[Pagina precedente]... e che io ascolti lo stormire di quegli alberi, il suono di quell'orologio, il murmure lontano di quel mare, il fruscio della tua veste;... e che io vegga il lume che rischiara la tua camera;... e che la tua voce soprattutto, la tua voce inebbriante, mi ripeta ad ogni ora, ad ogni minuto, che quello non è un sogno, che io non son pazzo;... e che le tue labbra, posandosi sulla mia fronte, mi scaccino questo turbine affannoso che mi sconvolge la mente, che mi fa dubitare della mia felicità ....»
«Andiamo a Catania!», mormorò Narcisa, dandogli un lungo bacio e bagnandogli la fronte di due lagrime di voluttà .
VIII
Sig. Raimondo Angiolini - Siracusa.
Catania, *** Agosto 186*
Amico mio,
apro oggi soltanto le lettere che mi son pervenute da due mesi per la posta, delle quali alcune tue e di mia madre sono vecchie da più di 70 giorni. Povera madre! che avrà pensato di me?!... Eppure se ella avesse potuto conoscere la felicità del figlio suo, se sapesse i godimenti immensi dei quali mi sono inebbriato, ella sarebbe lieta, quella buona madre, del lungo silenzio del figlio, che le proverebbe ch'egli ha dimenticato tutto onde vivere soltanto per questa vita di cui un'ora vale un secolo, per immergersi tutto in questo sogno febbricitante, in cui i brividi del piacere sono sì potenti da farlo riscuotere gemendo come di spasimo.
Raimondo, se, 15 mesi fa, quando seguitavamo quella sconosciuta, della quale cominciavo a subire il fascino inenarrabile, tu mi avessi detto: «costei, per uno di quei miracoli che provano Dio, avrà una parola, una sola parola per te»... io non avrei osato lusingarmi di questa speranza... io avrei temuto di carezzarla. Ed ora, nel momento in cui ti scrivo, questa donna, che di tutto ciò ch'è leggiadro s'è fatto un corteggio splendido, questa donna che ha il sorriso ammaliatore, gli sguardi inebbrianti col loro raggio pacato, le promesse più affascinanti nel suo voluttuoso abbandono, questa donna mi ama!... me l'ha detto colle sue labbra posate sulle mie!... Questa donna io l'ho posseduta; io la possiedo!...
È mia!... Quel cuore del quale mi spaventavo a scandagliare i misteri reconditi, come se gl'immensi tesori d'amore che vi si racchiudono avessero dovuto annegarmi nei loro diletti sovrumani, quella vita ch'è tutta un fremito di voluttà , io l'ho sentito palpitare fra le mie braccia... Essa è vissuta sotto il mio tetto; ha passeggiato al mio braccio; ...e le sue labbra hanno chiuso i miei occhi la sera, per riaprirmeli l'indomani!... Io ho baciato quei capelli, quella fronte, quegli occhi, quelle labbra; io mi son cullata quella testolina sui miei ginocchi, ed ho passato le intiere notti fantasticando cogli occhi fissi in quegli occhi, a leggervi tale amore che mai uomo in terra conoscerà .
Raimondo, sai tu cos'è questa donna?... È l'amore con tutti i suoi palpiti più arcani e misteriosi; è la voluttà con tutti i suoi sussulti più ardenti; è il delirio con tutti i suoi sogni più febbrili. Io non arriverò mai a farti immaginare qual fremito di piacere si provi quando quella mano da fata, colle sue unghie rosee, colle sue dita affilate, colla sua pelle rasata e candida si posa sulla fronte; e quando quegli occhi fanno passare nei miei baleni di quest'amore che al primo urto scintillano come il cozzo di due spade, e che inebbriano come un veleno.
Questa donna che vivea pei piaceri, della quale il lusso era il bisogno come l'aria è il bisogno dell'uomo, questa donna non esce più quasi mai; rifiuta tutti gl'inviti; si alza all'alba, per venire ad appoggiare la sua testa sulla mia spalla, mentre io lavoro; per venire a spargermi il tavolino di fiori ch'ella ha colti per me... per dirmi di quelle parole che ella sola sa dire. È una vita straordinaria che noi facciamo: una vita che c'invidierebbero molti e che molti compiangerebbero come una pazzia.
A Napoli noi uscivamo qualche volta, la sera, verso mezzanotte, in carrozza, e andavamo a Mergellina per la Riviera di Chiaia. Io non ti potrei esprimere le sempre nuove sensazioni che costei mi faceva provare, in quell'ora, seduta accanto a me sui cuscini della carrozza.
Noi lasciavamo il calesse per correre, di notte, come fanciulli, tenendoci per la mano, sedendoci a terra quando eravamo stanchi.
Il sole ci sorprendeva spesso ancora passeggiando, come nelle prime ore della notte; e allora noi correvamo a casa per levarci poi alle cinque.
Qualche altra volta uscivamo a cavallo. Narcisa cavalca come un'amazzone, e noi galoppavamo verso Posillipo. Io mi spaventavo nel vedere con quale audacia piena di grazia quel fragile corpo che sembra soltanto armonizzato per le più delicate carezze, quella giovane nervosa che sembra vivere una vita a metà aerea come quella di una farfalla, sfidava i pericoli della corsa, superando gli slanci impetuosi di
Arbek, il mio focoso cavallo, con tutta la disinvoltura di un cavallerizzo.
Quando ritornavamo, coi cavalli anelanti e coperti di spuma, Narcisa si lasciava cadere nelle mie braccia, avvinghiandomi le sue al collo; ed io la trasportavo, come una bambina, sulla sua poltrona accanto al pianoforte.
La sera facevamo della musica insieme. Ella è di un gusto squisito, quantunque non possegga tutte le facilità di un pianista. Quand'ella suona io sto seduto al suo fianco, colle braccia allacciate attorno alla sua vita; ella s'interrompe per guardarmi, per sorridermi; ...e quando mi ha guardato un pezzo, com'ella sola sa guardare, mi chiude gli occhi coi baci. Colle mie mani fra le sue ha voluto ch'io le narrassi tutta la mia vita, colle più minute particolarità ... Ha sorriso del suo caro sorriso a ciascuna rimembranza delle mie follie di giovinezza, e mi ha detto: «Giammai tu amerai come hai amato me!...».
E come ebbra del suo trionfo mi ha circondato la testa delle sue braccia.
Ora, da quaranta giorni, noi siamo a Catania, dove ad ogni passo io provo delle emozioni ineffabili. Spesso rimango delle ore intiere a contemplare l'oggetto insignificante che mi ricordo aver veduto quando amavo Narcisa di quel terribile amore senza speranza.
Io ho salito quella scala, ho passeggiato per quelle stanze, ho dormito sotto quel tetto... ho veduto la sua camera... Qual camera! se la vedessi, Raimondo!...
Un uomo che non avesse mai conosciuto Narcisa ne immaginerebbe il ritratto fisico e morale quando avesse soltanto veduta la sua camera.
Dappertutto velluti e sete; e, a renderne meno pesante la ricchezza, meno severo e più diafano il colorito, veli dappertutto, e fiori, e un profumo appena sensibile, ma molle, delizioso; il profumo della sua pelle delicata...
L'altra notte udii rumore nel suo appartamento; mi levai anch'io e la trovai al verone istesso dove io la vedevo qualche volta, cogli occhi fissi sulla strada dove altra volta io passavo parte delle notti.
Mi accorsi che aveva pianto. Come mi vide mi gettò le braccia al collo e scoppiò in singhiozzi.
«Oh! è l'eccesso della felicità che mi fa male!», mi disse.
E l'alba ci trovò ancora a quel verone, abbracciati.
Raimondo!... Ti svelo un gran mistero del mio cuore, che Narcisa non dovrebbe mai conoscere. In mezzo a questi deliranti piaceri, in mezzo a questa felicità che il Paradiso non mi potrebbe mai dare, ho un pensiero che mi è quasi terrore, che mi agghiaccia il bacio sulle labbra... e ciò quando penso che a forza d'inebbriarmi a questa coppa fatata, i sensi dell'uomo, troppo deboli per la piena di tanta felicità , non si istupidiscano nel godimento;... che io non possa più assorbire in tutti i più squisiti particolari questa rugiada d'amore di cui ella mi abbevera;... che, infine, (ho terrore di ripeterlo a me stesso!) a forza d'immedesimarmi nella vita di lei, a forza di assorbirne tutte le emanazioni quando me la stringo fra le braccia, io non giunga a rompere quel velo aereo, direi, di cui Narcisa si circonda, e che comanda quasi la semioscurità , l'isolamento, per farla meglio ammirare... Raimondo, se ciò avvenisse, sento che mi farei saltare le cervella.
Quando le parlo del suo passato ella mi risponde, inebbriandomi del suo sguardo:
«Ciò che io rimpiango sono i giorni che vi ho passato senza di te, e che avrebbero accumulato tesori d'amori e di ricordi trascorsi al tuo fianco».
Io ti ringrazio, amico mio, delle cure affettuose che prodighi alla mia famiglia. Vicini a te, quei miei cari, io son tranquillo sul loro stato. Dirai a mia madre che non oso scriverle; e che qualche giorno correrò sino a Siracusa per farmi perdonare il mio lungo silenzio fra le sue braccia. Addio, addio! Narcisa mi chiama; domani forse ti scriverò più a lungo.
Il tuo Pietro
Sig. Raimondo Angiolini - Siracusa.
Aci-Castello. *** Novembre 186*
Signore,
Pietro mi ha parlato sì spesso di lei, che il suo nome è per me quello di un amico. È come a fratello che io scrivo dunque, o signore... come ad un uomo che è l'amico del mio Pietro... E son sola... e non ho nessuno a cui aprire il mio cuore, per mezzo di cui far pervenire, in queste memorie, i miei ultimi ricordi a
lui!
Qual vita ho fatta!... Dio! Dio mio!... Mi pareva impazzire dalla felicità ; come ora mi pare impazzire dal dolore, quando penso a quelle ore trascorse come baleni nelle sue braccia, a quei suoi baci che sembravano divorarmi, a quelle sue ferventi parole che mi atterrivano quasi colla violenza della sua passione... a quei sei mesi tutti d'amore di cui noi assorbivamo i giorni con disperato anelito di piacere...
Ed ora...
È triste quello che ho a dirle, signore!... Oh, è ben triste!... Io ho soltanto la forza di scriverne poiché è il solo conforto che mi rimanga, poiché questi versi saranno letti da
lui... che, allora soltanto... forse... comprenderà di quale amore l'ho amato...; poiché io, infine, vi provo un penoso godimento, dopo quello che mi resta soltanto ad aspettarmi...
Se dieci mesi addietro, quando ero a Catania, avessi potuto sognarmi la vita che ho fatto con questo giovane, io avrei riso di me come una pazza. Ora piango, signore... piango lagrime disperate, che cassano le disperate parole che scrivo.
A Napoli lo vidi circondato da quell'aureola che dà la rinomanza dell'ingegno; lo vidi festeggiato, messo in moda. Pensai che quest'uomo, di cui molte duchesse avrebbero fatto il loro amante, aveva passato quattro mesi sotto i miei veroni; pensai a quest'uomo cui l'amore, ch'io gli aveva ispirato, aveva solcato le guancie ed elevato il cuore sino al genio... e l'amai... l'amai come mai avevo amato... come non m'era parso che si potrebbe amare giammai.
Quest'uomo, questo giovane ch'io non avevo distinto in mezzo alla folla che lo circondava, recava nel cuore tesori ineffabili di passione, in cui assorbiva tutto il mio essere. Quest'uomo per sei mesi, sei intieri mesi, mi formò una vita di baci e di carezze.
Noi non uscivamo quasi mai. La sera ci recavamo sulla terrazza che guarda il mare e restavamo là spesso sino a giorno; qualche volta soltanto uscivamo in carrozza o a cavallo, ma sempre assieme.
A Catania noi seguitammo ancora due mesi questa vita incantata che per me sarebbe rimasta un mistero senza di lui.
E poi...
Alcuni giorni dopo Pietro cominciò ad invitarmi ad uscire... ad andare in società ... Mio Dio! mi pareva che avessi dovuto aver rimorso di quel tempo che bisognava rubare al nostro amore. Allora egli mi disse che per lui, che dovea farsi un avvenire, era impossibile seguitare a vivere così ritirato dal mondo, e che quest'avvenire gli imponeva qualche sacrifizio; che, infine, per quella sera avea un invito al quale non poteva mancare.
Lo pregai di andar solo, soffocando un penoso sentimento che quasi mi faceva piangere d'angoscia.
Nei primi mesi che noi passammo assieme Pietro non avrebbe pensato a ciò. Quel fervente amore di lui cominciava dunque a dar luogo ai calmi pensieri dell'avvenire... Non osai gettare uno sguardo su quel baratro che si spalancava lentamente ad inghiottire la mia felicità .
Quando venne a stringermi la mano, quando udii il rumore della sua carrozza che si allontanava, non potei frenare le lagrime, e mi misi al ...
[Pagina successiva]