[Pagina precedente]...a cetera in casa per prestarla per prezzo, e non per usarla per sonare. 4. Tornando dunque al principale proposito, dico che manifestamente si può vedere come lo latino averebbe a pochi dato lo suo beneficio, ma lo volgare servirà veramente a molti. 5. Chè la bontà de l'animo, la quale questo servigio attende, è in coloro che per malvagia disusanza del mondo hanno lasciata la litteratura a coloro che l'hanno fatta di donna meretrice; e questi nobili sono principi, baroni, cavalieri, e molt'altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari e non litterati.
6. Ancora, non sarebbe lo latino stato datore d'utile dono, che sarà lo volgare. Però che nulla cosa è utile, se non in quanto è usata, nè è la sua bontade in potenza, che non è essere perfettamente; sì come l'oro, le margarite e li altri tesori che sono sotterrati.....; però che quelli che sono a mano de l'avaro sono in più basso loco che non è la terra là dove lo tesoro è nascosto. 7. Lo dono veramente di questo comento è la sentenza de le canzoni a le quali fatto è, la qual massimamente intende inducere li uomini a scienza e a vertù, sì come si vedrà per lo pelago del loro trattato. 8. Questa sentenza non possono non avere in uso quelli ne li quali vera nobilità è seminata per lo modo che si dirà nel quarto trattato; e questi sono quasi tutti volgari, sì come sono quelli nobili che di sopra, in questo capitolo, sono nominati. 9. E non ha contradizione perchè alcuno litterato sia di quelli; chè, sì come dice il mio maestro Aristotile nel primo de l'Etica, «una rondine non fa primavera». È adunque manifesto che lo volgare darà cosa utile, e lo latino non l'averebbe data.
10. Ancora, darà lo volgare dono non dimandato, che non l'averebbe dato lo latino: però che darà se medesimo per comento, che mai non fu domandato da persona; e questo non si può dire de lo latino, che per comento e per chiose a molte scritture è già stato domandato, sì come ne' loro principii si può vedere apertamente in molte. 11. E così è manifesto che pronta liberalitade mi mosse al volgare anzi che a lo latino.
CAPITOLO X.
1. Grande vuole essere la scusa, quando a così nobile convivio per le sue vivande, a così onorevole per li suoi convitati, s'appone pane di biado e non di frumento; e vuole essere evidente ragione che partire faccia l'uomo da quello che per li altri è stato servato lungamente, sì come di comentare con latino. 2. E però vuole essere manifesta la ragione, che de le nuove cose lo fine non è certo; acciò che la esperienza non è mai avuta onde le cose usate e servate sono e nel processo e nel fine commisurate. 3. Però si mosse la Ragione a comandare che l'uomo avesse diligente riguardo ad entrare nel nuovo cammino, dicendo che 'ne lo statuire le nuove cose evidente ragione dee essere quella che partire ne faccia da quello che lungamente è usato'. 4. Non si maravigli dunque alcuno se lunga è la digressione de la mia scusa, ma, sì come necessaria, la sua lunghezza paziente sostenga. 5. La quale proseguendo, dico che - poi ch'è manifesto come per cessare disconvenevole disordinazione e come per prontezza di liberalitade io mi mossi al volgare comento e lasciai lo latino - l'ordine de la intera scusa vuole ch'io mostri come a ciò mi mossi per lo naturale amore de la propria loquela; che è la terza e l'ultima ragione che a ciò mi mosse. 6. Dico che lo naturale amore principalmente muove l'amatore a tre cose: l'una si è a magnificare l'amato; l'altra è ad esser geloso di quello; l'altra è a difendere lui, sì come ciascuno può vedere continuamente avvenire. E queste tre cose mi fecero prendere lui, cioè lo nostro volgare, lo qual naturalmente e accidentalmente amo e ho amato. 7. Mossimi prima per magnificare lui. E che in ciò io lo magnifico, per questa ragione vedere si può; avvegna che per molte condizioni di grandezze le cose si possono magnificare, cioè fare grandi, e nulla fa tanto grande quanto la grandezza de la propia bontade, la quale è madre e conservatrice de l'altre grandezze; 8. onde nulla grandezza puote avere l'uomo maggiore che quella de la virtuosa operazione, che è sua propia bontade, per la quale le grandezze de le vere dignitadi, de li veri onori, de le vere potenze, de le vere ricchezze, de li veri amici, de la vera e chiara fama, e acquistate e conservate sono: 9. e questa grandezza do io a questo amico, in quanto quello elli di bontade avea in podere e occulto, io lo fo avere in atto e palese ne la sua propria operazione, che è manifestare conceputa sentenza.
10. Mossimi secondamente per gelosia di lui. La gelosia de l'amico fa l'uomo sollicito a lunga provedenza. Onde pensando che lo desiderio d'intendere queste canzoni, a alcuno illitterato avrebbe fatto lo comento latino transmutare in volgare, e temendo che 'l volgare non fosse stato posto per alcuno che l'avesse laido fatto parere, come fece quelli che transmutò lo latino de l'Etica - ciò fu Taddeo ipocratista -, providi a ponere lui, fidandomi di me di più che d'un altro. 11. Mossimi ancora per difendere lui da molti suoi accusatori, li quali dispregiano esso e commendano li altri, massimamente quello di lingua d'oco, dicendo che è più bello e migliore quello che questo; partendose in ciò da la veritade. 12. Chè per questo comento la gran bontade del volgare di sì [si vedrà ]; però che si vedrà la sua vertù, sì com'è per esso altissimi e novissimi concetti convenevolmente, sufficientemente e acconciamente, quasi come per esso latino, manifestare; [la quale non si potea bene manifestare] ne le cose rimate, per le accidentali adornezze che quivi sono connesse, cioè la rima e lo ri[tim]o e lo numero regolato: sì come non si può bene manifestare la bellezza d'una donna, quando li adornamenti de l'azzimare e de le vestimenta la fanno più ammirare che essa medesima. 13. Onde chi vuole ben giudicare d'una donna, guardi quella quando solo sua naturale bellezza si sta con lei, da tutto accidentale adornamento discompagnata: sì come sarà questo comento, nel quale si vedrà l'agevolezza de le sue sillabe, le proprietadi de le sue co[stru]zioni e le soavi orazioni che di lui si fanno; le quali chi bene agguarderà , vedrà essere piene di dolcissima e d'amabilissima bellezza. 14. Ma però che virtuosissimo è ne la 'ntenzione mostrare lo difetto e la malizia de lo accusatore, dirò, a confusione di coloro che accusano la italica loquela, perchè a ciò fare si muovono; e di ciò farò al presente speziale capitolo, perchè più notevole sia la loro infamia.
CAPITOLO XI.
1. A perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d'Italia che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano, dico che la loro mossa viene da cinque abominevoli cagioni. 2. La prima è cechitade di discrezione; la seconda, maliziata escusazione; la terza, cupidità di vanagloria; la quarta, argomento d'invidia; la quinta e ultima, viltà d'animo, cioè pusillanimità . E ciascuna di queste retadi ha sì grande setta, che pochi sono quelli che siano da esse liberi.
3. De la prima si può così ragionare. Sì come la parte sensitiva de l'anima ha suoi occhi, con li quali apprende la differenza de le cose in quanto elle sono di fuori colorate, così la parte razionale ha suo occhio, con lo quale apprende la differenza de le cose in quanto sono ad alcuno fine ordinate: e questa è la discrezione. 4. E sì come colui che è cieco de li occhi sensibili va sempre secondo che li altri [il guidano, o] male [o] bene, così colui che è cieco del lume della discrezione sempre va nel suo giudicio secondo il grido, o diritto o falso; onde qualunque ora lo guidatore è cieco, conviene che esso e quello, anche cieco, ch'a lui s'appoggia, vegnano a mal fine. Però è scritto che «'l cieco al cieco farà guida, e così cadranno ambedue ne la fossa». 5. Questa grida è stata lungamente contro a nostro volgare, per le ragioni che di sotto si ragioneranno, appresso di questa. E li ciechi sopra notati, che sono quasi infiniti, con la mano in su la spalla a questi mentitori, sono caduti ne la fossa de la falsa oppinione, de la quale uscire non sanno. 6. De l'abito di questa luce discretiva massimamente le populari persone sono orbate; però che, occupate dal principio de la loro vita ad alcuno mestiere, dirizzano sì l'animo loro a quello per forza de la necessitate, che ad altro non intendono. 7. E però che l'abito di vertude, sì morale come intellettuale, subitamente avere non si può, ma conviene che per usanza s'acquisti, ed ellino la loro usanza pongono in alcuna arte e a discernere l'altre cose non curano, impossibile è a loro discrezione avere. 8. Per che incontra che molte volte gridano Viva la loro morte, e Muoia la loro vita, pur che alcuno cominci; e quest'è pericolosissimo difetto ne la loro cechitade. Onde Boezio giudica la populare gloria vana, perchè la vede sanza discrezione. 9. Questi sono da chiamare pecore, e non uomini; chè se una pecora si gittasse da una ripa di mille passi, tutte l'altre l'andrebbero dietro; e se una pecora per alcuna cagione al passare d'una strada salta, tutte l'altre saltano, eziandio nulla veggendo da saltare. 10. E io ne vidi già molte in uno pozzo saltare per una che dentro vi saltò, forse credendo saltare uno muro, non ostante che 'l pastore, piangendo e gridando, con le braccia e col petto dinanzi a esse si parava.
11. La seconda setta contra nostro volgare si fa per una maliziata scusa. Molti sono che amano più d'essere tenuti maestri che d'essere, e per fuggir lo contrario, cioè di non esser tenuti, sempre danno colpa a la materia de l'arte apparecchiata, o vero a lo strumento; sì come lo mal fabbro biasima lo ferro appresentato a lui, e lo malo citarista biasima la cetera, credendo dare la colpa del mal coltello e del mal sonare al ferro e alla cetera, e levarla a sè. 12. Così sono alquanti, e non pochi, che vogliono che l'uomo li tegna dicitori; e per scusarsi dal non dire o dal dire male accusano e incolpano la materia, cioè lo volgare proprio, e commendano l'altro lo quale non è loro richesto di fabbricare. 13. E chi vuole vedere come questo ferro è da biasimare, guardi che opere ne fanno li buoni artefici, e conoscerà la malizia di costoro che, biasimando lui, s[è] credono scusare. 14. Contra questi cotali grida Tullio nel principio d'un suo libro che si chiama Libro di Fine de' Beni, però che al suo tempo biasimavano lo latino romano e commendavano la gramatica greca per simiglianti cagioni che questi fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di Provenza.
15. La terza setta contra nostro volgare si fa per cupiditate di vanagloria. Sono molti che per ritrarre cose poste in altrui lingua e commendare quella, credono più essere ammirati che ritraendo quelle de la sua. E sanza dubbio non è sanza loda d'ingegno apprendere bene la lingua strana; ma biasimevole è commendare quella oltre a la verità , per farsi glorioso di tale acquisto.
16. La quarta si fa da uno argomento d'invidia. Sì come è detto di sopra, la invidia è sempre dove è alcuna paritade. Intra li uomini d'una lingua è la paritade del volgare; e perchè l'uno quella non sa usare come l'altro, nasce invidia. 17. Lo invidioso poi argomenta, non biasimando colui che dice di non saper dire, ma biasima quello che è materia de la sua opera, per torre, dispregiando l'opera da quella parte, a lui che dice onore e fama; sì come colui che biasimasse lo ferro d'una spada, non per biasimo dare al ferro, ma a tutta l'opera del maestro.
18. La quinta e ultima setta si muove da viltà d'animo. Sempre lo magnanimo si magnifica in suo cuore, e così lo pusillanimo, per contrario, sempre si tiene meno che non è. 19. E perchè magnificare e parvificare sempre hanno rispetto ad alcuna cosa per comparazione a la quale si fa lo magnanimo grande e lo pusillanimo piccolo, avviene che 'l magnanimo sempre fa minori li altri che non sono, e lo pusillanimo sempre maggiori. 20. E però che con quella misura che l'uomo misura se medesimo, misura le sue cose, che sono quasi parte di se medesimo, avviene che...
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