[Pagina precedente]...ltre cose tutte, nella opinione degli uomini: e, dividendo in due parti le ragioni per cui uno scritto riporta il pregio della eccellenza, dico che il pregio della sublimità intrinseca, cioè della verità evidenza e forza dei pensieri, non può esser mai se non uno; ma il pregio della sublimità nell'esporgli e lumeggiarli può essere diviso in altrettanti aspetti, quante sono state, sono, e sian per essere le età degli uomini, le differenze dei governi, e le diverse circostanze dei popoli. Ed in fatti, presso le nazioni che ebbero lunga vita, mutò l'eloquenza, mutando il governo e i costumi; talchè il perfetto genere d'un secolo è spesso diventato il genere ridicolo e mostruoso d'un altro. Ma pure, per quanto ancora si sappia e s'intenda la forza e bellezza della lingua latina, da tutti si accerta essere ella arrivata al suo apice nel secolo d'Augusto. E, per trarre esempj anche dai moderni, i Francesi, che non furono però mai popol libero, debbono pur anche annettere l'epoca dei loro perfetti scrittori a quella della loro più perfetta e total servitù. Ma gli scrittori d'Augusto e di Lodovico, sono, o pajono perfetti agli occhi ed orecchi di noi popoli anche servi, e corrotti, e peggiori dei loro contemporanei. Chi però ci assicura, che a Catone, ad Ennio, a Lucrezio, ed ai popoli loro coetanei avrebbero piaciuto più gli scritti di Virgilio e d'Orazio che non i loro propri? Niuno certo ardirà asserire, che Lucrezio fosse uno sciocco, rispetto a Virgilio: ma pure quella enorme differenza che passa fra loro, nella fluidità , armonia, e varietà del verseggiare, a qual ragione attribuire si dovrà ? alla ripulitura della favella, risponderanno i moderni: alla corruzione dei costumi, avrebbero risposto gli antichi; alla snervatezza degli animi, alla pestifera influenza di una assoluta dominazione.
Tuttavia, non volendo io mettere innanzi, nè sostener paradossi, ammetterò che la perfezione degli scrittori, quanto all'eleganza e sottigliezza dell'arte, possa esser quella che vien giudicata tale da uomini di gusto sottile, usi al conversare, e, per lo molto servirsi dei sensi loro, inventori e scopritori di molte nuove e quindi più deboli sensazioni. Che se il capo d'un popolo rozzo e selvaggio, vedendolo in qualche imminente pericolo, volesse indurlo a una ostinata difesa, e destarlo a furore; egli per certo non ci dovrebbe impiegare altre parole, che quelle in cui fosse semplicissimamente esposto il fatto. "Costoro ci sono nemici da gran tempo; a ciascuno di noi hanno ucciso a chi il padre, a chi il fratello, a chi il figlio. Se non ci difendiamo con forza e valore maggior del loro, uccideranno anche noi; prederanno le case nostre; faranno schiavi i nostri figli; contamineranno le nostre mogli. O vincergli ed esterminargli, o morire noi tutti". Queste, o simili parole, ed anche più rozze e sconnesse, verranno riputate sovrumana eloquenza infra quel popolo che noi chiamiam barbaro; e vi otterranno il loro pienissimo effetto.
Ma, se un capitano di nazione colta e libera vorrà accendere gli animi de' suoi soldati, gli bisognerà dire le stesse cose assai più lungamente, e più ornate. Con mille figure egli dovrà procacciare d'incendere quegli animi; ora con immagini terribili dipingendo le stragi, le rapine, gli oltraggi, la crudeltà del vincitore insolente; ora, con liete e festose, dipingendo i trionfi della ottenuta vittoria, i dolci effetti della ricoverata pace, gl'immensi beni della assicurata libertà . Questo popolo colto viene a sentire meno fortemente, appunto perchè con maggior sottigliezza egli sente; ci vogliono perciò in doppia e triplice quantità , parole ed immagini per infiammarlo e commoverlo. Ai popoli colti e non liberi non perorano mai i loro capi; perchè a questi non riman nulla a dire con le parole, che con assai maggiore efficacità non l'abbiano già detto ai popoli colla forza. E così accadrà d'ogni altra passione che si voglia destare negli animi d'un popolo, o interamente rozzo, o semi-barbaro, o colto e libero, o colto e non libero. Ma, se noi volessimo accertare, che più eccellente oratore sia questo che quello, niun'altra ragione addurne potremmo, fuorchè il dire che noi popoli di senso sottile così pensiamo e sentiamo; cioè, noi popoli di senso diminuito e indebolito dalle troppo moltiplicate sensazioni.
Se fra il popolo rozzo favellasse un oratore di popolo colto, egli tedierebbe, stordirebbe, poco sarebbe inteso, niente gustato; e non otterrebbe il suo intento. Ma, se pure fra il popolo colto favellasse un rozzo sì, ma energico e appassionato oratore, questi per semplice forza della nuda verità otterrebbe forse qualche cosa più; essendo la semplicità grandezza, e massimamente quando ella non è cercata con l'arte; perchè questa non isgorga mai da robusta e libera vena, come quella che è figlia di forte ed infiammata natura.
Da tutto questo concludo, che le lettere perfette come le intendiamo noi, e per l'uso di noi popoli civili, colti, guasti, timidi, oziosi, molli, e pressochè tutti servi, non possono esistere, se non nell'ozio, e nella servitù che n'è madre; ma che le lettere, quali le professavano i Greci, e quali con molto accrescimento d'utile potrebbero ricomparire sul globo presso ad un qualche ingegnoso popolo, il quale, ancorchè men delicato e men colto, fosse però interamente libero; tali lettere otterrebbero un'altra specie di perfezione dalla severa verità esposta agli occhi di tutti con energia, brevità , evidenza, e naturalezza. Si ridurrebbe allora l'arte oratoria, quale dev'essere, al persuadere ai cittadini le politiche e morali virtù; l'istorica e poetica, a narrare e descrivere imprese grandi, amori casti, amistà generose, tenerezze paterne, prodigi dei Numi; la filosofia in fine, camminando d'accordo con le massime politiche e teologiche già stabilite in quel popolo libero e felice, niun altro carico si assumerebbe che di andar mantenendo e rettificando sempre più il giusto pensare, i puri costumi, e le savie leggi.
Mi si dirà , che anche noi procuriamo di ricavar dalle lettere tutti questi vantaggi. Ma io rispondo; che gli artisti nostri non sono tali da poterceli procacciare; perchè, nè arte oratoria, nè storia, nè filosofia vera non possono mai scaturire da un animo servo, nè penetrare gli orecchi e il cuore di popoli servi: e, molto meno la poesia, maneggiata da servi artefici, può altamente trattare alte cose, senza contaminarle coll'errore, col timore, e colla servile adulazione. Quindi è che fra noi, tutto il fiore del bel dire, tutto il sapore della eloquenza, non divenendo mai per così dire l'ammanto della verità , questa energia, brevità , evidenza, e naturalezza dei nostri scrittori pare sempre accattata e mancante, perchè non viene a comporre uno stile adattato alle cose.
Ma vi sono alcuni momenti, in cui un popolo, già stato libero e non vile, all'uscire dalla sua rozzezza ed onestà di costumi, e all'entrare nella colta corruzione, riunisce istantaneamente in se, benchè menomati e non perfetti, i due semi della passata potenza e della presente coltura. Scemando poi ogni giorno più la virtù, e deviandosi l'eloquenza dal vero, quella luce, quasi un passeggero lampo, interamente tosto svanisce. Così Roma ebbe scrittori sublimi sì nel pensare che nella eleganza, in quel breve secolo, in cui rimembrò ella ancora la perduta libertà e la grandezza della passata repubblica: inoltratasi quindi nella servitù, tanta era stata la primitiva sua forza, che diede ancora alle morenti lettere un Giovenale ed un Tacito; ma li diede soli: invecchiata poi nel servire, non ebbe più nulla affatto di grande. E si osservi in questa universal decadenza, che l'autorità assoluta degli imperatori consecutivi fu anche poi distruttiva di quella stessa vuota eleganza dello scrivere, che andandosene ignuda d'ogni sublimità e verità di pensieri, e che avendo in Roma ricevuto vita e protezione da un tiranno, parea doversi sotto altri tiranni almen mantenere: manifesta prova, che noi c'inganniamo assai nel credere che il principato possa essere il vero protettore delle lettere, anche deviate dal loro diritto e legittimo scopo.
Finisco dunque col dire; che, a parer mio, la perfezione delle lettere quanto all'eleganza (che è pur troppo sempre quella che intendiamo noi) più facilmente può nascere fra un popolo di costumi corrotti e non libero, che non fra un popolo libero e sano; benchè Atene ci provi pur sempre il contrario. Ma se così è, io credo che codesta perfezione delle lettere sia una conseguenza del principio della corruzione di quel popolo; il quale pure per alcun tempo ancora può durare corrotto e libero. Ed ecco, mi pare, spiegata la contraddizione apparente fra Atene e tutte le altre colte nazioni da essa in poi conosciute. La corruzione divenendo in appresso totale ed estrema, oltre alla già spenta libertà , ella poi corrompe e spegne in breve del tutto anche le lettere stesse, come ogni altra utile cosa. Se le lettere allora possono pure sottrarsi dalla universale rovina, pervengono anch'esse a tal segno di viltà , che snaturandosi, per così dire, si fanno elle stesse cagione di corruzione col farsi nemiche di verità : e sono esse allora, come falsificatrici delle politiche idee, la cagione veramente di altri costumi assai più guasti e ammorbati, che quelli di cui erano figlie.
Secondo le diverse epoche e posizioni d'un popolo, e secondo la specie di gente che maneggia fra esso le lettere, elle possono dunque a vicenda divenire effetto e cagione di corrotti costumi: ma possono altresì, e ben maneggiate il debbono, farsi efficacissima cagione di libertà e di virtù.
CAPITOLO TERZO.
CHE LE LETTERE NASCONO DA SE, MA SEMBRANO ABBISOGNARE DI PROTEZIONE AL PERFEZIONARSI.
Ella è passione innata nell'uomo, soddisfatti appena i bisogni di necessità , il volersi distinguere dagli altri, col far meglio e maggiori cose in altrui e proprio vantaggio. Fra le nazioni selvatiche, questo amor della gloria si manifesterà nel voler l'uomo farsi miglior cacciatore o pescatore, che niun altri; fra le guerriere, miglior soldato; fra le colte, miglior politico, filosofo, istorico, poeta, &cc.
Ciò posto, il primo impulso alle lettere, come ad ogni altra bell'arte, egli è pur sempre quel naturale innato desiderio di distinguersi: e questa umana passione si dee posare per prima e vera base d'ogni arte. Ma, se nei diversi individui questo desiderio, benchè per se stesso fortissimo, basti solo a far loro perfezionare le lettere, pare problematico; e dai più degli scrittori, e massimamente nel principato, è stato deciso e creduto il no. Io sarei di contrario avviso; e tenterò di provarlo, discutendo appieno una tal questione. Questa, a parer mio, è una delle tante cose che paiono, a chi non ci si profonda ben addentro; e che non sono, a chi vuole molto riflettervi. Si dice ogni giorno: "Quel giovinetto ha certamente sortito dalla natura un grandissimo talento per la poesia; ma egli nasce di parenti non ricchi, che lo sforzano a tirarsi innanzi colle leggi, onde non la potrà mai coltivare". A ciò rispondo io, domandando: "Codesto giovinetto, è egli povero a segno di dover accattare? non è". Dunque i primi bisogni di necessità non lo incalzano. Prosieguo, e domando: "Ha egli ricevuto quella bastante istruzione, per cui l'uomo si mette in grado di poter far da se stesso? benissimo ha fatto e con somma lode i suoi studj; che se altrimenti fosse, mera temerità sarebbe la nostra il giudicarlo capace di poter egli mai scrivere eccellentemente. Ciò basta; conchiudo io; e s'egli ha veramente quel genio, che voi gli supponete, quel genio lo infiammerà e lo costringerà più assai al far versi, che non la necessità , o il garrire del padre, allo studiare e professare le leggi. E così fecero il divino Petrarca ed il Tasso, ed Ovidio per dir degli antichi, ed altri ch'io taccio. Se dunque è nato per esserlo, si farà codesto vostro giovinetto un eccellente poeta mal grado di tutti, perchè natura può più di tutto".
Ma spessissimo il mezzo ingegno e il debile impulso vengono scambiati colla ispirazio...
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