[Pagina precedente]... Dio mio, come farò!... Son sola, signor Angiolini, son sola!... Mio figlio!... chi sa cosa n'è di mio figlio!... Aiutatemi; corriamo all'ufficio di Questura a prendere informazioni...»
«Non si disperi, signora; spero ricondurle Pietro al più presto, senza alcun accidente. Abbia la bontà di aspettarmi qui.»
Raimondo, indossato in fretta un abito, prese il cappello ed uscì.
Dando campo ad un sospetto che gli era balenato in mente mentre la signora Brusio si disperava per l'inusitata e straordinaria tardanza del figlio suo, e per la notizia che il domestico le avea rapportato, egli si diresse per la strada Stesicorea ed indi per quella Etnea, verso la casa ove abitava la contessa di Prato. Giungendo sotto i veroni, sul marciapiede di faccia, gli sembrò di vedere qualche cosa di nero immobile sul lastrico.
Si avvicinò esitante e lo chiamò per nome a bassa voce.
«Che vuoi?», rispose una voce rauca e ancora tremante, come se inghiottisse delle lagrime, che Raimondo avrebbe stentato a riconoscere, nel suo accento duro e quasi cupo, se gli fosse stato meno famigliare.
Si appressò ancora, e vide il suo amico seduto sullo scaglione del marciapiede, coi gomiti sui ginocchi e il mento fra le mani.
«Tu qui!... a quest'ora!», esclamò Raimondo.
«Che vuoi, ti dico?!», replicò con maggiore asprezza Pietro. «Non son forse più padrone di fare quello che mi piace?!...»
Raimondo capì che quello non era il momento di parlare al suo amico; e sospirando tristemente, poiché allora soltanto scoperse lo spaventoso abisso del precipizio su cui egli si cullava, sedette silenzioso al suo fianco.
Pietro rimase muto, come non avvedendosene, cogli occhi di una sorprendente lucidità , fissi sul lume che brillava dietro le tende di seta del verone.
Qualche volta, a lunghi intervalli, egli trasaliva, ed una gocciola, come di sudore, che partiva dall'orbita, luccicava un momento solcando le sue guance. Ad un tratto egli afferrò con violenza il braccio di Raimondo!
«Guarda!... guarda anche tu!», diss'egli con la voce stridente ed interrotta del delirante o del pazzo.
E si alzò, come se avesse voluto elevarsi sino al verone per meglio osservare.
«Io non vedo niente», mormorò Raimondo che si fregava gli occhi inutilmente.
Pietro, senza rispondergli, gli porse la busta del suo occhialetto che trasse dalla saccoccia del
soprabito.
«Guarda, ti dico!... c'è da diventar pazzo!»
Coll'aiuto dell'occhialetto Raimondo vide la contessa, presso le tende del verone, di cui le invetriate erano aperte, sdraiata, nella sua favorita posizione languida e voluttuosa, su di una poltrona, ancora colla veste del teatro, coi capelli ancora intrecciati di fiori; ed un uomo, il conte, ritto dietro la spalliera della poltrona, che si chinava verso di lei, e le divideva coi baci i ricci da sulla fronte. Ella gli sorrideva del suo riso da sirena; e di quando in quando, allorché il conte rimaneva come stordito nel fascino di quelle seduzioni mirabili di voluttà , ella gli prendeva le mani colle sue manine affilate e bianchissime, e se ne lisciava la fronte, e le nascondeva fra il setoso volume dei suoi capelli, e se le posava sugli occhi e sulle labbra, ma lentamente, con quel suo abbandono ch'era irresistibile, come se avesse voluto dare il tempo a tutte le emanazioni inebbrianti che scaturivano dai suoi pori di penetrare in lui sino al midollo delle ossa.
Raimondo, quasi spaventato, pel suo amico, da quella vista, fu scosso dai singhiozzi di lui che prorompevano soffocati come singulti; e, riponendo tristamente nell'astuccio l'occhialetto, disse col tuono di chi prende una risoluzione:
«Via, Pietro, è tempo di partire! Tua madre ti attende a casa mia!».
«Mia madre!...», esclamò il giovane con un sussulto che dimostrava come quella corda vibrasse ancora potentemente nel suo cuore, mentre tutte le altre erano allentate e sconvolte.
«Sì, tua madre, spaventata dalla tua estraordinaria tardanza, che ti cerca da me come una pazza.»
«È tanto tardi dunque?», domandò egli come parlando in sogno.
«Son le tre fra poco.»
«Non credevo fosse sì tardi... Hai ragione, andiamo via... bisogna essere uomini!»
Poscia si fermò in mezzo alla strada, quasi non avesse avuto la forza di staccarsi da quel punto.
«Ben dicesti: bisogna essere uomini e non fanciulli!», replicò Raimondo, dando al suo accento la possibile espressione e trascinandolo in qualche modo per forza, mentre Pietro si lasciava condurre a capo chino come un ragazzo.
IV
Quando entrarono nell'Albergo di Francia, dove li aspettava la signora Brusio, questa corse ad abbracciare suo figlio con tutta l'effusione di un cuore di madre; ma rimase senza osarlo, colle braccia aperte, dinanzi allo sguardo fosco e alla fisonomia cupa ed irritata del figlio suo.
«Credevo», disse questi aspramente, «di non essere più all'età di uno scolaretto che si manda a cercare se ha fatto tardi nel ritornare da scuola...»
La madre fu dolorosamente colpita da quelle parole, le sole che avesse udite in tal modo da quel figlio che l'idolatrava. L'istinto materno fu atterrito dallo stato di quel giovanetto che in un'ora avea potuto dimenticare siffattamente il culto che nutriva della madre, e risponderle in tal guisa.
«Andiamo, figlio mio, le tue sorelle ci aspettano...», diss'ella tristamente, ma evitando di inasprirlo; «grazie, signor Angiolini!...»
S'incamminarono verso casa; e la madre osservò sospirando che il figliuolo non le offriva il braccio, e camminava cupo, ed anche indispettito al suo fianco.
Sulla scala corsero ad incontrarli le due sorelline ancora pallide e singhiozzanti, che gridavano:
«Mamma! mamma!... L'hai trovato?... È qui il nostro Pietro?!...».
Le loro festanti esclamazioni furono interrotte dalla voce dura del fratello.
«Per l'avvenire», esclamò questi, cercando di dare la possibile moderazione alla sua voce tremante d'irritazione, «spero che le mie tardanze non daranno più luogo a simili scene da teatro... che mi costringerebbero a cercare altrove la pace e la libertà di cui ho bisogno... che son deciso ad avere... Datemi la doppia chiave della porta, onde non dia più occasione ad attendermi domani, e facciamola finita!...»
E senza neanche prendere il lume, si chiuse nella sua camera, sbattendone l'uscio con impeto.
«Povero figlio mio!», singhiozzò la desolata madre, abbracciando piangente le sue figlie: «ecco le prime lagrime che mi fai versare!».
Pietro passeggiò per la camera alcuni minuti, agitato e smanioso; poscia si fece al verone.
La calma serena di quella notte d'estate, il fresco venticciuolo che gli asciugava il sudore sulla fronte lo calmarono alquanto; egli pensò alle lagrime di sua madre ed odiò se stesso come giammai aveva odiato.
«Son vile!... sì, son vile!...», esclamò strappandosi i capelli. «Oh! la testa... Dio mio!...»
Aprì l'uscio della sua camera senza far rumore, e camminando leggero leggero andò ad origliare dietro la bussola della camera di sua madre, onde vedere se dormiva.
La signora Brusio era ancora in piedi quando suo figlio aveva aperto l'uscio, ascoltando ansiosamente il più lieve rumore ch'egli facesse, e che potesse farle indovinare lo stato del cuore di lui; appena udì che si avvicinava capì, con l'istinto materno, che suo figlio pentito veniva a vedere se ella dormisse; e l'istinto materno le suggerì anche che l'unico perdono che egli poteva desiderare nel suo pentimento era che sua madre riposasse. Ella si gettò sul letto, e finse di dormire.
Pietro ascoltò, dietro il paravento, il respiro alquanto accentuato di sua madre; credette che dormisse davvero, e non poté frenare le lagrime che gli scorrevano ardenti sulle guance: lagrime di pentimento, di rabbia contro se stesso, di terrore dell'avvenire (che allora soltanto intravedeva) per ciò che provava.
«Povera madre!», esclamò singhiozzando; «povera madre mia!».
E la madre udì quei singhiozzi, e soffocò i suoi fra i guanciali.
Pietro si ritirò in punta di piedi, com'era venuto; e si rimise al verone.
Colla fronte fra le mani, ed i gomiti appoggiati alla ringhiera, egli si assopì in quel vortice luminoso e turbolento che il cuore e l'imaginazione gli creavano, e dove vedeva un'ombra, dove una figura, ora vestita di bianco, ora quale l'avea veduta poche ore innanzi... carezzantesi la fronte ed i capelli con le mani di quell'uomo... Quando, abbarbagliato da una luce vivissima, egli alzò gli occhi, si avvide con sorpresa che il primo raggio di sole facea scintillare i vetri.
«Diggià !», mormorò egli: «il giorno vien presto al presente!...».
Sua madre, entrando la mattina nella camera di lui, osservò con dolore che il letto era intatto, come era stato acconciato la sera innanzi.
«Madre mia!», le disse il giovane prendendole una mano, in tuono di pentimento del passato ma risoluto ad ottenere quello che domandava, «ti chiedo perdono di quello che ho detto e fatto ieri... Ma ti prego di lasciarmi per l'avvenire alquanto più di libertà , che l'età mia ora richiede...».
«Fa come vuoi, figlio mio...», rispose la madre abbracciandolo. «Io non temo che tu ne possa abusare, poiché sei figlio di un uomo onesto e manterrai onorato il nome che ti diede. In quanto a me...», e la povera donna sospirava tentando di sorridere, «in quanto a me cercherò di vincere le mie sciocche paure...»
«Grazie, grazie, buona madre!...», esclamò Pietro facendo uno sforzo per non bagnare di lagrime quella mano che baciava.
Però ogni sera quella madre, che numerava coi battiti del suo cuore i minuti che suo figlio tardava a venire, aspettava, sino alle due, e spesso sino alle tre, che il noto passo le annunziasse da lungi, nel silenzio della strada, ch'era
lui che veniva; e piangeva sovente, quando, invece di mettersi a letto, lo udiva passeggiare per la camera, o farsi al verone; e l'indomani, dopo avere interrogato sospirando il letto, spesso colle lenzuola ancora rimboccate, cercava negli occhi smarriti del figlio e nei suoi lineamenti pallidi e sbattuti la risposta ai vaghi timori che l'agitavano. Pietro, che ogni mattina pel passato soleva informarsi della salute di sua madre, non s'accorgeva nemmeno del pallore di lei e della sua cera malaticcia.
Raimondo non lo vedeva quasi più. Brusio passava i giorni al
Laberinto, la sera seguendo la donna che gli aveva ispirato questa folle passione o cercando d'incontrarla al passeggio, (dove lo sguardo di lei qualche volta lo fissava con quel raggio pacato e snervante della sua pupilla cerulea, ciò che faceva delirare il povero giovane, e gli faceva seguire, coll'occhio ardente e le membra convulse, quella veste fluttuante che armonizzavasi sì mirabilmente ai movimenti pieni di seduzione del corpo da fata) o al teatro dove la vedeva splendere di tutto il prestigio del suo lusso, profumata da quel vapore inebbriante che recano la bellezza, la giovinezza, la ricchezza; facendo scintillare la luce del suo sguardo insieme al riflesso dei suoi diamanti; armonizzando la bianchezza vellutata e purissima della sua pelle alla bianchezza pallida delle perle che le cingevano il collo bellissimo; spesso allegra e ridente cogli uomini più eleganti e più alla moda, appartenenti alla migliore società , che si contendevano un posto nel suo palchetto; spesso a metà nascosta nell'angolo più oscuro della loggia, colla testolina ricciuta e coronata di fiori e di gemme rovesciata all'indietro sulla parete, con quell'attitudine abbandonata cui ella sapeva dare tutto quanto vi ha d'attraente nella mollezza, d'irresistibile nel languore; e vi stava ad occhi chiusi, come dormendo ed assorbendo con maggior squisitezza di voluttà le armonie della musica che avevano il potere di commuoverla dippiù.
Egli passava la notte sotto i veroni di lei, coll'occhio fisso su quel lume che rischiarava la sua stanza; aspirando, con terribile voluttà di passione (ch'era tanto potente da sembrare angoscia qualche volta) di gelosia, ed anche di dolore, tutti i rumori più insensibili del suo passo, del fruscio della sua veste, tutte le emanazioni della donna amata, i minimi suoni del suo pianoforte e della sua voce, che sp...
[Pagina successiva]