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È desolante, è spaventevole tutta questa insensibile gradazione che ogni giorno sempre più assopisce nel suo cuore tutte quelle sensazioni minime, delicate, squisite, che la passione suscita e sublima, e che muoiono con essa...
È dunque morto il suo cuore per me... Dio mio?!...
No! egli mi ha parlato ancora di quelle parole, tenendo la mia mano fra le sue, fissandomi sempre del suo sguardo, che avea tutta l'espressione d'allora... Ma ciò, non è durato sempre!... sempre!... a dissetarmi di questo bisogno ardente che ne ho!...
Quando gli parlo della sua tristezza, della sua preoccupazione, della sua freddezza sin'anche, egli si mostra qualche volta come impaziente, e dissimula appena una lieve tinta del dispetto che prova di non saper meglio nascondere le sue impressioni, lo leggo chiaramente nel suo cuore: egli ha ancora la generosità d'imporsi per me un sentimento che non prova, di nascondermi quelle illusioni perdute che egli si rimprovera come una colpa sua, colpa che però non ha, di cui il pentimento gli dà la forza di stordirsi nelle mie carezze sino alla febbrile e quasi ebbra eccitazione che può scambiarsi coll'esaltazione della passione.
Un giorno era uscito prima ch'io fossi levata, e avea mandato a dirmi che, invitato da alcuni amici, avrebbe desinato fuori. La sera non era ancora venuto a vedermi; verso le 9 feci attaccare, impaziente d'attendere più oltre, e andai a cercarlo dove sapevo trovarsi ogni sera.
Feci fermare il legno dinanzi il Caffè di Sicilia e mandai il piccolo
jockey a cercarlo; egli si alzò subito da un crocchio d'amici, fra i quali era seduto, e venne a mettersi in carrozza con me.
«Ti chiedo mille scuse, mia cara, della noiosa giornata che ti ho fatto passare», mi diss'egli; però distinsi nel suo accento una sfumatura d'impazienza. Io gli strinsi la mano, poiché ero assai commossa, e non risposi.
La carrozza attraversò tutto il corso Vittorio Emanuele e prese la strada d'Ognina. Fuori l'abitato volli scendere e prendere il braccio di lui. Il calesse ci seguì ad una cinquantina di passi.
Entrambi sentivamo di avere un penoso discorso da intavolare, che non avevamo il coraggio d'incominciare, e che perciò ci faceva rimanere in silenzio.
Provavo il bisogno però di parlargli, di aprirgli il mio cuore; per averne la forza pensai alle sere istesse passate al fianco di lui... sere di cui le rimembranze erano ancora palpitanti di piacere, e a misura che il mio pensiero le vedeva più vive, che il mio cuore batteva più forte, che i miei occhi si velavano di lagrime, io mi stringevo al suo braccio come fuori di me, come se avessi voluto con quella stretta attaccarmi a quel passato che idolatravo; infine non potei più frenare i singhiozzi.
Pietro si fermò in mezzo alla strada, commosso profondamente, ma non sorpreso da quella scena che forse si aspettava.
«Che hai dunque, Narcisa», esclamò egli, prendendomi le mani.
«Oh, Pietro!», esclamai infine, «tu non sei lo stesso di prima!... No! tu non mi ami come prima!...»
«Narcisa, tu sei folle coi tuoi dubbî penosi... Se non ti amassi come prima, potrei fare la vita che faccio?...»
Queste parole, che cercavano di esprimere un pensiero consolante, erano dure per me; esse parlavano di quella vita che avea fatto la nostra felicità come di un sagrifizio.
«È vero dunque», proseguii, «questa vita ti è penosa?!... tu sei stanco di farla?!...»
«Ascoltami, Narcisa!», interruppe egli, stringendomi le mani, quasi avesse voluto infondermi forza per ascoltare quello che aveva a dirmi, e raddolcire quanto vi poteva essere di amaro; «non si può sempre vivere di questa vita che noi abbiamo fatto, che è la mia più dolce memoria, senza avere delle ricchezze, che io non posseggo, e neanche tu, e le possedessi, io non potrei accettarle da te; bisogna che io mi faccia una posizione, che risponda alle aspettative che si sono potute basare sul mio primo lavoro, che è bello del tuo riflesso soltanto. Per ciò fare bisogna piegarsi un poco a tutte quelle convenienze che la società esige rigorosamente. Io ho dimenticato tutto per te, sei intieri mesi: gli amici, il mio avvenire, gl'impegni assunti; anche una madre che adoravo, la più buona, la più santa fra le madri, che avea pur diritto all'amore del figlio suo, e che sei intieri mesi non ha avuto una parola da lui, non l'ha abbracciato una volta... Oh, credimi, Narcisa... è colla più viva commozione, colla più profonda riconoscenza anche, che io rammento questi sei mesi d'amore... Ma perché quest'amore istesso duri con tutti i suoi incanti bisogna che esso sia assaporato lentamente: in fondo all'ebbrezza che stordisce si trova presto la disillusione che uccide l'amore... ed io voglio amarti sempre, mia Narcisa!»
Soffocai i miei gemiti col fazzoletto, e rimasi muta, pietrificata dinanzi a lui che mi stringeva ancora le mani, e mi fissava quasi avesse voluto leggere nei miei occhi.
Dio mio! quello che soffersi in quel punto, credo che non potrò soffrirlo mai più... neanche al momento...
Quand'ebbi la forza di parlare gli dissi tristamente, divorando tutta l'estensione del mio dolore per nasconderglielo:
«Se mi amassi ancora, come dici, non avresti mai proferito ciò...».
«Narcisa!», replicò egli, tradendo una viva impazienza, «non son uso a mentire... mi pare...»
«Oh, no! tu non mentisci... o piuttosto tu vuoi ingannare te stesso, perché hai pietà di me... Grazie, Pietro!»
«Io avrei dovuto parlarti da qualche tempo su questo proposito», mi diss'egli; «ho temuto sempre di farti dispiacere, ed ho indugiato. Tentai di lavorare per adempiere in parte agli obblighi impostimi, ma ti confesso che nulla mi è riuscito... Mia madre mi ha scritto molte volte le più calde preghiere perché io vada ad abbracciarla...»
Egli avea esitato a proferire l'ultima frase, e l'avea poscia pronunziata colla precipitazione di colui che prende una risoluzione decisiva.
Mi aggrappai al suo braccio, poiché sentivo le gambe piegarmisi sotto.
«È giusto», mormorai quindi a metà soffocata; «tua madre, ha ragione!...»
Ebbi il coraggio supremo di non piangere. Egli rimase muto, facendo sforzi visibili per dominare la sua commozione.
«Mi accorderai almeno quindici giorni prima di partire?», gli diss'io, gettandogli le braccia al collo, piangendo in silenzio.
«Oh, amor mio!», esclamò Pietro quasi con le lagrime agli occhi, «non credevo di essermi meritate tali parole!...»
«Ebbene!... fra quindici giorni tu partirai per vedere tua madre!...»
Volle abbracciarmi, come per ringraziarmi del sagrifizio che gli facevo, ma mi allontanai di un passo, supplicandolo colle mani giunte di non farlo.
Temevo di perdere la forza della mia risoluzione in quell'abbraccio, al quale mi sentivo spinta violentemente da tutte le passioni, suscitate sino al parossismo, che tumultuavano in me.
Egli rimase sorpreso e colpito da quell'apparente freddezza, e m'accorsi ch'era anche indispettito.
«Grazie!», mi rispose fremente.
E rimase muto... E non una parola di più... come se avesse temuto ch'io mi pentissi di ciò che gli avevo accordato.
Ripresi il suo braccio per continuare a passeggiare, mentre non avevo la forza di trascinarmi. Lo guardavo: era freddo, pensieroso, quasi cupo.
«Oh, Pietro!...», gridai quindi singhiozzante, non sapendo più frenarmi, avvinghiandogli le braccia al collo; «mi ami?... mi ami come prima?!... Oh, Pietro!... una volta mi promettesti, mi giurasti... che m'avresti confessato quando tu non mi avresti amato più... come prima... Pietro!... confessalo che non mi ami più!...»
«Narcisa! te ne supplico... queste parole mi fanno male!», m'interruppe egli impallidendo.
«Oh, per pietà !... per pietà , Pietro! Me l'hai promesso... me l'hai giurato!... Sii uomo!... dillo, dillo che non mi ami più!...»
Invece di volere questa conferma al mio doloroso sospetto, attendevo, con ansia smaniosa, una parola in contrario, che avesse potuto farmi gettare nelle sue braccia, delirante di passione. Egli esitò... egli non l'ebbe;... e rimase muto, immobile... come combattuto da un'interna tempesta...
«Non ha dunque cuore quest'uomo!», gridai come una pazza, dopo avere invano atteso, in una terribile angoscia, col petto anelante, le mani giunte, le lagrime agli occhi, quella risposta.
Non ha cuore per comprendere quello che si passa nel mio, per farmi felice anche con una menzogna! avevo detto in quelle parole.
Quelle parole però mi perdettero.
Pietro non capì il vero senso appassionato, addolorato, ansioso, che dava loro il mio cuore in quello stato, proferendole; egli capì soltanto tutto quello che vi è di duro, di sprezzante, d'insultante anche - sì, d'insultante - in queste parole prese alla lettera, che parevano dire:
Siete un vile! mentre avevano detto:
Non avete pietà di me?
Egli si levò pallido, coll'occhio, un momento innanzi umido di lagrime, asciutto e quasi fosco, coi lineamenti duri e severi; egli... quest'uomo! ebbe la forza di dirmi colla sua voce più calda ed incisiva:
«È forse meglio che ci separiamo, Narcisa».
Ebbi paura di lui.
Non potrei mai riprodurre tutto quello che vi era di lacerante in quelle fredde parole che soffocavano in lui il risentimento, che fa supporre pur sempre l'amore, per esprimere la calma ed inflessibile decisione della mente.
Mi sentivo morire, e caddi annichilata sul muricciolo accanto alla strada; Pietro mi diede il braccio, mi sollevò, e mi strascinò quasi sino alla carrozza.
LÃ , inginocchiata sul tappeto, col volto nascosto fra i cuscini, piansi lagrime ardenti, disperate.
Ora che ci penso a mente più serena, io non risento tutto il pentimento di quelle parole, delle quali gli chiesi perdono a mani giunte, colle espressioni più umili, e che mi parvero aver deciso la mia condanna; se Pietro mi avesse amato ancora, egli non avrebbe dato la significazione letterale a quelle parole;... se il suo cuore non fosse stato morto per me, egli non avrebbe potuto prendere quella risoluzione.
Era finita dunque per me!...
per sempre!... ed io, folle!... folle!... gli chiedevo ancora quella franca confessione che mi ero fatta promettere in un delirio d'amore, come se le parole avessero potuto illudermi, quando tutto parlava in lui chiaramente.
Passai una notte d'inferno, lacerando coi denti il merletto dei guanciali inzuppati di lagrime.
Quando il chiarore incerto che penetrava dalle tende del verone cominciò ad oscurare il globo d'alabastro della lampada da notte, mi alzai, ancora vestita degli abiti che indossavo la sera scorsa... Esitai un istante prima di tirare il cordone del campanello: volevo illudermi ancora su tutta l'estensione della mia sventura.
«È alzato il signore?», domandai alla cameriera che veniva a prendere i miei ordini.
«Anzi Giuseppe, il suo cameriere, crede che non sia nemmeno andato a letto; poiché l'ha udito passeggiare tutta la notte.»
Fui commossa profondamente; dunque anch'egli avea provato tutta la lotta di quella disperata passione!
Mi acconciai allo specchio, con triste civetteria; non volevo accrescere il suo dolore colle tracce del mio; volevo attaccarmi a lui con tutte le risorse di quell'eleganza che egli avea tanto ammirato in me; e passai nelle sue stanze.
Lo trovai che scriveva, seduto al tavolino nella sua stanza da studio, con un lume ancora acceso dinanzi, sebbene morente.
Oh, signor Raimondo, mi perdoni questi dettagli, sui quali insisto con il doloroso piacere che si prova a ritornare sui particolari di care e malinconiche rimembranze.
I fiori che ornavano ogni mattina la giardiniera, situata a semicerchio attorno al suo tavolino, quei fiori fra i quali egli s'immergeva, direi, quando si metteva a scrivere, e che avvolgevano i suoi sensi in un vapore di colori e di profumi, e suscitavano mille indefinite percezioni nella sua mente; quei fiori dei quali egli avea detto di aver bisogno come dell'aria per lavorare e per pensare a me, erano appassiti; le tende delle finestre chiuse, sicché eravi quasi buio nella stanza; attraverso l'uscio aperto della sua camera da dormire vidi il letto scomposto, colle lenzuola lacerate e cadenti a terra, ...
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