[Pagina precedente]...a sanza ogni colore, e l'acqua de la pupilla similemente: altrimenti si macolerebbe la forma visibile del color del mezzo e di quello de la pupilla. 10. E però coloro che vogliono far parere le cose ne lo specchio d'alcuno colore, interpongono di quello colore tra 'l vetro e 'l piombo, sì che 'l vetro ne rimane compreso. Veramente Plato e altri flosofi dissero che 'l nostro vedere non era perchè lo visibile venisse a l'occhio, ma perchè la virtù visiva andava fuori al visibile: e questa oppinione è riprovata per falsa dal Filosofo in quello del Senso e Sensato.
11. Veduto questo modo de la vista, vedere si può leggermente che, avvegna che la stella sempre sia d'un modo chiara e lucente, e non riceva mutazione alcuna se non di movimento locale, sì come in quello De Celo et Mundo è provato, per più cagioni puote parere non chiara e non lucente. 12. Però puote parere così per lo mezzo che continuamente si transmuta. Transmutasi questo mezzo di molta luce in poca luce, sì come a la presenza del sole e a la sua assenza; e a la presenza lo mezzo, che è diafano, è tanto pieno di lume che è vincente de la stella, e però [non] pare più lucente. Transmutasi anche questo mezzo di sottile in grosso, di secco in umido, per li vapori de la terra che continuamente salgono: lo quale mezzo, così transmutato, transmuta la immagine de la stella che viene per esso, per la grossezza in oscuritade, e per l'umido e per lo secco in colore. 13. Però puote anche parere così per l'organo visivo, cioè l'occhio, lo quale per infertade e per fatica si transmuta in alcuno coloramento e in alcuna debilitade; sì come avviene molte volte che per essere la tunica de la pupilla sanguinosa molto, per alcuna corruzione d'infertade, le cose paiono quasi tutte rubicunde, e però la stella ne pare colorata. 14. E per essere lo viso debilitato, incontra in esso alcuna disgregazione di spirito, sì che le cose non paiono unite ma disgregate, quasi a guisa che fa la nostra lettera in su la carta umida: e questo è quello per che molti, quando vogliono leggere, si dilungano le scritture da li occhi, perchè la imagine loro vegna dentro più lievemente e più sottile; e in ciò più rimane la lettera discreta ne la vista. 15. E però puote anche la stella parere turbata: e io fui esperto di questo l'anno medesimo che nacque questa canzone, che per affaticare lo viso molto, a studio di leggere, in tanto debilitai li spiriti visivi che le stelle mi pareano tutte d'alcuno albore ombrate. 16. E per lunga riposanza in luoghi oscuri e freddi, e con affreddare lo corpo de l'occhio con l'acqua chiara, riuni' sì la vertù disgregata che tornai nel primo buono stato de la vista. E così appaiono molte cagioni, per le ragioni notate, per che la stella puote parere non com'ella è.
CAPITOLO X.
1. Partendomi da questa disgressione, che mestiere è stata a vedere la veritade, ritorno al proposito e dico che sì come li nostri occhi 'chiamano', cioè giudicano, la stella talora altrimenti che sia la vera sua condizione, così quella ballatetta considerò questa donna secondo l'apparenza, discordante dal vero per infertade de l'anima, che di troppo disio era passionata. 2. E ciò manifesto quando dico: chè l'anima temea, sì che fiero mi parea ciò che vedea ne la sua presenza. Dov'è da sapere che quanto l'agente più al paziente sè unisce, tanto più forte è però la passione, sì come per la sentenza del Filosofo in quello De Generatione si può comprendere; onde, quanto la cosa desiderata più appropinqua al desiderante, tanto lo desiderio è maggiore, e l'anima, più passionata, più si unisce a la parte concupiscibile e più abbandona la ragione. Sì che allora non giudica come uomo la persona, ma quasi come altro animale pur secondo l'apparenza, non discernendo la veritade. 3. E questo è quello per che lo sembiante, onesto secondo lo vero, ne pare disdegnoso e fero; e secondo questo cotale sensuale giudicio parlò quella ballatetta. E in ciò s'intende assai che questa canzone considera questa donna secondo la veritade, per la discordanza che ha con quella. 4. E non sanza cagione dico: là v'ella mi senta, e non là dov'io la senta; ma in ciò voglio dare a intendere la grande virtù che li suoi occhi aveano sopra me: chè, come s'io fosse stato [diafano], così per ogni lato mi passava lo raggio loro. E quivi si potrebbero ragioni naturali e sovrannaturali assegnare; ma basti qui tanto avere detto: altrove ragionerò più convenevolemente.
5. Poi quando dico: Così ti scusa, se ti fa mestero, impongo a la canzone come per le ragioni assegnate 'sè iscusi là dov'è mestiero', cioè là dove alcuno dubitasse di questa contrarietade; che non è altro a dire se non che qualunque dubitasse in ciò, che questa canzone da quella ballatetta si discorda, miri in questa ragione che detta è. 6. E questa cotale figura in rettorica è molto laudabile, e anco necessaria, cioè quando le parole sono a una persona e la 'ntenzione è a un'altra; però che l'ammonire è sempre laudabile e necessario, e non sempre sta convenevolemente ne la bocca di ciascuno. 7. Onde, quando lo figlio è conoscente del vizio del padre, e quando lo suddito è conoscente del vizio del segnore, e quando l'amico conosce che vergogna crescerebbe al suo amico quello ammonendo o menomerebbe suo onore, o conosce l'amico suo non paziente ma iracundo a l'ammonizione, questa figura è bellissima e utilissima, e puotesi chiamare 'dissimulazione'. 8. Ed è simigliante a l'opera di quello savio guerrero che combatte lo castello da uno lato per levare la difesa da l'altro, che non vanno ad una parte la 'ntenzione de l'aiutorio e la battaglia.
9. E impongo anche a costei che domandi parola di parlare a questa donna di lei. Dove si puote intendere che l'uomo non dee essere presuntuoso a lodare altrui, non ponendo bene prima mente s'elli è piacere de la persona laudata; perchè molte volte credendosi [a] alcuno dar loda, si dà biasimo, o per difetto de lo dicitore o per difetto di quello che ode. 10. Onde molta discrezione in ciò avere si conviene; la qual discrezione è quasi uno domandare licenzia, per lo modo ch'io dico che domandi questa canzone. E così termina tutta la litterale sentenza di questo trattato; per che l'ordine de l'opera domanda a l'allegorica esposizione omai, seguendo la veritade, procedere.
CAPITOLO XI.
1. Sì come l'ordine vuole ancora dal principio ritornando, dico che questa donna è quella donna de lo 'ntelletto che Filosofia si chiama. Ma però che naturalmente le lode danno desiderio di conoscere la persona laudata; e conoscere la cosa sia sapere quello che ella è, in sè considerata e per tutte le sue c[au]se, sì come dice lo Filosofo nel principio de la Fisica; e ciò non dimostri lo nome, avvegna che ciò significhi, sì come dice nel quarto de la Metafisica (dove si dice che la diffinizione è quella ragione che 'l nome significa), conviensi qui, prima che più oltre si proceda per le sue laude mostrare, dire che è questo che si chiama Filosofia, cioè quello che questo nome significa. 2. E poi dimostrata essa, più efficacemente si tratterà la presente allegoria. E prima dirò chi questo nome prima diede; poi procederò a la sua significanza.
3. Dico adunque che anticamente in Italia, quasi dal principio de la costituzione di Roma, che fu [sette]cento cinquanta anni [innanzi], poco dal più al meno, che 'l Salvatore venisse, secondo che scrive Paulo Orosio, nel tempo quasi che Numa Pompilio, secondo re de li Romani, vivea uno filosofo nobilissimo, che si chiamò Pittagora. E che ello fosse in quel tempo, pare che ne tocchi alcuna cosa Tito Livio ne la prima parte del suo volume incidentemente. 4. E dinanzi da costui erano chiamati li seguitatori di scienza non filosofi ma sapienti, sì come furono quelli sette savi antichissimi, che la gente ancora nomina per fama: lo primo de li quali ebbe nome Solon, lo secondo Chilon, lo terzo Periandro, lo quarto Cleobulo, lo quinto Lindio, lo sesto Biante, e lo settimo Prieneo. 5. Questo Pittagora, domandato se egli si riputava sapiente, negò a sè questo vocabulo, e disse sè essere non sapiente, ma amatore di sapienza. E quinci nacque poi, ciascuno studioso in sapienza che fosse 'amatore di sapienza' chiamato, cioè 'filosofo'; chè tanto vale in greco 'philos' com'è a dire 'amore' in latino, e quindi dicemo noi: 'philos' quasi amore, e 'soph[os]' quasi sapien[te]. Per che vedere si può che questi due vocabuli fanno questo nome di 'filosofo', che tanto vale a dire quanto 'amatore di sapienza': per che notare si puote che non d'arroganza, ma d'umilitade è vocabulo. 6. Da questo nasce lo vocabulo del suo proprio atto, Filosofia, sì come de lo amico nasce lo vocabulo del suo proprio atto, cioè Amicizia. Onde si può vedere, considerando la significanza del primo e del secondo vocabulo, che Filosofia non è altro che amistanza a sapienza, o vero a sapere; onde in alcuno modo si può dicere catuno filosofo secondo lo naturale amore che in ciascuno genera lo desiderio di sapere.
7. Ma però che l'essenziali passioni sono comuni a tutti, non si ragiona di quelle per vocabulo distinguente alcuno participante quella essenza; onde non diciamo Gianni amico di Martino, intendendo solamente la naturale amistade significare per la quale tutti a tutti semo amici, ma l'amistà sopra la naturale generata, che è propria e distinta in singulari persone. Così non si dice filosofo alcuno per lo comune amore [al sapere]. 8. Ne la 'ntenzione d'Aristotile, ne l'ottavo de l'Etica, quelli si dice amico la cui amistà non è celata a la persona amata e a cui la persona amata è anche amica, sì che la benivolenza sia da ogni parte: e questo conviene essere o per utilitade, o per diletto, o per onestade. E così, acciò che sia filosofo, conviene essere l'amore a la sapienza, che fa l'una de le parti benivolente; conviene essere lo studio e la sollicitudine, che fa l'altra parte anche benivolente: sì che familiaritade e manifestamento di benivolenza nasce tra loro. Per che sanza amore e sanza studio non si può dire filosofo, ma conviene che l'uno e l'altro sia. 9. E sì come l'amistà per diletto fatta, o per utilitade, non è vera amistà ma per accidente, sì come l'Etica ne dimostra, così la filosofia per diletto o per utilitade non è vera filosofia ma per accidente. Onde non si dee dicere vero filosofo alcuno che, per alcuno diletto, con la sapienza in alcuna sua parte sia amico; sì come sono molti che si dilettano in intendere canzoni ed istudiare in quelle, e che si dilettano studiare in Rettorica o in Musica, e l'altre scienze fuggono e abbandonano, che sono tutte membra di sapienza. 10. Nè si dee chiamare vero filosofo colui che è amico di sapienza per utilitade, sì come sono li legisti, [li] medici e quasi tutti li religiosi, che non per sapere studiano ma per acquistare moneta o dignitade; e chi desse loro quello che acquistare intendono, non sovrastarebbero a lo studio. 11. E sì come intra le spezie de l'amistà quella che per utilitade è, meno amistà si può dicere, così questi cotali meno participano del nome del filosofo che alcuna altra gente; per che, sì come l'amistà per onestade fatta è vera e perfetta e perpetua, così la filosofia è vera e perfetta che è generata per onestade solamente, sanza altro rispetto, e per bontade de l'anima amica, che è per diritto appetito e per diritta ragione. 12. Sì ch'om[ai] qui si può dire, come la vera amistà de li uomini intra sè è che ciascuno ami tutto ciascuno, che 'l vero filosofo ciascuna parte de la sua sapienza ama, e la sapienza ciascuna parte del filosofo, in quanto tutto a sè lo riduce, e nullo suo pensiero ad altre cose lascia distendere. Onde essa Sapienza dice ne li Proverbi di Salomone: «Io amo coloro che amano me». 13. E sì come la vera amistade, astratta de l'animo, solo in sè considerata, ha per subietto la conoscenza de l'operazione buona, e per forma l'appetito di quella; così la filosofia, fuori d'anima, in sè considerata, ha per subietto lo 'ntendere, e per forma uno quasi divino amore a lo 'ntelletto. E sì come de la vera amistade è cagione effici...
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