[Pagina precedente]...io, lo scudaio, e tutti quelli mestieri che a l'arte di cavalleria sono ordinati. 7. E però che tutte l'umane operazioni domandano uno fine, cioè quello de l'umana vita al quale l'uomo è ordinato in quanto elli è uomo, lo maestro e l'artefice che quello ne dimostra e considera, massimamente obedire e credere si dee. Questi è Aristotile: dunque esso è dignissimo di fede e d'obedienza. 8. E a vedere come Aristotile è maestro e duca de la ragione umana, in quanto intende a la sua finale operazione, si conviene sapere che questo nostro fine, che ciascuno disia naturalmente, antichissimamente fu per li savi cercato. E però che li disideratori di quello che sono in tanto numero e li appetiti sono quasi tutti singularmente diversi, avvegna che universalmente siano pur [uno], ma[lag]evole fu molto a scernere quello dove dirittamente ogni umano appetito si riposasse. 9. Furono dunque filosofi molto antichi, de li quali primo e prencipe fu Zenone, che videro e credettero questo fine de la vita umana essere solamente la rigida onestade; cioè rigidamente, sanza respetto alcuno, la verità e la giustizia seguire, di nulla mostrare dolore, di nulla mostrare allegrezza, di nulla passione avere sentore. 10. E diffiniro così questo onesto: 'quello che, sanza utilitade e sanza frutto, per sè di ragione è da laudare'. E costoro e la loro setta chiamati furono Stoici, e fu di loro quello glorioso Catone di cui non fui di sopra oso di parlare. 11. Altri filosofi furono, che videro e credettero altro che costoro; e di questi fu primo e prencipe uno filosofo che fu chiamato Epicuro; chè, veggendo che ciascuno animale, tosto che nato è, quasi da natura dirizzato nel debito fine, che fugge dolore e domanda allegrezza, quelli disse questo nostro fine essere voluptade (non dico 'voluntade', ma scrivola per P), cioè diletto sanza dolore. 12. E però [che] tra 'l diletto e lo dolore non ponea mezzo alcuno, dicea che 'voluptade' non era altro che 'non dolore', sì come pare Tullio recitare nel primo di Fine di Beni. E di questi, che da Epicuro sono Epicurei nominati, fu Torquato, nobile romano, disceso del sangue del glorioso Torquato del quale feci menzione di sopra. 13. Altri furono, e cominciamento ebbero da Socrate e poi dal suo successore Platone, che, agguardando più sottilmente, e veggendo che ne le nostre operazioni si potea peccare e peccavasi nel troppo e nel poco, dissero che la nostra operazione sanza soperchio e sanza difetto, misurata col mezzo per nostra elezione preso, ch'è virtù, era quel fine di che al presente si ragiona; e chiamaronlo 'operazione con virtù'. 14. E questi furono Academici chiamati, sì come fue Platone e Speusippo suo nepote: chiamati per luogo così dove Plato studiava, cioè Academia; nè da Socrate presero vocabulo, però che ne la sua filosofia nulla fu affermato. 15. Veramente Aristotile, che Stagirite ebbe sopranome, e Zenocrate Calcedonio, suo compagnone, [e per lo studio loro], e per lo 'ngegno [singulare] e quasi divino che la natura in Aristotile messo avea, questo fine conoscendo per lo modo socratico quasi e academico, limaro e a perfezione la filosofia morale redussero, e massimamente Aristotile. E però che Aristotile cominciò a disputare andando in qua e in lae, chiamati furono - lui dico, e li suoi compagni - Peripatetici, che tanto vale quanto 'deambulatori'. 16. E però che la perfezione di questa moralitade per Aristotile terminata fue, lo nome de li Academici si spense, e tutti quelli che a questa setta si presero Peripatetici sono chiamati; e tiene questa gente oggi lo reggimento del mondo in dottrina per tutte parti, e puotesi appellare quasi cattolica oppinione. Per che vedere si può, Aristotile essere additatore e conduttore de la gente a questo segno. E questo mostrare si volea.
17. Per che, tutto ricogliendo, è manifesto lo principale intento, cioè che l'autoritade del filosofo sommo di cui s'intende sia piena di tutto vigore. E non repugna a la imperiale autoritade; ma quella sanza questa è pericolosa, e questa sanza quella è quasi debile, non per sè, ma per la disordinanza de la gente; sì che l'una con l'altra congiunta utilissime e pienissime sono d'ogni vigore. 18. E però si scrive in quello di Sapienza: «Amate lo lume de la sapienza, voi tutti che siete dinanzi a' populi». Ciò è a dire: Congiungasi la filosofica autoritade con la imperiale, a bene e perfettamente reggere. 19. Oh miseri che al presente reggete! e oh miserissimi che retti siete! chè nulla filosofica autoritade si congiunge con li vostri reggimenti nè per propio studio nè per consiglio, sì che a tutti si può dire quella parola de lo Ecclesiaste: «Guai a te, terra, lo cui re è fanciullo, e li cui principi la domane mangiano!»; e a nulla terra si può dire quella che seguita: «Beata la terra lo cui re è nobile e li cui principi [cibo] usano i[n] suo tempo, a bisogno e non a lussuria!». 20. Ponetevi mente, nemici di Dio, a' fianchi, voi che le verghe de' reggimenti d'Italia prese avete - e dico a voi, Carlo e Federigo regi, e a voi altri principi e tiranni -; e guardate chi a lato vi siede per consiglio, e annumerate quante volte lo die questo fine de l'umana vita per li vostri consiglieri v'è additato! Meglio sarebbe a voi come rondine volare basso, che come nibbio altissime rote fare sopra le cose vilissime.
CAPITOLO VII.
1. Poi che veduto è quanto è da reverire l'autoritade imperiale e la filosofica, che paiono aiutare le proposte oppinioni, è da ritornare al diritto calle de lo inteso processo. 2. Dico dunque che questa ultima oppinione del vulgo è tanto durata, che sanza altro respetto, sanza inquisizione d'alcuna ragione, gentile è chiamato ciascuno che figlio sia o nepote d'alcuno valente uomo, tutto che esso sia da niente. E questo è quello che dice: Ed è tanto durata La così falsa oppinion tra nui, Che l'uom chiama colui Omo gentil che può dicere: 'Io fui Nepote, o figlio, di cotal valente', Benchè sia da niente. 3. Per che è da notare che pericolosissima negligenza è lasciare la mala oppinione prendere piede; che così come l'erba multiplica nel campo non cultato, e sormonta, e cuopre la spiga del frumento sì che, disparte agguardando, lo frumento non pare, e perdesi lo frutto finalmente; così la mala oppinione ne la mente, non gastigata e corretta, sì cresce e multiplica sì che le spighe de la ragione, cioè la vera oppinione si nasconde e quasi sepulta si perde. 4. Oh com'è grande la mia impresa in questa canzone, a volere omai così trifoglioso campo sarchiare come quello de la comune sentenza, sì lungamente da questa cultura abbandonato! Certo non del tutto questo mondare intendo, ma solo in quelle parti dove le spighe de la ragione non sono del tutto sorprese: cioè coloro dirizzare intendo ne' quali alcuno lumetto di ragione per buona loro natura vive ancora, chè de li altri tanto è da curare quanto di bruti animali; però che non minore maraviglia mi sembra reducere a ragione [colui in cui è la luce di ragione] del tutto spenta, che reducere in vita colui che quattro dì è stato nel sepulcro.
5. Poi che la mala condizione di questa populare oppinione è narrata, subitamente, quasi come cosa orribile, quella percuot[o] fuori di tutto l'ordine de la riprovagione, dicendo: Ma vilissimo sembra, a chi 'l ver guata, a dare a intendere la sua intollerabile malizia, dicendo costoro mentire massimamente; però che non solamente colui è vile, cioè non gentile, che disceso di buoni è malvagio, ma eziandio è vilissimo: e pongo essemplo del cammino mostrato [e poscia errato]. 6. Dove, a ciò mostrare, far mi conviene una questione, e rispondere a quella, in questo modo. Una pianura è con certi sentieri: campo con siepi, con fossati, con pietre, con legname, con tutti quasi impedimenti, fuori de li suoi stretti sentieri. Nevato è sì, che tutto cuopre la neve e rende una figura in ogni parte, sì che d'alcuno sentiero vestigio non si vede. 7. Viene alcuno da l'una parte de la campagna e vuole andare a una magione che è da l'altra parte; e per sua industria, cioè per accorgimento e per bontade d'ingegno, solo da sè guidato, per lo diritto cammino si va là dove intende, lasciando le vestigie de li suoi passi diretro da sè. Viene un altro appresso costui, e vuole a questa magione andare, e non li è mestiere se non seguire li vestigi lasciati; e, per suo difetto, lo cammino che altri sanza scorta ha saputo tenere, questo scorto erra, e tortisce per li pruni e per le ruine, e a la parte dove dee non va. 8. Quale di costoro si dee dicere valente? Rispondo: quegli che andò dinanzi. Questo altro come si chiamerà ? Rispondo: vilissimo. Perchè non si chiama non valente, cioè vile? Rispondo: perchè non valente, cioè vile, sarebbe da chiamare colui che, non avendo alcuna scorta, non fosse ben camminato; ma però che questi l'ebbe, lo suo errore e lo suo difetto non può salire, e però è da dire non vile, ma vilissimo. 9. E così quelli che dal padre o d'alcuno suo maggiore [buono è disceso ed è malvagio], non solamente è vile, ma vilissimo, e degno d'ogni dispetto e vituperio più che altro villano. E perchè l'uomo da questa infima viltade si guardi, comanda Salomone a colui che 'l valente antecessore hae avuto, nel vigesimo secondo capitolo de li Proverbi: «Non trapasserai li termini antichi che puosero li padri tuoi»; e dinanzi dice, nel quarto capitolo del detto libro: «La via de' giusti», cioè de' valenti, «quasi luce splendiente procede, e quella de li malvagi è oscura. Elli non sanno dove rovinano». 10. Ultimamente, quando si dice: E tocca a tal, ch'è morto e va per terra, a maggiore detrimento dico questo cotale vilissimo essere morto, parendo vivo. Onde è da sapere che veramente morto lo malvagio uomo dire si puote, e massimamente quelli che da la via del buono suo antecessore si parte. 11. E ciò si può così mostrare. Sì come dice Aristotile nel secondo de l'Anima, «vivere è l'essere de li viventi»; e per ciò che vivere è per molti modi (sì come ne le piante vegetare, ne li animali vegetare e sentire e muovere, ne li uomini vegetare, sentire, muovere e ragionare, o vero intelligere), e le cose si deono denominare da la più nobile parte, manifesto è che vivere ne li animali è sentire - animali, dico, bruti -, vivere ne l'uomo è ragione usare. 12. Dunque, se 'l vivere è l'essere [dei viventi e vivere ne l'uomo è ragione usare, ragione usare è l'essere] de l'uomo, e così da quello uso partire è partire da essere, e così è essere morto. E non si parte da l'uso del ragionare chi non ragiona lo fine de la sua vita? e non si parte da l'uso de la ragione chi non ragiona il cammino che fare dee? Certo si parte; e ciò si manifesta massimamente c[on] colui che ha le vestigie innanzi, e non le mira. 13. E però dice Salomone nel quinto capitolo de li Proverbi: «Quelli muore che non ebbe disciplina, e ne la moltitudine de la sua stoltezza sarà ingannato». Ciò è a dire: Colui è morto che non si fè discepolo, che non segue lo maestro; e questo vilissimo è quello. 14. Potrebbe alcuno dicere: Come è morto e va? Rispondo che è morto [uomo] e rimaso bestia. Chè, sì come dice lo Filosofo nel secondo de l'Anima, le potenze de l'anima stanno sopra sè come la figura de lo quadrangulo sta sopra lo triangulo, e lo pentangulo, cioè la figura che ha cinque canti, sta sopra lo quadrangulo: e così la sensitiva sta sopra la vegetativa, e la intellettiva sta sopra la sensitiva. 15. Dunque, come levando l'ultimo canto del pentangulo rimane quadrangulo e non più pentangulo, così levando l'ultima potenza de l'anima, cioè la ragione, non rimane più uomo, ma cosa con anima sensitiva solamente, cioè animale bruto. E questa è la sentenza del secondo verso de la canzone impresa, nel quale si pongono l'altrui oppinioni.
CAPITOLO VIII.
1. Lo più bello ramo che de la radice razionale consurga si è la discrezione. Chè, sì come dice Tommaso sopra lo prologo de l'Etica, "conoscere l'ordine d'una cosa ad altra è proprio atto di ragione», e è questa discrezione. Uno de' più belli e dolci frutti di questo ramo è la reverenza che dee lo minore...
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