[Pagina precedente]...assai desiderio di servire il re in commissioni estere; ed io facilmente m'induco a crederlo, poichè questo autore, immemore in ciò di se stesso, non arrossì di sempre firmarsi: Voltaire, gentiluomo di camera del re. Il principe, o il ministro che non lo impiegò, commise dunque nell'arte principesca un errore non picciolo: Voltaire, impiegato dal re, e rappresentante il re, diveniva piccolo quanto il suo rappresentato; era vinto e legato per sempre; nulla avrebbe scritto, o poco, o quello soltanto che si sarebbe voluto. Così un autore sommo veniva trasfigurato in un ambasciatore mediocre, o forse anche ottimo; così si accresceva la gloria al re, e si diminuiva luce al popolo; così, finalmente, non si sarebbe dovuto soffrir poi per parte dei dominanti quell'umiliante confronto di veder Voltaire ne' suoi ultimi giorni in Parigi applaudito, seguitato, acclamato, e trionfante più assai, che nessun principe il fosse mai stato. E verrà un tempo, in cui non si saprà altrimenti come fosse numerato quel Lodovico che allora regnava, se non perchè trionfava a quel tempo in Parigi un Voltaire.
I principi dunque, che vogliono sottrarre da tanta vergogna se stessi, e ad un tempo sfuggir la tempesta, debbono, nel premiare gli scrittori, dar sempre loro tali onori, o mercedi, che interamente li distolgano dallo scrivere cose veramente grandi: e, allacciandoli colla gratitudine, direttamente o indirettamente li debbono costringere a disonorare se stessi, e a screditare le loro filosofiche massime, contaminandole colle lodi dei principi inopportunamente frammiste.
CAPITOLO DUODECIMO.
CONCLUSIONE DEL PRIMO LIBRO.
Parmi fin qui aver brevemente toccato quanto può spettare ai principi circa ai letterati. E benchè non poco mi sembri aver detto, più assai mi rimarrebbe a dire, se non parlassi a lettori, ai quali non credo necessario il dir tutto. Ma, se alcuno dubita di quanto ho fin qui asserito, legga nella storia le vicende della letteratura nel principato; e vedrà certamente che i principi hanno fatto, o cercato di fare, quanto io ho esposto qua sopra: ma, che la più o meno destrezza che hanno saputo impiegare in questa guerra d'astuzia, o sorda o patente, ha, o generato, o soffocato, o contaminato più o meno scrittori; ha lasciato spargere più o meno luce nei popoli; procacciato più o meno gloria od infamia agli scrittori ed ai principi.
Quindi, stimando io d'aver detto abbastanza in questo primo libro, tutto il già detto ristringendo in un brevissimo assioma, conchiudo: Che nei presenti tempi, benchè il principe sembri quasi sforzato a parer di proteggere le lettere, pure, se principescamente sa rimunerarle, ne ritrarrà per se stesso (pur troppo!) più assai vantaggio che danno.
DEL PRINCIPE
E
DELLE LETTERE
LIBRO SECONDO
AI POCHI LETTERATI, CHE NON SI LASCIANO PROTEGGERE.
A voi, non contaminati scrittori, parrà forse ch'io abbia tradito la nostra causa, avendo finora svelato alcuni maneggi, non arcani per certo, ma quasi tali, perchè non si osano mai discoprire: e alle cose che poco si dicono, meno ci si suole pensare; e quindi la ruota della fantasia lavorandole meno, rimangono irrugginite ed inutili. Ma, se nel mio primo libro ho insegnato (per così dire) ai principi, non i mezzi per distruggere o impedire le lettere, che a loro già erano in parte ben noti, ma le ragioni che ad essi suggeriscono codesti piccoli, eppur finora efficaci mezzi; ragioni ignote a loro stessi, benchè dei mezzi si vagliano; ragioni ignote a molti dei sudditi, benchè gli effetti ne provino: mi appresto ora a scriverne un secondo, in cui alquanto più distesamente esporrò i mezzi a mio parere migliori, affinchè i pochi scrittori che veramente meritano d'esser liberi, vengano in parte o del tutto ad uscire dai vergognosi ceppi, che allacciando loro l'intelletto e la penna, la loro fama impediscono, o guastano
CAPITOLO PRIMO.
SE I LETTERATI DEBBANO LASCIARSI PROTEGGER DAI PRINCIPI.
Lo scrivere, è una necessità di bisogno in molti; e questi per lo più non possono essere veramente scrittori, nè io li reputo tali: lo scrivere, è una necessità di sfogo in alcuni; e questa, ben diretta, modificata, e affatto scevra di ogni altro bisogno, può spingere l'uomo ad essere quasi che un Dio.
Spessissimo però accade (pur troppo!) che i sommi ingegni nascono necessitosi di pane. Né io certamente imprendo qui a fare l'apologia dei ricchi; i quali anzi, per lo più nascono di assai meno robusta natura, così di corpo, come d'ingegno: vorrei bensì persuadere e convincere gli scrittori tutti, che non possono essi mai ottenere gloria verace con fama intatta e durevole, nè quindi mai cagionare utilità vera e massima nei loro lettori, se il loro scrivere non riesce alto, veridico, libero, e interamente sciolto da ogni secondo meschino fine. Parlando io dunque ai grandi ingegni (ma ai soli e pochi grandissimi) che per ingiustizia di fortuna si trovano esser nati poveri, dico loro; che se vengono a conoscere se stessi in tempo, debbono da prima, ove sia possibile, con qualunque altra arte migliorare la loro sorte, per poi potersi, per mezzo della indipendenza, valere del loro ingegno liberamente. E di ciò gli scongiuro, per quel sommo utile, che dai loro scritti ne può ridondare agli uomini tutti; e per quella purissima gloria, che ad essi ne dee ridondare. Ma, se non possono assolutamente procedere nel modo su divisato, li consiglio a desistersi dalla impresa dello scrivere, e a cercare altri mezzi per campare; che tutti, in ogni tempo e governo, riescono a ciò più atti che non il mestier delle lettere. In una parola in somma, io dico; che all'ingegno dee bensì la ricchezza servire, ma non mai alla ricchezza l'ingegno.
Se il più nobile, se il più elevato, il più sacro, e quasi divino ufficio tra gli uomini si è quello di voler loro procacciare dei lumi, dilettare la loro mente, infiammarli d'amore di vera virtù, e di nobile gara in ben fare; ardirà egli mai eleggersi ad una così importante impresa colui, che per necessità vien costretto ad essere, o a farsi vile? In molte e in quasi tutte le democrazie, sono esclusi dai voti i nulla tenenti; i Greci liberi proibivano ai servi l'esercitare per fino la pittura: e all'esercizio di una così nobile arte quale è lo scrivere; in una repubblica così augusta, quale esser dee quella delle sacre lettere, si ammetteranno i desideranti, i domandanti, o gli abbisognosi d'altro, che di schietta e sublime gloria? Non credo ingiusta una tale esclusione; ed i fatti mel provano. O i grandissimi scrittori erano agiati per se stessi; o erano contenti della loro povertà ; o, se da ciò sono stati diversi, essi sono stati meno grandi di tutto quel più, che a loro è toccato di fare per migliorar la propria fortuna. E chi togliesse a Virgilio le lodi d'Augusto, e dei Cesari; all'Ariosto e al Tasso le Estensi; e a tanti altri scrittori le adulazioni tutte, o i timidi loro riguardi, non accrescerebbe egli di gran fatto la gloria agli autori, e ai lettori di gran lunga la luce, il diletto, e l'utilità ?
Io spingo tant'oltre questa totale indipendenza necessaria all'autore per ottimamente scrivere, che ardisco asserire; che se i principi, attese le loro circostanze educazione e costumi, potessero pur mai pervenire a ben conoscere gli uomini, e a bene imparare ed eseguire alcuna cosa qualunque; i principi, dico, mediante la loro totale indipendenza, e mediante il non-timore di verun altro individuo più potente di loro, potrebbero senza dubbio essere gli scrittori per eccellenza: perchè nessun rispetto, prudenza, o timore gli sforzerebbe a tacere, o ad alterare la verità ; ogniqualvolta però fosse loro stato possibile di superare in se stessi la innata loro avversione per essa; e ogniqualvolta avessero sortito dalla natura un'indole generosa, e capace di svelare quelle stesse verità che sarebbero a loro dannosissime. Ma, siccome questo non potrebbe esser mai, mi si perdoni una tale chimerica supposizione, da me introdotta come un semplice esempio; di cui pure alquanto valendomi, verrò nel mio intento. Quell'uomo privato, che potrà in se stesso riunire la indipendenza tutta del principe, (ma più nobile assai, e più legittima, col non obbedire che a moderate e savie leggi) e riunire in se la educazione del cittadino, l'ingegno, i costumi, la conoscenza degli uomini, l'amor del retto e del vero; quegli, a uguale capacità , avanzerà di gran lunga quanti altri ottimi scrittori ne siano in altre circostanze mai stati.
In somma, io non posso nel cuore di un vero scrittore dar adito ad altro timore, che a quello di non far bene abbastanza; nè ad altro sperare, che a quello di riuscire utile altrui, e glorioso a se stesso. Ammettendo un tale principio, si esamini se il sublime scrittore nel principato potrà mai essere un ente vissuto fra i chiostri; un segretario di cardinale; un membro accademico; un signor di corte; un abate aspirante a beneficj; un padre, o figlio, o marito; un legista; un lettore di università ; un estensore di fogli periodici vendibili; un militare; un finanziere; un cavalier servente: o qualunque altr'uomo in somma, che per le sue serve circostanze sia costretto a temere altro che la vergogna del male scrivere, o a desiderare altro che il pregio e la fama della eccellenza.
Rimanendo per se stessa esclusa da quest'arte una così immensa turba di non-uomini, a pochissimi uomini mi rimane a parlare. A quelli dunque, che letterati veri ardiscono e possono farsi, dico; che senza scapito massimo dell'arte, non possono essi lasciarsi proteggere da chi che sia. Ed ella è cosa certa pur troppo, che se essi faranno interamente il severissimo loro dovere, di professar sempre e dire con energia la verità , non dureranno fatica veruna per sottrarsi da ogni protezione: tolta però sempre quella del pubblico illuminato, quando perverrà ad esserlo; protezione, la sola, che onoratamente si possa e bramare e ricevere.
CAPITOLO SECONDO.
SE LE LETTERE, CHE SEMBRANO INSEPARABILI DAI COSTUMI CORROTTI,
NE SIANO LA CAGIONE, O L'EFFETTO.
Ma, che vo io dicendo? vorrei che Catoni fossero gli scrittori, e vorrei ad un tempo stesso la eleganza, l'armonia, e il terso favellare di colui, che lasciò alla più remota posterità scritto di se stesso: Relicta non bene parmula:(1) cioè di quel tribuno legionario romano, che scherza su l'aver egli abbandonato il proprio scudo in battaglia; il che nei nostri costumi equivarrebbe ad un colonnello che in ottimi versi tramandasse ai posteri scherzando, di aver egli ricevuto uno schiaffo.
Per quale umana fatalità avvien dunque, che il bello dire paja non si poter quasi mai raccozzare col bene operare? Atene sola riunì tutto ad un tempo; libertà , e belle arti; valor militare, e scienze; ricchezza, e costumi: e che non ebbe quella terra beata? Poco durò nondimeno quel vivo fermento di cose sì fattamente contrarie fra loro; le ricchezze il buon gusto e le arti preponderando, la libertà il valore i costumi ed il maschio animo a poco a poco sparirono. Roma (in ciò, come in tutto, diversa dall'emula e non mai superata Atene) quanto alle lettere e all'arti, stette, direi così, fra i limiti umani; nè mai potea riunire insieme questi pregi diversi. Non ripulì il suo parlare, non ebbe eleganti e puri scrittori, prima di Cicerone, Catullo, Orazio, Virgilio &cc.: e, al sorgere di questi, ella vide a poco a poco menomare le patrie virtù, e dar luogo alla crescente servitù, e alle crescenti lettere e belle arti. Gli scrittori in somma del secolo d'oro (cioè d'Augusto) quanto alla favella, sono gli scrittori del secolo di ferro e catene, quanto alla repubblica.
Ma, quegli eleganti e perfetti scrittori, erano essi cagione della crescente effeminatezza, del cessante coraggio, del vile pensare, del servir lietamente, del non conoscer più patria, del non temer che per se, del vivere in corte temendo e sperando sempre, nè mai cose legittime e grandi davvero? Oppure, tutte queste annoverate sfortune, furono elle cagione che gli eleganti e perfetti scrittori fiorissero? Il pregio d'ogni scrittore sta, come le a...
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