[Pagina precedente]...esso parlava al conte di quelle parole, cui rispondeva, come un'eco, un singhiozzo dalla strada.
Egli sapeva l'ora del suo levarsi, della sua toletta, del suo pranzo, della sua passeggiata; conosceva il modo d'ondeggiare delle tende quando ella vi stava dietro, il rumore delle carrucole della poltroncina che la sua mano indolente tirava a sé.
Era un martirio spaventevole che s'imponeva senza saperlo; che l'attraeva però col fascino del precipizio; che alimentava il parossismo febbrile, il quale divorava le sue forze e la sua vita, colle sue triste gioie, coi suoi acri godimenti, coi suoi sogni febbricitanti.
Alcune volte, ritirandosi ella dopo la mezzanotte, a piedi, accompagnata [dal conte e] da due o tre giovanotti eleganti che la corteggiavano, si era rivolta verso quell'uomo, seduto sul marciapiede, che si sarebbe scambiato con un mucchio di cenci; ed il conte avea rallentato il passo per meglio osservarlo. Quando ella si ritirava in carrozza, Pietro osservava, qualche volta, al riverbero dei lampioni della carrozza, che ella, mentre scendeva dal montatoio, si volgeva con curiosità verso l'angolo ove sapeva di dover trovare quello strano personaggio che la prima volta avea supposto un mendico; e che il conte si fermava innanzi al portone qualche minuto per guardarlo.
Una notte, negli ultimi di settembre, verso le due del mattino, Pietro aspettava da un pezzo la contessa che era andata alla serata del prefetto. Il rumore di una carrozza, che si avvicinava al gran trotto, si fece udire da molto lontano per le strade deserte, e poco dopo il legno passò dinanzi al nostro protagonista fermo al suo solito posto. Narcisa ne scese più lentamente del solito, e scomparve quasi subito insieme al conte.
La carrozza ripartì.
Pietro udì il passo leggero di lei che saliva le scale, accompagnato dal passo più pesante dell'uomo che la seguiva; udì la porta che si apriva a riceverli e si rinchiuse poco dopo; vide che nel salotto ove abitualmente dimorava la contessa, venivano accresciuti i lumi.
Poco dopo la dolce voce di Narcisa, col suo accento molle ed armonioso d'indefinibile espressione, fece battere fortemente il cuore del povero giovane.
«Mio Dio!... che buio!... Ma dormono tutti in questa casa stassera!...»
Indi alcuni suoni, tratti così a caso dal pianoforte, quasi le dita cercassero le note di una fantastica melodia, che si stancarono presto a riprodurre e che diede luogo al terzetto finale d'
Ernani, anch'esso poco dopo interrotto, colla stessa capricciosa volubilità , per un valtzer allora in gran voga:
Il Bacio, di Arditi.
Però sembrava che un'attitudine estraordinaria facesse, in chi suonava, supplire a tutte le lievi imperfezioni di esecuzione, che venivano dalle difficoltà che incontrava, con una espressione molto rara, che traeva degli impeti e dei fremiti di delirio festevole dalle note del valtzer e faceva piangere con quelle del melodramma.
Giammai a Pietro parve di avere udito armonia come quella che le mani della donna adorata creavano sui tasti d'avorio, nel silenzio profondo di quella notte, profumata dal vicino
Laberinto e rischiarata dalla luna.
Tutt'a un tratto anche il valtzer fu interrotto, ed il giovane udì i passi di lei che si avvicinava al verone, e vide la sua ombra che intercettava il lume che ne rischiarava il vano.
Ella si appoggiò all'inferriata del verone, colla testa fra le mani, perdendo il suo sguardo nell'orizzonte. La luna, allora nel suo più alto emisfero, la circondava quasi in un trasparente vapore.
Un'altra ombra si avanzò e le si mise al fianco.
«Perdio!», disse una voce secca ed orgogliosa, con accento toscano, che Pietro riconobbe per quella del conte, «non mi leverò mai d'addosso quest'accidente!»
Brusio sentì che quelle parole erano al suo indirizzo, e il sangue gli montò al viso.
«Che dite?», rispose la fresca voce della contessa, sebbene parlasse pianissimo.
«Parlo di quell'importuno che sta a farci la spia da mane a sera; che non ci lascia un'ora di pace... e che credo, in fede mia, sia pazzo di voi...»
La contessa alzò le spalle con un moto sprezzante d'indifferenza; indi mormorò sbadatamente, colla sua voce più bella e più calma, e colla più completa noncuranza, lasciando il verone:
«E che ci ho da fare io se quest'uomo e pazzo?...».
Pietro si alzò, lento, come se le gambe gli si piegassero sotto, sentendo agghiacciarglisi il sudore sulla fronte, coi denti sbattenti di convulsione.
Di giorno il conte sarebbe rimasto atterrito dal pallore e dall'alterazione dei lineamenti di lui, e dal sinistro splendore dei suoi occhi ardenti.
Egli rimase un momento immobile, annichilato, come se quella bellissima voce di donna avesse di un sol colpo reciso i muscoli più vitali del suo cuore. Il solo rumore che si udiva era quello dei suoi denti che battevano gli uni contro gli altri.
«Questa donna ha ragione!», mormorò egli quindi colla voce rauca, stentando a proferire le parole: «io son pazzo!... son pazzo!... Sono stato vile anche!...».
E partì lentamente, quasi strascinandosi. Non avea fatto dieci passi che udì le note allegre e cristalline del valtzer che risuonavano di nuovo.
Si fermò in mezzo alla strada, a guardare un'ultima volta, con un'ineffabile espressione di disperata amarezza, quel lume che splendeva chiarissimo in quella stanza riboccante d'armonia; si levò il cappello, con un moto istintivo, lento, quasi solenne, esclamando, cogli occhi umidi di lagrime infuocate:
«Addio, signora!... Addio!».
Camminò tentoni, barcollando com un ubbriaco, fino a quando stramazzò, privo di forze, singhiozzante, su di un sedile di marmo sotto gli alberi del
Rinazzo.
«Oh! questo valtzer! questo valtzer!», gridò egli smaniante, come se quelle note gli percuotessero sul cervello, «Dio!... mi pare di diventar matto davvero... Ah!... ma non ha dunque nemmeno un pensiero per l'uomo ch'è pazzo per lei, questa donna?!!...»
E partì correndo, come un delirante, fuggendo quei suoni, che sembravano inseguirlo nel silenzio della contrada.
Si aggirò quasi tutta la notte per le vie più solitarie e deserte della città ; spesso correndo e singhiozzando disperatamente, spesso lasciandosi cadere a terra, sul canto di una via, quando l'eccitazione febbrile che l'agitava gli toglieva le forze che gli aveva dato nel suo parossismo. Non tenteremo di dare un'idea di quelle lagrime roventi che lasciavano solchi sul suo volto livido ed impastato di polvere e di sudore. La tempesta violenta che mugghiava in quel petto gli faceva emettere voci tronche, gemiti che si articolavano come parole, ma in mezzo ai quali risuonava sempre un grido, or come un singhiozzo, or come un'invocazione disperata: «Narcisa!... Narcisa!...». E quando le sue arterie battevano in modo da rompersi, egli si afferrava la testa fra le mani, e tornava a correre come un pazzo, fin quando la stanchezza fisica lo istupidiva alla lotta terribile delle sue passioni.
Cominciava ad albeggiare; quell'incerto crepuscolo gli ferì gli occhi come un riverbero infuocato; quella vita che si risvegliava nella grande città con tutti i suoi rumori, quella luce che crescendo gli sembrava rischiarasse tutta l'immensità della sua disperazione, gli parvero odiose... a lui che cercava il nulla, che non avea pensato al suicidio perché odiava troppo ancora per essere stanco della vita.
Aprì la porta di strada di casa sua colla doppia chiave che recava sempre addosso; si chiuse nella sua camera, così al buio; e si buttò sul letto, vestito com'era, lasciando cadere soltanto in un angolo il suo cappello: era annichilato.
La stanchezza fisica e la morale l'avevano vinta fors'anche sulla sua disperazione; o almeno, in quel punto, gliela avevano resa meno sensibile. Egli si addormentò poco dopo di un sonno agitato, febbrile ed interrotto.
Sua madre, che all'alba avea lasciato il letto, dopo una notte passata fra le lagrime, e stava nel salotto che precedeva la camera di lui, onde vedere se almeno fosse rientrato, udì a lungo gemiti, singhiozzi, rantoli soffocati, che si mischiavano alla respirazione affannosa e stentata del dormente, e che conturbavano e straziavano il suo cuore. Questa donna, coll'orecchio fissato sulla toppa dell'uscio, stette quasi un giorno intiero ascoltando con angosciosa ansietà tutti i minimi rumori di lui e cercando d'indovinarli. Finalmente, verso le sette di sera, l'udì levarsi e passeggiare per la camera. Ella ebbe timore, sì, la madre che comprendeva come qualche cosa di terribile passasse nell'animo del figlio, e lo allontanasse dalle sue consolazioni e fin dalle sue lagrime, la madre ebbe timore che questo figlio adorato, buono un tempo ed affettuoso, che ella non riconosceva più ora allo sguardo fosco e al carattere aspro e violento, non commettesse qualche scena brutale se si fosse accorto di essere stato spiato.
Pietro passeggiò un pezzo per la camera, strascinandosi o camminando a salti, a seconda delle istantanee trasformazioni che subiva il corso delle sue idee; odiando quel filo di luce che trapelava dalle commessure delle imposte e che gli provava che la luce illuminava ancora; odiando i rumori della strada che gli annunziavano che tutto non era morto o almeno in lutto come il suo cuore; odiando fin anche il pensiero di esser vicino alla sua famiglia, quella famiglia che avea formato il suo culto e per la quale avrebbe dato altra volta tutto il suo sangue. Poi sedette presso il tavolino, colla testa fra le mani; e vi stette a lungo; coll'occhio arido, lucido, di una straordinaria fissità .
Una febbre ardente faceva vibrare con forza le sue pulsazioni; allorché sentì battere sì violentemente le sue arterie ch'egli ne udiva quasi il sordo rumore con colpi spessi percossi sul cervello; allorché sentì sulle palme quel fuoco che ardeva la sua fronte; allorché, più che mai, intravide dei lucidi bagliori attraversargli la pupilla con un solco luminoso, che nell'animo tracciava una striscia infuocata fra la tempesta delle sue passioni, dubitò un momento che fosse pazzo davvero. Egli ebbe paura di quest'idea... paura di non esser più padrone di sé, della sua vita, nel momento che sentiva averne maggior bisogno, per inebbriarsi di tutta la terribile voluttà di quel dolore che l'attaccava alla vita istessa; ebbe paura di abbandonare questa, come in trastullo, agli uomini: egli si fece alcune domande che erano strazianti nella loro calma forzata; si propose ragionamenti posati che tradivano ancora la convulsione dello sforzo che erano costati, dominando l'uragano che tempestavagli in cuore con volontà disperata di calma, per convincersi che non era pazzo... poiché egli avea paura d'esserlo... poiché egli odiava ferocemente...
Udì suonare nove ore all'orologio della stanza contingua.
«Vediamo!», mormorò egli alzandosi, «a quest'ora dev'essere buio... Ho tutta la mia ragione ancora!... Che vale disperarsi per colei?... quali diritti ne ho io? Siamo uomini, perdio!... come dice Raimondo... Ma chi dice questo spesso è segno che teme di non esserlo abbastanza... Non è vero che son pazzo!... Non voglio essere pazzo io!... Ebbene!... io voglio esser uomo!... sì... ho la testa lucida!... comprendo che bisogna annegarne la memoria... annegarla fra il vino... le donne... l'orgia!...»
Aprì le imposte, per vedere s'era notte davvero: era buio affatto; raccolse il cappello da terra e se lo calcò sul capo senza nemmeno aggiustarsi i capelli arruffati e appiccicati col sudore sulla fronte, ed uscì, quasi fuggendo la madre che udiva camminare nell'altra stanza.
V
Gli parve di respirare più liberamente quando l'aria aperta lo percosse sul volto, rinfrescando il calore delle sue membra ardenti di febbre: quella dolce sensazione gli parve fargli bene. Per la strada Vittoria scese alla
Marina. A misura che l'influenza di quella bella sera s'insinuava nel suo organismo, egli sentiva però crescere e giganteggiare un fantasma che voleva scacciare con tutte le forze dell'essere suo... che l'atterriva.
Sotto il Seminario, vicino
Porta Marina, in una bottega, udì i suoni di alcuni...
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