[Pagina precedente]...nii, de li servi, de le milizie, de li successori in dignitade, e di queste in tutto siamo a lo Imperadore subietti, sanza dubbio e sospetto alcuno. 15. Altre leggi sono che sono quasi seguitatrici di natura, sì come constituire l'uomo d'etade sofficiente a ministrare, e di queste non semo in tutto subietti. Altre molte sono che paiono avere alcuna parentela con l'arte imperiale - e qui fu ingannato ed è chi crede che la sentenza imperiale sia in questa parte autentica -: sì come [diffinire] giovinezza e gentilezza, sovra le quali nullo imperiale giudicio è da consentire, in quanto elli è imperadore: però, quello che è di [Cesare sia renduto a Cesare, e quello che è di] Dio sia renduto a Dio. 16. Onde non è da credere nè da consentire a Nerone imperadore, che disse che giovinezza era bellezza e fortezza del corpo, ma a colui che dicesse che giovinezza è colmo de la naturale vita, che sarebbe filosofo. E però è manifesto che diffinire di gentilezza non è de l'arte imperiale; e se non è de l'arte, trattando di quella, a lui non siamo subietti; e se non [siamo] subietti, reverire lui in ciò non siamo tenuti: e questo è quello [che cerc]ando s'andava. 17. Per che omai con tutta licenza e con tutta franchezza d'animo è da ferire nel petto a le usate oppinioni, quelle per terra versando, acciò che la verace, per questa mia vittoria, tegna lo campo de la mente di coloro per c[ui] fa questa luce avere vigore.
CAPITOLO X.
1. Poi che poste sono l'altrui oppinioni di nobilitade, e mostrato è quelle riprovare a me esser licito, verrò a quella parte ragionare che ciò ripruova; che comincia, sì come detto è di sopra: Chi diffinisce: 'Omo è legno animato'. E però, è da sapere che l'oppinione de lo Imperadore - avvegna che con difetto quella ponga - ne l'una particula, cioè là dove disse belli costumi, toccò de li costumi di nobilitade, e però in quella parte riprovare non s'intende. 2. L'altra particula, che di natura di nobilitade è del tutto diversa, s'intende riprovare; la quale due cose pare dicere quando dice antica ricchezza, cioè tempo e divizie, le quali a nobilitade sono del tutto diverse, come detto è e come di sotto si mostrerà . E però riprovando si fanno due parti: prima si ripruovano le divizie, e poi si ripruova lo tempo essere cagione di nobilitade. La seconda parte comincia: Nè voglion che vil uom gentil divegna. 3. E da sapere è che, riprovate le divizie, è riprovata non solamente l'oppinione de lo Imperadore in quella parte che le divizie tocca, ma eziandio quella del vulgo interamente che solo ne le divizie si fondava. La prima parte in due si divide: che ne la prima generalmente si dice lo 'mperadore essere stato erroneo ne la diffinizione di nobilitade; secondamente si mostra ragione perchè. E comincia questa seconda parte: Chè le divizie, sì come si crede.
4. Dico adunque, Chi diffinisce: 'Omo è legno animato', che prima dice non vero, cioè falso, in quanto dice 'legno'; e poi parla non intero, cioè con difetto, in quanto dice 'animato', non dicendo 'razionale', che è differenza per la quale uomo da la bestia si parte. 5. Poi dico che per questo modo fu erroneo in diffinire quelli che tenne impero: non dicendo 'imperadore', ma 'quelli che tenne imperio', a mostrare (come detto è di sopra) questa cosa determinare essere fuori d'imperiale officio. Poi dico similemente lui errare, che puose de la nobilitade falso subietto, cioè 'antica ricchezza', e poi procede[tt]e a 'defettiva forma', o vero differenza, cioè 'belli costumi', che non comprendono ogni formalitade di nobilitade, ma molto picciola parte, sì come di sotto si mostrerà . 6. E non è da lasciare, tutto che 'l testo si taccia, che messere lo Imperadore in questa parte non errò pur ne le parti de la diffinizione, ma eziandio nel modo di diffinire, avvegna che, secondo la fama che di lui grida, elli fosse loico e clerico grande: chè la diffinizione de la nobilitade più degnamente si farebbe da li effetti che da' principii, con ciò sia cosa che essa paia avere ragione di principio, che non si può notificare per cose prime, ma per posteriori. 7. Poi quando dico: Chè le divizie, sì come si crede, mostro come elle non possono causare nobilitade, perchè sono vili; e mostro quelle non poterla torre, perchè son disgiunte molto da nobilitade. E pruovo quelle essere vili per uno loro massimo e manifestissimo difetto; e questo fo quando dico: Che siano vili appare. 8. Ultimamente conchiudo, per virtù di quello che detto è di sopra, l'animo diritto non mutarsi per loro transmutazione; che è pruova di quello che detto è di sopra, quelle essere da nobilitade disgiunte, per non seguire l'effetto de la congiunzione. Ove è da sapere che, sì come vuole lo Filosofo, tutte le cose che fanno alcuna cosa, conviene essere prima quelle perfettamente in quello essere; onde dice nel settimo de la Metafisica: «Quando una cosa si genera da un'altra, generasi di quella, essendo in quello essere». 9. Ancora è da sapere che ogni cosa che si corrompe, sì si corrompe, precedente alcuna alterazione, e ogni cosa che è alterata conviene essere congiunta con l'altera[nte cag]ione, sì come vuole lo Filosofo nel settimo de la Fisica e nel primo De Generatione. Queste cose proposte, così procedo, e dico che le divizie, come altri credea, non possono dare nobilitade; e a mostrare maggiore diversitade avere con quella, dico che non la possono torre a chi l'ha. 10. Dare non la possono, con ciò sia cosa che naturalmente siano vili, e per la viltade siano contrarie a la nobilitade. E qui s'intende viltade per degenerazione, la quale a la nobilitade s'oppone; con ciò sia cosa che l'uno contrario non sia fattore de l'altro nè possa essere, per la prenarrata cagione la quale brevemente s'aggiugne al testo, dicendo: Poi chi pinge figura, [Se non può esser lei, non la può porre]. 11. Onde nullo dipintore potrebbe porre alcuna figura, se intenzionalmente non si facesse prima tale, quale la figura essere dee. Ancora torre non la possono, però che da lungi sono di nobilitade, e per la ragione prenarrata che [ciò che] altera o corrompe alcuna cosa convegna essere congiunto con quella. 12. E però soggiugne: Nè la diritta torre Fa piegar rivo che da lungi corre; che non vuole altro dire, se non rispondere a ciò che detto è dinanzi, che le divizie non possono torre nobilitade, dicendo quasi quella nobilitade essere torre diritta, e le divizie fiume da lungi corrente.
CAPITOLO XI.
1. Resta omai solamente a provare come le divizie sono vili, e come disgiunte sono e lontane da nobilitade; e ciò si pruova in due particulette del testo, a le quali si conviene al presente intendere. E poi quelle esposte, sarà manifesto ciò che detto ho, cioè le divizie essere vili e lontane da nobilitade; e per questo saranno le ragioni di sopra contra le divizie perfettamente provate. 2. Dico adunque: Che siano vili appare ed imperfette. E a manifestare ciò che dire s'intende, è da sapere che la viltade di ciascuna cosa da la imperfezione di quella si prende, e così la nobilitade da la perfezione: onde tanto quanto la cosa è perfetta, tanto è in sua natura nobile; quanto imperfetta, tanto vile. E però se le divizie sono imperfette, manifesto è che siano vili. 3. E che elle siano imperfette, brievemente pruova lo testo quando dice: Chè, quantunque collette, Non posson quietar, ma dan più cura; in che non solamente la loro imperfezione è manifesta, ma la loro condizione essere imperfettissima, e però essere quelle vilissime. E ciò testimonia Lucano, quando dice, a quelle parlando: «Sanza contenzione periro le leggi; e voi ricchezze, vilissima parte de le cose, moveste battaglia». 4. Puotesi brevemente la loro imperfezione in tre cose vedere apertamente: e prima, ne lo indiscreto loro avvenimento; secondamente, nel pericoloso loro accrescimento; terziamente, ne la dannosa loro possessione. E prima ch'io ciò dimostri, è da dichiarare un dubbio che pare consurgere: che, con ciò sia cosa che l'oro, le margherite e li campi perfettamente forma e atto abbiano in loro essere, non pare vero dicere che siano imperfette. 5. E però si vuole sapere che, quanto è per esse in loro considerate, cose perfette sono, e non sono ricchezze, ma oro e margherite; ma in quanto sono ordinate a la possessione de l'uomo, sono ricchezze, e per questo modo sono piene d'imperfezione. Chè non è inconveniente una cosa, secondo diversi rispetti, essere perfetta e imperfetta.
6. Dico che la loro imperfezione primamente si può notare ne la indiscrezione del loro avvenimento, nel quale nulla distributiva giustizia risplende, ma tutta iniquitade quasi sempre, la quale iniquitade è proprio effetto d'imperfezione. 7. Che se si considerano li modi per li quali esse vegnono, tutti si possono in tre maniere ricogliere: chè o vengono da pura fortuna, sì come quando sanza intenzione o speranza vegnono per invenzione alcuna non pensata; o vengono da fortuna che è da ragione aiutata, sì come per testamenti o per mutua successione; o vegnono da fortuna aiutatrice di ragione, sì come quando per licito o per illicito procaccio: licito dico, quando è per arte o per mercatantia o per servigio meritante; illicito dico, quando è per furto o per rapina. 8. E in ciascuno di questi tre modi si vede quella iniquitade che io dico, chè più volte a li malvagi che a li buoni le celate ricchezze che si truovano o che si ritruovano si rappresentano; e questo è sì manifesto, che non ha mestiere di pruova. Veramente io vidi lo luogo, ne le coste d'un monte che si chiama Falterona, in Toscana, dove lo più vile villano di tutta la contrada, zappando, più d'uno staio di santalene d'argento finissimo vi trovò, che forse più di dumilia anni l'aveano aspettato. 9. E per vedere questa iniquitade, disse Aristotile che «quanto l'uomo più subiace a lo 'ntelletto, tanto meno subiace a la fortuna». E dico che più volte a li malvagi che a li buoni pervengono li retaggi, legati e caduti; e di ciò non voglio recare innanzi alcuna testimonianza, ma ciascuno volga li occhi per la sua vicinanza, e vedrà quello che io mi taccio per non abominare alcuno. 10. Così fosse piaciuto a Dio che quello che addomandò lo Provenzale fosse stato, che chi non è reda de la bontade perdesse lo retaggio de l'avere! E dico che più volte a li malvagi che a li buoni pervegnono a punto li procacci; chè li non liciti a li buoni mai non pervegnono, però che li rifiutano. 11. E quale buono uomo mai per forza o per fraude procaccerà ? Impossibile sarebbe ciò, chè solo per la elezione de la illicita impresa più buono non sarebbe. E li liciti rade volte pervegnono a li buoni, perchè, con ciò sia cosa che molta sollicitudine quivi si richeggia, e la sollicitudine del buono sia diritta a maggiori cose, rade volte sofficientemente quivi lo buono è sollicito. 12. Per che è manifesto in ciascuno modo quelle ricchezze iniquamente avvenire; e però Nostro Segnore inique le chiamò, quando disse: «Fatevi amici de la pecunia de la iniquitade», invitando e confortando li uomini a liber[ali]tade di benefici, che sono generatori d'amici. 13. E quanto fa bello cambio chi di queste imperfettissime cose dà per avere e per acquistare cose perfette, sì come li cuori de' valenti uomini! Lo cambio ogni die si può fare. Certo nuova mercatantia è questa de l'altre, che, credendo comperare uno uomo per lo beneficio, mille e mille ne sono comperati. 14. E c[u]i non è ancora [ne]l cuore Alessandro per li suoi reali benefici? Cui non è ancora lo buono re di Castella, o il Saladino, o il buono Marchese di Monferrato, o il buono Conte di Tolosa, o Beltramo dal Bornio, o Galasso di Montefeltro? Quando de le loro messioni si fa menzione, certo non solamente quelli che ciò farebbero volentieri, ma quelli prima morire vorrebbero che ciò fare, amore hanno a la memoria di costoro.
CAPITOLO XII.
1. Come detto è, la imperfezione de le ricchezze non solamente nel loro avvenimento si può comprendere, ma eziandio nel pericoloso loro accrescimento; e però che in ciò più si può vedere di loro difetto, solo di questo fa menzione l...
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