[Pagina precedente]... sono quanti movimenti esso fae. 16. Li quali, secondo che nel libro de l'Aggregazion[i] de le Stelle epilogato si truova da la migliore dimostrazione de li astrologi, sono tre: uno, secondo che la stella si muove per lo suo epiciclo; l'altro, secondo che lo epiciclo si muove con tutto il cielo igualmente con quello del Sole; lo terzo, secondo che tutto quello cielo si muove seguendo lo movimento de la stellata spera, da occidente a oriente, in cento anni uno grado. Sì che a questi tre movimenti sono tre movitori. 17. Ancora si muove tutto questo cielo e rivolgesi con lo epiciclo da oriente in occidente, ogni dì naturale una fiata: lo qual movimento, se esso è da intelletto alcuno, o se esso è da la rapina del Primo Mobile, Dio lo sa; che a me pare presuntuoso a giudicare. 18. Questi movitori muovono, solo intendendo, la circulazione in quello subietto propio che ciascuno muove. La forma nobilissima del cielo, che ha in sè principio di questa natura passiva, gira, toccata da vertù motrice che questo intende: e dico toccata, non corporalmente, per tatto di vertù la quale si dirizza in quello. E questi movitori sono quelli a li quali s'intende di parlare, ed a cui io fo mia dimanda.
CAPITOLO VI [VII].
[VII]. 1. Secondo che di sopra, nel terzo capitolo di questo trattato, si disse, ch'a bene intendere la prima parte de la proposta canzone convenia ragionare di quelli cieli e de li loro motori, ne li tre precedenti capitoli è ragionato. Dico adunque a quelli ch'io mostrai sono movitori del cielo di Venere: O voi che 'ntendendo - cioè con lo intelletto solo, come detto è di sopra, - lo terzo cielo movete, Udite il ragionare; e non dico udite perch'elli odano alcuno suono, ch'elli non hanno senso, ma dico udite, cioè con quello udire ch'elli hanno, ch'è intendere per intelletto. 2. Dico: Udite il ragionar lo quale è nel mio core: cioè dentro da me, chè ancora non è di fuori apparito. E da sapere è che in tutta questa canzone, secondo l'uno senso e l'altro lo 'core' si prende per lo secreto dentro, e non per altra spezial parte de l'anima e del corpo.
3. Poi li ho chiamati ad udire quello ch'io voglio, assegno due ragioni per che io convenevolemente deggio loro parlare. L'una si è la novitade de la mia condizione, la quale, per non essere da li altri uomini esperta, non sarebbe così da loro intesa come da coloro che 'ntendono li loro effetti ne la loro operazione; e questa ragione tocco quando dico: Ch'io nol so dire dire altrui, sì mi par novo. 4. L'altra ragione è: quand'uomo riceve beneficio, o vero ingiuria, prima de' quello retraere a chi liele fa, se può, che ad altri; acciò che se ello è beneficio, esso che lo riceve si mostri conoscente inver lo benefattore; e s'ella è ingiuria, induca lo fattore a buona misericordia con le dolci parole. 5. E questa ragione tocco, quando dico: El ciel che segue lo vostro valore, Gentili creature che voi sete, Mi tragge ne lo stato ov'io mi trovo. Ciò è a dire: l'operazione vostra, cioè la vostra circulazione, è quella che m'ha tratto ne la presente condizione. Però conchiudo e dico che 'l mio parlare a loro dee essere, sì come detto è; e questo dico qui: Onde 'l parlar de la vita ch'io provo, Par che si drizzi degnamente a vui. E dopo queste ragioni assegnate, priego loro de lo 'ntendere quando dico: Però vi priego che lo mi 'ntendiate. 6. Ma però che in ciascuna maniera di sermone lo dicitore massimamente dee intendere a la persuasione, cioè a l'abbellire, de l'audienza sì come a quella ch'è principio di tutte l'altre persuasioni come li rettorici [s]anno; e potentissima persuasione sia, a rendere l'uditore attento, promettere di dire nuove e grandissime cose; seguito io, a la preghiera fatta de l'audienza, questa persuasione, cioè, dico, abbellimento, annunziando loro la mia intenzione, la quale è di dire nuove cose, cioè la divisione ch'è ne la mia anima, e grandi cose, cioè lo valore de la loro stella. E questo dico in quelle ultime parole di questa prima parte: Io vi dirò del cor la novitate, Come l'anima trista piange in lui, E come un spirto contra lei favella, Che vien pe' raggi de la vostra stella.
7. E a pieno intendimento di queste parole, dico che questo [spirito] non è altro che uno frequente pensiero a questa nuova donna commendare e abbellire; e questa anima non è altro che un altro pensiero accompagnato di consentimento, che, repugnando a questo, commenda e abbellisce la memoria di quella gloriosa Beatrice. 8. Ma però che ancora l'ultima sentenza de la mente, cioè lo consentimento, si tenea per questo pensiero che la memoria aiutava, chiamo lui anima e l'altro spirito; sì come chiamare solemo la cittade quelli che la tengono, e non coloro che la combattono, avvegna che l'uno e l'altro sia cittadino. 9. Dico anche che questo spirito viene per li raggi de la stella: per che sapere si vuole che li raggi di ciascuno cielo sono la via per la quale discende la loro vertude in queste cose di qua giù. E però che li raggi non sono altro che uno lume che viene dal principio de la luce per l'aere infino a la cosa illuminata, e luce non sia se non ne la parte de la stella, però che l'altro cielo è diafano, cioè transparente, non dico che vegna questo spirito, cioè questo pensiero, dal loro cielo in tutto, ma da la loro stella. 10. La quale per la nobilità de li suoi movitori è di tanta vertute, che ne le nostre anime e ne le altre nostre cose ha grandissima podestade, non ostante che essa ci sia lontana, qual volta più c'è presso, cento sessanta sette volte tanto quanto è, e più, al mezzo de la terra, che ci ha di spazio tremilia dugento cinquanta miglia. E questa è la litterale esposizione de la prima parte de la canzone.
CAPITOLO VII [VII].
1. Inteso può essere sofficientemente, per le prenarrate parole, de la litterale sentenza de la prima parte; per che a la seconda è da intendere, ne la quale si manifesta quello che dentro io sentia de la battaglia. 2. E questa parte ha due divisioni: che in prima, cioè nel primo verso, narro la qualitade di queste diversitadi secondo la loro radice, ch'erano dentro a me; poi narro quello che dicea l'una e l'altra diversitade, e però, prima, quello che dicea la parte che perdea, cioè nel verso ch'è lo secondo di questa parte e lo terzo de la canzone.
3. Ad evidenza dunque de la sentenza de la prima divisione, è da sapere che le cose deono essere denominate da l'ultima nobilitade de la loro forma; sì come l'uomo da la ragione, e non dal senso nè d'altro che sia meno nobile. Onde, quando si dice l'uomo vivere, si dee intendere l'uomo usare la ragione, che è sua speziale vita e atto de la sua più nobile parte. 4. E però chi da la ragione si parte, e usa pur la parte sensitiva, non vive uomo, ma vive bestia; sì come dice quello eccellentissimo Boezio: «Asino vive». Dirittamente dico, però che lo pensiero è propio atto de la ragione, perchè le bestie non pensano, che non l'hanno: e non dico pur de le minori bestie, ma di quelle che hanno apparenza umana e spirito di pecora o d'altra bestia abominevole. 5. Dico adunque che vita del mio core, cioè del mio dentro, suole essere un pensiero soave ('soave' è tanto quanto 'suaso', cioè abbellito, dolce, piacente e dilettoso), questo pensiero, che se ne gìa spesse volte a' piedi del sire di costoro a cu' io parlo, ch'è Iddio: ciò è a dire, che io pensando contemplava lo regno de' beati. 6. E dico la final cagione incontanente per che là su io saliva pensando, quando dico: Ove una donna gloriar vedia; a dare a intendere ch'è perchè io era certo, e sono, per sua graziosa revelazione, che ella era in cielo. Onde io pensando spesse volte come possibile m'era, me n'andava quasi rapito.
7. Poi sussequentemente dico l'effetto di questo pensiero, a dare a intendere la sua dolcezza, la quale era tanta che mi facea disioso de la morte, per andare là dov'elli gìa, e ciò dico quivi: Di cui parlava me sì dolcemente, Che l'anima dicea: Io men vo' gire. E questa è la radice de l'una de le diversitadi ch'era in me. 8. Ed è da sapere, che qui si dice 'pensiero' e non 'anima', di quello che salia a vedere quella beata, perchè era spezial pensiero a quello atto. L'anima s'intende, come detto è nel precedente capitolo, per lo generale pensiero col consentimento.
9. Poi quando dico: Or apparisce chi lo fa fuggire, narro la radice de l'altra diversitade, dicendo, sì come questo pensiero di sopra suol esser vita di me, così un altro apparisce che fa quello cessare. E dico 'fuggire', per mostrare quello essere contrario, chè naturalmente l'uno contrario fugge l'altro, e quello che fugge mostra per difetto di vertù di fuggire. 10. E dico che questo pensiero, che di nuovo apparisce, è poderoso in prender me e in vincere l'anima tutta, dicendo che esso segnoreggia sì che 'l cuore, cioè lo mio dentro, triema, e lo mio di fuori lo dimostra in alcuna nuova sembianza.
11. Sussequentemente mostro la potenza di questo pensiero nuovo per suo effetto, dicendo che esso mi fa mirare una donna, e dicemi parole di lusinghe, cioè ragiona dinanzi a li occhi del mio intelligibile affetto per meglio inducermi, promettendomi che la vista de li occhi suoi è sua salute. 12. E a meglio fare ciò credere a l'anima esperta, dice che non è da guardare ne li occhi di questa donna per persona che tema angoscia di sospiri. Ed è bel modo rettorico, quando di fuori pare la cosa disabbellirsi, e dentro veramente s'abbellisce. Più non potea questo novo pensero d'amore inducere la mia mente a consentire, che ['n] ragionare de la vertù de li occhi di costei profondamente.
CAPITOLO VIII [IX].
1. Ora ch'è mostrato come e perchè nasce amore, e la diversitade che mi combattea, procedere si conviene ad aprire la sentenza di quella parte ne la quale contendono in me diversi pensamenti. 2. Dico che prima si conviene dire de la parte de l'anima, cioè de l'antico pensiero, e poi de l'altro, per questa ragione, che sempre quello che massimamente dire intende lo dicitore sì dee riservare di dietro; però che quello che ultimamente si dice, più rimane ne l'animo de lo uditore. 3. Onde con ciò sia cosa che io intenda più a dire e a ragionare quello che l'opera di costoro a cu' io parlo fa, che quello che essa disfà, ragionevole fu prima dire e ragionare la condizione de la parte che si corrompea, e poi quella de l'altra che si generava.
4. Veramente qui nasce un dubbio, lo qual non è da trapassare sanza dichiarare. Potrebbe dire alcuno: 'Con ciò sia cosa che amore sia effetto di queste intelligenze a cu' io parlo, e quello di prima fosse amore così come questo di poi, perchè la loro vertù corrompe l'uno e l'altro genera? con ciò sia cosa che innanzi dovrebbe quello salvare, per la ragione che ciascuna cagione ama lo suo effetto e, amando quello, salva quell'altro.' 5. A questa questione si può leggermente rispondere che lo effetto di costoro è amore, com'è detto; e però che salvare nol possono se non in quelli subietti che sono sottoposti a la loro circulazione, esso transmutano di quella parte che è fuori di loro podestade in quella che v'è dentro, cioè de l'anima partita d'esta vita in quella ch'è in essa. 6. Sì come la natura umana transmuta, ne la forma umana, la sua conservazione di padre in figlio, perchè non può in esso padre perpetualmente [ta]l suo effetto conservare. Dico 'effetto', in quanto l'anima col corpo, congiunti, sono effetto di quella; chè [l'anima, poi che] è partita, perpetualmente dura in natura più che umana. E così è soluta la questione.
7. Ma però che de la immortalità de l'anima è qui toccato, farò una digressione, ragionando di quella; perchè, di quella ragionando, sarà bello terminare lo parlare di quella viva Beatrice beata, de la quale più parlare in questo libro non intendo per proponimento. 8. Dico che intra tutte le bestialitadi quella è stoltissima, vilissima e dannosissima, chi crede dopo questa vita non essere altra vita; però che, se noi rivolgiamo tutte le scritture, sì de' filosofi come de li altri savi scrittori, tutti concordano in questo, che in noi sia parte alcuna perpetuale....
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