[Pagina precedente]... sapienza, e per forma ha amore, e per composto de l'uno e de l'altro l'uso di speculazione. 2. Onde in questo verso che seguentemente comincia: In lei discende la virtù divina, io intendo commendare l'amore, che è parte de la filosofia. Ove è da sapere che discender la virtude d'una cosa in altra non è altro che ridurre quella in sua similitudine; sì come ne li agenti naturali vedemo manifestamente che, discendendo la loro virtù ne le pazienti cose, recano quelle a loro similitudine tanto quanto possibili sono a venire. 3. Onde vedemo lo sole che, discendendo lo raggio suo qua giù, reduce le cose a sua similitudine di lume, quanto esse per loro disposizione possono da la [sua] virtude lume ricevere. Così dico che Dio questo amore a sua similitudine reduce, quanto esso è possibile a lui assimigliarsi. E ponsi la qualitade de la reduzione, dicendo: Sì come face in angelo che 'l vede. 4. Ove ancora è da sapere che lo primo agente, cioè Dio, pinge la sua virtù in cose per modo di diritto raggio, e in cose per modo di splendore reverberato; onde ne le Intelligenze raggia la divina luce sanza mezzo, ne l'altre si ripercuote da queste Intelligenze prima illuminate. 5. Ma però che qui è fatta menzione di luce e di splendore, a perfetto intendimento mostrerò differenza di questi vocabuli, secondo che Avicenna sente. Dico che l'usanza de' filosofi è di chiamare 'luce' lo lume, in quanto esso è nel suo fontale principio; di chiamare 'raggio', in quanto esso è per lo mezzo, dal principio al primo corpo dove si termina; di chiamare 'splendore', in quanto esso è in altra parte alluminata ripercosso. 6. Dico adunque che la divina virtù sanza mezzo questo amore tragge a sua similitudine. E ciò si può fare manifesto massimamente in ciò, che sì come lo divino amore è tutto etterno, così conviene che sia etterno lo suo obietto di necessitate, sì che etterne cose siano quelle che esso ama; e così face a questo amore amare; chè la sapienza, ne la quale questo amore fere, etterna è. 7. Ond'è scritto di lei: «Dal principio dinanzi da li secoli creata sono, e nel secolo che dee venire non verrò meno»; e ne li Proverbi di Salomone essa Sapienza dice: «Etternalmente ordinata sono»; e nel principio di Giovanni, ne l'Evangelio, si può la sua etternitade apertamente notare. E quinci nasce che là dovunque questo amore splende, tutti li altri amori si fanno oscuri e quasi spenti, imperò che lo suo obietto etterno improporzionalmente li altri obietti vince e soperchia. 8. Per che li filosofi eccellentissimi ne li loro atti apertamente lo ne dimostraro, per li quali sapemo essi tutte l'altre cose, fuori che la sapienza, avere messe a non calere. Onde Democrito, de la propria persona non curando, nè barba nè capelli nè unghie si togliea; Platone, de li beni temporali non curando, la reale dignitade mise a non calere, che figlio di re fue; Aristotile, d'altro amico non curando, contra lo suo migliore amico, fuori di quella, combatteo, sì come contra lo nomato Platone. E perchè di questi parliamo, quando troviamo li altri che per questi pensieri la loro vita disprezzaro, sì come Zeno, Socrate, Seneca, e molti altri? 9. E però è manifesto che la divina virtù, a guisa [che in] angelo, in questo amore ne li uomini discende. E per dare esperienza di ciò, grida sussequentemente lo testo: E qual donna gentil questo non crede, Vada con lei e miri. Per donna gentile s'intende la nobile anima d'ingegno e libera ne la sua propia potestate, che è la ragione. 10. Onde l'altre anime dire non si possono donne, ma ancille, però che non per loro sono ma per altrui; e lo Filosofo dice, nel secondo de la Metafisica, che quella cosa è libera che per sua cagione è, non per altrui.
11. Dice: Vada con lei e miri li atti sui, cioè accompagnisi di questo amore, e guardi a quello che dentro da lui troverà . E in parte ne tocca, dicendo: Quivi dov'ella parla, si dichina, cioè, dove la filosofia è in atto, si dichina un celestial pensiero, nel quale si ragiona questa essere più che umana operazione: e dice 'del cielo' a dare a intendere che non solamente essa, ma li pensieri amici di quella sono astratti da le basse e terrene cose. 12. Poi sussequentemente dice com'ell'avvalora e accende amore dovunque ella si mostra, con la suavitade de li atti, chè sono tutti li suoi sembianti onesti, dolci e sanza soverchio alcuno. E sussequentemente, a maggiore persuasione de la sua compagnia fare, dice: Gentile è in donna ciò che in lei si trova, E bello è tanto quanto lei simiglia. 13. Ancora soggiugne: E puossi dir che 'l suo aspetto giova: dove è da sapere che lo sguardo di questa donna fu a noi così largamente ordinato, non pur per la faccia che ella ne dimostra vedere, ma per le cose che ne tiene celate desiderare ed acquistare. 14. Onde, sì come per lei molto di quello si vede per ragione, e per consequente essere per ragione, che sanza lei pare maraviglia, così per lei si crede [ch']ogni miracolo in più alto intelletto puote avere ragione, e per consequente può essere. Onde la nostra buona fede ha sua origine; da la quale viene la speranza, de lo proveduto desiderare; e per quella nasce l'operazione de la caritade. 15. Per le quali tre virtudi si sale a filosofare a quelle Atene celestiali, dove gli Stoici e Peripatetici e Epicurii, per la l[uc]e de la veritade etterna, in uno volere concordevolmente concorrono.
CAPITOLO XV.
1. Ne lo precedente capitolo questa gloriosa donna è commendata secondo l'una de le sue parti componenti, cioè amore. Ora in questo, ne lo quale io intendo esponere quel verso che comincia: Cose appariscon ne lo suo aspetto, si conviene trattare commendando l'altra parte sua, cioè sapienza. 2. Dice adunque lo testo 'che ne la faccia di costei appariscono cose che mostrano de' piaceri di Paradiso'; e distingue lo loco dove ciò appare, cioè ne li occhi e ne lo riso. E qui si conviene sapere che li occhi de la Sapienza sono le sue demonstrazioni, con le quali si vede la veritade certissimamente; e lo suo riso sono le sue persuasioni, ne le quali si dimostra la luce interiore de la Sapienza sotto alcuno velamento: e in queste due cose si sente quel piacere altissimo di beatitudine, lo quale è massimo bene in Paradiso. 3. Questo piacere in altra cosa di qua giù essere non può, se non nel guardare in questi occhi e in questo riso. E la ragione è questa: che, con ciò sia cosa che ciascuna cosa naturalmente disia la sua perfezione, sanza quella essere non può [l'uomo] contento, che è essere beato; chè quantunque l'altre cose avesse, sanza questa rimarrebbe in lui desiderio; lo quale essere non può con la beatitudine, acciò che la beatitudine sia perfetta cosa e lo desiderio sia cosa defettiva; chè nullo desidera quello che ha, ma quello che non ha, che è manifesto difetto. 4. E in questo sguardo solamente l'umana perfezione s'acquista, cioè la perfezione de la ragione, de la quale, sì come di principalissima parte, tutta la nostra essenza depende; e tutte l'altre nostre operazioni - sentire, nutrire, e tutto - sono per quella sola, e questa è per sè, e non per altri; sì che, perfetta sia questa, perfetta è quella, tanto cioè che l'uomo, in quanto ello è uomo, vede terminato ogni desiderio, e così è beato. 5. E però si dice nel libro di Sapienza: «Chi gitta via la sapienza e la dottrina, è infelice»: che è privazione de l'essere felice. Per l'abito de la sapienza seguita che s'acquista e[ssere] felice - [che] è essere contento - secondo la sentenza del Filosofo. Dunque si vede come ne l'aspetto di costei de le cose di Paradiso appaiono. E però si legge nel libro allegato di Sapienza, di lei parlando: «Essa è candore de la etterna luce e specchio sanza macula de la maestà di Dio».
6. Poi, quando si dice: Elle soverchian lo nostro intelletto, escuso me di ciò, che poco parlar posso di quelle, per la loro soperchianza. Dov'è da sapere che in alcuno modo queste cose nostro intelletto abbagliano, in quanto certe cose [si] affermano essere che lo intelletto nostro guardare non può, cioè Dio e la etternitate e la prima materia; che certissimamente si veggiono, e con tutta fede si credono essere, e per quello che sono intendere noi non potemo; [e nullo] se non cose negando si può appressare a la sua conoscenza, e non altrimenti. 7. Veramente può qui alcuno forte dubitare come ciò sia, che la sapienza possa fare l'uomo beato, non potendo a lui perfettamente certe cose mostrare; con ciò sia cosa che 'l naturale desiderio sia a l'uomo di sapere, e sanza compiere lo desiderio beato essere non possa. 8. A ciò si può chiaramente rispondere che lo desiderio naturale in ciascuna cosa è misurato secondo la possibilitade de la cosa desiderante: altrimenti andrebbe in contrario di se medesimo, che impossibile è; e la Natura l'avrebbe fatto indarno, che è anche impossibile. 9. In contrario andrebbe: chè, desiderando la sua perfezione, desiderrebbe la sua imperfezione; imperò che desiderrebbe sè sempre desiderare e non compiere mai suo desiderio (e in questo errore cade l'avaro maladetto, e non s'accorge che desidera sè sempre desiderare, andando dietro al numero impossibile a giungere). Avrebbelo anco la Natura fatto indarno, però che non sarebbe ad alcuno fine ordinato. E però l'umano desiderio è misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può, e quello punto non passa se non per errore, lo quale è di fuori di naturale intenzione. 10. E così è misurato ne la natura angelica, e terminato in quanto [a] quella sapienza che la natura di ciascuno può apprendere. E questa è la ragione per che li Santi non hanno tra loro invidia, però che ciascuno aggiugne lo fine del suo desiderio, lo quale desiderio è con la bontà de la natura misurato. Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio e di certe altre cose quello esse sono non sia possibile a la nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere. E per questo è la dubitazione soluta.
11. Poi quando dice: Sua bieltà piove fiammelle di foco, discende ad un altro piacere di Paradiso, cioè de la felicitade secondaria a questa prima, la quale de la sua biltade procede. Dove è da sapere che la moralitade è bellezza de la filosofia; chè così come la bellezza del corpo resulta da le membra in quanto sono debitamente ordinate, così la bellezza de la sapienza, che è corpo di Filosofia come detto è, resulta da l'ordine de le virtudi morali, che fanno quella piacere sensibilmente. 12. E però dico che sua biltà , cioè moralitade, piove fiammelle di foco, cioè appetito diritto, che s'ingenera nel piacere de la morale dottrina: lo quale appetito ne diparte eziandio da li vizii naturali, non che da li altri. E quinci nasce quella felicitade, la quale diffinisce Aristotile nel primo de l'Etica, dicendo che è operazione secondo vertù in vita perfetta. 13. E quando dice: Però qual donna sente sua bieltate, procede in loda di costei, gridando a la gente che la seguiti dicendo loro lo suo beneficio, cioè che per seguitare lei diviene ciascuno buono. Però dice: qual donna, cioè quale anima, sente sua biltate biasimare per non parere quale parere si conviene, miri in questo essemplo.
14. Ove è da sapere che li costumi sono beltà de l'anima, cioè le vertudi massimamente, le quali tal volta per vanitadi o per superbia si fanno men belle e men gradite, sì come ne l'ultimo trattato vedere si potrà . E però dico che, a fuggire questo, si guardi in costei, cioè colà dov'ella è essemplo d'umiltà ; cioè in quella parte di sè che morale filosofia si chiama. E soggiungo che, mirando costei - dico la sapienza - in questa parte, ogni viziato tornerà diritto e buono; e però dico: Questa è colei ch'umilia ogni perverso, cioè volge dolcemente chi fuori di debito ordine è piegato. 15. Ultimamente, in massima laude di sapienza, dico lei essere di tutto madre [e di moto] qualunque principio, dicendo che con lei Iddio cominciò lo mondo e spezialmente lo movimento del cielo, lo quale tutte le cose genera e dal quale ogni movimento è principiato e mosso, dicendo: Costei pensò chi mosse l'universo. Ciò è a dire che ...
[Pagina successiva]