[Pagina precedente]... a lo maggiore. 2. Onde Tullio, nel primo de li Offici, parlando de la bellezza che in su l'onestade risplende, dice la reverenza essere di quella; e così come questa è bellezza d'onestade, così lo suo contrario è turpezza e menomanza de l'onesto, lo quale contrario inreverenza, o vero tracotanza dicere in nostro volgare si può. 3. E però esso Tullio nel medesimo luogo dice: «Mettere a negghienza di sapere quello che li altri sentono di lui, non solamente è di persona arrogante, ma di dissoluta»; che non vuole altro dire, se non che arroganza e dissoluzione è se medesimo non conoscere, ch'è principio ed è la misura d'ogni reverenza. 4. Per che io volendo, con tutta reverenza e a lo Principe e al Filosofo portando, la malizia d'alquanti de la mente levare, per fondarvi poi suso la luce de la veritade, prima che a riprovare le proposte oppinioni proceda, mostrerò come, quelle riprovando, nè contra l'imperiale maiestade nè contra lo Filosofo si ragiona inreverentemente. 5. Che se in alcuna parte di tutto questo libro inreverente mi mostrasse, non sarebbe tanto laido quanto in questo trattato; nel quale, di nobilitade trattando, me nobile e non villano deggio mostrare. E prima mostrerò me non presummere [contra l'autorità del Filosofo; poi mostrerò me non presummere] contra la maiestade imperiale.
6. Dico adunque che quando lo Filosofo dice: «Quello che pare a li più, impossibile è del tutto essere falso», non intende dicere del parere di fuori, cioè sensuale, ma di quello dentro, cioè razionale; con ciò sia cosa che 'l sensuale parere secondo la più gente, sia molte volte falsissimo, massimamente ne li sensibili comuni, là dove lo senso spesse volte è ingannato. 7. Onde sapemo che a la più gente lo sole pare di larghezza, nel diametro, d'un piede, e sì è ciò falsissimo. Chè, secondo lo cercamento e la invenzione che ha fatto l'umana ragione con l'altre sue arti, lo diametro del corpo del sole è cinque volte quanto quello de la terra, e anche una mezza volta; [onde], con ciò sia cosa che la terra per lo diametro suo sia semilia cinquecento miglia, lo diametro del sole, che a la sensuale apparenza appare di quantità d'un piede, è trentacinque milia settecento cinquanta miglia. 8. Per che manifesto è Aristotile non avere inteso de la sensuale apparenza; e però, se io intendo solo a la sensuale apparenza riprovare, non faccio contra la intenzione del Filosofo, e però nè la riverenza che a lui si dee non offendo. E che io sensuale apparenza intenda riprovare è manifesto. 9. Chè costoro, che così giudicano, non giudicano se non per quello che sentono di queste cose che la fortuna può dare e torre; che perchè veggiono fare le parentele e li alti matrimonii, li edifici mirabili, le possessioni larghe, le signorie grandi, credono quelle essere cagioni di nobilitade, anzi essa nobilitade credono quelle essere. Chè s'elli giudicassero con l'apparenza razionale, dicerebbero lo contrario, cioè la nobilitade essere cagione di questo, sì come di sotto in questo trattato si vedrà .
10. E come io, secondo che vedere si può, contra la reverenza del Filosofo non parlo ciò riprovando, così non parlo contra la reverenza de lo Imperio: e la ragione mostrare intendo. Ma però che, dinanzi da l'avversario s[e] ragiona, lo rettorico dee molta cautela usare nel suo sermone, acciò che l'avversario quindi non prenda materia di turbare la veritade, io, che al volto di tanti avversarii parlo in questo trattato, non posso [brievemente] parlare; onde, se le mie digressioni sono lunghe, nullo si maravigli. 11. Dico adunque che, a mostrare me non essere inreverente a la maiestade de lo Imperio, prima è da vedere che è 'reverenza'. Dico che reverenza non è altro che confessione di debita subiezione per manifesto segno. E veduto questo, da distinguere è intra loro 'inreverente' [e 'non reverente'. Lo inreverente] dice privazione, lo non reverente dice negazione. E però la inreverenza è disconfessare la debita subiezione, per manifesto segno, dico, e la non reverenza è negare la debita subiezione. 12. Puote l'uomo disdicere la cosa doppiamente: per uno modo puote l'uomo disdicere offendendo a la veritade, quando de la debita confessione si priva, e questo propriamente è 'disconfessare'; per un altro modo puote l'uomo disdicere non offendendo a la veritade, quando quello che non è non si confessa, e questo è proprio 'negare': sì come disdicere l'uomo sè essere del tutto mortale, è negare, propriamente parlando. 13. Per che se io niego la reverenza de lo Imperio, non sono inreverente, ma sono non reverente: che non è contro a la reverenza, con ciò sia cosa che quella non offenda; sì come lo non vivere non offende la vita, ma offende quella la morte, che è di quella privazione. Onde altro è morte e altro è non vivere; che non vivere è ne le pietre. 14. E però che morte dice privazione, che non può essere se non nel subietto de l'abito, e le pietre non sono subietto di vita, per che non 'morte', ma 'non vivere' dicere si deono; similemente io, che in questo caso a lo Imperio reverenza avere non debbo, se la disdico, inreverente non sono, ma sono non reverente, che non è tracotanza nè cosa da biasimare. 15. Ma tracotanza sarebbe l'essere reverente (se reverenza si potesse dicere), però che in maggiore e in vera [in]reverenza si cadrebbe, cioè de la natura e de la veritade, sì come di sotto si vedrà . E da questo fallo si guardò quello maestro de li filosofi, Aristotile, nel principio de l'Etica quando dice: «Se due sono li amici, e l'uno è la verità , a la verità è da consentire». 16. Veramente, perchè detto ho ch'i' sono non reverente, che è la reverenza negare, cioè negare la debita subiezione per manifesto segno, da vedere è come questo è negare e non disconfessare, cioè da vedere come, in questo caso, io non sia debitamente a la imperiale maiestà subietto. E perchè lunga conviene essere la ragione, per proprio capitolo immediatamente intendo ciò mostrare.
CAPITOLO IX.
1. A vedere come in questo caso, cioè in riprovando o in approvando l'oppinione de lo Imperadore, a lui non sono tenuto a subiezione, reducere a la mente si conviene quello che de lo imperiale officio di sopra, nel quarto capitolo di questo trattato, è ragionato, cioè che a perfezione de l'umana vita la imperiale autoritade fu trovata, e che ella è regolatrice e rettrice di tutte le nostre operazioni, giustamente; che, pertanto, oltre quanto le nostre operazioni si stendono tanto la maiestade imperiale ha giurisdizione, e fuori di quelli termini non si sciampia. 2. Ma sì come ciascuna arte e officio umano da lo imperiale è a certi termini limitato, così questo da Dio a certo termine è finito: e non è da maravigliare, chè l'officio e l'arte de la natura finito in tutte sue operazioni vedemo. Che se prendere volemo la natura universale di tutto, tanto ha giurisdizione quanto tutto lo mondo, dico lo cielo e la terra, si stende; e questo è a certo termine, sì come per lo terzo de la Fisica e per lo primo De Celo et Mundo è provato. 3. Dunque la giurisdizione de la natura universale è a certo termine finita - e per consequente la parti[culare] -; e anche di costei è limitatore colui che da nulla è limitato, cioè la prima bontade, che è Dio, che solo con la infinita capacitade infinito comprende.
4. E a vedere li termini de le nostre operazioni, è da sapere che solo quelle sono nostre operazioni che subiacciono a la ragione e a la volontade; che se in noi è l'operazione digestiva, questa non è umana, ma naturale. 5. Ed è da sapere che la nostra ragione a quattro maniere d'operazioni, diversamente da considerare, è ordinata: chè operazioni sono che ella solamente considera, e non fa nè può fare alcuna di quelle, sì come sono le cose naturali e le soprannaturali e le matematice; e operazioni che essa considera e fa nel proprio atto suo, le quali si chiamano razionali, sì come sono arti di parlare; e operazioni sono che ella considera e fa in materia di fuori di sè, sì come sono arti meccanice. 6. E queste tutte operazioni, avvegna che 'l considerare loro subiaccia a la nostra volontade, elle per loro a nostra volontade non subiacciono: chè, perchè noi volessimo che le cose gravi salissero per natura suso, e perchè noi volessimo che 'l silogismo con falsi principii conchiudesse veritade dimostrando, e perchè noi volessimo che la casa sedesse così forte pendente come diritta, non sarebbe; però che di queste operazioni non fattori propriamente, ma li trovatori semo. Altri l'ordinò e fece maggior fattore. 7. Sono anche operazioni che la nostra [ragione] considera ne l'atto de la volontade, sì come offendere e giovare, sì come star fermo e fuggire a la battaglia, sì come stare casto e lussuriare, e queste del tutto soggiacciono a la nostra volontade; e però semo detti da loro buoni e rei perch'elle sono proprie nostre del tutto, perchè, quanto la nostra volontade ottenere puote, tanto le nostre operazioni si stendono. 8. E con ciò sia cosa che in tutte queste volontarie operazioni sia equitade alcuna da conservare e iniquitade da fuggire (la quale equitade per due cagioni si può perdere, o per non sapere quale essa si sia o per non volere quella seguitare), trovata fu la Ragione scritta, e per mostrarla e per comandarla. Onde dice Augustino: «Se questa - cioè equitade - li uomini la conoscessero, e conosciuta servassero, la Ragione scritta non sarebbe mestiere»; e però è scritto nel principio del Vecchio Digesto: «La ragione scritta è arte di bene e d'equitade». 9. A questa scrivere, mostrare e comandare, è questo officiale posto di cui si parla, cioè lo Imperadore, al quale tanto quanto le nostre operazioni proprie, che dette sono, si stendono, siamo subietti; e più oltre no. 10. Per questa ragione, in ciascuna arte e in ciascuno mestiere li artefici e li discenti sono, ed esser deono, subietti al prencipe e al maestro di quelle, in quelli mestieri ed in quella arte; e fuori di quello la subiezione pere, però che pere lo principato. Sì che quasi dire si può de lo Imperadore, volendo lo suo officio figurare con una imagine, che elli sia lo cavalcatore de la umana volontade. Lo quale cavallo come vada sanza lo cavalcatore per lo campo assai è manifesto, e spezialmente ne la misera Italia, che sanza mezzo alcuno a la sua governazione è rimasa!
11. E da considerare è che quanto la cosa è più propia de l'arte o del maestro, tanto è maggiore in quella la subiezione; chè, multiplicata la cagione, multiplica l'effetto. Onde è da sapere che cose sono che sono sì pure arti, che la natura è instrumento de l'arte: sì come vogare con remo, dove l'arte fa suo instrumento de la impulsione, che è naturale moto; sì come nel trebbiare lo frumento, che l'arte fa suo instrumento del caldo, che è natural qualitade; e in queste massimamente a lo prencipe e maestro de l'arte esser si dee subietto. 12. E cose sono dove l'arte è instrumento de la natura, e queste sono meno arti; e in esse sono meno subietti li artefici a loro prencipe; sì com'è dare lo seme a la terra (qui si vuole attendere la volontà de la natura), sì come uscire è di porto (qui si vuole attendere la naturale disposizione del tempo). E però vedemo in queste cose spesse volte contenzione tra li artefici, e domandare consiglio lo maggiore al minore. 13. Altre cose sono che non sono de l'arte, e paiono avere con quella alcuna parentela, e quinci sono li uomini molte volte ingannati; e in queste li discenti a lo artefice, o vero maestro, subietti non sono, nè credere a lui sono tenuti quanto è per l'arte: sì come pescare pare aver parentela col navicare, e conoscere la vertù de l'erbe pare aver parentela con l'agricoltura; che non hanno insieme alcuna regola, con ciò sia cosa che 'l pescare sia sotto l'arte de la venagione e sotto suo comandare, e lo conoscere la vertù de l'erbe sia sotto la medicina o vero sotto più nobile dottrina.
14. Queste cose simigliantemente, che de l'altre arti sono ragionate, vedere si possono ne l'arte imperiale; chè regole sono in quella che sono pure arti, sì come sono le leggi de' matrimo...
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