[Pagina precedente]... una gemma di qualche valore, io l'avrei forse conservato come un ricordo dippiù della simpatia di cui mi onorarono gli spettatori; ma nel dubbio d'ingannarmi sulla destinazione del suo prezioso regalo, poiché tali sogliono essere le ricompense dei commedianti celebri, mi fo un dovere di rimetterlo alle mani dalle quali è partito.
La prego, signora, di gradire la testimonianza della mia più distinta considerazione, ecc.
Suggellò il biglietto, dopo averlo firmato, aspettando con impazienza l'ora convenevole per ricapitarlo.
Bisogna dire che il giovane, esagerando la sua suscettibilità , scrivendo quella lettera di orgoglioso rimprovero sotto le frasi gentili, cedeva ad una segreta speranza di mettersi in relazione con Narcisa; e che egli avea adottato quel mezzo come ne avrebbe adottato un altro, se gli si fosse presentato.
A mezzogiorno suonò, e disse al domestico che comparve, consegnandogli la lettera ed il mazzo:
«V'informerete dalla servitù del signor barone di Monterosso dell'abitazione della signora contessa di Prato, e andrete a recarle questa lettera insieme ai fiori e all'anello,
personalmente», aggiunse in ultimo, accentuando la parola.
«Ascoltate....», disse quindi, mentre il servitore stava per uscire, esitando tuttavia a proferire quelle parole che gli pareva svelassero la sua segreta speranza che cercava dissimulare a se stesso: «se vi dicono esserci risposta aspettatela».
Attese con ansietà febbrile i tre quarti d'ora che il domestico impiegò a ritornare colla risposta. Finalmente l'udì sulle scale e andò ad incontrarlo nel salotto, dominandosi a pena.
Gli venne recato su di un vassoio da lettere un biglietto da visita; al di sotto del titolo
Conte di Prato in litografia, c'era scritto a mano:
prega il sig. Brusio di far trovare alle 8 due suoi amici al Caffè d'Europa.
«Un duello!», esclamò Pietro sorpreso di leggere tutt'altro di quello che sperava: «confesso che me l'aspettava pochissimo. Quello che non so comprendere è perché il signor conte spinga la permalosità sino a sfidarmi per un mazzo rimandato... a meno che...».
Rimase pensieroso alcuni secondi, senza compire la frase, girandosi il biglietto fra le dita.
«Non importa»; disse quindi riscuotendosi; «quest'uomo è destinato; io l'ucciderò, com'è vero che mi chiamo Pietro e che quest'uomo mi ha insultato a Catania...»
Uscendo per prevenire i testimoni passò dal barone di Monterosso e vi trovò un altro suo amico.
«V'incontro a proposito»; diss'egli stringendo le due mani che gli venivano stese, «ho un affare col conte di Prato e venivo a pregarvi della vostra assistenza.» E raccontò ai due amici il fatto della mattina che avea causato la sfida del conte.
«Le condizioni?», domandò il barone.
«Vi dò carta bianca; l'appuntamento è per stasera, alle otto, al Caffè d'Europa. Vi prevengo soltanto che non accetterò accomodamenti.»
Alle dieci i due padrini vennero a trovarlo al Teatro S. Carlo per riferirgli le condizioni stabilite.
«Diavolo!», esclamò il barone, «l'affare sembra più serio che io non mi fossi immaginato. Il conte è furioso, a quanto pare; ed ha proposto condizioni d'inferno: trenta passi, dieci passi liberi per ciascheduno. C'è da divertirsi con due uomini che possono venire a scaricarsi le pistole sul petto a dieci passi!»
«Accetto!», esclamò Pietro col suo accento vivo e brusco.
«Caspita! lo sapevamo; giacché abbiamo accettato per voi... Quando c'entra quel demonio di contessa...»
«La contessa?»
«Eh, via!... forse che domani andate a cacciarvi una palla in corpo quasi colle pistole appoggiate sullo stomaco per quel povero mazzo che c'entra quanto un pretesto?!... Il conte è irritatissimo per l'assiduità che spiegaste nel far la corte a sua moglie, per cui la seguitaste da Catania a Napoli; e si è servito di questo pretesto per sfidarvi onde evitare il rumore.»
«Vi assicuro che non ho ancora l'onore di essere conosciuto personalmente da quella signora...»
«Il conte però sembra che vi conosca molto bene... A domani!»
A mezzanotte Brusio rientrando trovò una lettera che il cameriere gli disse aver recato due ore avanti una giovane assai elegante, che erasi annunciata per la cameriera della contessa di Prato. Egli aprì con febbrile impazienza la lettera profumata, della quale il bellissimo carattere inglese era tracciato con mano incerta, e vi lesse:
Signore,
Il conte l'ha sfidato. Le condizioni di questo duello sono orribili: due uomini che si battono alla pistola non si battono per una semplice riparazione; si battono per uccidersi. Questo duello è un delitto.
A Napoli si è molto parlato del suo scontro di un mese fa con un giornalista il quale ancora guarda il letto; si dice ancora che ella è un terribile tiratore; il conte anche lui possiede questa sciagurata destrezza... E questi due uomini, che si odiano a morte, andranno, domani, dope essersi abbigliati freddamente, come al solito, dopo di aver fatto attaccare la carrozza, dopo di essersi salutati civilmente, a mettersi a 15 o 20 passi di distanza colle pistole in mano, mirando col triste sangue freddo che deve dare in mano dell'uno la vita dell'altro... Oh! signore!... lo ripeto: questo è delitto!... questo è il più spietato assassinio legale!... O il conte resta ucciso ed io avrò il rimorso di essere stata causa della sua morte... o invece...
Signore... a Catania conobbi un giovane nobile e generoso... che mostrava d'amarmi... Io invoco questa memoria per scongiurare tale disgrazia... Questo duello non deve aver luogo! Si ritratti, signore, il conte accetterà le sue più semplici scuse, e le basterà di fare il primo passo perch'egli le venga incontro a stringerle la mano. Se ha una madre pensi a questa madre, se ha un'amante pensi all'amante, signore... e farà il più nobile sacrifizio che amor proprio d'uomo possa fare evitando questo duello.
Narcisa Valderi
Pietro fu tristamente colpito da quella lettera. Egli si aspettava tutt'altro, egli credeva di trovare affettuose parole di donna amante, e per contro rinvenne la moglie che supplicava il duellista famoso per la vita del marito; egli non vide, non seppe scorgere tutto ciò che lasciava [in]travedere, che accennava anche quella lettera che parlava delle reminiscenze di Catania... poiché a quelle reminiscenze non si era data più importanza di quanta se ne dà a sentimenti che non si dividono; avea riletto due o tre volte una parola, quell'
o invece... che un momento avea fatto la sua speranza, come se avesse cercato interpretare tutto il senso di quei puntini che la seguivano, e trovarvi quello che il suo cuore voleavi vedere; ma quei puntini potevano anche nascondere, come spesso, il nulla.
Se Narcisa gli avesse scritto semplicemente:
Pietro, non uccidete mio marito, ritrattatevi: egli non si sarebbe ritrattato, ma non avrebbe neanche fatto il passo che fece, rimandandole la lettera, come una suprema impertinenza.
Sorridendo del suo riso amaro, scrisse, in basso della stessa lettera della contessa, queste sole linee, che gli parve la completassero, e ne fossero la degna risposta, mormorando fra i denti stretti dal sarcasmo: «Ah! costei ha paura che io le uccida il marito!... costei si rivolge al giovane di Catania, e ne accenna la memoria, come si farebbe di un balocco ad un fanciullo; per ottenere il suo intento!... Ma non sa questa donna quali lagrime stillino ancora queste memorie?!...».
Le due linee dicevano: «Se amassi una donna, come io e nessuno può amare - e questa donna mi chiedesse una viltà - io la negherei a questa donna. - Alla signora contessa di Prato posso assicurare che il conte, suo sposo, non correrà alcun pericolo».
Sì, egli l'amava tanto, colei, malgrado tutto quello che aveva sofferto per lei, e forse a causa di ciò, malgrado i torti che si figurava aver ella verso di lui, da farle il sacrifizio della vita senza neanche pensarci, senza neanche farglielo indovinare; mentre l'assicurava della vita di suo marito, ricusandosi nel tempo istesso a far le sue scuse al conte, - ciò che valeva offrirsi come un bersaglio ai colpi di lui.
Quest'uomo che non sapeva se la sera del domani dovesse venire per lui; quest'uomo che andava fra poche ore a barattare una vita giovane e ricca d'avvenire, acclamata, festeggiata, contro un colpo di pistola, dormì tranquillo tutta la notte, poiché si sentiva più vicino a Narcisa, la sirena che gli avrebbe fatto adorare l'inferno per mezzo delle sue seduzioni.
All'alba era alzato e si vestiva. Nel punto di scendere le scale consegnò al cameriere la lettera della contessa dicendogli:
«Recate al suo indirizzo questa lettera, e dite alla contessa di avervela io data nel punto di montare in carrozza. Fate avanzare».
«La carrozza!», gridò il cameriere.
I briosi cavalli lo trasportarono rapidamente all'abitazione del barone, nella strada del Pilierò, ove aspettavano i due testimoni.
VII
Quando giunsero sul terreno, al Vomero, vi trovarono il conte coi suoi due padrini; tutti si salutarono levandosi i cappelli.
«I signori hanno da offrire ritrattazione da parte del loro primo?», domandò uno dei testimoni del conte a quelli di Brusio.
«No, signore»; rispose breve il barone.
Colui sembrò sorpreso, poiché era forse prevenuto dalla contessa di aspettarsi tutt'altro, e cominciò a misurare il terreno d'accordo cogli altri.
Situati i duellanti, i padrini misero loro in mano le pistole, e si allontanarono.
In questa fatta di duelli, l'ultimo colpo è scelto a preferenza dal più coraggioso, o dal più arrabbiato, che approfittando dell'eventuale cattivo esito dell'avversario, può venire a fare il suo colpo a 15 ed anche a 10 passi di distanza; ciò che dà molte probabilità di riuscita. I padrini di Brusio videro dunque colla massima sorpresa, che questi, né novizio, né inesperto, fermo al suo posto (dopo aver mirato un momento con freddezza) avea tratto il suo colpo, il quale avea spezzato un ramoscello, che sorpassando il muro del giardino, a cui volgeva le spalle il conte, si stendeva sulla testa di quest'ultimo. Il conte (che si era fermato dopo tre o quattro passi, facendo l'atto di chi prende la mira più accuratamente per tirare, onde prevenire il giovane) rassicurato dal cattivo esito del colpo di lui, fece tranquillamente i suoi dieci passi, mirando sempre colla calma di un tiratore al bersaglio, e fece fuoco a 20 passi; la palla andò a scalfire il braccio sinistro di Brusio.
«L'onore è salvo!», gridarono i padrini.
Il conte salutò e andò a rimontare nella carrozza coi suoi due amici.
Passando dal Caffè Nuovo offrì una colazione ai testimoni; dei quali uno, quello che avea fatta la domanda di ritrattazione, si scusò di non potere accettare, accusandone un affare urgentissimo e partì.
«In sala c'è un signore che l'aspetta da cinque minuti, e che mostrava aver molta fretta di vederla»; disse il cameriere a Brusio, appena questi fu di ritorno.
«Ha detto il suo nome?»
«No, signore.»
«Va bene.»
Nel salotto infatti aspettava uno dei testimoni del conte, quello che l'avea lasciato al Caffè Nuovo, vecchietto rubizzo ed elegante. Appena vide Pietro gli stese la mano.
«Ero impaziente di stringere la mano dell'uomo più nobile e generoso ch'io m'abbia conosciuto»; gli disse, «e avrà la bontà di perdonarmi se ho rischiato d'essere importuno per affrettarmene il piacere.»
«Io non capisco, signore», rispose Brusio freddamente.
«Sono l'interprete dei sentimenti della contessa di Prato.»
«La contessa di Prato!», esclamò Pietro involontariamente.
«Cui ella ha salvato il marito rischiando la vita.»
«Io? No! sono stato sfortunato: ecco tutto.»
«So che a trenta passi ella mette una palla in un anello. Ho assistito al più strano duello ch'io abbia veduto, ed ho l'onore d'assicurarle che me ne intendo un poco di questi giochetti. Tutto questo mi autorizza a creder poco nelle sue parole, in questo momento, e molto nella sua discrezione e nella sua modestia.»
«Signore!»
«E che!... forse che andiamo in collera perché vengo a recarle i ringraziamenti della contessa?»
«La signora contessa nulla mi deve e nulla ha a ringr...
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