[Pagina precedente]...te era magnifica, Pietro sedette sul sedile di pietra circolare che limita la gran piazza.
«È strano», mormorò egli, «come stasera non ho voglia né d'andare a casa, né di rimettermi alle mie tesi!...»
E rimase altri cinque minuti in silenzio, collo sguardo fosco e fisso sui ciottoli del marciapiede.
«Andiamo!», esclamò quindi levandosi, e come facendosi forza, «devono essere le undici, e mia madre a quest'ora mi attende.»
Guardò il suo orologio e si diresse lentamente verso la sua abitazione.
La signora Brusio, coll'occhio della madre, osservò che il suo Pietro, quella sera, era più pallido e distratto del solito; e che, invece di rimettersi a studiare, si ritirò, appena giunto, nella sua camera.
L'indomani Raimondo, verso le undici, si disponeva ad uscire, quando Pietro entrò da lui nella camera che occupava all'Albergo di Francia.
«Buon vento!», esclamò Raimondo sorpreso da quella visita che non si aspettava più da un mese; «ci son novità stamattina?»
«Quali novità vuoi mai che ci sieno?»
«Per bacco! ti credeva sui
digesti a quest'ora; ed eccoti già a correre per le strade come uno sfaccendato.»
«È che lo sono. Avrò sempre il tempo di finire le mie tesi, ed ero una gran bestia a prenderla tanto sul criminale; infine ne vengono approvati tanti più asini di me!... Usciamo.»
«Usciamo pure. Hai fatto colazione?»
«Non ci penso; mi sento in vena di passeggiare.»
«Con il caldo che fa non è la miglior cosa.»
«Andiamo alla Villa.»
«Sia per la Villa.»
E i due amici uscirono, tenendosi, al solito, a braccetto.
«A proposito della Villa, sai dove abita quella signora piemontese tanto distinta che abbiamo incontrato qualche volta?»
«No... dove?»
«In quella bella casa sulla stada Etnea: della quale i veroni si vedono dal
Laberinto.»
«Dici davvero?!», esclamò Brusio animandosi quasi suo malgrado, e fermandosi in mezzo alla strada.
«Verissimo.»
«E tu l'hai veduta?»
«Io stesso.»
«Proprio lei?...»
«Proprio lei!... Ma che diavolo!... Ne saresti innamorato?...»
«Mi credi forse pazzo da legare?», rispose Pietro con un sorriso che dissimulava appena la contrarietà che gli arrecava quella domanda.
«Perché poi?»
«Perché amarla io, sarebbe una disgrazia: amarmi ella, assurdo.»
«Mi piace questa modestia da venticinque soldi.»
«È modestia che vale amor proprio»; rispose Pietro piccato, «prendila come vuoi.»
«Eppure, vediamo»: insisté Raimondo attaccandosi al braccio del suo amico, «immaginiamoci che per un capriccio, una fantasia, un
destino, secondo te, questa donna si innamori di te; immaginiamoci ch'ella te lo dica, come lo dicono le donne quando vogliono, facendotelo comprendere, cioè, cogli occhi, col gesto, coll'atteggiamento... Ebbene! allora saresti il Catone del momento?...»
«Impossibile!», esclamò il giovane tristamente, come se avesse creduto un momento a quel sogno e si fosse poi accorto ch'esso era troppo bello e insieme penoso per lui.
«Perché?»
«Perché colei è vana, orgogliosa, come lo dimostra il fasto di cui si circonda. Soltanto potrebbe impressionarla la bellezza, l'eleganza, la nobiltà , la ricchezza, il lusso... cose tutte che non posseggo. Dunque o costei è maritata, e non amerà giammai un Don Giovanni in ventiquattresimo che si chiama semplicemente Pietro Brusio; o è mantenuta, e non possederò mai abbastanza per pagare i suoi fiori per un anno; o è zitella, e non sposerebbe certamente l'uomo oscuro, comune, che non ha tanto da farla vivere in quel lusso nel quale vive, e che le è necessario, indispensabile per essere quella che è. In tutti questi casi io dovrei dunque essere vile per amarla, o dovrei comprare il suo amore a prezzo di qualche infamia.»
«Ben pensato e ben ragionato! ciò che, in parentesi, ti avviene assai di rado. Vogliamo far colazione al Caffè di Parigi?»
«No; andiamo al
Laberinto.»
Raimondo guardò il suo amico di uno sguardo scrutatore e quasi beffardo.
«Ti fo riflettere che non ho ancor fatto colazione; abbi dunque la bontà di concedermi dieci minuti.»
I due amici entrarono dai Fratelli Guerrera. Mezz'ora dopo erano alla Villa.
Faceva molto caldo. Il
Laberinto era delizioso colle sue ombre profumate di fior d'arancio. I due sedettero all'ombra, e quasi contemporaneamente alzarono gli occhi sui veroni della casa, sebbene alquanto distante, che Raimondo avea indicato come l'abitazione della
Piemontese.
Le tende di giunco erano abbassate sulle ringhiere, quantunque il sole non vi giungesse ancora, forse per dare alquanto più d'ombra agli appartamenti; e dietro una di quelle si vedeva una figura di donna, vestita di bianco, quasi coricata su di una poltroncina con tutto il languente e voluttuoso abbandono di una sultana; a quella vista il cuore di Pietro batté forte, come la sera innanzi.
«È dessa!», disse Raimondo, «vedi che non t'ingannavo!...»
Pietro non rispose, tenendo sempre fissi gli occhi sul verone.
Ella si toglieva soltanto a lunghi intervalli da quella positura per recarsi agli occhi un binocolo che teneva sui ginocchi e col quale guardava nella strada o verso la Villa; ed indi, come stanca di quello sforzo, lasciava ricadere mollemente la testa sulla spalliera, e sembrava assorbirsi in quell'inerzia contemplativa che gli orientali cercano nell'oppio.
Un uomo, seduto accanto a lei su di una seggiola assai bassa, le leggeva qualche cosa di un giornale che teneva fra le mani, e che ella udiva sbadatamente; e s'interrompeva di tratto in tratto per prendere una mano di lei, che gliela abbandonava con la stessa languida indifferenza, e che lo ringraziava col suo sorriso seduttore, e col suo sguardo che faceva scorrere un'onda di voluttà in quell'uomo, quand'egli si recava alle labbra la sua mano.
Allora solamente la sua leggiadra testolina, coronata da quei ricci magnifici, si volgeva lentamente verso di lui.
Qualche volta, con un movimento tutto infantile, quella manina bianca ed affilata si appoggiava alla ringhiera, e sopra vi appoggiava la fronte; quasi quel bellissimo collo fosse troppo debole per sostenere quella piccola testa.
«Con questa donna ci sarebbe da impazzire!», esclamò Pietro reprimendo un fremito, dopo averla divorata a lungo dello sguardo.
«Credi che sieno marito e moglie?», domandò l'altro.
«È il mistero che questa donna sa rendere impenetrabile colle sue mille indefinibili gradazioni di fisonomia, d'espressione, di gesto, che fanno spesso dimenticare la sirena nella vergine, e viceversa. Se lo sono, è da poco tempo: a meno che costei non senta ancor ella sì a lungo, come deve far sentire a tutti quelli che l'avvicinano.»
Parecchie volte, forse a caso, l'occhialetto dell'incognita si rivolse verso il banco di pietra sul quale erano seduti i due amici.
«Ti guarda!», disse Raimondo sorridendo.
«O guarda i passeri che saltellano fra le fronde. Credi sul serio ch'io ne sia innamorato?»
«Ne parli tanto!...»
«Diffida sempre di quegli amori di cui ti si parla a lungo e sì leggermente: è segno certo che si vuol ridere alle tue spalle... Io l'amo come un bel personaggio da dramma o da romanzo, come un bel fiore... come una bella donna prima venuta insomma... che sa recare con grazia il velo sul cappellino e sollevare con disinvoltura lo strascico della veste... e nient'altro... In fede di che, se vuoi, andiamocene; sono le due meno dieci minuti», aggiunse dopo aver consultato l'orologio.
«Sì, è troppo tardi; siamo qui da più di due ore», rispose il biondo alzandosi.
Egli sorprese lo sguardo del suo amico, che ancora restava fissato sul verone.
«Vuoi venire, o no?»
«Un momento... restiamo altri dieci minuti e partiremo alle due precise...»
«Non amo gli inglesi colla loro metodicità regolata sul quadrante di un orologio... Hai detto d'andarcene...»
«Hai ragione»; rispose Brusio ridendo, «partiamo.»
Due o tre volte, prima di uscire dal giardino, si volse a guardare il verone, sul quale non poteva più vedere che la tenda abbassata.
«Bella donna!», ripeteva egli di tempo in tempo, con un entusiasmo ch'era troppo allegro per non essere affettato, e troppo affettato per non nascondere una preoccupazione:
«quanto io t'amo!».
III
Il dopopranzo, e l'indomani, e tutti i giorni in seguito, la Villa divenne la passeggiata preferita di Pietro, che vi conduceva il suo amico, il quale protestava sempre e finiva sempre col cedere.
Allo stesso verone, quasi ogni volta nella stessa positura e vestita di bianco, essi vedevano la
Piemontese, come l'aveva sopranominata Raimondo, che vi restava da mezzogiorno spesso sino alle 3 e dalle 7 alle 8.
Una sera l'incontrarono che andava al Caffè di Sicilia, accompagnata dal signore biondo.
«Se andassimo al caffè?...», disse Pietro, come per esservi incoraggiato dal suo amico.
Dalla soglia la videro seduta ad un tavolino, al fianco del suo compagno, mentre due ufficiali dei Cavalleggieri Alessandria le prodigavano tutte le delicate attenzioni di chi vuol fare la corte ad una signora. Ella sembrava appena badarvi; ma rispondeva qualche volta col suo solito sorriso grazioso, che mostrava i suoi bellissimi denti di perle.
Il giovane dalla barba nera, che Pietro avea veduto una volta con lei alla
Marina, veniva dall'altra sala del caffè, e fermandosi dinanzi al tavolino dov'era ella si levò il cappello, aspettando d'esser salutato.
Siccome nessuno gli badava, egli girò con tutta flemma sui talloni ed uscì.
Pietro prese il braccio del suo amico, e lo trascinò via, mormorando: «È meglio che non entriamo!...».
«Dove andiamo?», domandò qualche minuto dopo, come se cercasse una distrazione.
«Dove ti piace. A proposito... potremmo approffittare dell'invito dei signori A***, che abbiamo per stassera.»
«Vi si balla?»
«Sì.»
«Andiamo, in tal caso! M'immaginerò di ballare colla mia bella Piemontese»; aggiunse Brusio, forzando le labbra ad un sorriso.
Essi furono accolti con festa dall'allegra brigata che era radunata nel salone. Pietro sedette al pianoforte e suonò un valtzer, che otto o dieci coppie ballarono.
«Vi lasciaste molto aspettare, signorini!», disse in tuono di scherzevole rimprovero una graziosa giovanetta, figlia del padrone di casa e maritata ad un cugino di Raimondo, appena Pietro andò a raggiungere sul divano il suo amico, ch'era seduto vicino alla signora.
«È che Pietro, qui presente, è innamorato cotto; e abbiamo fatto la ronda alla bella»; disse Angiolini ridendo.
«Davvero!... Non mi sorprende in lei, signorino, questa novità [Si sa che bel modello!...] E chi sarebbe questa sventurata?...»
«Parola d'onore, signora, che lo sventurato son io, almeno sta volta»; rispose Pietro.
«Lei?!... È da ridere!... E di chi sarebbe innamorato, s'è lecito?»
«Molto lecito, al contrario! Giacché non ho il bene di conoscerne neanche il nome...»
«Ed ella conosce lei, almeno?»
«No.»
La signora diede in uno scoppio di risa.
«E l'ama, a quanto dice?»
«Come un pazzo!»
«Dove l'incontra?»
«Qualche volta al passeggio, o alla
Marina... E poi so dove trovarla...»
«Dove?»
«A casa sua...»
«Dunque va in casa?»
«No; dal verone.»
«Ah! è amore da verone!», esclamò la giovane ridendo sempre più come una folle; «e dove abita questa meraviglia?»
«Al
Rinazzo, vicino il
Laberinto.»
«Nella casa ***?»
«Precisamente.»
«Una giovane alta, sottile, molto elegante... non tanto bella in verità ?»
«Può essere... ciò è relativo...»
«È forestiera?»
«Forestiera. Credo sia piemontese.»
«La conosco.»
«Sul serio?»
«So il suo nome, almeno potrò insegnarglielo e non farle fare più la figura dell'
amante della luna.»
«Come si chiama?»
«Si chiama Narcisa Valderi.»
«Narcisa!... bel nome; si direbbe averlo ricevuto a vent'anni! E la conosce molto?»
«Cioè... non molto. Sono stata in sua casa due o tre volte.»
«Mi parli di lei... a lungo!...»
«Ella finge di scherzare, signorino, ma ha lo sguardo troppo acceso per dissimulare che quello che dice lo sente davvero.»
«Sì, è vero!... Ma se le giuro che l'adoro, colei!...»
«L'ha veduta da vicino?», domandò in tuono quasi derisorio la giovane.
«Sì.»
«È tutta toletta!...»
«Io amo appunto in lei questa toletta, questo lusso, questo apparato b...
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