[Pagina precedente]...i contiene, e che solo può esser fonte dell'utile: e giudicano in oltre il valore dell'uomo dal libro: ma nè l'uno nè l'altro mai, dalle loro circostanze. Ed in fatti, circostanza nessuna vi può essere, che nelle cose non necessarie a farsi, scusi il mal farle, o il farle meno bene della propria capacità ; il che in letteratura è un malissimo fare; mentre tutte le circostanze si poteano pure interamente domare, col non far nulla. Quanto a se stessi poi, i letterati protetti portano nel loro cuore l'orribile martirio di essere costretti a tenersi minori di quel principe, che essi, e tutti, a giusto dritto, egualmente dispregiano. Costoro, col fero supplizio di Tantalo, in mezzo alla propria passeggera fama, ne patiscono in se stessi una tormentosissima sete: che nessuna propria fama può esistere agli occhi di quell'uomo, il quale, se stesso non potendo stimare, diviene per forza minor di se stesso.
CAPITOLO UNDECIMO.
CHE TUTTI I PREMII PRINCIPESCHI AVVILISCONO I LETTERATI.
Il primo premio d'ogni alta opera è la gloria. La gloria è: Quella stima che il più degli uomini concepiscono d'un uomo, per l'utile ch'egli ha loro procacciato; quelle laudi che il mondo glie ne tributa; quella tacita maraviglia con cui lo rimira; quel sorridergli dei buoni con gioja e venerazione; quel sogguardarlo con torvi e timidi occhi, de' rei; quell'impallidire degli invidi; quel fremere dei potenti: che tutti questi sono i corredi della nascente gloria fin che l'uomo in vita rimane. Ma, l'apice di essa non s'innalzando mai totalmente che su la di lui tomba, io credo che la più vera e pura gloria non sia già quella che viene riposta nelle altrui lodi; ma quella bensì, che consiste nella intima divina certezza dall'uomo portata con se stesso al sepolcro morendo, di veramente meritarla.
A chi con forte ed intenso volere si propone un tale sublime premio, niun altro premio non può cader nella mente; ma, se pure ad alcun altro guiderdone intendono le sue brame, ogni qualunque ch'egli ne riceva o ne speri, oltre la gloria, minoramento gravissimo diviene di quella. I premj tutti adunque, che gloria e gloriosi non siano, macchiano sempre e minorano la sublimità d'ogni impresa.
Ma, poichè nell'uomo l'ingegno è tanto più nobil cosa che la forza, innegabile sarà che le opere della mente siano altrettanto maggiori di quelle della mano. E ogni premio dovendo essere conveniente e degno della fatica, sarebbe cosa ingiuriosa a un tempo non meno che obbrobriosa, se, per ricompensare l'ingegno, si venisse il corpo a premiare. L'opera dello scrittore, è opera intera di mente; della mente dunque sia il premio. Ora, nessun principe al mondo può dare un tal premio, per cui la mente soltanto ne venga ad essere veracemente onorata. Può darlo bensì un popolo libero; e col semplice applauso può darlo.
Il guerriero ha esposto la vita, e benchè il capitano operi del pari colla mano e col senno, pure, per aver egli con ferite, con pericoli e travagli menomato il suo corpo, egli può oltre la gloria accettare altresì tali altre ricompense, che quella rimanente sua vita e più comoda e più larga e più dolce gli rendano. Ma lo scrittore, che coll'intelletto soltanto lavora, per quanto anche ne venga a soffrire il suo corpo, egli però non lo espone mai a nessuno evidente pericolo. Il guerriero serve alla patria; e, a ciò eletto da lei, lavora per essa, E noterò qui di passo, che guerrieri, altri che per la vera patria, io non ammetto fra i sommi: e i condottieri dei principi, se sommi pure sono stati, o sembrati tali ai nostri occhi, non l'erano essi certamente ai lor proprj; che un Turenne, un Montecuccoli, o tale altro simile, non potea mai nel suo intimo core stimare se stesso, quanto un Scipione, un Annibale, un Fabio, o tanti altri sommi, che capitani erano per la loro vera e libera patria. Ma lo scrittore, eletto all'arte sua da se stesso, non serve a nessuno, altro che al vero; e non solo per la patria sua, ma per gli uomini tutti e presenti e futuri ei lavora. Chi dunque avrà e dritto ed ardire di ricompensarlo, se non se gli uomini tutti? E in qual modo? coll'accordargli la nuda gloria, che era la sola ricompensa da lui già propostasi.
Parmi dunque, che tutti i grandi uomini, che in un modo qualunque giovano agli altri, si possano degnamente ricompensare con aggiungere loro giusti premj alla gloria; ma, che da questi tutti eccettuare si debbano i soli letterati; perchè la loro arte è spontanea; perchè si esercita con la mente soltanto, e senza pericoli; e perchè in somma, abbracciando questa per la sua utilità tutti gli uomini, non ne risguarda pure mai particolarmente nessuno.
A chi mi dirà ; che lo scrittore potrebbe pure abbisognare d'altro che di gloria; risponderò: "Scrittore eccellente non sarà questi mai, nè lo poteva mai essere; poichè egli si è pure proposto per fine dell'arte sua, per se stessa nobilissima, dei premj che tali non erano: premj, che stanno in mano di pochi, che glie li possono negare come dare; che possono ingannarsi; a cui bisogna piacere e compiacere per ottenerli: e il piacere e compiacere a codesti assoluti premiatori, non si può certamente accordare col piacere a se stesso, al retto, ed al pubblico." La gloria all'incontro, essendo un premio ideale, ed un mero nome, nulla toglie a chi la dà ; per essere ella data dai molti, non si può mai dir sorrepita; e per essere ella legittimamente ottenuta in semplice dono dai molti datori, ella porta con se ai pochi che la ottengono l'impareggiabile eterna prova, che quei soli pochissimi erano pur riusciti nella difficilissima impresa di piacere, compiacere, e giovare ai molti uomini. Lo scrittore veramente sublime, non può dunque mai abbisognar d'altro, che di semplice gloria; perchè, se egli d'altro abbisognava prima d'esser sublime, non ha certamente potuto divenir tale, appunto perchè proponevasi egli un fine niente sublime; ma s'egli è caduto in bisogno dopo di avere ottimamente composto i suoi libri, la intatta sua fama, e le immacolate egregie sue opere, gli avranno certamente procacciato qualche virtuoso amico, che, prevenendo i bisogni suoi, lo impedirà di contaminarsi in appresso. Ma, se pur fosse possibile, che egli un tale amico non ritrovasse, lo scrittor d'alte cose, in qualunque stato ridotto ei si veda, non potrà mai apporvi rimedio che alto non sia.
Pascano adunque i principi e i loro sgherri e soldati, e i loro giumenti, cortigiani, servi, e buffoni; si ricompensino con ricchezze onori e gloria i sommi guerrieri dalle vere repubbliche; ma, con la sola e purissima gloria si guiderdonino i letterati dagli uomini tutti.
CAPITOLO DUODECIMO.
QUAI PREMII AVVILISCANO MENO I LETTERATI.
Pure, non voglio io per una severità , che in questi snervati secoli parrebbe soverchia, (benchè soverchio non sia mai ciò ch'è vero) privare gli scrittori, che uomini sono anch'essi pur troppo, della dolcezza di tanti altri premj, che gloria non sono, ma che non pajono alla gloria nocivi. Mi giova perciò l'investigar brevemente quali siano codesti premj, e chi dargli e chi riceverli possa.
Premj, che non siano gloria, e che pure non la vengano a contaminare con la loro mistura, altri non so vederne, fuorchè certi onori, tributati, quasi a nome di tutti, dagli uomini, costituiti in una legittima dignità , a chi se ne sia fatto degno. Questi onori, che mi pajono essere i soli veraci, sono raramente concessi nelle repubbliche; perchè l'autorità essendovi divisa e permutabile in molti, non v'è mai fra i dignitarj una tale persona e sì grande, (parlo di estrinseca grandezza) che venga stimato un onore appo gli uomini il sederglisi accanto, il coprirsi, il mangiare alla mensa sua, o simile altra principesca puerilità . Oltre ciò, le repubbliche volendo, e con ragione, che ogni loro individuo cooperi all'atto pratico del presente vantaggio, hanno tenuto per lo più gli scrittori per una gente oziosa e poco utile. E in fatti, le lettere possono parere meno utili assai in una sana repubblica, dove gli uomini son buoni già dalle giuste e ben eseguite leggi, che non in un principato dove già sono pessimi dal servire. Ma, per una trista fatalità , elle possono nondimeno più facilmente allignare là dove il bisogno di esse è molto meno incalzante. Ove però le repubbliche volessero pur dare alcuni onori a chi ottimamente scrive, innegabile è ch'elle sole li potrebbero dare veraci. Se Sofocle, per esempio, avesse ottenuto dalla sua città , per legge vinta, di sedersi infra i più alti magistrati, o alcun'altra simile distinzione; essendo una tale particolarità accordata dai molti là dove i molti negarla o impedirla poteano, vero ed importantissimo onore, nobile e sovrano premio si dovea un tal privilegio riputare. Ma, se un solo, a cui nessuno può, nè osa contraddire, accorda una qualunque distinzione, ella dee intitolarsi favore, e non mai onore; perchè non fa prova di merito niuno; e quindi potendola ottenere un inetto, e assai più facilmente che un sommo uomo, necessariamente diviene questa distinzione una macchia alla vera virtù. Le sole repubbliche adunque onorare possono davvero i loro scrittori; i principi null'altro possono, se non se favorire e distinguere i loro schiavi. Quindi, l'essere scrittore pubblicamente onorato in repubblica, attesta l'aver dilettato e giovato ai più; l'esserlo nel principato, attesta l'aver forse dilettato i più, ma l'avergli ad un tempo traditi, cercando con false massime di giovare ad un solo. Ciò posto, se io risguardo Cicerone come semplice letterato, non lo biasimo quindi moltissimo dell'essersi voluto far console: eppure, per acquistare una tal dignità in quei tempi, molti raggiri, pratiche, e viltà , gli sarà convenuto adoprare; il che senza dubbio gli sarà riuscito di molto minoramento alla stima di se stesso, all'altezza dell'animo suo, e quindi ai suoi libri, alla sua fama, alla sua gloria. Ma la maestà e importanza di una tale e fin allora legittima dignità ; la nobil fermezza con cui la esercitò Cicerone; la difficoltà dei tempi; l'esser egli nato libero ancora, e perciò necessario membro della repubblica; e in fine, l'aver egli fra tanti torbidi con tanto calore e felicità coltivato sempre le sacre lettere; tutto questo ammirare e scusare e venerare mi fa Cicerone. E credo, che ad ogni letterato perdonare e concedere si potrebbe, il volersi delle lettere far base e scala a divenir console in Roma a quei tempi: cioè, a divenir più grande, più importante, e possente di assai più largo nobile e legittimo dominio, che nol sono dieci dei nostri moderni re, presi a fascio. Ma pure, nel perdonargli una tale ambizione, bisognerebbe confessare ad un tempo, che codesto scrittor-consolo nuocerebbe non poco alla perfezione dell'arte sua; e si dovrebbe pur sempre riguardare da chi è ben sano di mente, come un traditore delle lettere. Costui dunque in suo cuore avrebbe creduto essere maggior cosa un console, che uno perfetto scrittore; e che quella pubblica carica, data da altrui, fosse più importante cosa che non la sua privata altissima carica di scrittore; carica che niuno può dare, nè torre: non si sarebbe ricordato costui, che dei consoli ve ne erano stati a centinaja, e che gli eccellenti scrittori ad uno ad uno e pochi si annoverano: e da questa sola colpevole dimenticanza del primato innegabile dell'arte sua sovra tutte, ecco tosto lo scrittore fatto minore della propria arte.
Tolta adunque ai letterati ogni speranza ambiziosa, o nociva nelle repubbliche; tolta loro ogni ambizione di onori e di ricchezze nel principato; ad essi non resta, oltre alla gloria, altri premj che non gli avviliscano, fuorchè i semplici onori nelle repubbliche. E dico espressamente, i semplici onori; e non le cariche o dignità ; perche queste non si possono ottenere senza gareggiare coi concorrenti; e il gareggiare, allorchè in virtù schiettamente non si gareggia, suppone sempre un raggiro, e delle pratiche non letterarie affatto, e indegne perciò d'un vero letterato. Nè si possono le cariche o dignità esercitare a dovere, senza abbandonare, o sospendere e gua...
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