[Pagina precedente]... strumenti da fiato e da corda che eseguivano una polka, e i passi saltellanti e vigorosi di coloro che ballavano.
«Costoro si divertono»; diss'egli, «chi sa se anch'io vi potrei almeno dimenticare!...»
Fece alcuni passi per entrare nella bottega di tabacchi che precede l'ignobile sala da ballo, ma non ebbe la forza di farlo. L'istinto, l'abitudine piuttosto, del giovane bene educato non gli permise di mischiarsi senza transazioni a quanto vi avea d'impuro e d'abietto in quella gentaglia, operai d'infima classe, lustrastivali, borsaiuoli, barcaiuoli e femmine di mala vita, che componevano la società di quel ballo.
«Oh! stordirmi! stordirmi!...», esclamò egli, con un accento quasi doloroso, fermo in mezzo al viale ove avea incontrato Narcisa e questa l'avea guardato.
E partì di buon passo per la strada Stesicorea; ai Quattro Cantoni entrò alla Villa di Sicilia.
Era la capitolazione del giovane di buona famiglia, che non osava ancora penetrare nella taverna per ubbriacarsi e cercava la taverna elegante. Al garzone, che gli domandava cosa ordinasse, rispose di non saperlo, di recare quel che voleva, come per esempio un'insalata, purché l'accompagnasse di una bottiglia di marsala.
Il cameriere guardò sorpreso quel giovane che beveva una bottiglia di marsala su di un'insalata.
Pietro fu quasi atterrito, quando, riflessa dirimpetto a lui, su di uno specchio, vide una sinistra figura da spettro, col cappello ammaccato, i capelli incollati e cadenti sul volto di un pallore che sembrava terreo, magro in modo da far luccicare straordinariamente il bagliore che la febbre dava ai suoi occhi, i quali sembravano più grandi; cogli abiti scomposti; egli stentò un pezzo a riconoscere se stesso, e finalmente un riso amarissimo errò sulle sue labbra violacee.
Il cameriere gli recò quanto avea ordinato; egli cominciò a bere il vino senza toccare l'insalata. Allorché sentì i polsi battergli più forte, le gote animarsi, i vapori annebbiare la sua testa, ancora vertiginosa, egli si alzò, dopo aver pagato lo scotto, ed uscì.
«Ora andiamo al ballo!», mormorò con triste sarcasmo; «forse anch'
ella, a quest'ora, è alla sua festa!...»
E scacciando un'ultima volta quest'immagine che, anche fra i fumi del vino, anche nel momento che si stordiva per non vederla e che la fuggiva nello stravizzo, trovava modo d'inchiodarglisi ferocemente nel cervello, egli corse alla
Marina; esitò ancora un istante prima di mettere il piede su quella soglia, e finalmente entrò nella bottega che precedeva lo stanzone ove si ballava. Fingendo di dover comprare sigari, domandò a colui che stava al banco se l'entrata al ballo era libera per tutti, pagando; colui lo squadrò dal capo alle piante, come sorpreso che un giovane il quale indossava abiti piuttosto eleganti venisse a cercare una tal festa; poi, alzando le spalle con ruvida indifferenza, gli rispose con un cenno del capo affermativo. Brusio, pagati alla porta i pochi centesimi che davano diritto all'entrata, passò nella sala da ballo.
Era, come abbiamo accennato, una stanza assai grande, illuminata da lampade ad olio, con alcune panche disposte in giro alle pareti, su di una delle quali sedevano un contrabbasso, un violino ed un flauto che facevano saltare col movimento della polka una ventina di ballerini e ballerine.
La vista del giovane in cappello a cilindro fece impressione certamente, poiché le danze furono sospese, e tutti si volsero a guardare con curiosità il nuovo venuto; poco dopo incominciò a farsi udire un mormorio di cattivo augurio contro quell'importuno che veniva a disturbare il loro passatempo.
«Egli viene a ridere di noi... il signorino!», esclamò una delle donne, che si appoggiava alla spalla di un uomo atletico, vestito di velluto e di volto assai caratteristico.
«Noi non andiamo a mischiarci alle sue smorfiose... quando essi si divertono!...», gridò un'altra.
«Non vogliamo seccatori qui! non vogliamo spie!», urlò una terza voce.
«Ora vado a prendere per le spalle questo piccino e te lo metto fuori», disse l'uomo erculeo alla sua donna.
E si avanzò, col cipiglio arrogante, verso il Brusio, il quale ancora esitava ad inoltrarsi.
«Che vuoi tu?», gli disse colla voce dura dell'imperio che esercitava sui suoi compagni quando gli fu faccia a faccia, covrendolo quasi col suo largo petto e la sua alta statura.
«Non ho da dirlo a te, né a nessuno qui!», rispose il giovane, irritato, quantunque avvinazzato, da quella brutale famigliarità , guardandolo fisso negli occhi.
«Per Cristo! non hai da dirlo a me?», rispose sghignazzando il colosso. «Ma sai che qui sei in casa mia, e che se ti prendo fra l'indice ed il pollice ti stritolo?!...»
«S'è casa tua ci resto!», disse Pietro coll'ostinazione dell'ubriachezza o del puntiglio giovanile; «in quanto a stritolarmi, provati!»
E incrocicchiò le braccia sul petto, stendendo un passo in avanti e spostandosi solidamente sulle sue gambe snelle ma nervose, come se aspettasse l'assalto.
L'altro fece ancora un passo, minacciandolo dello sguardo più che del gesto, con la bravata audace e cinica che dà la coscienza della superiorità fisica in tali uomini; e mormorò, con voce che cominciava ad essere rauca d'ira, accostandosi sin quasi a toccarlo col petto:
«Vattene!».
«No!», rispose Pietro bruscamente.
Il gigante stese le braccia per afferrarlo; le braccia muscolose del giovane lo ributtarono due o tre passi all'indietro con un vigore che il bravaccio non avrebbe mai supposto in quel corpo magro e svelto; allora mise un urlo di rabbia: l'urlo della iena che ha sentito pungersi mentre scherzava; e afferrata una sedia la slogò di un sol colpo sul pavimento, tornando quindi verso di Brusio con la sbarra pesante e ruvida fra le mani, che brandiva sulla sua testa come una clava. Pietro, dal canto suo, fu lesto ad impadronirsi del bastone di uno dei suonatori, che si erano salvati dietro le panche, e a pararsi il colpo con quello.
Allora cominciò un combattimento accanito e feroce fra l'uomo atletico, che mugghiava come un toro ferito per la rabbia che non poteva sfogare, rabbia accresciuta dalla inopinata resistenza che incontrava e che gli toglieva il prestigio d'invincibilità nell'opinione dei suoi compagni, ed il giovane alto, sottile, pallidissimo, colle grosse labbra chiuse e sdegnose, l'occhio scintillante, la fronte alquanto calva, altiera ed impassibile, su cui si appiccicavano i capelli arruffati e si schiacciava il suo cappello a cilindro. Per fortuna Pietro aveva studiato la scherma del bastone con maggiore attenzione di quanta ne avesse messa ad ascoltare le lezioni del canonico Russo; fu perciò col massimo piacere degli spettatori, comprese le femmine, che questi assistettero a quel duello singolare fra i due avversarii degni di starsi a fronte l'un l'altro; essi battevano le mani ai bei colpi, e incoraggiavano con acclamazioni i combattenti. Brusio non era più uno straniero per loro, un
signorino, ora che maneggiava sì bene il bastone.
L'uomo vestito di velluto avea il braccio e le reni solidi come bronzo, e molta abilità in questa maniera di scherma, ciò che gli faceva menar colpi che calavano giù rombando terribilmente; il giovane però, se non avea la forza muscolare del suo avversario, lo vinceva nell'elasticità e sveltezza dei movimenti e nel sangue freddo inalterabile, che in lui era uno strano effetto della collera, con cui aggiustava i suoi colpi e parava quelli che gli venivano. Tutt'a un tratto una legnata violenta di Brusio spezzò la spada colla quale il bravaccio parava il colpo alla testa, e si vide quest'ultimo stramazzare a terra colle braccia stese: avea il cranio spaccato.
Successe uno straordinario tafferuglio: alcuni gridavano evviva, altri imprecavano e minacciavano Pietro più seriamente al certo di quanto fosse stato minacciato sino allora, poiché nella mezza luce si vedevano luccicare lame di coltelli affilati.
«Silenzio, canaglia!», si udì gridare una voce la quale avea tutte le gradazioni fra quella dell'uomo e quella della donna, «questo giovanotto lo proteggo io! è dei nostri!... Ha cuore e pugno... Egli vuol essere dei nostri, giacché è venuto; non è vero?»
«No! no! Sì! sì!», urlarono alcune voci avvinazzate: «Non vogliamo
cappelli! non vogliamo
signorini!...»; «Viva il
signorino! egli ha il pugno di ferro; egli ha vinto Nicola!».
Nulla avrebbe potuto sedare quello schiamazzo, e Pietro avrebbe corso fors'anche il più grave pericolo, minacciato dalla vendetta degli amici del caduto, quantunque difeso anche dal piccol numero dei suoi ammiratori; un altro combattimento, in più grandi proporzioni, era almeno imminente, se non fosse entrato in quel punto il padrone dello stabilimento; il quale, impassibile sin'allora a quanto era avvenuto, dietro il suo banco della prima camera, accorreva dimostrando nel gesto e nella fisonomia l'importanza della notizia che recava:
«I carabinieri!», diss'egli. «I carabinieri!» fu gridato da ogni parte.
E tosto amici e nemici si fusero in un lodevole accordo a nascondere in uno stanzino il mal capitato Nicola, cui, quantunque fosse rinvenuto e mandasse lamentevoli gemiti, nessuno avea badato, a lavare il pavimento lordo di sangue, e a tirare i suonatori da sotto le panche.
«La
Fasola! la
Fasola!», fu gridato da tutti.
Venti braccia soffocarono Pietro in un energico amplesso; e venti voci, anche di quelle che avevano minacciata la sua vita un momento innanzi, gli susurrarono: «Siamo amici, non è vero? Sei dei nostri!... Vuoi essere dei nostri?».
«Sì, son dei vostri!... amici! tutti amici!», rispose Pietro, urlando tanto forte da cercare di soffocare le stesse parole che proferiva; stendendo le mani alle venti mani nere e callose che gli venivano stese, onde stordire tutto quello che sentiva d'ignobile, di ributtante, di vile in quell'accozzaglia alla quale veniva a domandare le sue distrazioni; ballando anche lui quella ridda infernale sul sangue versato da poco e ancora tiepido... Egli, a misura che le acri esalazioni di quei cenci e di quei corpi, e l'esaltazione avvinazzata di quel tripudio cominciarono ad offuscargli il cervello, come il marsala non aveva potuto fare; egli, che aveva avuto ribrezzo a toccare la mano di quella femmina, spudorata corifea della festa, ch'era stata la donna di Nicola, cominciò a saltare più furiosamente degli altri, e stringersi più ebbro quell'abbietta creatura fra le braccia.
Due ore dopo mezzanotte egli usciva stordito, briaco da quell'orgia; ancora sbalordito dal baccano che avea fatto il suo cuore; mormorando come per illudersi anche in quel momento:
«Oh! la vita!... Questa è la vita!... Donne e vino!... Viva l'allegria!».
Da quel giorno, o piuttosto da quella notte, Pietro Brusio cominciò una vita indegna ed abbietta, di cui egli cercava occupare tutti gli istanti con gli eccessi più sfrenati, per non darsi il tempo neanche di vedere dov'era caduto. Egli faceva sforzi sovrumani per annegare nel frastuono, nell'ubbriachezza, quanto sentiva ancora di elevato e di nobile nel suo cuore, che gli rimproverava come un rimorso la vita che menava, e gli faceva pensare spesso, malgrado la sua disperata volontà , malgrado gli eccessi a cui ricorreva, a quella donna fatale di cui malediva la memoria.
Spesso fra le orgie più impure, nell'ubbriachezza più profonda, egli rimaneva in disparte, muto, pallido, coll'occhio fisso e pensieroso. Spesso, al contrario, stringendosi una di quelle femmine da trivio fra le braccia egli mormorava un nome cogli occhi umidi di lagrime: ciò che rendeva dapprincipio attoniti, e faceva ridere dappoi i suoi compagni di stravizzo.
Egli logorava la giovinezza del suo cuore e del suo corpo in questa vita febbrile, divorante, che s'era imposta; fuggiva lo sguardo della madre e delle sorelle come se avesse temuto di contaminarle col suo, come se avesse temuto che la muta eloquenza dell'occhio umido della madre gli facesse sentire tutta l'infamia dell'abbiettezza in cui affogava le sue memorie e il suo amore, che provava ancora rigoglioso e potente. Fuggiv...
[Pagina successiva]