[Pagina precedente]...e lo romano principe ragionevolemente somma, la quale s'intende dimostrare; però che la romana potenzia non per ragione nè per decreto di convento universale fu acquistata, ma per forza, che a la ragione pare esser contraria. 9. A ciò si può lievemente rispondere, che la elezione di questo sommo officiale convenia primieramente procedere da quello consiglio che per tutti provede, cioè Dio; altrimenti sarebbe stata la elezione per tutti non iguale; con ciò sia cosa che, anzi l'officiale predetto, nullo a bene di tutti intendea. 10. E però che più dolce natura [in] segnoreggiando, e più forte in sostenendo, e più sottile in acquistando nè fu nè fia che quella de la gente latina - sì come per esperienza si può vedere - e massimamente [di] quello popolo santo nel quale l'alto sangue troiano era mischiato, cioè Roma, Dio quello elesse a quello officio. 11. Però che, con ciò sia cosa che a quello ottenere non sanza grandissima vertude venire si potesse, e a quello usare grandissima e umanissima benignitade si richiedesse, questo era quello popolo che a ciò più era disposto. Onde non da forza fu principalmente preso per la romana gente, ma da divina provedenza, che è sopra ogni ragione. E in ciò s'accorda Virgilio nel primo de lo Eneida, quando dice, in persona di Dio parlando: «A costoro - cioè a li Romani - nè termine di cose nè di tempo pongo; a loro ho dato imperio sanza fine». 12. La forza dunque non fu cagione movente, sì come credeva chi gavillava, ma fu cagione instrumentale, sì come sono li colpi del martello cagione del coltello, e l'anima del fabbro è cagione efficiente e movente; e così non forza, ma ragione, [e] ancora divina, [conviene] essere stata principio del romano imperio. 13. E che ciò sia, per due apertissime ragioni vedere si può, le quali mostrano quella civitade imperatrice, e da Dio avere spezial nascimento, e da Dio avere spezial processo. 14. Ma però che in questo capitolo sanza troppa lunghezza ciò trattare non si potrebbe, e li lunghi capitoli sono inimici de la memoria, farò ancora digressione d'altro capitolo per le toccate ragioni mostrare; che non fia sanza utilitade e diletto grande.
CAPITOLO V.
1. Non è maraviglia se la divina provedenza, che del tutto l'angelico e lo umano accorgimento soperchia, occultamente a noi molte volte procede, con ciò sia cosa che spesse volte l'umane operazioni a li uomini medesimi ascondono la loro intenzione; ma da maravigliare è forte, quando la essecuzione de lo etterno consiglio tanto manifesto procede c[on] la nostra ragione. 2. E però io nel cominciamento di questo capitolo posso parlare con la bocca di Salomone, che in persona de la Sapienza dice ne li suoi Proverbi: «Udite: però che di grandi cose io debbo parlare».
3. Volendo la 'nmensurabile bontà divina l'umana creatura a sè riconformare, che per lo peccato de la prevaricazione del primo uomo da Dio era partita e disformata, eletto fu in quello altissimo e congiuntissimo consistorio de la Trinitade, che 'l Figliuolo di Dio in terra discendesse a fare questa concordia. 4. E però che ne la sua venuta nel mondo, non solamente lo cielo, ma la terra convenia essere in ottima disposizione; e la ottima disposizione de la terra sia quando ella è monarchia, cioè tutta ad uno principe, come detto è di sopra; ordinato fu per lo divino provedimento quello popolo e quella cittade che ciò dovea compiere, cioè la gloriosa Roma. 5. E però [che] anche l'albergo dove il celestiale rege intrare dovea convenia essere mondissimo e purissimo, ordinata fu una progenie santissima, de la quale dopo molti meriti nascesse una femmina ottima di tutte l'altre, la quale fosse camera del Figliuolo di Dio: e questa progenie fu quella di David, del qual nasce[tt]e la baldezza e l'onore de l'umana generazione, cioè Maria. 6. E però è scritto in Isaia: «Nascerà virga de la radice di Iesse, e fiore de la sua radice salirà »; e Iesse fu padre del sopra detto David. E tutto questo fu in uno temporale, che David nacque e nacque Roma, cioè che Enea venne di Troia in Italia, che fu origine de la cittade romana, sì come testimoniano le scritture. Per che assai è manifesto la divina elezione del romano imperio per lo nascimento de la santa cittade che fu contemporaneo a la radice de la progenie di Maria. 7. E incidentemente è da toccare che, poi che esso cielo cominciò a girare, in migliore disposizione non fu che allora quando di là su discese Colui che l'ha fatto e che 'l governa; sì come ancora per virtù di loro arti li matematici possono ritrovare. 8. Nè 'l mondo mai non fu nè sarà sì perfettamente disposto come allora che a la voce d'un solo, principe del roman popolo e comandatore, fu ordinato, sì come testimonia Luca evangelista. E però [che] pace universale era per tutto, che mai, più, non fu nè fia, la nave de l'umana compagnia dirittamente per dolce cammino a debito porto correa. 9. Oh ineffabile e incomprensibile sapienza di Dio che a una ora, per la tua venuta, in Siria suso e qua in Italia tanto dinanzi ti preparasti! E oh stoltissime e vilissime bestiuole che a guisa d'uomo voi pascete, che presummete contra nostra fede parlare e volete sapere, filando e zappando, ciò che Iddio, che con tanta prudenza hae ordinato! Maladetti siate voi, e la vostra presunzione, e chi a voi crede!
10. E come detto è di sopra nel fine del precedente [capitolo del presente] trattato, non solamente speziale nascimento, ma speziale processo ebbe da Dio; chè brievemente, da Romolo incominciando, che fu di quella primo padre, infino a la sua perfettissima etade, cioè al tempo del predetto suo imperadore, non pur per umane ma per divine operazioni andò lo suo processo. 11. Che se consideriamo li sette regi che prima la governaro, cioè Romolo, Numa, Tullo, Anco e li re Tarquini, che furono quasi baiuli e tutori de la sua puerizia, noi trovare potremo per le scritture de le romane istorie, massimamente per Tito Livio, coloro essere stati di diverse nature, secondo l'opportunitade del pr[o]cedente tempo. 12. Se noi consideriamo poi [quella] per la maggiore adolescenza sua, poi che da la reale tutoria fu emancipata, da Bruto primo consolo infino a Cesare primo prencipe sommo, noi troveremo lei essaltata non con umani cittadini, ma con divini, ne li quali non amore umano, ma divino era inspirato in amare lei. E ciò non potea nè dovea essere se non per ispeziale fine, da Dio inteso in tanta celestiale infusione. 13. E chi dirà che fosse sanza divina inspirazione, Fabrizio infinita quasi moltitudine d'oro rifiutare, per non volere abbandonare sua patria? Curio, da li Sanniti tentato di corrompere, grandissima quantità d'oro per carità de la patria rifiutare, dicendo che li romani cittadini non l'oro, ma li possessori de l'oro possedere voleano? e Muzio la sua mano propria incendere, perchè fallato avea lo colpo che per liberare Roma pensato avea? 14. Chi dirà di Torquato, giudicatore del suo figliuolo a morte per amore del publico bene, sanza divino aiutorio ciò avere sofferto? e Bruto predetto similemente? Chi dirà de li Deci e de li Drusi, che puosero la loro vita per la patria? Chi dirà del cattivato Regolo, da Cartagine mandato a Roma per commutare li presi cartaginesi a sè e a li altri presi romani, avere contra sè per amore di Roma, dopo la legazione ritratta, consigliato, solo da [umana, e non da] divina natura mosso? 15. Chi dirà di Quinzio Cincinnato, fatto dittatore e tolto da lo aratro, e dopo lo tempo de l'officio, spontaneamente quello rifiutando a lo arare essere ritornato? Chi dirà di Cammillo, bandeggiato e cacciato in essilio, essere venuto a liberare Roma contra li suoi nimici, e dopo la sua liberazione, spontaneamente essere ritornato in essilio per non offendere la senatoria autoritade, sanza divina istigazione? 16. O sacratissimo petto di Catone, chi presummerà di te parlare? Certo maggiormente di te parlare non si può che tacere, e seguire Ieronimo quando nel proemio de la Bibbia, là dove di Paolo tocca, dice che meglio è tacere che poco dire. 17. Certo e manifesto esser dee, rimembrando la vita di costoro e de li altri divini cittadini, non sanza alcuna luce de la divina bontade, aggiunta sopra la loro buona natura, essere tante mirabili operazioni state; e manifesto esser dee, questi eccellentissimi essere stati strumenti con li quali procedette la divina provedenza ne lo romano imperio, dove più volte parve esse braccia di Dio essere presenti. 18. E non puose Iddio le mani proprie a la battaglia dove li Albani con li Romani, dal principio, per lo capo del regno combattero, quando uno solo Romano ne le mani ebbe la franchigia di Roma? Non puose Iddio le mani proprie, quando li Franceschi, tutta Roma presa, prendeano di furto Campidoglio di notte, e solamente la voce d'una oca fè ciò sentire? 19. E non puose Iddio le mani, quando, per la guerra d'Annibale avendo perduti tanti cittadini che tre moggia d'anella in Africa erano portati, li Romani volsero abbandonare la terra, se quel benedetto Scipione giovane non avesse impresa l'andata in Africa per la sua franchezza? E non puose Iddio le mani quando uno nuovo cittadino di picciola condizione, cioè Tullio, contra tanto cittadino quanto era Catellina la romana libertà difese? Certo sì. 20. Per che più chiedere non si dee, a vedere che spezial nascimento e spezial processo, da Dio pensato e ordinato, fosse quello de la santa cittade. Certo di ferma sono oppinione che le pietre che ne le mura sue stanno siano degne di reverenzia, e lo suolo dov'ella siede sia degno oltre quello che per li uomini è predicato e approvato.
CAPITOLO VI.
1. Di sopra, nel terzo capitolo di questo trattato, promesso fue di ragionare de l'altezza de la imperiale autoritade e de la filosofica; e però, ragionato de la imperiale, procedere oltre si conviene la mia digressione, a vedere di quella del Filosofo, secondo la promessione fatta. 2. E qui è prima da vedere che questo vocabulo vuole dire, però che qui è maggiore mestiere di saperlo che sopra lo ragionamento de la imperiale, la quale per la sua maiestade non pare esser dubitata. 3. È dunque da sapere che 'autoritade' non è altro che 'atto d'autore'. Questo vocabulo, cioè 'autore', sanza quella terza lettera C, può discendere da due principii: l'uno si è d'uno verbo molto lasciato da l'uso in gramatica, che significa tanto quanto 'legare parole', cioè 'auieo'. E chi ben guarda lui, ne la sua prima voce apertamente vedrà che elli stesso lo dimostra, che solo di legame di parole è fatto, cioè di sole cinque vocali, che sono anima e legame d'ogni parole, e composto d'esse per modo volubile, a figurare imagine di legame. 4. Chè, cominciando da l'A, ne l'U quindi si rivolve, e viene diritto per I ne l'E, quindi si rivolve e torna ne l'O; sì che veramente imagina questa figura: A, E, I, O, U, la quale è figura di legame. E in quanto 'autore' viene e discende da questo verbo, si prende solo per li poeti, che con l'arte musaica le loro parole hanno legate: e di questa significazione al presente non s'intende. 5. L'altro principio, onde 'autore' discende, sì come testimonia Uguiccione nel principio de le sue Derivazioni, è uno vocabulo greco che dice 'autentin', che tanto vale in latino quanto 'degno di fede e d'obedienza'. E così, 'autore', quinci derivato, si prende per ogni persona degna d'essere creduta e obedita. E da questo viene questo vocabulo del quale al presente si tratta, cioè 'autoritade'; per che si può vedere che 'autoritade' vale tanto quanto 'atto degno di fede e d'obedienza'. [Onde, quand'io provi che Aristotile è dignissimo di fede e d'obedienza,] manifesto è che le sue parole sono somma e altissima autoritade.
6. Che Aristotile sia dignissimo di fede e d'obedienza così provare si può. Intra operarii e artefici di diverse arti e operazioni, ordinate a una operazione od arte finale, l'artefice o vero operatore di quella massimamente dee essere da tutti obedito e creduto, sì come colui che solo considera l'ultimo fine di tutti li altri fini. Onde al cavaliere dee credere lo spadaio, lo frenaio, lo sella...
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