[Pagina precedente]...obo; o se nessun altro governo vi fosse, che il principesco; o se qualche isola così ben guardata vi fosse, da cui nessun uomo uscire, nè alcuno entrar vi potesse; credo che in questi tre casi, il principato potrebbe con suo manifesto vantaggio proscrivere ogni lume di lettere, e ogni qualunque libro, che non insegnasse il servire. Non si può mettere in dubbio, che l'uomo che si trova soggetto, non vuole per natura obbedire, se non il meno ch'ei può; e così, quello che si trova sovrano, vuol comandare il più ch'egli può. Al principato dunque gioverebbe moltissimo la totale cecità e ignoranza dei sudditi tutti: nè mi par questa una proposizione che abbisogni di prove. Ma dico di più: che in un tale stato di cose, la ignoranza perfetta dei sudditi gioverebbe al principe assai più, che non possono nuocergli nello stato presente i tanti lumi, che a noi pare d'avere. E di quanto asserisco, ne trovo la prova nei fatti. Malgrado questi nostri tanti lumi, malgrado che da molti di noi ben si sappia che ogni autorità illimitata non può avere altra base che la nostra debolezza, e non mai l'altrui forza, poichè nessun uomo ne ha tanta in se stesso da poter tutti sforzare; ogni giorno pure, e ad ogni capriccio da noi ciecamente si obbedisce tacendo. Al contrario, nei paesi di perfetta ignoranza, l'autorità assoluta vien riputata, o di dritto divino, o privativa di quella tale stirpe, o necessaria e inerente alla natura dell'uomo; e quindi ogni fantasia del dominante viene senza mormorare accettata, come giusta, inviolabile, e sacra legge. Certo è, che per gli animi volgari, più queta e secura cosa riesce il comandare a chi non dubita punto se obbedire si debba: ma, questo prezioso dubbio, trasmesso alle nazioni moderne europee per via dei libri antichi, non si può da nessun principe con niuna forza estirpare del tutto. Ed in fatti, per quanto siano mai state perseguitate, o si perseguitino le lettere e i letterati, non si potrà però mai annichilare un Tacito; e questo solo è più che bastante per rivelare agli uomini ogni segreto dell'arte principesca. Mi pare dunque chiarissima cosa, che il tentare d'impedire a mezzo ogni seme di vera letteratura, non sia nè prudenza, nè ragione, nè astuzia, nel moderno principe. Nel mostrare egli di molto temere ciò che l'effetto e l'esperienza debbono avergli insegnato oramai che poco si dee temere da chiunque lo sa deviare, il principe non accresce di nulla la propria sicurezza; ma bensì in molto maggior dose si va egli procacciando in tal guisa e l'odio e il disprezzo di tutti.
Maometto secondo, nell'impadronirsi d'Alessandria fece ardere tutti i libri raccolti dai Tolomei, come inutili per chi sapeva obbedire, e dannosissimi per chi nol sapeva. Ma molti secoli innanzi, quegli stessi Tolomei regnando assoluti in Egitto; molti secoli dopo, Lodovico decimoquarto, e assai altri principi, regnando assoluti in Europa, premiarono pure ed onorarono infiniti scrittori. Ora io domando: Que' Tolomei in Egitto, questi Luigi, o Carli, o Franceschi in Europa, volevan eglino esser meno obbediti, che quel Maometto? nol credo: ma stimavano essi, che alla obbedienza dei sudditi, o niente, o pochissimo nuocessero e gli scrittori, ed i libri.
Né i principi nostri, in ciò credere, s'ingannavano punto, visto i moderni tempi ed i costumi europei. Questi nostri costumi, che ogni cosa a mezzo ci danno; che coll'educazione indeboliscono sempre a metà la natura, e colla metà della rimanente natura corrompono e annichilano spesso quanto avrebbe operato la educazione; questi stessi costumi, dai quali non può andare esente il principe, poichè vi è nato egli pure, lo costituiscono un ente, che non si accorda mai con se stesso. Ed in fatti, egli riunisce contradizioni massime e perenni; egli vorrebbe e non vorrebbe; egli è feroce, ed umano; despota, e privato; e mille altre cose miste, e contrarie tutte fra loro: da cui nondimeno sempre ne risulta l'intero nostro obbedire e tremare; e il non esser noi, per dir vero, nè Egiziani nè Turchi, ma nè tampoco Romani, nè Greci.
CAPITOLO DECIMO.
NON POTENDO IL PRINCIPE ESTIRPARE AFFATTO LE LETTERE, GLI GIOVA PARERNE IL RIMUNERATORE,
E L'APPOGGIO.
I viaggi, il commercio, e l'arte del cambio, hanno emancipato per così dire gli abitatori d'Europa: quindi i nostri padroni e pedagoghi politici non ci possono più tenere come bambini del tutto. In oltre, il rimanervi alcuna picciola parte d'Europa, in cui l'uomo nasce, o libero, o meno oppresso, sforza anche i più risoluti oppressori ad osservare alcuni indispensabili risguardi coi sudditi. In questo stato di cose, facilmente (pur troppo pe' principi) si promulgano le opinioni diverse, e si estendono rapidamente in Europa, allorchè da eccellenti uomini vengono poste in iscritto. L'amore di novità , l'ozio, la curiosità , e anche il dolce fine di render se stesso migliore, sono le cagioni per cui da alcuni altri non volgari uomini si legge: e, fra tutti i libri, pare che quelli che scuotono il cuore dell'uomo, siano i più universalmente letti e gustati. L'autore ottiene questa commozione in molte maniere; ma in nessuna più efficacemente, che illuminando con colori nobili patetici e forti le imprese grandi in se stesse, e da cui ne siano ridondati effetti importanti. E suole ciò farsi, o fingendo per via di poesia, o traendo dai fonti della storia, o perorando al popolo, o su le cose umane generalmente filosofando. Toltane dunque la passione d'amore, che sotto ogni governo può allignare, e più sotto i meno virtuosi, se l'autore vorrà maneggiarne alcuna dell'altre allegandone splendidi esempj, bisognerà pur sempre ch'egli ricorra ai popoli liberi. Quindi è, che ai giovinetti ampiamente si insegnano le cose di Roma, di Atene, e di Sparta, ma raramente o non mai si favella a loro di Persia, d'Assirja, d'Egitto, e dei loro tiranni. Volendo sotto qualunque velo insegnar la virtù, è dunque sforzato lo scrittore a cercarla dove ella è stata; ad indagarne, o accennarne le cagioni; a narrarne gli effetti; e ad incoraggire in somma i lettori alla imitazione di essa. Perciò non mi pare, che abbisogni di prove l'asserire; che libro di sane lettere non vi può essere, il quale (per qualunque mezzo vi arrivi) non abbia però sempre per fine principalissimo ed unico, l'insegnar la virtù. E intendo qui per virtù; Quella nobile ed utile arte, per cui l'uomo, col maggior vantaggio degli altri, procaccia ad un tempo la maggior gloria sua.
Ammessa questa definizione, che mi pare innegabile, ogni buon libro (che non sia però di scienze esatte, delle quali parlerò in appresso) dee necessariamente in quasi tutti i suoi principj offendere l'autorità illimitata; poichè, per quanto voglia anche lo scrittore essere discreto, e serbare riguardi, non può pure mai laudare il vizio; nè, molto meno, può insegnare la vera virtù, senza dimostrare o accennare, che il fonte di essa non può essere e non è stato mai, nè l'obbedire al capriccio di un solo, nè il servire, nè il tremare.
Ciò posto, io dunque dico; che nessuna vera sublime epica poesia, nessuna tragedia, nè commedia, nè storia, nè satira, nè opera filosofica, nè arte oratoria, nè in somma alcun ramo di belle lettere (tolto il madrigale, il sonetto puramente amoroso, e la pastorale) potrà mai riempire nel principato il suo proprio dovuto scopo, e dare nel vero, senza offendere o più o meno l'autorità assoluta. E, se non volessi esser breve, e massimamente in questo primo libro, potrei ampiamente provare quanto asserisco. Ma, per mille ragioni mi vaglia una sola; e siano i fatti. Domando: Qual è il buon libro, (veramente stimato tale) che sviluppando altre passioni umane che l'amore, o tutto o in parte, da qualche principe, o in qualche tempo, non sia stato proibito, o screditato, o schernito, o calunniato, o perseguitato? Ma, che pro? i libri sussistono, e durano contra ogni ira, potente o impotente sia ella, purch'essi sian ottimi.
Non potendo adunque il moderno principe europeo assolutamente impedire che i libri buoni già fatti continuino ad esistere, e ad esser letti; nè che alcuni altri buoni, ma sempre pochi, se ne vadano scrivendo; accortamente farà egli, se saprà non mostrarsi interamente contrario alle lettere, e se saprà premiarne a tempo gli artefici; anteponendo però sempre i mediocri ai sommi; e astutamente cercando di fare che i sommi rimangano o paiano mediocri, coll'impedir loro cortesemente di pensare, e di scrivere, fin dove bisognerebbe. Per la stessa ragione egli farà benissimo di fingere di onorare gli scrittori morti, col ristamparli; ancorchè tali siano, che se avessero scritto a tempo suo sotto lui, gli avrebbe egli, potendo, piuttosto soffocati, che non mai dati in luce. In tal guisa perverrà forse il principe a persuadere ai più, che egli non teme l'effetto di una certa libertà di scrivere e di pensare. E quella stessa apparente sua non curanza sarà anche uno scoraggimento grandissimo a chi sperasse di farsi un nome liberamente pensando e scrivendo; perchè una certa persecuzione contro ai libri fortemente e luminosamente veraci, costituisce per lo più la base della loro prima fama; e quindi maggiormente e più presto propagandogli, assai più utili in minor tempo li può rendere.
CAPITOLO UNDECIMO.
QUALI PREMII GIOVI PIÙ AL PRINCIPE DI DARE AI LETTERATI.
Insorta dunque a poco a poco in Europa questa classe d'uomini, che si assume l'incarico, pensando e scrivendo, di far pensare gli altri; e che, comunicando a tutti le proprie idee, perviene pure a spandere fra molti una semi-luce; i principi, che ereditariamente si assumono l'incarico d'impedir di pensare, si sono di necessità ritrovati nemici degli scrittori. Ma la vicendevole paura (come in tante altre occorrenze umane il vediamo) gli ha tosto rapprossimati. Gli autori, come già accennai, mossi dal bisogno dal timore e dalla vanagloria, per acquistar fama subita, ancorchè non durevole; i principi, mossi da vanità , dal timore d'essere con ingegno derisi smascherati e screditati per sempre, per parer buoni, e per non potere in fine altrimenti operare, attesa la gran piena presente de' letterati: sono queste, o mi pajono, le ragioni vere, per cui questi fra loro naturali nemici si vengono a cangiare in protettori e protetti.
La maniera con cui si ricompensano i letterati dai principi è per lo più con provvisioni pecuniarie, che chiudono loro la bocca a ogni verità luminosa chiaramente e fortemente esposta, quale deve essere per farsi strada nell'instupidito intelletto del volgo ignorante e servo. Gli scrittori a vicenda, contraccambiano i principi con le smaccate lodi, con le deificazioni, co' falsi poemi, storie alterate, libri di diletto senz'utile, false massime in politica, falsa filosofia, &cc. &cc. Da questo commercio di reciproca dissimulazione il pubblico intanto ne rimane sempre più cieco e ingannato; e sempre più allontanato dal forte sentire, e dal vero, che sono i soli fonti d'ogni alto operare.
Ma siccome in questo primo libro io cerco (per quanto sia pure possibile ad un uomo libero) di farmi principe e non letterato, dovrò dire, che i principi fanno molto bene di operar così; poichè finora felicemente è riuscito loro, per via di mercede condita col timore, di spuntare in gran parte le saette dell'ira scrivana. Ed a provare anche questo, mi bastano i fatti. Chi può dubitare, per esempio, che Montesquieu e Corneille, non ricompensati, nè onorati dal principe, e aventi una esistenza indipendente affatto da lui, non sarebbero andati molto più in là nelle loro massime, sviluppando e lumeggiando col loro forte pennello tante importantissime cose spettanti alla felicità umana, le quali si vedono appena accennate, e velate assai nei loro timidi scritti?
Ma pure, i principi non sanno abbastanza impedire gl'ingegni sommi, colla loro bene adoprata protezione. E, più d'ogni altro ente, il principe mi conferma quel profondo assioma del divino Machiavelli: Che gli uomini non sanno essere nè del tutto buoni, nè del tutto cattivi. Dicesi che il gran Voltaire nella sua gioventù avesse mostrato ...
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