[Pagina precedente]...pianto molto... sì a lungo che ora sono stanca di piangere. Gli occhi mi bruciano; mi sembra che il petto si rompa... Dio! Dio mio!
Pietro mi sfugge, teme d'incontrarsi con me... Che gli ho fatto?... Dio mio! che gli ho fatto?!...
12 Novembre - ore 10 di sera
Dio! Dio! Pietà ! pietà ! Son pazza, Dio mio! Mi pare di perdere la ragione!... mi pare di morire!
Ho urlato come una tigre; ho lacerato coi denti le lenzuola, le vesti, il fazzoletto; mi son rotte le membra urtando contro i mobili come ebbra...
Oh, no! no! Dio non è giusto! Dio è crudele!... Quale tortura! quale tortura orrenda!... Dio! Dio mio!...
L'ho udito! sì, la sua voce!... la sua voce istessa... che ordinava i cavalli per domani...
Oh, quest'uomo!... quest'uomo!...
Ma io l'amo!... ma io l'adoro... com'egli si spaventerebbe a provarlo, se lo potesse, quest'uomo che mi sfugge!... che ha il cuore morto per me!...
Che fare?... che fare, Dio mio?!... Se fossi pazza?!... se impazzissi?!... Dio!!!...
No! Dio non può punirmi del mio delitto... No! Dio non può punirmi dell'opera sua... perché... perché io son debole... perché io son vile dinanzi all'estensione di questo dolore sovrumano che mi si apre dinanzi... perché io, da Lui che mi percuote, voglio il sonno... l'oblìo almeno!...
Dio! Dio!... pietà ! pietà !... grazia!!!...
IX
Un'ora del mattino suonava lentamente all'orologio del salotto nel grazioso casino che abitavano i due giovani. Narcisa, pallida del suo delicato pallore di cera, coll'occhio brillante di un inusitato splendore che avea dei lampi di felicità , vestita di bianco, il suo colore favorito, sebbene la stagione fosse alquanto inoltrata, coi capelli raccolti mollemente dentro una reticella di seta ed arricciantisi sulla fronte quasi sino alle sopra[c]ciglia, con quella moda ardita che ricordava le più belle teste delle statue greche, stava seduta abbandonatamente sopra un canapè, accanto a Pietro, nella sua attitudine solita, allacciandogli il collo con le sue belle braccia, figgendo avidamente gli occhi negli occhi di lui, ascoltando le sue parole; e sembrava deliziarsi nella trasparente e profumata atmosfera che le mille sensazioni di quel momento le creavano.
Giammai la donna amante avea sussultato di tale amore fra le braccia dell'uomo amato; giammai la sirena si era abbandonata più molle, più languente; giammai la maliarda avea avuto sguardo più inebbriante da fare oscillare convulsivamente le più intime fibre del cuore di lui. Sembrava che qualche cosa di più che mortale eccitasse in lei tutte le più squisite risorse, le ispirazioni più ardenti della donna affascinante, della donna ebbra anch'essa di questa voluttà che ispirava e che cercava, per formarne un fascino irresistibile, divorante.
L'occhio di Pietro era raggiante; la sua parola interrotta a scosse come per delirio; le sue membra tremanti di sovrumano diletto. Egli suggeva avidamente coi baci per la fronte, pei capelli, per le labbra, per gli occhi, pel collo quelle emanazioni acri e violente di una voluttà insaziabile, che eccitava il godimento sino al delirio...
«Oh! Narcisa! Narcisa!», esclamava egli come un pazzo, «Narcisa di Napoli... di Catania!... t'ho trovata alfine! sì, t'ho trovata!!...»
Tutt'a un tratto quel corpo affascinante di mille seduzioni ebbe un fremito che non seppe reprimere, e quasi una dolorosa contrazione.
Pietro l'abbracciò più strettamente, come ebbro... poiché lo scambiò per un fremito di piacere.
«Che io ti vegga, Narcisa!», esclamò egli colle mani giunte, inginocchiandosi sul tappeto, come se avesse voluto adorarla: «oh! ch'io possa vederti!.. Perché nel tempo istesso che io provo questo godimento supremo, che mi comunico il tuo corpo da fata fra le mie braccia, non posso analizzarti col mio sguardo, ed assorbire quell'altra ebbrezza sublime di divorare le tue bellezze?...».
Egli si tacque, sorpreso, allarmato dal pallore che copriva i delicati lineamenti di lei, che tradivano qualche lievissima contrazione spasmodica: e che cominciavano a bagnarsi di fredde stille di sudore a fior di pelle alla radice dei capelli.
Narcisa, come per nascondergli quel triste spettacolo inebbriandolo fra le sue carezze, lo attirò fra le sue braccia, baciandolo del suo bacio languido e divorante nella sua molle seduzione; e posò il suo viso sul volto di lui, mischiando i ricci dei suoi capelli ai suoi...
«Che hai, Narcisa?», le gridò Pietro spaventato dal freddo sudore di cui gli inumidiva il volto il contatto di lei.
«Oh, nulla!... È la felicità !... è la gioia suprema che provo... che sembra farmi svenire... Oh! come son felice!... Dio mio! come son felice!...»
Mentre quella testolina ricciuta si posava sulla sua, Pietro la sentì farsi più pesante sulla sua spalla.
«Narcisa!...»
«Oh, qual felicità , Pietro!... Mi pare di aver sonno... di dover sognare questi squisiti diletti... Avevo tanto sofferto!... Adagiami sul canapè... e suonami qualche cosa sul pianoforte... Provo delle sfumature sì care... dei sogni incerti sì belli!... Oh, Pietro, se li provassi anche tu! Mi pare di dover godere di più con quei suoni tratti da te...»
La sua pupilla era prodigiosamente dilatata; ma lo fissava ancora coi raggi più vivi del suo sguardo.
Pietro s'inginocchiò ai suoi piedi; ella ebbe il coraggio di cambiare in un sorriso la contrazione di spasimo delle sue labbra.
«Suonami il valtzer...
Il Bacio... fammi contenta...»
Pietro esitava.
«Ma che hai? Dio mio! sei pallida da far paura...»
«È nulla, ti dico... è l'eccesso della gioia, della felicità ... Son tanto felice, mio Pietro!... Fammi questo piacere, suona quel valtzer... che mi domandavi sempre...» E giunse le mani con atto infantile di preghiera.
Pietro cominciò ad eseguire quella musica che faceva la più strana impressione in mezzo al silenzio della notte (nella mestizia che, suo malgrado, cominciava ad offuscarlo), ascoltata da quella donna coricata sul divano, che giungeva le mani; della quale i tratti, sussultanti di quando in quando, sembravano assorbire le vibrazioni come delle care reminiscenze; della quale gli occhi si dilatavano colla pupilla di una spaventevole fissità ; della quale infine le labbra si aprivano anelanti come a bever l'onda di quell'armonia, in mezzo alle contrazioni spasmodiche che non poteva dissimulare; nel silenzio quasi lugubre di quel salotto, che cominciava ad esser rotto dall'anelito affannoso e soffocato della respirazione di lei.
Ella si era alzata lentamente, come attratta da quel suono; cogli occhi come affascinati da immagini che ella sola poteva vedere... E si era trascinata barcollante, stendendo le mani tentoni, come se non vedesse più, verso il punto dove risuonavano quelle note festanti. Ella vi giunse, anelante di fatica e di piacere, e si aggrappò alla spalla di Pietro per non cadere, gridando con accento indescrivibile:
«Oh! Pietro! Pietro!... dove sei?!...».
E cadde inginocchiata.
Le sue pupille azzurre, chiare, quasi fosforescenti, si fissavano in volto a lui, senza sguardo, come cercandolo; e allorquando sembrò ch'ella non potesse rompere quel velo che le annebbiava la vista, che le impediva di pascersi nelle sembianze di lui, i suoi lineamenti, che cominciavano a contrarsi, espressero l'angoscia... un terrore nuovo, incomprensibile.
«Oh, Dio! Dio mio!», singhiozzò agitando le labbra convulsivamente, come se stentasse a trarre quei suoni dalla sua gola arida e ad articolarli colle sue labbra tremanti: «Oh! Dio!... sì presto! sì presto!...».
E quando incontrò gli abiti del giovane, le sue mani increspate cercarono brancolando le mani di lui, che strinsero avidamente, con tenace ostinazione, quasi temessero di lasciarsele sfuggire.
La pelle del suo viso si era fatta arida, e le vene cominciavano ad iniettarsi di sangue. Pietro, stordito, spaventato, afferrò il cordone del campanello.
«È giunto il signor Angiolini»: disse un domestico sulla soglia.
«Presto! presto! che corra... soccorso! Ella muore!», gridò Pietro.
Sollevò quel bel corpo, fattosi di un'inerte pesantezza, fra le sue braccia, stringendovelo con una furibonda tenerezza, e lo coricò sul divano. In tutto quel tempo le mani convulse di lei cercarono ancora le sue; e quando le trovarono fecero atto di recarsele alle labbra, fissandolo sempre di quella pupilla cerulea, dilatata, senza sguardo.
Si udirono dei passi precipitati, e comparve Raimondo, che veniva a prendere Brusio per condurlo da sua madre, come Narcisa ne avea avuto sentore. Con un solo sguardo egli vide di che si trattava, e senza perder tempo in domande inutili, corse da lei, distesa sul divano, e le prese il polso.
Le pulsazioni erano deboli, lente, mancanti; osservò la pelle arida, picch[i]ettata in alcuni punti delle braccia di bollicine incolori; il volto acceso e che cominciava a farsi livido; gli occhi fissi che operavano uno sforzo prodigioso per non cedere alla pesantezza delle palpebre, onde fissarsi ancora su di Pietro, quantunque non lo vedessero più. Toccò vivamente la regione epigastrica che tradì uno spasimo acuto.
«Hai in casa dell'emetico?», domandò vivamente Raimondo al suo amico, rizzandosi con la pronta decisione che dà l'intuizione al medico di genio, e che lo fa sollevare e dominare in tali momenti.
«Oh no!... Dio mio!...»
«Un momento! avrete almeno questo»; e spezzò il cordone del campanello, strappandolo con violenza.
«Recate un bicchier d'acqua e del sapone, e preparate due tazze di caffè molto carico e senza zucchero; subito!», ordinò al cameriere che comparve.
«Bisogna che tu passi nell'altra stanza»; soggiunse quindi a Brusio che sembrava di sasso. Narcisa, che udì forte e comprese quelle parole, strinse più vivamente le mani del giovane, quasi volesse attaccarsi a lui.
«No! no!», singhiozzò Pietro cadendo inginocchiato dinanzi al canapè; «no! io non la lascerò un minuto... Io sarò forte, Raimondo!»
Il medico si strinse con impazienza nelle spalle, e tentò di far bere a Narcisa il bicchier d'acqua che gli avevano recato ove avea sciolto del sapone.
Ella ne inghiottì avidamente due o tre sorsi, afferrando il bicchiere come se avesse voluto aggrapparsi alla vita che sentiva sfuggirle; provò qualche movimento di vomito, che rimase senza effetto; e ricadde pesantemente sul canapè mormorando:
«Oh! la vista!... Dio mio! la vista!... vederlo almeno!...».
E due lagrime luccicarono sulla sua orbita. I suoi lineamenti erano orribili di questa lotta penosa che cercava vincere e dissimulare con isforzi sovrumani.
Raimondo, che avea preso la testa di lei fra le sue braccia, un minuto dopo la lasciò ricadere sul cuscino, resa di una cadaverica pesantezza; e rimase muto, disanimato. Poco dopo mormorò, come parlando a se stesso:
«È l'oppio in forti dosi... Ora il delirio... dopo il coma...».
«Che sete! Dio mio, che sete!», mormorava Narcisa colla voce secca, stentando a disnodare la lingua, legata da una spaventevole aridità ; «acqua! per pietà , Pietro!... acqua!...»
Raimondo le fece inghiottire quasi tre tazze di caffè amaro.
«Che fare? Dio!... che fare?», gridava Pietro implorando, con l'accento del cuore, da Raimondo quell'aiuto che questi non poteva dargli mentre avea chinato la testa sul petto, come se avesse voluto dire: troppo tardi!
La fisionomia di Narcisa si animava come se contemplasse deliziose visioni che il suo occhio sbarrato e fisso poteva vedere soltanto. Ella mormorava frasi interrotte, appena sensibili, in cui spesso le sue labbra si agitavano come per sorridere. Una o due volte sembrò riscuotersi bruscamente, con un senso penoso... e allora i suoi tratti esprimevano un immenso affanno... in cui ella mormorava:
«Oh, Pietro!... il valtzer!... il valtzer!...».
Pietro, che aveva soltanto la forza di bagnare di pianto le sue mani che si teneva alle labbra, gridò singhiozzando:
«Ma salvala, Raimondo!... fratello mio!... Non vedi che muore!... Bisogna ch'ella non muoia!... Non voglio che ella muoia!...».
Tutt'a un tratto Raimondo corse al pianoforte, come cedendo ad un'ultima e subitanea ispirazione; lo strascinò sulle sue carrucole sino al canapè dov'era sdraiata l'agon...
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