[Pagina precedente]...me, sì come omai manifestamente appare, a la quale molte volte cotale seme non perviene per male essere coltivato, e per essere disviata la sua pullulazione. 12. E similemente puote essere per molta corr[e]zione e cultura; chè là dove questo seme dal principio non cade, si puote inducere [n]el suo processo, sì che perviene a questo frutto; ed è uno modo quasi d'insetare l'altrui natura sopra diversa radice. E però nullo è che possa essere scusato; chè se da sua naturale radice uomo non ha questa sementa, ben la puote avere per via d'insetazione. Così fossero tanti quelli di fatto che s'insetassero, quanti sono quelli che da la buona radice si lasciano disviare!
13. Veramente di questi usi l'uno è più pieno di beatitudine che l'altro; sì come è lo speculativo, lo quale sanza mistura alcuna è uso de la nostra nobilissima parte, la quale, per lo radicale amore che detto è, massimamente è amabile, sì com'è lo 'ntelletto. E questa parte in questa vita perfettamente lo suo uso avere non puote - lo quale [è ved]ere [in s]è Iddio ch'è sommo intelligibile -, se non in quanto considera lui e mira lui per li suoi effetti. 14. E che noi domandiamo questa beatitudine per somma, e non altra, cioè quella de la vita attiva, n'ammaestra lo Vangelio di Marco, se bene quello volemo guardare. Dice Marco che Maria Maddalena e Maria Iacobi e Maria Salomè andaro per trovare lo Salvatore al monimento, e quello non trovaro; ma trovaro uno giovane vestito di bianco che disse loro: «Voi domandate lo Salvatore, e io vi dico che non è qui; e però non abbiate temenza, ma ite, e dite a li discepoli suoi e a Piero che elli li precederà in Galilea; e quivi lo vedrete, sì come vi disse». 15. Per queste tre donne si possono intendere le tre sette de la vita attiva, cioè li Epicurei, li Stoici e li Peripatetici, che vanno al monimento, cioè al mondo presente che è recettaculo di corruttibili cose, e domandano lo Salvatore, cioè la beatitudine, e non la truovano; ma uno giovane truovano in bianchi vestimenti, lo quale, secondo la testimonianza di Matteo e anche de li altri, era angelo di Dio. E però Matteo disse: «L'angelo di Dio discese di cielo, e vegnendo volse la pietra e sedea sopra essa. E 'l suo aspetto era come folgore, e le sue vestimenta erano come neve».
16. Questo angelo è questa nostra nobilitade che da Dio viene, come detto è, che ne la nostra ragione parla, e dice a ciascuna di queste sette, cioè a qualunque va cercando beatitudine sue ne la vita attiva, che non è qui; ma vada, e dicalo a li discepoli e a Piero, cioè a coloro che 'l vanno cercando, e a coloro che sono sviati, sì come Piero che l'avea negato, che in Galilea li precederà : cioè che la beatitudine precederà noi in Galilea, cioè ne la speculazione. 17. Galilea è tanto a dire quanto bianchezza. Bianchezza è uno colore pieno di luce corporale più che nullo altro; e così la contemplazione è più piena di luce spirituale che altra cosa che qua giù sia. E dice: 'Elli precederà '; e non dice: 'Elli sarà con voi': a dare a intendere che ne la nostra contemplazione Dio sempre precede, nè mai lui giugnere potemo qui, lo quale è nostra beatitudine somma. E dice: 'Quivi lo vedrete, sì come disse': cioè quivi avrete de la sua dolcezza, cioè de la felicitade, sì come a voi è promesso qui; cioè, sì come stabilito è che voi avere possiate. 18. E così appare che nostra beatitudine (questa felicitade di cui si parla) prima trovare potemo quasi imperfetta ne la vita attiva, cioè ne le operazioni de le morali virtudi, e poi perfetta quasi ne le operazioni de le intellettuali. Le quali due operazioni sono vie espedite e dirittissime a menare a la somma beatitudine, la quale qui non si puote avere, come appare pur per quello che detto è.
CAPITOLO XXIII.
1. Poi che dimostrata sufficientemente pare la diffinizione di nobilitade, e quella per le sue parti, come possibile è stato, è dichiarata, sì che vedere si puote omai che è lo nobile uomo, da procedere pare a la parte del testo che comincia: L'anima cui adorna esta bontate; ne la quale si mostrano li segni per li quali conoscere si puote il nobile uomo che detto è. 2. E dividesi questa parte in due: che ne la prima s'afferma che questa nobilitade luce e risplende per tutta la vita del nobile, manifestamente; ne la seconda si dimostra specificamente ne li suoi splendori, e comincia questa seconda parte: Ubidente, soave e vergognosa.
3. Intorno de la prima è da sapere che questo seme divino, di cui parlato è di sopra, ne la nostra anima incontanente germoglia, mettendo e diversificando per ciascuna potenza de l'anima, secondo la essigenza di quella. Germoglia dunque per la vegetativa, per la sensitiva e per la razionale; e dibrancasi per le vertuti di quelle tutte, dirizzando quelle tutte a le loro perfezioni, e in quelle sostenendosi sempre infino al punto che, con quella parte de la nostra anima che mai non muore, a l'altissimo e gloriosissimo seminadore al cielo ritorna. 4. E questo dice per quella prima che detta è. Poi quando comincia: Ubidente, soave e vergognosa, mostra quello per che potemo conoscere l'uomo nobile a li segni apparenti, che sono, di questa bontade divina, operazione; e partesi questa parte in quattro, secondo che per quattro etadi diversamente adopera, sì come per l'adolescenza, per la gioventute, per la senettute e per lo senio. E comincia la seconda parte: In giovinezza, temperata e forte; la terza comincia: E ne la sua senetta; la quarta comincia: Poi ne la quarta parte de la vita. In quest[o] è la sentenza di questa parte in generale. Intorno a la quale si vuole sapere che ciascuno effetto, in quanto effetto è, riceve la similitudine de la sua cagione, quanto è più possibile di ritenere. 6. Onde, con ciò sia cosa che la nostra vita, sì come detto è, ed ancora d'ogni vivente qua giù, sia causata dal cielo, e lo cielo a tutti questi cotali effetti, non per cerchio compiuto, ma per parte di quello a loro si scuopra; e così conviene che 'l suo movimento sia sopra essi come uno arco quasi, [e] tutte le [terrene] vite (e dico [terrene], sì de li [uomini] come de li altri viventi), [mon]tando e volgendo, convengono essere quasi ad imagine d'arco assimiglianti. Tornando dunque a la nostra, sola de la quale al presente s'intende, sì dico ch'ella procede a imagine di questo arco, montando e discendendo.
7. Ed è da sapere che questo arco [di giù, come l'arco] di su sarebbe eguale, se la materia de la nostra seminale complessione non impedisse la regola de la umana natura. Ma però che l'umido radicale [è] meno e più, e di migliore qualitade e [men buona], e più ha durare [in uno] che in uno altro effetto - lo qual è subietto e nutrimento del calore, che è nostra vita -, avviene che l'arco de la vita d'un uomo è di minore e di maggiore tesa che quello de l'altro. 8. E alcuna morte è violenta, o vero per accidentale infertade affrettata; ma solamente quella che naturale è chiamata dal vulgo, e che è, è quel termine del quale si dice per lo Salmista: «Ponesti termine, lo quale passare non si può». E però che lo maestro de la nostra vita Aristotile s'accorse di questo arco di che ora si dice, parve volere che la nostra vita non fosse altro che uno salire e uno scendere: però dice in quello dove tratta di Giovinezza e di Vecchiezza, che giovinezza non è altro se non accrescimento di quella. 9. Là dove sia lo punto sommo di questo arco, per quella disaguaglianza che detta è di sopra, è forte da sapere; ma ne li più io credo tra il trentesimo e quarantesimo anno, e io credo che ne li perfettamente naturati esso ne sia nel trentacinquesimo anno. 10. E muovemi questa ragione: che ottimamente naturato fue lo nostro salvatore Cristo, lo quale volle morire nel trentaquattresimo anno de la sua etade; chè non era convenevole la divinitade stare [in] cos[a] in discresc[er]e, nè da credere è ch'elli non volesse dimorare in questa nostra vita al sommo, poi che stato c'era nel basso stato de la puerizia. 11. E ciò manifesta l'ora del giorno de la sua morte, chè volle quella consimigliare con la vita sua; onde dice Luca che era quasi ora sesta quando morio, che è a dire lo colmo del die. Onde si può comprendere per quello 'quasi' che al trentacinquesimo anno di Cristo era lo colmo de la sua etade.
12. Veramente questo arco non pur per mezzo si distingue da le scritture; ma, seguendo le quattro combina[zioni] de le contrarie qualitadi che sono ne la nostra composizione, a le quali pare essere appropriata, dico a ciascuna, una parte de la nostra etade, in quattro parti si divide, e chiamansi quattro etadi. 13. La prima è Adolescenza, che s'appropria al caldo e a l'umido; la seconda si è Gioventute, che s'appropria al caldo e al secco; la terza si è Senettute, che s'appropria al freddo e al secco; la quarta si è Senio, che s'appropria al freddo e a l'umido, secondo che nel quarto de la Metaura scrive Alberto. 14. E queste parti si fanno simigliantemente ne l'anno, in primavera, in estate, in autunno e in inverno; e nel die, ciò è infino a la terza, e poi infino a la nona (lasciando la sesta, nel mezzo di questa parte, per la ragione che si discerne), e poi infino al vespero e dal vespero innanzi. E però li gentili, cioè li pagani, diceano che 'l carro del sole avea quattro cavalli: lo primo chiamavano Eoo, lo secondo Pirroi, lo terzo Eton, lo quarto Flegon, secondo che scrive Ovidio nel secondo del Metamorfoseos. 15. Intorno a le parti del giorno è brievemente da sapere che, come detto è di sopra nel sesto del terzo trattato, la Chiesa usa, ne la distinzione de le ore, [le ore] del dì temporali, che sono in ciascuno die dodici, o grandi o piccole, secondo la quantitade del sole; e però che la sesta ora, cioè lo mezzo die, è la più nobile di tutto lo die e la più virtuosa, li suoi offici appressa quivi da ogni parte, cioè da prima e di poi, quanto puote. 16. E però l'officio de la prima parte del die, cioè la terza, si dice in fine di quella; e quello de la terza parte e de la quarta si dice ne li principii. E però si dice mezza terza, prima che suoni per quella parte; e mezza nona, poi che per quella parte è sonato; e così mezzo vespero. E però sappia ciascuno che, ne la diritta nona, sempre dee sonare nel cominciamento de la settima ora del die: e questo basti a la presente digressione.
CAPITOLO XXIV.
1. Ritornando al proposito, dico che la umana vita si parte per quattro etadi. La prima si chiama Adolescenzia, cioè 'accrescimento di vita'; la seconda si chiama Gioventute, cioè 'etade che puote giovare', cioè perfezione dare, e così s'intende perfetta - chè nullo puote dare se non quello ch'elli ha -; la terza si chiama Senettute; la quarta si chiama Senio, sì come di sopra detto è.
2. De la prima nullo dubita, ma ciascuno savio s'accorda ch'ella dura in fino al venticinquesimo anno; e però che infino a quel tempo l'anima nostra intende a lo crescere e a lo abbellire del corpo, onde molte e grandi transmutazioni sono ne la persona, non puote perfettamente la razionale parte discernere. Per che la Ragione vuole che dinanzi a quella etade l'uomo non possa certe cose fare sanza curatore di perfetta etade.
3. De la seconda, la quale veramente è colmo de la nostra vita, diversamente è preso lo tempo da molti. Ma, lasciando ciò che ne scrivono li filosofi e li medici, e tornando a la ragione propria, dico che ne li più, ne li quali prendere si puote e dee ogni naturale giudicio, quella etade è venti anni. E la ragione che ciò mi dà si è che, se 'l colmo del nostro arco è ne li trentacinque, tanto quanto questa etade ha di salita tanto dee avere di scesa; e quella salita e quella scesa è quasi lo tenere de l'arco, nel quale poco di flessione si discerne. 4. Avemo dunque che la gioventute nel quarantacinquesimo anno si compie. E sì come l'adolescenzia è in venticinque anni che precede, montando, a la gioventute, così lo discendere, cioè la senettute, è [in] altrettanto tempo che succede a la gioventute; e così si termina la senettute nel settantesimo anno. 5. Ma però che l'adolescenza non comincia dal principi...
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