[Pagina precedente]...pianoforte per distrarmi.
Mi venne sotto le mani
Il Bacio di Arditi, quel valtzer ch'egli mi fa ripetere sì spesso marcandone il movimento coi suoi baci sulla mia testa. Quelle note mi parve che piangessero, e chiusi il pianoforte con impazienza.
Lo aspettai al verone sino a mezzanotte: non veniva ancora. Ebbi timore di lasciargli scorgere il mio affanno, se mi fossi lasciata trovare aspettandolo, mi ritirai nel mio appartamento. Presi un libro a caso, ma non potei leggerlo.
Verso le tre udii finalmente la carrozza che rientrava sotto il portone, e i passi di lui sulla scala. Ma egli non venne a cercarmi.
Divorata dall'impazienza, suonai per domandare di lui.
«Il signore è ritornato»; mi rispose la mia cameriera, «ma è rientrato quasi subito nelle sue stanze.»
Non era venuto almeno, come faceva ogni sera, a darmi il bacio della buona notte.
Ebbi un istante il pensiero d'andare da lui, ma lo soffocai, colle mie lagrime, fra i guanciali.
L'indomani, prima ancora dell'alba, ero levata, poiché non avevo dormito un secondo; ed andai ad aspettarlo nel salotto, sperando che anch'egli vi sarebbe venuto.
Egli si alzò soltanto verso le undici, e immediatamente venne a cercare di me.
«Come sei bella, mia Narcisa!», esclamò egli abbracciandomi con effusione; «mi pare di amarti dippiù ogni volta che ti rivedo!»
Alzai gli occhi, umidi di lagrime, su di lui, atterrita dall'idea che quelle parole fossero simulate.
No! non era possibile in lui... nel mio Pietro!... il più nobile cuore ch'io abbia conosciuto: era il suo sguardo ardente di passione, e la sua voce che recava l'accento del cuore.
Singhiozzante gli gettai le braccia al collo, come per non lasciarmelo sfuggire mai più, e nascosi la testa nel suo petto.
«Che vuol dire questo pianto?», domandò egli asciugandomi gli occhi coi baci; «son molto colpevole adunque?»
«Oh, no! no!...», singhiozzai; «è che... quello che provo vedendoti...»
Egli mi abbracciò, muto, senza rispondere, quasi pentito.
Per otto o dieci giorni non mi lasciò più un minuto.
Sentivo che questa felicità sovrumana mi logorava lentamente, e mi dava ogni giorno forze novelle per sopportarne la piena.
Il giorno che ci fu recato un invito per una serata che dava C***, Pietro mi disse:
«Vi anderò soltanto a condizione che ci venga anche tu».
«Perché piuttosto non uscire assieme, a farci una delle nostre passeggiate sì belle?!... Sai bene che per me i godimenti che dà la società, il gran mondo, non hanno più attrattive...», gli risposi.
«Bisogna forzarti; non puoi vivere sempre come vivi. Tu sei un angelo di bellezza, ed io sono orgoglioso di te; voglio godere del tuo trionfo.»
«Giacché lo vuoi...», gli dissi reprimendo un sospiro.
«Una sera», seguitò egli tenendosi le mie mani fra le sue, «una di quelle sere in cui ti cercavo come smaniante, avevo perduto la speranza d'incontrarti; quando vidi passare, al braccio del conte, una donna vestita di bianco, con un semplice
bóurnous bianco sulle spalle, di cui il cappuccio era tirato sulla testa: avea il corpo svelto ed elegante, l'andatura molle ed incantevole, il sorriso affascinante, alcuni ricci neri scappanti dall'orlo del cappuccio bianco sulla fronte di un candore più puro e direi più rasato. Eri tu!... che parlavi a quell'uomo, che sorridevi a quell'uomo... che non potevi sapere quel che provava quell'incognito che ti passò d'accanto senza che te ne avvedessi. Sentii stringermi il cuore da una mano di ferro... Ti seguii trepidante, divorando degli occhi il tuo passo, i tuoi movimenti, il tuo minimo gesto; reprimendo i battiti del mio cuore per udire l'insensibile fruscio della tua veste... Ti seguii senza speranza che tu ti rivolgessi a vedermi... Andavi da S***. Ti aspettai in istrada sino alle tre, ora in cui la tua carrozza venne a prenderti, vedendo passare i fortunati che andavano a quella festa, che dovevano vederti ed esserti vicini; guardando la luce abbagliante che scaturiva dai veroni aperti, le allegre coppie che si aggiravano per le scale; ascoltando il suono di quella musica festante. Due o tre volte mi sembrò di vedere la tua figura, l'ombra tua, che girava fra le vorticose coppie di un valtzer... e piansi lagrime ardenti, disperate;... e passeggiai delirante come un pazzo, sotto quella casa... Ora voglio che tu ti vesta di quegli abiti, Narcisa; che quel cappuccio bianco copra i tuoi capelli. Io non posso esprimerti quegli atomi, quelle percezioni di sensazioni ineffabili che provo in queste reminiscenze; cercando d'illudermi spesso sino alla realtà del dolore che provai, per sentire più viva l'ebbrezza della felicità che tu mi dai ora!»
E mi abbracciava, e mi baciava frenetico, ardente.
In mezzo a quelle parole che mi facevano piangere di gioia una frase mi era rimasta fitta dolorosamente come una spina nel cuore: egli avea detto:
Non puoi vivere sempre come vivi!...
Quella vita che avea formato il mio paradiso, adunque, quella vita che noi non avevamo vissuto che per amarci, che per comunicarcela l'un l'altro coi baci, non poteva sempre durare... non era stata che la
luna di miele!...
Quando pensai al come vivere un sol giorno senza tal vita, fremetti di terrore, e corsi a vestirmi per nasconderlo a lui.
Uscimmo a piedi lungo la cinta esterna della città, per godere di un magnifico lume di luna. Pietro si mostrò sì allegro, sì contento della nostra felicità, che per qualche tempo riuscì a scacciare anche i miei tristi presentimenti. Non seppi nascondergli la penosa impressione che mi avevano lasciato le sue parole:
Non puoi vivere sempre come vivi.
«Sì,», mi rispose egli, «i piaceri, le feste, ti sono necessarii, poiché ti fanno brillare come un diamante messo in luce... sono necessarii al mio istesso amore per provare quello che provavo d'indefinibile nel fascino che ti faceva abbagliante fra tutte le pompe del tuo lusso.»
«Queste parole mi fanno male, Pietro!», supplicai stringendomi contro il petto il suo braccio.
«Perché?», domandò egli sorpreso.
«Perché mi provano che tu non potrai amarmi sempre come mi hai amata, come ormai è necessario che tu mi ami perché io viva!»
«Sei pazza!», esclamò egli, baciandomi sulla bocca.
Rimasi fredda, muta a quel bacio; fissando i miei occhi nella luna per dissimulare ch'erano umidi di pianto. Le lagrime che solcarono le mie guancie mi tradirono.
«Ma che hai dunque?», esclamò Pietro fermandosi, vivamente commosso, e abbracciandomi: «che ti ho fatto, Dio mio?!...».
«Oh, perdonami... perdonami!», singhiozzai, premendomi le sue mani sulle labbra; «son io che son folle!... perdonami, Pietro!... tu puoi farmi felice con una parola... Mi ami ancora?... mi ami sempre... come mi amavi?...»
Pietro soffocò quelle parole sulle mie labbra coi baci, suggendo avidamente le mie lagrime.
«Oh! che ti ho fatto io per meritarmi questo?!», mi diss'egli colla voce tremante, dominando a stento la sua emozione. «Non ti adoro come sei degna di essere adorata?!... Amarti ancora!... ma ogni giorno che passa è un affetto nuovo che si aggiunge all'immenso affetto di cui ti amo!...»
«Grazie! grazie, amico mio! Tu non sai qual bene mi facciano queste parole... come io ne avevo bisogno!... E... e... se qualche giorno.... se mai...», ed io stentavo a proferire fra i singhiozzi che mi soffocavano, «tu non mi amassi più, tu non mi amassi come prima, come io voglio essere amata da te... tu me lo dirai... dammi parola che me lo dirai!... meglio questo che l'agonia dell'incertezza. Tu non sai mentire, Pietro!... tu me lo dirai!...»
«Narcisa!...»
«Oh! fammela questa promessa, Pietro!... tu puoi farmi felice con questa parola...»
«Ma sei pazza... calmati, amor mio...»
«Oh no! te lo chiedo ginocchioni... promettimi... promettimi che tu mi dirai... che me lo dirai quando non mi amerai più!...» E le mie ginocchia, senza avvedermene, si piegarono.
«Mio Dio! Narcisa... Io non so quello che tu abbia stasera; ma se ciò può farti piacere, quantunque io senta tutta l'inutilità di tale promessa... se ciò può servire a calmarti... ebbene!...io te la do.»
«Oh! grazie, grazie!», esclamai baciandolo in fronte, con un doloroso trasporto; «grazie!... Io sarò più tranquilla!... potrò almeno godere senza sospetto questi giorni di felicità che puoi darmi...»
«Narcisa!... per pietà!...»
«Oh, no... Pietro! non vedi che son felice, ora?!...»
Egli rimase triste e pensieroso lungo tutta la strada.
Io provavo un inenarrabile godimento nell'appoggiarmi al suo braccio, nel sentire palpitare contro il mio polso quel cuore che ancora palpitava per me. Tre o quattro volte alzai gli occhi su quel volto maschio ed energico che adoravo, che divoravo dello sguardo, come se fossi avara dal bene che possedevo ancora di saziarmene.
«Confessiamo», disse Pietro nel salire le scale della casa ove andavamo, sorridendo ancora con una lieve tinta di mestizia, come per scacciare la penosa preoccupazione che ci aveva invaso ambedue, «confessiamo che siamo pure i gran fanciulli, e che i nostri discorsi sono stati ben singolari per due innamorati che vanno ad una festa da ballo.»
Respirai più liberamente quando la carrozza ci trasportava rapidamente verso la nostra abitazione: mi parea d'essermi levato un gran peso dal cuore col togliermi quella maschera di convenienza che la società esige, e che, quella sera, in mezzo a quella splendida folla, mi era sembrata odiosa.
L'indomani Pietro si rimise a studiare di lena, come non l'avevo mai veduto lavorare. Io passavo i giorni nel suo gabinetto di studio, disegnando o sfogliando i fiori dei quali era sempre piena la giardiniera che contornava il suo tavolino, e dei quali spargevo le foglie sulla carta in cui egli scriveva; o, quand'egli lo voleva, andavo al pianoforte e gli suonavo il pezzo che [mi] domandava.
Egli usciva sempre la sera per darsi un poco di distrazione, che le occupazioni assidue del giorno gli rendevano necessaria. Qualche volta l'accompagnavo. Una sera volli rimanere in casa per vedere ciò che avrebbe fatto: uscì solo.
Quattro mesi prima sarebbe stato più avaro del tempo che avrebbe potuto passarmi vicino.
Di tratto in tratto egli si mostrava preoccupato, quasi triste... sembrava staccarsi con isforzo alle sue penose meditazioni per prodigarmi ancora quelle sue ferventi carezze, che mi fanno obliare in un bacio tutti i terrori dell'avvenire.
Non potevo esser gelosa... Alla festa, ove l'accompagnai, avevo veduto le più eleganti e belle dame sorridergli con quella grazia che dà diritti a sperare, prodigargli le più obbliganti attenzioni, e l'avevo veduto rimaner freddo e cortese innanzi a quelle attrattive, cercando avidamente il mio sguardo e il mio sorriso. Egli è troppo generoso e nobile per potermi parlare come mi parla e guardarmi come egli lo fa se il rimorso di un altro affetto lo facesse arrossire. No! il mio Pietro è troppo elevato per scendere sino alla dissimulazione... egli avrebbe piuttosto la forza brutale di abbandonarmi.
Eppure questa certezza, che per molte sarebbe una consolazione, per me è il più crudele disinganno, perché mi toglie persino la speranza dell'avvenire... Quello che scrivo mi scotta le mani, come mi brucia il cuore... Avrei sempre la speranza di riavere il cuore di Pietro che si allontanasse da me per un'altra donna, poiché egli dovrebbe, tosto o tardi, accorgersi che giammai, giammai donna potrà amarlo come l'amo io, giammai simile amore potrà suggerire alla donna tutti gli incanti più raffinati per fargli bella la vita, per fargli sentire tutte le infinite percezioni di questo amore colle pulsazioni violente delle sue arterie... ma Pietro stanco del mio affetto, di me... Pietro disilluso del prestigio che mi faceva bella ai suoi occhi... io non l'avrò più!... mai... mai più!...
Dio! Dio mio!... la morte... piuttosto la morte!...
Alcune notti egli è rientrato assai tardi... Ho udito che raccomandava di non far rumore per non isvegliarmi... come se avessi potuto dormire, io!... mentre soffocavo i singhiozzi nascosta dietro la portiera dell'uscio.
Oh, egli ha potuto pensarlo ch'io dormissi... prima che egli fosse ritorn...
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