[Pagina precedente]...a gli amici di una volta, che forse avrebbero potuto rimproverarlo col loro freddo contegno; [fuggiva sin anche] Raimondo, cui non si sentiva bastante coraggio di avvicinare.
Siamo al Giovedì Grasso. Brusio ha passato più di quattro mesi di questa vita; è divenuto il corifeo di questa canaglia composta di femmine da trivio e di uomini perduti; e in quella sera, tutti mascherati in modo poveramente e orribilmente grottesco, vanno al Teatro a farvi pompa del cinismo del vizio, della brutalità della violenza, della petulanza della miseria colpevole; occupando la galleria, ove mangiano, bevono, contendono ed urlano anche nel tempo della rappresentazione, malgrado la presenza delle numerose Guardie di Pubblica Sicurezza e dei Reali Carabinieri. Dopo la recita aspettano l'apertura del ballo mascherato per lanciarsi, coi loro costumi sudici, in mezzo alla platea, per mischiarsi a quella società elegante che non sentonsi in diritto d'avvicinare coi loro cenci, e per farlo ne cercano il coraggio nell'ebbrezza, nell'esaltazione e negli eccessi.
Brusio, in prima fila fra di essi, sul proscenio, indossando un travestimento tutto suo, composto di cappuccio, casacca e pantaloni di pelle di montone (vestito che egli avea denominato da orso), si occupava metodicamente a dar fiato ad un enorme corno ad ogni scena nuova; e le rimostranze delle guardie di Questura erano soffocate dagli urli, dai suoni di trombe e di campane e dai fischi della mascherata numerosa che gli faceva codazzo.
Poco prima di mezzanotte fu aperto il ballo. Quella folla ululante irruppe come un torrente limaccioso nella sala.
I palchetti erano gremiti di elegantissime dame e di signori mascherati con lusso. Poco dopo si aprì l'uscio di un palchetto di seconda fila ed entrò la contessa di Prato, mascherata da baccante, accompagnata dal marito e da un bel giovanotto biondo, sottotenente negli Usseri di Piacenza, che le tolse dalle spalle la mantelletta
Fatma di peluscio. Giammai la signora aveva brillato di tutta la pompa affascinante delle sue seduzioni irresistibili, come quando si avanzò sul parapetto della loggia colle braccia, le spalle ed il petto nudi nel suo abito diafano di velo, col suo sorriso sulle labbra, con quel piccolo grappolo d'uva e quell'unica foglia verde a metà nascosti tra i riflessi cenerognoli de' suoi capelli neri, che vi si inanellavano attorno alla fronte e le cadevano mollemente sul collo.
Pietro non alzò nemmeno gli occhi verso i palchetti. Non osava di farlo, di dissipare forse collo spettacolo di quella profusione di eleganze e di bellezze che ornavano le loggie, il denso vapore avvinazzato e fangoso in cui si avvolgeva; non osava d'incontrare un viso ch'egli non voleva vedere per non avere a dubitare un'altra volta della sua ragione.
L'orchestra suonava un valtzer; la folla avea incominciato a ballarlo gesticolando e gridando. Tutt'a un tratto fu veduta una figura umana, imbacuccata in pelli nere che la facevano mostruosa, montare di un salto sul palcoscenico, e gridare colla sua voce più forte, stendendo il braccio con un gesto imperioso verso l'orchestra:
«Abbasso il valtzer! Non vogliamo valtzer! Non vogliamo balli aristocratici... Vogliamo la
Fasola!...».
Quella voce che comandava, quel gesto che imponeva fecero fermare i ballerini che danzavano e i professori che suonavano; e cominciò un immenso frastuono. Dai palchi partirono alcuni fischi acutissimi, tratti certamente con l'aiuto delle chiavi.
Allora quell'uomo, quel mostro, alzò la testa orribile a vedersi col suo pallore cadaverico sui suoi lineamenti dimagriti, collo scintillare dei suoi occhi infuocati fra i peli che gli cadevano dal cappuccio sulla fronte; e quello sguardo che fissò su quei cavalieri giovani, ricchi, eleganti; su quelle mani in guanti bianchi che si sporgevano fuori dei palchi ad imporgli silenzio; su quelle signore belle, profumate, splendenti di gemme; su quella folla dorata che faceva il più vivo contrasto con quella brutta, cinica, briaca, cenciosa, che l'accompagnava, quello sguardo fu d'odio immenso, indicibile, e anche di feroce vendetta.
«Abbasso gli aristocratici!», gridò egli, Pietro, il giovane aristocratico per istinto; «abbasso i guanti bianchi! Vogliamo la
Fasola! Suonate la
Fasola!»
A quelle parole successe un immenso schiamazzo di urli che applaudivano alle sue parole e chiamavano la
Fasola, questa danza popolare. I carabinieri, quantunque avessero spiegato la massima energia nel cercare di calmare l'effervescenza, erano in troppo piccol numero per imporsi a quella folla resa audace dalla sua istessa insolenza; finalmente si fece venire il picchetto di Guardia Nazionale ch'era alla porta.
In questa una fischiata solenne e generale, partita dai palchi, sembrò sfidare la collera di quella gentaglia irritata: le mani inguantate di bianco non volevano lasciarsi sopraffare dalle mani nere e callose.
Nella platea scoppiò un grido generale di rabbia. Alcune signore svennero allo spettacolo di quella folla urlante che levava braccia nere e facce infuocate e furibonde, come ad imprecare, verso i palchetti, e in mezzo alla quale scintillavano alcuni ferri aguzzi. I carabinieri misero le mani sui
revolvers, e la Guardia Nazionale entrò nella sala colle baionette in canna.
Rinunziamo a descrivere lo stato d'esasperazione di Brusio a quella sfida imprudente che l'aveva percosso come uno schiaffo; egli saltò in mezzo alla folla gridando:
«Ora faccio scendere tutta questa canaglia coi guanti a ballare la
Fasola con noi! Vado a prenderveli per le orecchie!».
E si fece largo in mezzo alla calca. Nessuno, né carabinieri, né Guardia Nazionale badarono a quell'uomo che usciva, a quella jena assetata di vendetta, che spingeva in avanti il collo anelante come un animale sitibondo. In due salti egli fu sulla scala del second'ordine, e si avanzò pel corridoio.
Tutt'a un tratto egli si fermò, come percosso dal fulmine, coll'occhio smarrito, col volto pallido e convulso: si era trovaro faccia a faccia a Narcisa, che partiva dal Teatro, spaventata di quel frastuono.
La contessa aveva messo un grido nel vedere quell'uomo che correva come un pazzo contro di lei, facendo scintillare nel suo pugno la lama larghissima di un coltello a manico; quella figura informe ed orrenda sotto le pelli che la coprivano, della quale gli occhi soltanto luccicavano come due carbonchi sul volto che sembrava una maschera di cera gialla. Ella si era stretta contro la parete, aggrappandosi al braccio del conte, come per farsene schermo.
Pietro aveva avuto uno sguardo, un solo, per lei; il coltello gli era caduto di mano; poi era fuggito, correndo a salti, urlando disperatamente, come l'animale che voleva figurare.
«Oh! questa donna! questa donna!... questo demonio!», gridava egli, correndo all'impazzata pel Molo.
Si fermò sull'ultimo limite di questo, quando non vide più dinanzi a sé che il mare bruno ed immenso, su cui scintillavano le stelle. Fissò uno sguardo ebete, smarrito su quella superficie che si stendeva a perdita di vista, luccicante di riflessi fosforici; su quelle stelle che splendevano sulla sua testa... Due o tre volte avanzò il passo verso quell'abisso che poteva inghiottire la sua vita coi suoi vortici spumeggianti; e ciascuna volta egli sentì una forza che l'afferrava e lo tratteneva... Finalmente cadde accosciato sul suolo umido e spazzato qualche volta dalle onde, prorompendo in lagrime amare, ardenti, ma non più disperate.
Egli pianse a lungo: quel pianto, che non aveva potuto versare da circa cinque mesi, forse lo salvò.
«Questa donna ha ragione», mormorò quando fu calmo, come aveva detto allorquando gli era parso che il suo cuore si fosse spezzato: «quali diritti ho io al suo amore, alla sua attenzione, fin'anche?... Io, Pietro Brusio!... Ma io voglio averli, questi diritti che Dio m'ha dato, che in un istante di scoraggiamento io ho sconosciuto, ho ripudiato, ma che sento in me... Questa donna anderà superba un giorno dell'amore di Pietro Brusio!!».
E rialzando la testa, quasi lieto ed altiero di quel nuovo indirizzo che dava alla sua vita, di quell'espiazione che s'imponeva del passato, della speranza che gli brillava negli occhi ridenti, guardò il cielo quasi calmo, quasi giocondo ora. Si alzò, e con passo fermo s'incamminò verso la sua casa. Egli andò ad abbracciare la madre nel letto, come per darle la lieta notizia, mescolando le sue lagrime a quelle di gioia di lei, che ritrovava il figlio suo; e dandole la sola spiegazione della metamorfosi che uno sguardo ed un pensiero avevano potuto operare in lui con queste sole parole:
«Perdonami, madre mia!... perdonami!».
Due mesi intieri ebbe la forza di non cercare Narcisa, di non vederla. Usciva di rado, la sera; e sempre in compagnia di sua madre e delle sue sorelle.
L'aveva dimenticata?
No! Egli aveva tal forza perché viveva per lei, con lei, in lei; perché tutta la sua vita era ormai Narcisa.
Egli lavorava con un entusiasmo quasi accanito, con una lena che soltanto poteva dargli l'esaltazione in cui si trovava; e fece passare tutto il suo cuore nell'opera sua. Due mesi dopo avea finito un dramma che rileggeva cogli occhi brillanti di sorriso; del quale era contento; che amava quasi di una parte dell'amore di cui amava Narcisa; che amava come un'emanazione di lei. Quando egli fu soddisfatto dell'opera sua, di se stesso; quand'egli si sentì più vicino a Narcisa, allora la cercò.
La sua casa era deserta e le imposte dei veroni chiuse.
La cercò inutilmente otto giorni pei passeggi e al Teatro; ne domandò agli amici: nessuno l'avea più veduta.
Risoluto di trovarla ad ogni costo andò a far visita in casa A*** e colla signora condusse il discorso sino alla contessa.
«A proposito, che n'è di lei?», domandò.
«Credevo che lo sapeste, voi suo amante: è partita.»
«Partita!»
«Sì, da venti giorni.»
«E per dove?»
«Per Napoli.»
«Anderò a Napoli!», disse a se stesso Brusio.
VI
Parecchie settimane dopo, in Napoli, ad una delle serate che dava il barone di Monterosso, noi ritroviamo Narcisa, accompagnata dal marito e dal giovanotto ufficiale di cavalleria negli Usseri, che abbiamo incontrato con lei a Catania. Il sottotenente, che apparteneva ad una delle più nobili famiglie del Napoletano, l'avea presentata ad una signora di mezza età , la quale recava con tutta disinvoltura gli occhiali sul naso, appartenente anch'essa alla più alta società e che col suo ingegno si è fatto un nome che comincia ad esser celebre anche fuori d'Italia. Le due donne, l'una circondata e adulata pel potere dei suoi vezzi, l'altra pel prestigio del suo nome, sedevano l'una presso all'altra su di un canapè, accerchiate da uno stuolo di cortigiani.
Il barone di Monterosso venne a complimentare la signora contessa R***, e a dire anche due parole d'occasione a Narcisa.
«Avrò la fortuna, signora contessa», disse, parlando alla donna matura, «di presentarle stasera un uomo, che, ancora giovanissimo, si è aperta diggià la più brillante carriera nella letteratura drammatica.»
«L'autore di
Gilberto forse?», domandò la signora.
«Lo conosce?»
«No; ne ho udito semplicemente parlare; è un dramma che ha incontrato moltissimo, a quel che pare; e di cui i giornali si sono disputati i meriti con quell'accanimento che dà sempre della rinomanza all'autore. È napoletano?»
«È siciliano; si chiama Pietro Brusio.»
«Brusio?... Non ho mai udito questo nome...»
«Fra otto giorni questo nome sarà pronunziato come quello di Giacometti e di Gherardi del Testa.»
«È una celebrità in erba, dunque?»
«Sì, signora contessa: una celebrità che nasce, ma in mezzo ad una splendida aurora. Il suo dramma è stato replicato quattro volte a richiesta, e domani fu desiderato per la quinta; l'impresario glielo ha pagato come non si sogliono pagare quasi mai le produzioni letterarie in ltalia, e l'ha impegnato a scrivere pei Fiorentini con un appuntamento che lo farà vivere da signore.»
«Domani andrò ai Fiorentini», disse la dama, «stasera mi presenti il suo protetto; lo pregherò di passare...
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