la lingua italiana in maniera ch'ella guadagnando nella coltura e nell'ordine, non perdè nulla affatto nella naturalezza, nella copia, nella varietà, nella forza, e neanche nella libertà, (quanta è compatibile colla chiarezza e bellezza, e colla necessità di essere intesi, e quindi convenientemente ordinati nel favellare): in somma e soprattutto, non mutò in verun conto l'indole e natura sua primitiva, come la cambiò interamente la francese, nella formazione e determinazione fattane dall'Accademia e dal secolo di Luigi 14.
(1.
Marzo 1821.)
Camillo Porzio l.
cit.
(p.702.) p.80.
In un tratto di ciascuno il sacco, il fuoco e la morte si temeva.
Leggi da ciascuno.
(1 Marzo 1821.).
Alla p.703.
Che se rimesso in questo senso (di traditum che in latino viene e metaforicamente, e quasi anche propriamente a dire la stessa cosa) paresse strano, questo non avverrà se non a coloro che non conosceranno l'usanza [709]e lo stile di questo scrittore.
(2.
Marzo 1821.)
Alla p.120.
Aggiungete che nelle monarchie, o reggimenti di un solo o di pochi (che reggimento di pochi si può veramente chiamare ogni monarchia, dove non è possibile che tutto effettivamente dipenda, derivi, e si regoli secondo la volontà di uno solo, massime quanto più ella è grande) le cagioni degli avvenimenti sono molto più menome e moltiplici che negli stati liberi e popolari, ancorchè paia l'opposto.
Perchè le cagioni che operano in tutto un popolo, o nella massima, o in buona parte di quello, o in somma in molti, non sono nè così piccole, nè tante, nè così varie, nè così difficili a congetturare, quando anche fossero nascoste, come quelle che operano in uno o in diversi individui particolarmente.
E si vede in fatti, chi conosce un tantino la storia de' regni, come i massimi avvenimenti sieno spesso derivati da piccolissimi affettacci di quel re, di quel ministro ec.
da menome circostanze, da una passioncella, da una parola, da una ricordanza, da un'assuefazione individuale, [710]da un carattere particolare, da inclinazioni; da qualità, accidenti della vita, amicizie o nimicizie ec.
contratte dal principe o dal ministro ec.
nello stato privato.
Quindi si può vedere, quanto la storia oggidì sia oscura e difficile allo scrittore, e come spesso debba riuscire in gran parte falsa, e quindi inutile ai lettori; consistendo la chiave di sommi avvenimenti, la spiegazione di somme maraviglie, nella cognizione di aneddoti sempre difficili, spesso impossibili a sapere.
E così oggi gli scrittori di aneddoti e bazzecole di corte, sono più benemeriti forse della storia, che i sommi storici, e scrittori delle massime cose.
(2.
Marzo 1821.)
Alla p.81.
fine.
L'uomo in tanto è malvagio nè più nè meno, in quanto le azioni sue contrastano co' suoi principii.
Quanto più dunque da un lato i principii 1.
sono meglio stabiliti, definiti, divulgati, chiariti, specificati, e formati; 2.
l'uomo n'è imbevuto profondamente, e radicatamente persuaso: dall'altro lato quanto più le opere contrastano a questi principii; [711]tanto più l'uomo è malvagio.
E tanto peggiori realmente sono i popoli e i secoli, quanto più le dette circostanze e de' principii, e delle azioni sono universali, come per mezzo del Cristianesimo, e ne' suoi primi secoli massimamente.
Questa è la misura con cui bisogna definire la malvagità degl'individui, e delle nazioni e de' tempi; e considerare l'odio che meritano e che realmente ispirano.
E per questa parte il nostro secolo si può giudicare meno malvagio.
(2.
Marzo 1821.)
Lettere diverse da quelle del nostro alfabeto sono pure il ?????greco, e la zediglia spagnuola, analoghe fra loro, ma che non si possono confondere col nostro z, o t, o s, e si pronunziano con una conformazione di organi appropriata loro.
E si troverà più differenza tra questa conformazione di organi, e quella che si richiede per la pronunzia del nostro z, o t, o s, di quella che si possa trovare fra la conformazione di organi nella pronunzia del d, e l'altra nella pronunzia del t: le quali però nessuno dubita [712]che non sieno lettere diverse, benchè la lingua e i denti le producano ambedue, con leggerissimo e quasi insensibile divario di collocazione.
Così che dalla piccola differenza di collocazione non si può dedurre che due o più lettere sieno le stesse, perchè basta un nulla a diversificarle, come se ne potrebbero addurre altri esempi.
Del resto dico lo stesso del thau ebraico, e del th inglese.
(3.
Marzo 1821.)
Non vale il dire che i piaceri, i beni, le felicità di questo mondo, sono tutti inganni.
Che resta levati via questi inganni? E chi per le sue sventure manca di questi benchè ingannosi piaceri e beni, che altro gode o spera quaggiù? In somma l'infelice è veramente e positivamente infelice; quando anche il suo male non consista che in assenza di beni; laddove è pur troppo vero che non si dà vera nè soda felicità, e che l'uomo felice, non è veramente tale.
(3.
Marzo 1821.)
Alla p.370.
Ma osservate che spessissime volte questa impazienza pregiudica al fine.
Perchè tu, volendo veder l'esito in qualunque [713]modo, per liberarti dal timore di non ottenere il tuo fine, perdi quello che avresti conseguito se non avessi temuto, e se quindi ti fossi diportato più quietamente, con meno confusione ec.
Insomma avessi sostenuto di aspettare che la cosa andasse come doveva, e nel tempo conveniente ec.
Insomma spessissimo nei negozi dubbi, ancorchè non di somma importanza, affrettando l'esito, non tanto per ismania di conseguire, quanto per impazienza di dubitare, perdiamo il nostro intento: e questo ci accade anche nelle menome e giornaliere e materiali operazioni della vita.
Notate quelle parole non tanto per ismania ec.
nelle quali consiste la novità e proprietà di questo pensiero, perchè il detto effetto dell'impazienza è comunemente notato, ma si attribuisce all'impazienza di conseguire.
(3.
Marzo 1821.)
[714]Spesse volte il troppo o l'eccesso è padre del nulla.
Avvertono anche i dialettici che quello che prova troppo non prova niente.
Ma questa proprietà dell'eccesso si può notare ordinariamente nella vita.
L'eccesso delle sensazioni o la soprabbondanza loro, si converte in insensibilità.
Ella produce l'indolenza e l'inazione, anzi l'abito ancora dell'inattività negl'individui e ne' popoli; e vedi in questo proposito quello che ho notato con Mad.
di Staël, Floro ec.
p.620 fine - 625 principio.
Il poeta nel colmo dell'entusiasmo della passione ec.
non è poeta, cioè non è in grado di poetare.
All'aspetto della natura, mentre tutta l'anima sua è occupata dall'immagine dell'infinito, mentre le idee segli affollano al pensiero, egli non è capace di distinguere, di scegliere, di afferrarne veruna: in somma non è capace di nulla, nè di cavare nessun frutto dalle sue sensazioni: dico nessun frutto o di considerazione e di massima, ovvero di uso e di scrittura; di teoria nè di pratica.
L'infinito non si [715]può esprimere se non quando non si sente: bensì dopo sentito: e quando i sommi poeti scrivevano quelle cose che ci destano le ammirabili sensazioni dell'infinito, l'animo loro non era occupato da veruna sensazione infinita; e dipingendo l'infinito non lo sentiva.
I sommi dolori corporali non si sentono, perchè o fanno svenire, o uccidono.
Il sommo dolore non si sente, cioè finattanto ch'egli è sommo; ma la sua proprietà, è di render l'uomo attonito, confondergli, sommergergli, oscurargli l'animo in guisa, ch'egli non conosce nè se stesso, nè la passione che prova, nè l'oggetto di essa; rimane immobile, e senza azione esteriore, nè si può dire, interiore.
E perciò i sommi dolori non si sentono nei primi momenti, nè tutti interi, ma nel successo dello spazio e de' momenti, e per parti, come ho detto p.366-368.
Anzi non solo il sommo dolore, ma ogni somma passione, ed anche ogni sensazione, ancorchè non somma, tuttavia tanto straordinaria, e, per qualunque verso, grande, che l'animo nostro non sia capace di contenerla [716]tutta intera simultaneamente.
Così sarebbe anche la somma gioia.
Ma bisogna osservare che di rado avviene che la gioia ancorchè grande e straordinaria, ci renda attoniti, e quasi senza senso, e che la sua grandezza ne renda impossibile il pieno e distinto sentimento.
Questo ci accadeva forse e senza forse da fanciulli, e sarà pure senza fallo avvenuto negli uomini primitivi; ma oggidì per poco che l'uomo abbia di esperienza e di cognizione, è ben difficile che sia suscettibile di una gioia, la quale sia tanta da non poter essere contenuta pienamente nell'animo suo, e da ridondare.
Bensì egli è suscettibilissimo (almeno il più degli uomini) di un tal dolore.
Ma la somma gioia dell'uomo di oggidì, è sempre o certo ordinariamente tale che l'animo n'è capacissimo; e questo, non ostante ch'egli vi debba necessariamente esser poco assuefatto, laddove quanto al dolore o a qualunque passione dispiacevole, non è così.
Ma il fatto [717]sta che il male, soggetto del dolore e delle passioni dispiacevoli, è reale; il bene, soggetto della gioia, non è altro che immaginario: e perchè la gioia fosse tale da superare la capacità dell'animo nostro, si richiederebbe, come ne' fanciulli e ne' primitivi, una forza e freschezza d'immaginazione persuasiva, e d'illusione, che non è più compatibile colla vita di oggidì.
(4.
Marzo 1821.)
Porzio l.
cit.
(p.702.) p.126.
E se egli ec.
a cui fa dubbio che ec.
non l'abbia ad osservare? Leggi a cui fia.
Ivi, p.134.
ed i Principi allora affermano di aver perdonato i falli quando han potere di castigargli; ma se sopraffatti da' pericoli maggiori differiscono la vendetta, non perciò la cancellano.
Non c'è senso.
Leggi quando non han potere.
(4.
Marzo 1821.).
Nunquam minus solus quam cum solus.
Ottimamente vero: ma (contro quello che si usa [718]credere e dire) perchè oggidì colui che si trova in compagnia degli uomini, si trova in compagnia del vero (cioè del nulla, e quindi non c'è maggior solitudine); chi lontano dagli uomini, in compagnia del falso.
Laonde questo detto sebbene antico e riferito al sapiente, conviene molto più a' nostri secoli, e non al sapiente solo, ma alla universalità degli uomini, e massime agli sventurati.
(4.
Marzo 1821.)
L'uomo d'immaginazione di sentimento e di entusiasmo, privo della bellezza del corpo, è verso la natura appresso a poco quello ch'è verso l'amata un amante ardentissimo e sincerissimo, non corrisposto nell'amore.
Egli si slancia fervidamente verso la natura, ne sente profondissimamente tutta la forza, tutto l'incanto, tutte le attrattive, tutta la bellezza, l'ama con ogni trasporto, ma quasi che egli non fosse punto corrisposto, sente ch'egli non è partecipe di questo bello che ama ed ammira, si vede fuor della sfera della bellezza, come l'amante [719]escluso dal cuore, dalle tenerezze, dalle compagnie dell'amata.
Nella considerazione e nel sentimento della natura e del bello, il ritorno sopra se stesso gli è sempre penoso.
Egli sente subito e continuamente che quel bello, quella cosa ch'egli ammira ed ama e sente, non gli appartiene.
Egli prova quello stesso dolore che si prova nel considerare o nel vedere l'amata nelle braccia di un altro, o innamorata di un altro, e del tutto noncurante di voi.
Egli sente quasi che il bello e la natura non è fatta per lui, ma per altri (e questi, cosa molto più acerba a considerare, meno degni di lui, anzi indegnissimi del godimento del bello e della natura, incapaci di sentirla e di conoscerla ec.): e prova quello stesso disgusto e finissimo dolore di un povero affamato, che vede altri cibarsi dilicatamente, largamente, e saporitamente, senza speranza nessuna di poter mai gustare altrettanto.
Egli insomma [720]si vede e conosce escluso senza speranza, e non partecipe dei favori di quella divinità che non solamente, ma gli è anzi così presente così vicina, ch'egli la sente come dentro se stesso, e vi s'immedesima, dico la bellezza astratta, e la natura.
(5.
Marzo 1821.)
Oggidì i viaggi più curiosi e più interessanti che si possono fare in Europa cioè nel paese incivilito, sono quelli de' paesi meno inciviliti, cioè la Svizzera, la Spagna e simili, che tuttavia conservano qualche natura e proprietà.
Le descrizioni de' costumi, de' caratteri, delle opinioni, delle usanze di questi paesi hanno sempre della varietà, della singolarità, della importanza, della curiosità.
Quelle degli altri paesi Europei (salvo nelle usanze, costumi, opinioni popolari, come ho detto in altro pensiero p.147.
perchè il popolo è sempre più tenace della natura) i quali non hanno oramai proprietà, cioè carattere proprio, si rassomigliano tutte fra loro, e col carattere de' costumi, [721]opinioni ec.
di quella tal nazione, alla quale quelle altre si descrivono, così che pochissimo possono aver di curioso, eccetto nelle minute particolarità di usanze sociali, ec.
nelle quali l'incivilimento e il commercio universale, non è per anche arrivato ad agguagliare interamente il mondo.
Ma in grosso, e nella sostanza, e nelle cose principali, e per natura loro, non per capriccio, importanti, possiamo oramai dire, che di queste tali nazioni, conosciuta una, son conosciute tutte.
(5.
Marzo 1820.).
Dovunque l'arte tiene la principal parte in luogo della natura, manca la varietà, sebbene sottentri una sterile curiosità.
P.e.
gli Stati uniti si diversificano molto dal governo, costumi ec.
degli altri paesi civili, ma quella è una differenza d'arte, non di natura, è parto della ragione, della filosofia del sapere, è cosa artifiziale, non naturale.
[722]Quindi la curiosità che ne deriva, è una curiosità secca, e quella varietà, è quasi falsa, ascitizia, non propria delle cose, non sostanziale, non inerente alla nazione, e alla natura di lei, e per così dire, una varietà monotona.
Al contrario di quella curiosità e varietà che deriva dalla considerazione della Svizzera, della Spagna ec.
curiosità e varietà, naturale, propria, innata.
V.
il pensiero precedente.
(5.
Marzo 1821.)
Lo sventurato non bello, e maggiormente se vecchio, potrà esser compatito, ma difficilmente pianto.
Così nelle tragedie, ne' poemi, ne' romanzi ec.
come nella vita.
(6.
Marzo 1821.)
Porzio l.
cit.
(p.702.) p.145.
principio.
ciascun vedeva che quella prima dell'altre gli anderebbe ad oppugnare.
Leggi egli anderebbe, altrimenti non regge il senso.
Ivi p.155.
Che se nell'altre rocche [723]de' Baroni fusse stata la metà di provvisione ec.
Manca una qualche parola, come di detta, di questa, di tale provvisione, conforme apparisce dagli antecedenti, dove riferisce le provvisioni che si trovarono nel castello di Sarno, quando fu avuto dal Re.
(6.
Marzo 1821.)
Post ignem aetheria domo
Subductum, macies, et nova febrium
Terris incubuit cohors,
Semotique prius tarda necessitas
Leti corripuit gradum.
Orazio, od.3.
v.29-33.
l.
I.
Questo effetto, attribuendolo Orazio favolosamente alla violazione delle leggi degli Dei, ed alla temerità degli uomini verso il cielo, viene ad attribuirlo nel vero significato, alla violazione e corruzione delle leggi naturali e della natura; verissima cagione dell'incremento che l'imperio della morte ha guadagnato sopra gli uomini.
(7.
Marzo 1821.)
Alla p.526.
Florum, perpetuum Horatii imitatorem observat Rosellus Baumon in Massoni Hist.
Critica Rei literar.
Tom.14.
p.222.
Fabricio, B.
Lat.
l.2.
c.23.
§.2.
t.1.
p.626.
[724]Alla p.509.
Da questa osservazione deducete che Floro, stampato la prima volta in 4.
a Parigi in Sorbonae domo, senza nota di anno o di luogo, ma circa il 1470.
(Fabric.) era uno de' non molti classici conosciuti e letti al tempo del Petrarca.
(7.
Marzo 1821.)
L'uomo è così inclinato alla lode, che anche in quelle cose dov'egli non ha mai nè cercato nè curato di esser lodevole, e ch'egli stima di nessun pregio, ancora in queste l'esser lodato lo compiace.
Anzi spesso lo indurrà a cercar di rialzare presso se stesso il pregio e l'opinione di quella tal cosa minima nella quale è stato lodato; e a persuadersi che essa, o l'essere lodevole in essa, non sia del tutto minimo nell'opinione altrui.
(7.
Marzo 1821.)
I poeti, oratori, storici, scrittori in somma di bella letteratura, oggidì in Italia, non manifestano mai, si può dire, la menoma forza d'animo (vires animi, e non intendo dire la magnanimità), ancorchè il soggetto, o l'occasione ec.
contenga [725]grandissima forza, sia per [se] stesso fortissimo, abbia gran vita, grande sprone.
Ma tutte le opere letterarie italiane d'oggidì sono inanimate, esangui, senza moto, senza calore, senza vita (se non altrui).
Il più che si possa trovar di vita in qualcuno, come in qualche poeta, è un poco d'immaginazione.
Tale è il pregio del Monti, e dopo il Monti, ma in assai minor grado, dell'Arici.
Ma oltre che questo pregio è rarissimo nei nostri odierni o poeti o scrittori, oltre che in questi rarissimi è anche scarso (perchè il più de' loro pregi appartengono allo stile), osservo inoltre che non è veramente spontaneo nè di vena, e soggiungo che non solamente non è, ma non può essere, se non in qualche singolarissima indole.
La forza creatrice dell'animo appartenente alla immaginazione, è esclusivamente propria degli antichi.
Dopo che l'uomo è divenuto stabilmente infelice, e, che peggio è, l'ha conosciuto, [726]e così ha realizzata e confermata la sua infelicità; inoltre dopo ch'egli ha conosciuto se stesso e le cose, tanto più addentro che non doveva, e dopo che il mondo è divenuto filosofo, l'immaginazione veramente forte, verde, feconda, creatrice, fruttuosa, non è più propria se non de' fanciulli, o al più de' poco esperti e poco istruiti, che son fuori del nostro caso.
L'animo del poeta o scrittore ancorchè nato pieno di entusiasmo di genio e di fantasia, non si piega più alla creazaone delle immagini, se non di mala voglia, e contro la sottentrata o vogliamo dire la rinnuovata natura sua.
Quando vi si pieghi, vi si piega ex instituto, ????????, per forza di volontà, non d'inclinazione, per forza estrinseca alla facoltà immaginativa, e non intima sua.
La forza di un tal animo ogni volta che si abbandona all'entusiasmo (il che non è più così frequente) si rivolge all'affetto, [727]al sentimento, alla malinconia, al dolore.
Un Omero, un Ariosto non sono per li nostri tempi, nè, credo, per gli avvenire.
Quindi molto e giudiziosamente e naturalmente le altre nazioni hanno rivolto il nervo e il forte e il principale della poesia dalla immaginazione all'affetto, cangiamento necessario, e derivante per se stesso dal cangiamento dell'uomo.
Così accadde proporzionatamente anche ai latini, eccetto Ovidio.
E anche l'Italia ne' principii della sua poesia, cioè quando ebbe veri poeti, Dante, il Petrarca, il Tasso, (eccetto l'Ariosto) sentì e seguì questo cangiamento, anzi ne diede l'esempio alle altre nazioni.
Perchè dunque ora torna indietro? Vorrei che anche i tempi ritornassero indietro.
Ma la nostra infelicità, e la cognizione che abbiamo, e non dovremmo aver, delle cose, in vece di scemare, si accresce.
Che smania è questa dunque di voler fare quello stesso che facevano i nostri avoli, quando noi siamo così mutati? di ripugnare alla natura delle cose? di voler fingere una [728]facoltà che non abbiamo, o abbiamo perduta, cioè l'andamento delle cose ce l'ha renduta infruttuosa e sterile, e inabile a creare? di voler essere Omeri, in tanta diversità di tempi? Facciamo dunque quello che si faceva ai tempi di Omero, viviamo in quello stesso modo, ignoriamo quello che allora s'ignorava, proviamoci a quelle fatiche a quegli esercizi corporali che si usavano in quei tempi.
E se tutto questo ci è impossibile, impariamo che insieme colla vita e col corpo, è cambiato anche l'animo, e che la mutazione di questo è un effetto necessario, perpetuo, e immancabile della mutazione di quelli.
Diranno che gl'italiani sono per clima e natura più immaginosi delle altre nazioni, e che perciò la facoltà creatrice della immaginativa, ancorchè quasi spenta negli altri, vive in loro.
Vorrei che così fosse, come sento in me dalla fanciullezza e dalla prima giovanezza in poi, e vedo negli [729]altri, anche ne' poeti più riputati, che questo non è vero.
Se anche gli stranieri l'affermano, o s'ingannano, come in cose lontane, e come il lontano suol parere bellissimo o notabilissimo; ovvero intendono solamente di parlare in proporzione degli altri popoli, non mai nè assolutamente, nè in comparazione degli antichi, perchè anche l'immaginativa italiana, in vigore dell'andamento universale delle cose umane, è illanguidita e spossata in maniera, che per quel che spetta al creare, non ha quasi più se non quella disposizione che gli deriva dalla volontà e dal comando dell'uomo, non da sua propria ed intrinseca virtù, ed inclinazione.
Ma la vera causa per cui gl'italiani, a differenza di tutti gli altri, non conoscono oggidì altra poesia che la immaginativa, e della sentimentale sono affatto digiuni, ve la dirò io.
In quest'ozio, in [730]questa noia, in questa frivolezza di occupazioni, o piuttosto dissipazioni, senza scopo, senza vita, in somma senza nè patria nè guerre nè carriere civili o letterarie nè altro oggetto di azioni o di pensieri costanti, l'italiano non è capace di sentir nulla profondamente, nè difatto egli sente nulla.
Tutto il mondo essendo filosofo, anche l'italiano ha tanto di filosofia che basta e per farlo sempre più infelice, e per ispegnergli o vero intorpidirgli l'immaginazione, di cui la natura l'avrebbe dotato; ma non quanta si richiede a conoscere intimamente le passioni, gli affetti, il cuore umano, e dipingerlo al vivo; oltre che quando anche potesse conoscergli, non saprebbe dipingergli, giacchè bisogna convenire che all'italiano d'oggidì manca la massima parte di quello studio ch'è duopo per iscriver cose, come son queste, difficilissime.
Sicchè l'italiano, ancorchè si metta a scrivere col cuore profondamente commosso, o sullo stesso incominciare non trova più nulla, e non sapendo che si dire, ricorre ai generali; [731]ovvero volendo esprimere proprio quello ch'ei sente, non sa farlo, e scrive come un fanciullo.
Per tutte queste ragioni dunque l'italiano non essendo oggidì capace di poesia affettuosa, ricorre e si dedica interamente alla immaginosa, non per natura o per vocazione, ma per volontà ed elezione.
E appunto perciò o non vi riesce punto, o solamente coll'imitare, e tener dietro agli antichi, come un fanciullo alla mamma; nel modo che (sia detto fra noi) ha fatto il Monti: il quale non è poeta, ma uno squisitissimo traduttore, se ruba ai latini o greci; se agl'italiani, come a Dante, uno avvedutissimo e finissimo rimodernatore del vecchio stile e della vecchia lingua.
Ma gl'italiani contuttociò, e contro la natura de' tempi e della poesia, si gittano ad un genere che oggi non può essere se non o forzato o imitativo, e lo fanno perchè questo riesce loro molto più facile del sentimentale.
[732]1.
nessuno dubita che l'imitare a certi ingegni massimamente, che hanno pochissima o forza, o abitudine ed esercizio di forza, e d'impazienza e di calore ec.
non sia molto più facile che il creare.
E gl'italiani d'oggidì, poetando, appresso a poco, sempre imitano, anche quando non trascrivono, come spesso fanno, e come fa l'Arici, che quello si chiama copiare.
2.
Come è più facile un racconto che un dramma, perchè nel dramma ogni errore d'imitazione è palese, e si richiede una molto più esatta corrispondenza alla natura ed al vero; così agl'italiani d'oggidì, persone, come ho detto, che non sentono, e non hanno bastante cognizione del cuore umano, è molto più facile il genere immaginativo, che alla fine è cosa arbitraria, e dove si può anche abbagliare, come ha fatto l'Ariosto, di quello che il sentimentale dove bisogna seguire esattamente e passo passo la natura ed il vero, e dove il cuor di ciascuno, è prontissimo [733]e acutissimo e rigoroso giudice della verità o falsità, della proprietà o improprietà, della naturalezza, o forzatura, della efficacia o languidezza ec.
delle invenzioni, delle situazioni de' sentimenti, delle sentenze, delle espressioni ec.
E la facoltà immaginativa si può in qualche modo fingere, o forzare, o almeno comandare: la sensitiva non mai.
E perciò non è maraviglia se quei moderni italiani i quali, nelle circostanze che ho esposte di sopra, hanno pur voluto pubblicare opere sentimentali, sono stati fischiati, o degni di esserlo.
Tanto più che la imitazione, (e questi tali si son dati tutti e totalmente alla imitazione degli stranieri) se disdice all'immaginativo, molto più al sentimentale, per la stessa ragione per cui il sentimento non si può nè fingere nè proccurare, almeno forzatamente.
E così tutti i sensati italiani e forestieri, si accordano in dire che l'Italia manca del genere sentimentale.
[734]Ma non osservano che con ciò vengono a dire e confessare che l'odierna Italia manca di letteratura, certo di poesia.
Quasi che il detto genere fosse proprio di questa o quella nazione, e non del tempo.
Quasi che oggidì la condizione generale degli uomini ammettesse altro genere di poesia, e che il mancare di questo genere non fosse lo stesso che mancar di poesia.
La poesia sentimentale è unicamente ed esclusivamente propria di questo secolo, come la vera e semplice (voglio dire non mista) poesia immaginativa fu unicamente ed esclusivamente propria de' secoli Omerici, o simili a quelli in altre nazioni.
Dal che si può ben concludere che la poesia non è quasi propria de' nostri tempi, e non farsi maraviglia, s'ella ora langue come vediamo, e se è così raro non dico un vero poeta, ma una vera poesia.
Giacchè il sentimentale è fondato e sgorga dalla filosofia, dall'esperienza, dalla cognizione [735]dell'uomo e delle cose, in somma dal vero, laddove era della primitiva essenza della poesia l'essere ispirata dal falso.
E considerando la poesia in quel senso nel quale da prima si usurpava, appena si può dire che la sentimentale sia poesia, ma piuttosto una filosofia, un'eloquenza, se non quanto è più splendida, più ornata della filosofia ed eloquenza della prosa.
Può anche esser più sublime e più bella, ma non per altro mezzo che d'illusioni, alle quali non è dubbio che anche in questo genere di poesia si potrebbe molto concedere, e più di quello che facciano gli stranieri.
(8.
Marzo 1821.)
La lingua greca da' suoi principii fino alla fine, non lasciò mai di arricchirsi, e acquistar sempre, massimamente nuovi vocaboli.
Non è quasi scrittor greco di qualsivoglia secolo, che venga nuovamente in luce, il quale non possa servire ad impinguare il vocabolario greco di qualche novità.
[736]Non è secolo della buona lingua greca (la quale si stende molto innanzi, cioè almeno a Costantino, giacchè credo che S.
Basilio e S.
Crisostomo si citino nel Glossario sebbene anche nel Vocabolario) ne' cui scrittori la lingua non si trovi arricchita di nuove voci e anche modi, che non si osservano ne' più antichi.
E questi incrementi erano tutti della propria sostanza e del proprio fondo, giacchè la lingua greca fu oltremodo schiva d'ogni cosa forestiera, ma trovava nelle sue radici e nella immensa facilità e copia de' suoi composti, la facoltà di dir tutto quello che bisognava, e di conformare la novità delle parole alla novità delle cose, senza ricorrere ad aiuti stranieri.
Insomma il tesoro e la natura, e non solamente ricchezza, ma fertilità naturale e propria della lingua greca, era tale da bastare da per se sola, a tutte le novità che occorresse di esprimere, come un paese così fertile che fosse sufficiente ad alimentare [737]qualunque numero di nuovi abitatori o di forestieri.
E questo si può vedere manifestamente anche per quello che interviene oggidì.
Giacchè in tanta diversità di tempi e di costumi e di opinioni, in tanta novità di conoscenze e di ritrovati, e fino d'intere scienze e dottrine, qualunque novità massimamente scientifica occorra di significare e denominare, si ha ricorso alla lingua greca.
Nessuna lingua viva, ancorchè pure le lingue vive sieno contemporanee alle nostre cognizioni e scoperte, si stima in grado di bastare a questo effetto, e s'invoca una lingua morta e antichissima per servire alla significazione ed enunziazione di quelle cose a cui le lingue viventi e fiorenti non arrivano.
La rivoluzione francese, richiedendosi alla novità delle cose, la novità delle parole, ha popolato il vocabolario francese ed anche europeo di nuove voci greche.
La fisica, la Chimica, la storia naturale, le matematiche, [738]l'arte militare, la nautica, la medicina, la metafisica, la politica, ogni sorta di scienze o discipline, ancorchè rinnovellate e diversissime da quelle che si usavano o conoscevano dagli antichi greci, ancorchè nuove di pianta, hanno trovato in quella lingua il capitale sufficiente ai bisogni delle loro nomenclature.
Ogni scienza o disciplina nuova, comincia subito dal trarre il suo nome dal greco.
E questa lingua ancorchè da tanti secoli spenta, resta sempre inesauribile, e provvede a tutto, e si può dire che prima mancherà all'uomo la facoltà di sapere di conoscere e di scoprire, prima saranno esaurite tutte le fonti dello scibile, di quello che manchi alla lingua greca la facoltà di esprimerlo, e sia inaridita la fonte delle sue denominazioni e parole.
Il qual uso, ancorchè io lo biasimi e condanni per le ragioni che ho dette altrove, non è però che non renda evidente e palpabile l'onnipotenza immortale di quella lingua.
[739]Così la lingua greca che non avea nè Accademie nè Vocabolari, senza perder mai la facoltà di arricchirsi, e di far fruttare il suo terreno ubertosissimo, costantemente però e tenacemente nemica delle merci straniere (o per carattere nazionale, o per la stessa ricchezza sua che bastava a tutto) si mantenne sempre come fertile e prolifica e viva e vegeta e copiosa, così pura e sincera, fino ai tempi che Costantino trasportando quasi l'Italia nella Grecia, e l'occidente in oriente, con quella infinita e subitanea novità di costumi, di abitatori, di corte, ec.
introducendo e stabilendo, ed erigendo per così dire la lingua latina nel bel mezzo delle provincie greche e della lingua greca, forzò quell'idioma per sì lungo spazio indomito e vittorioso di tutti gli assalti forestieri, e illeso fra tutti i pericoli di barbarie che aveva incontrati, a ricevere voci straniere, e mescolarle colle proprie (non per bisogno, ma per uso e [740]commercio quotidiano, e presenza di gente straniera, e questa numerosa, e padrona) e finalmente imbarbarire suo malgrado e a viva forza.
V.
p.981.
capoverso 1.
La qual mescolanza e quasi fusione di usi costumi opinioni linguaggi occidentali e orientali, sebbene il mondo inclinava già fortemente alla barbarie, anzi vi aveva già messo il piede, tuttavia credo che contribuisse ancor ella ad imbarbarire scambievolmente, le une colle altre nazioni, inducendole e forzandole a guastare, o dismettere i loro primitivi istituti e costumi, assai più di quello che avessero fatto per l'addietro, il quale allontanamento e declinazione dal primitivo, è l'ordinaria e certa sorgente di barbarie e di corruzione fra gli uomini.
Della lingua latina non si può dire la stessa cosa che ho detto della greca.
E tuttavia mi par di vedere che la primitiva proprietà, natura, essenza ed organizzazione della lingua latina, fosse ottimamente ordinata e disposta a produrre lo stesso effetto.
Ma questo [741]non seguì per le ragioni che son per dire.
Non andrò ora cercando se le radici latine (dico primitive e pure latine) sieno così copiose come le greche.
Il commercio e la diffusione dei greci, il molto maggior tempo ch'essi durarono e con essi i loro studi, e la loro lingua, li pose in grado di accrescer le loro cognizioni, e quindi le loro radici, molto più che i latini, popolo ristretto in brevi limiti finattanto che col resto del mondo non conquistò anche la Grecia: ma allora i progressi delle sue cognizioni, del suo dominio, del suo commercio, non giovarono a quello delle sue radici; certamente questo non corrispose a quell'altro, per la ragione che dirò poi.
V.
in questo proposito Senofonte ????????????????????????????????.
Lasciando le radici, osserverò che la stessa immensa facoltà dei composti che si ammira, e rende più che altra cosa inesauribile la lingua greca, l'aveva ancora ne' suoi principii la lingua latina, e l'ebbe per lungo tempo, cioè per lo meno sino a Cicerone il quale principalmente [742]fissò, ordinò, stabilì, compose, formò e determinò la lingua latina.
Ponete mente a ciascuna delle antiche e primitive radici latine, e vedrete in quante maniere, con quanto piccole giunte e variazioni, sieno ridotte a significare diversissime cose per mezzo di composti, sopraccomposti, ossia decomposti, e derivati, o di metafore, nello stesso modo appunto che la lingua greca per gli stessi mezzi si rende atta a dir tutto e chiaramente e propriamente e puramente e facilissimamente.
Osservate per esempio il verbo duco o facio e consideratelo in tutti i suoi derivati o composti, e sopraccomposti, e in tutti i loro e suoi significati ed usi o propri o metaforici, ma però sempre così usitati, che benchè metaforici, son come propri.
Con ogni esame mi sono accertato che il verbo duco e il verbo facio per la copia de' composti, sopraccomposti, con preposizione e senza, derivati e loro composti, significati ed usi propri e traslati, tanto di questi che suoi, è adattattissimo a servire di esempio.
(Ludifico, carnifex, sacrificium, labefacto ed altri infiniti sono i composti del verbo facere senza preposizione nè particelle ec.
ma con altri nomi, alla greca.) E con queste considerazioni vedrete quanto la primitiva natura della lingua latina fosse disposta, a somiglianza della greca, alla onnipotenza di esprimer tutto facilmente, e tutto del suo ed a sue spese; alla pieghevolezza, trattabilità, duttilità ec.
Come questa facoltà di servirsi così bene delle sue radici, di estendersi, dilatarsi guadagnare conquistare con sì [743]poca fatica, metter così bene e a sì gran frutto il suo proprio capitale, coltivare con sì gran profitto il proprio terreno; questa facoltà dico, che nella lingua greca durò sino alla fine, come venisse così presto a mancare nella lingua latina, alla quale abbiamo veduto ch'era non meno naturale e caratteristica che alla greca, a cui poi si attribuì e si attribuisce come esclusivamente sua, verrò esponendolo e assegnandone le ragioni che mi parranno verisimili.
La lingua greca nel tempo in cui ella pigliava forma, consistenza, ordine, e stabilità (giacchè prima o dopo questo tempo la cosa non avrebbe avuto lo stesso effetto) non ebbe uno scrittore nel quale per la copia, varietà, importanza, pregio e fama singolarissima degli scritti, si riputasse che la lingua tutta fosse contenuta.
L'ebbe la lingua latina, l'ebbe appunto nel tempo che ho detto, e l'ebbe in Cicerone.
Questi per tutte le dette condizioni, per l'eminenza del suo ingegno, e lo splendore [744]delle sue gesta, del suo grado, della sua vita, e di tutta la sua fama, per aver non solo introdotta ma formata e perfezionata non solo la lingua, ma la letteratura, l'eloquenza, la filosofia latina, trasportando il tutto dalla Grecia, per essere in somma senza contrasto il primo il sommo letterato e scrittore latino in quasi tutti i generi, soprastava tanto agli altri, che la lingua latina scritta, si riputò tutta chiusa nelle sue opere, queste tennero luogo di Accademia e di Vocabolario, l'autorità e l'esempio suo presso i successori, non si limitò ad insegnare, e servir di norma e di modello, ma, come accade, a circoscrivere; la lingua si riputò giunta al suo termine; gl'incrementi di essa si stimarono già finiti; si credè giunto il colmo del suo accrescimento; si temè la novità; si ebbe dubbio e scrupolo di guastare e far degenerare in luogo di arricchire; le fonti della ricchezza della lingua si stimarono chiuse.
ec.
E così Cicerone fra gl'infiniti benefizi fatti alla sua [745]lingua, gli fece anche indirettamente per la troppa superiorità e misura della sua fama e merito, troppo soverchiante e primeggiante, questo danno di arrestarla, come arrivata già alla perfezione, e come in pericolo di degenerare se fosse passata oltre: e quindi togliergli l'ardire, la forza generativa, e produttrice, la fertilità, e inaridirla.
Nello stesso modo che avvenne alla eloquenza e letteratura latina, per lo stesso motivo, e per la stessa persona (v.
Velleio nel fine del 1mo libro).
Che siccome per la letteratura si stimò quasi giunta l'ora del riposo, tanto egli l'aveva perfezionata (v.
p.801.
fine) (cosa che non accadde mai nella Grecia, giacchè a nessuno scrittore in particolare competeva questa qualità, e la perfezione di un secolo il quale s'intreccia e addentella col seguente, non ispaventa tanto quanto quella di un solo, che in se stesso racchiude e definisce e circoscrive la perfezione) così appunto intervenne anche alla lingua, la quale similmente, [746]come già matura e perfetta, cessò di crescere e isterilì.
Questa può essere una ragione.
Quest'altra mi sembra la principale.
Da qualunque origine derivasse la lingua e la letteratura e filosofia e sapienza greca, certo è che la Grecia, se non fu l'inventrice delle sue lettere, scienze, ed arti, le ricevè informi, ed instabili, e imperfette, e indeterminate, e così ricevute, le formò, stabilì, perfezionò, determinò essa medesima, e nel suo proprio seno, e di sua propria mano ed ingegno, così che vennero la sua letteratura ed il suo sapere ad essere sue proprie, ed opera si può dir sua: quindi non ebbe bisogno di ricorrere ad altre lingue per esprimere le sue cognizioni (se non se, come tutte le lingue, nei primordi, e nelle primissime derivazioni delle sue radici, giacchè nessuna lingua è nata coll'uomo, ma derivata l'una dall'altra più o meno anticamente, finchè si arriva ad una lingua assolutamente madre e primitiva, che nessuno conosce): non ebbe dico bisogno di queste, ma formando le sue cognizioni, formò insieme la lingua; e [747]quindi pose sempre a frutto, e coltivò il suo proprio fondo, e trasse da se stessa tutto il tesoro della favella.
Ma ai latini non accadde lo stesso.
La loro letteratura, le loro arti, le loro scienze vennero dalla Grecia, e tutto in un tratto, e belle e formate.
Essi le ricevettero già ordinate, composte, determinate, provvedute intieramente del loro linguaggio, trattate da scrittori famosissimi: in somma i latini non ebbero e non fecero altra opera che traspiantare di netto le scienze, arti, lettere greche nel loro terreno.
Quindi era ben naturale che quelle discipline ch'essi non avevano formate, portassero seco anche un linguaggio non latino, perchè dovunque le discipline si formano, e ricevono ordine e corpo stabile e determinato, quivi se ne forma il linguaggio, e questo passa naturalmente alle altre nazioni insieme con esse discipline.
Non avendole dunque i latini nè create nè formate, ma ricevute quasi per manus belle e fatte, neanche ne crearono nè formarono, [748]ma riceverono parimente il linguaggio.
Lucrezio volendo trattar materie filosofiche s'era lagnato della novità delle cose e della povertà della lingua, come potremmo far noi oggidì, volendo trattare la moderna filosofia.
Cicerone, da grande e avveduto uomo, il quale benchè gelosissimo della purità della favella, conosceva che alla novità delle cose era necessaria la novità delle parole, e che queste non sarebbero 1.
intese e chiare, 2.
inaffettate e naturali, se non fossero appresso a poco quelle medesime che erano in comune e confermato uso in quelle tali discipline; fu ardito, e trattando materie si può dir greche popolò il latino di parole greche, certo di essere inteso, e di non riuscire affettato, perchè la lingua greca era divulgatissima e familiare fra' suoi, come appunto oggi la francese, e quelle parole notissime, e usitatissime anzi proprie di quelle discipline, come oggi le francesi nelle moderne materie filosofiche e simili.
E di più erano necessarie.
Così dunque la lingua latina si pose in grado di discorrer delle [749]cose, e di essere scritta, ma vi si pose per mezzi alieni e non propri.
Bisogna anche osservare che non questa o quella disciplina, ma si può dir tutte le discipline, e cognizioni umane, tutto quello che scrivendo si può trattare, anzi anche conversando urbanamente, cioè tutta la coltura tutti i soggetti regolati e ordinati, erano venuti dalla Grecia in Roma, immediatamente e interamente.
Quindi successe quel che doveva, che la lingua latina, affogata ed oppressa tutto in un tratto dalla copia delle cose nuove, disperata di poterla subito (come sarebbe bisognato) pareggiare colla novità delle parole tirate dal proprio fondo, abbandonò il suo terreno, abbracciò la suppellettile straniera di linguaggio, che trovava già pronta, e da tutti intesa ed usata: e così la facoltà generativa della lingua latina, rimase o estinta o indebolita, e si trasformò nella facoltà adottiva.
Cicerone ne aveva usato [750]da suo pari con discrezione e finissimo giudizio e gusto, non lasciando in nessun modo di coltivare il fondo della sua lingua, di accrescerla, e di cavarne quanto era possibile in quella strettezza, in quella tanta copia di nuove cose, accompagnate da parole straniere già divulgate ed usitate.
Ma dopo Cicerone si passarono i limiti: parte perch'essendo (com'è oggi relativamente al francese) molto più facile il tirar dalla lingua greca già ben provveduta di tutto, e a tutti nota, le parole e modi occorrenti, di quello che dalla latina che non le dava senza studio, e profonda cognizione di tutte le sue risorse; quelli che non erano così periti della loro lingua (perizia ben rara e difficile trattandosi di una tal lingua, come della nostra oggidì: e pochi o nessuno la possedè così a fondo come Cicerone) senza troppo curare di accertarsi s'ella avesse o non avesse come esprimere convenientemente e pianamente il bisognevole, [751]davan sacco alla lingua greca che l'aveva tutto alla mano.
Parte perchè non la sola necessità, o la difficoltà dell'uso del latino in quei casi, o finalmente l'ignoranza della propria lingua, ma anche il vezzo spingeva i romani (come oggi ec.) ad usare le parole e modi greci in iscambio delle parole e modi latini, e mescolarli insieme, come che quelli dessero grazia e spirito alla favella gentile, e in somma ci entrò di mezzo oltre la letteratura e la filosofia, anche la moda.
Orazio già avea dato poco buon esempio.
Uomo in ogni cosa libertino e damerino e cortigiano, in somma tutto l'opposto del carattere Romano, e nelle opere tanto seguace della sapienza fra' cortigiani, quanto Federigo II tra i re.
Non è maraviglia se la lingua romana gli parve inferiore alla sua propria eleganza e galanteria.
Sono noti e famosi quei versi della poetica, dov'egli difende e ragiona su questo suo costume.
Egli però come uomo di basso ma sottile ingegno, se nocque coll'esempio, non pregiudicò grandemente colla pratica; anzi io non voglio contendere s'egli, quanto a se, giovasse piuttosto o pregiudicasse alla sua lingua, perchè i suoi ardimenti paiono a tutti, e li credo anch'io, se non altro, in massima parte, felicissimi; ma poco [752]tempo dopo la sua morte, cioè al tempo di Seneca ec.
per ambedue le dette ragioni la cosa era ita tant'oltre che la lingua latina impoveriva dall'un canto e dall'altro imbarbariva effettivamente per grecismo come oggi l'italiana per francesismo.
Ed è curioso come tristo l'osservare che siccome la lingua latina rendè poi con usura il contraccambio di questo danno e di questa barbarie alla greca, quando già mezzo barbara le si riversò tutta, per così dire, nel seno, sotto Costantino e successori, così oggidì la lingua francese rende con eccessiva usura alla nostra quella corruttela che ne ricevè al tempo dei Medici in Francia ec.
La lingua latina fu (per poco spazio) restituita, se non all'antica indole, certo a uno splendore somigliante all'antico (insieme colla letteratura parimente corrotta) da parecchi scrittori del secolo tra Nerva e Marcaurelio, fra' quali Tacito ec.
del che non è ora luogo a parlare.
Solamente noterò per incidenza, e perchè fa a questo discorso delle lingue, un parallelo curiosissimo che si può fare tra Frontone e i presenti ristoratori della lingua italiana.
[753]Il qual Frontone, come apparisce ora dalle reliquie de' suoi scritti ultimamente scoperte, merita un posto distinto, fra i ristauratori e zelatori della purità come della letteratura così della lingua latina.
Nel qual pregio egli forse e senza forse, cred'io, è l'ultimo di tempo, che si conosca, o abbia almeno qualche distinta rinomanza.
Ma egli (colpa della nostra natura) volendo riformare il troppo libertinaggio, e castigare la viziosa novità della lingua, cadde, come appunto gran parte de' nostri, nell'eccesso contrario.
Giacchè una riforma di questa natura, deve consistere nel mondar la lingua dalle brutture, distoglierla dal cattivo cammino, e rimetterla sul buono.
Non già ricondurla a' suoi principii, e molto meno voler che di quivi non si muova.
Perchè la lingua e naturalmente e ragionevolmente cammina sempre finch'è viva, e come è assurdissimo il voler ch'ella stia ferma, contra la natura delle cose, così è pregiudizievole e p
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