DEL PRINCIPE E DELLE LETTERE, di Vittorio Alfieri - pagina 2
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Vuole il letterato, o dee volere, che i suoi scritti arrechino al più degli uomini luce, verità, e diletto.
Direttamente dunque opposte sono le loro mire.
Si propone il principe per fine dell'arte sua la illimitata ed eterna potenza; mista di gloria, se gli vien fatto; se no, a ogni modo potenza ed impero.
Il letterato null'altro si propone (nè proporre si dee) se non se schiettissima gloria; ed ogni altra cagione che il muova, lo toglie tosto dalla classe dei veri letterati.
Alla pura e intera gloria di scrittore necessariamente va annesso l'utile dei più; perchè senza esso non basta il solo diletto a procacciar vera gloria.
Ora, l'utile dei più, manifesta cosa è che egli non può essere mai l'utile del principe, il quale d'altro non sussiste, se non della cecità e danno dei più.
Sono dunque costoro, per necessaria conseguenza dell'arte loro, amici degli uomini gli uni, nemicissimi gli altri: in nulla quindi non possono, nè debbono, tra lor concordare.
Ma, qual ragione pure li riunisce sì spesso? desiderio di gloria non meritata, nei principi; desiderio di falsi onori e di ricchezze non lecite, nei letterati.
Quelli, col mendicare i non dovuti encomj, manifestano a tutti che sono appieno convinti in se stessi di non gli aver meritati: questi, col procacciarsi le ricchezze non necessarie, o gli infamanti onori, si manifestano indegni dell'alto incarico di giovare all'universale col loro ingegno.
CAPITOLO QUINTO.
IN QUAL MODO I LETTERATI PROTETTI GIOVINO AL PRINCIPE.
Ma pure, poichè al principe oltre ogni cosa rileva il parer buono, più ch'esserlo, gran mezzo si è, per ottener tale intento, il tenersi dintorno, il premiare, onorare, e proteggere scrittori d'un qualche merito, che lo pongano in fama; e che ne abbiano già acquistata una tal quale a se stessi, o con opere, o con parole, o con impostura: che questa, per alcun tempo, equivale al merito vero, se pur non lo supera.
Gli uomini grandi davvero, in ogni età e contrada rarissimi nascono: ma quei mediocri, che con indefesso studio acquistatasi una certa felicità di stile, son giunti a farsi leggere ed ascoltare, abbondano oggi giorno in ogni colto paese d'Europa; e sono questi la base della letteratura cortigiana.
Se sorge alcuno scrittore più grande di loro, dottissimi sono costoro nell'arte di tenerlo talmente avvilito, che talvolta dalla impresa il rimuovono, se non è in lui un Iddio, che lo spinga a viva forza innanzi contra ogni ostacolo.
Il principe, per naturale sua indole, pende sempre maggiormente per i mediocri; o come più vicini alla capacità sua, e perciò meno offendenti la sua ideale superiorità; o come più arrendevoli al tacere, o al parlare a modo suo.
Ma pure, anche i grandissimi ingegni, per onta loro e dei tempi, si sono spesse volte imbrattati fra il lezzo delle corti: e quel principe protettore dovea tacitamente in se stesso applaudirsi, e non poco, di aver loro scemata co' doni ed onori quella preziosa libera bile, che sola è madre d'ogni bell'opera.
Accorto dunque, e veramente saputo è quel principe, che non meno protegge i sommi letterati che i mediocri: perchè dai mediocri ne ottiene per se quella glorietta, che è la giusta misura del merito sua, poich'egli se ne appaga; dai grandi ne ottiene spessissimo il disonor di se stessi, o almeno la tregua di quella loro guerra, che gli arrecherebbe danno assai più, che utile non gli arrechi lo smaccato lodar di quegli altri.
CAPITOLO SESTO.
CHE I LETTERATI NEGLETTI ARRECANO DISCREDITO AL PRINCIPE.
Glorietta dunque, e splendore, e lustro, e quiete arrecano al principe i letterati protetti: ma negletti, gli apportan discredito.
Nel sistema presente della nostra Europa, quasi tutti i principi mantengono degli accademici, non altrimenti che due secoli addietro soleansi mantener dei buffoni, di cui però assai più si valevano.
Quindi un principe che trascuri le lettere, corre rischio oggidì, che un qualche suo suddito letterato e negletto da lui, non cerchi, e ritrovi pane ed onori in casa d'altro principe; del che a lui sarà per tornarne grand'onta.
Gli uomini, sempre ciechi, sempre leggieri al credere, e paghi di quel che pare, sono presti tutto dì a dar lode a quel principe, il quale, non si valendo in nulla dei letterati, e in ogni cosa operando il contrario di quello che van predicando le lettere, le oltraggia perciò maggiormente col proteggerle, nutrirle, e ogni giorno svergognarle.
Alla pubblica voce del volgo fanno eco i letterati stessi, i quali, parlando di cosa che li tocca da presso, non vogliono schiettamente dire la verità.
Eppure, ben pesato il tutto, qual più atroce insulto può egli farsi alle lettere, che di pascerle ed impedirle? Ma, certamente, se i letterati negletti pongono il principe moderno in discredito, conviene pur anche confessare che i letterati protetti pongono se stessi in un discredito assai maggiore; e più fatale di tanto, che alla sublimità dell'arte loro una tal protezione può nuocere e nuoce, senza che alla mediocrità del principe proteggente quasi niuno accrescimento ne ridondi.
Del che nel secondo libro mi riserbo a ragionar lungamente.
CAPITOLO SETTIMO.
CHE I LETTERATI PERSEGUITATI RIESCONO D'INFAMIA E DANNO AL PRINCIPE.
Che dirò poi del principe, che, non pago di lasciargli alla necessità, li perseguita? Egli si apparecchia molta infamia, e molto più danno.
Se le cose deboli per se stesse (o almeno di una forza non palese a tutti, come lenta e lontana), possono pure mai nuocere al potente, l'unico mezzo affinch'elle nuocano, si è lo inimicarle, mostrando di temerle.
Gli uomini per natura inclinano dalla parte del debole; e gli oltraggi fatti dal principe all'universale sono già tanti, che a farsi egli biasimare e abborrire, ci vuole assai meno che il perseguitar letterati.
Ma, dirà il principe: "Mi biasimino in voce costoro; poco, e sommessamente il faranno: ma, se io non gli opprimessi, o cacciassi, o affliggessi, mi biasimerebbero in iscritto, il che sarebbe assai peggio".
E molto bene ragionerebbe costui, se alcun cantuccio non rimanesse sul globo, donde il letterato potesse poi, ricovratosi in sicurtà, scagliare contr'esso di ogni sorta scritti, e ridersi dei suoi fulmini.
Ma, poichè pure un tale asilo vi rimane in Europa, quale altro guadagno farà egli il principe nel costringere il letterato a rifugiarvisi, fuorchè la vergogna di manifestare in quale brevissimo cerchio il suo potere si confini?
Visto dunque lo stato presente delle cose, politica sana e savia nel diciottesimo secolo, e adattabile ad ogni principe e grande, e piccolo, e mediocre, sarà il proteggere, il pascere, e premiando avvilire gli scrittori; e togliere così il valore e la fama alle lettere, coll'infamarne preventivamente i prezzolati artefici.
CAPITOLO OTTAVO.
CHE IL PRINCIPE, QUANTO A SE STESSO, DEE POCO TEMERE CHI LEGGE,
E NULLA CHI SCRIVE.
Ma, il timore dovendo pur sempre essere la tacita norma di ogni uomo, che sotto qualunque titolo ne costringa ad arbitrio suo molti altri; dico, e spero di provare, che anco lo stesso timore dovrà indurre i moderni principi a non perseguitare i letterati, altrimenti che coi loro doni, e col loro proteggente disprezzo.
Gli scrittori, per quanto esser possano caldi, ed anche entusiasti, rarissimamente sono da temersi per se stessi; o sia, perchè la loro vita molle e sedentaria li rende poco atti all'eseguire, o tentare azioni grandi; o sia, perchè lo sfogo del comporre indebolisce nella massima parte e minora il loro sdegno.
Da temersi dunque sarebbero soltanto i loro scritti nella persona dei diversi loro lettori.
Ma, in questo secolo, in cui pur tanto si legge e si scrive, esaminiamo rapidamente quali siano coloro che leggono; e quali scritti, e in qual modo, si leggano.
Quale animo vediamo noi, infiammato da quei tanti generosi tratti di storia antica, dar segno di averne ricevuto una profonda impressione, col fare, o dire, o tentare, o almeno caldissimamente lodare alcuna di quelle imprese alte e memorabili, che dai moderni col freddo e vile vocabolo di pazzie vengono denominate? Ma, poniamo anco, che tali cose si vadano pure leggendo, e con qualche frutto; chi è, che le legge? non il popolo, che appena sa leggere; che, sepolto nei pregiudizj, avvilito dalla servitù, fatto stupido dalla povertà, non ha nè tempo, nè mezzi, nè ajuti, per imparare a discernere i suoi proprj diritti: ed egli pur solo potrebbe farli valer, conoscendoli.
Leggono adunque veramente nel principato i pochi uomini rinchiusi nelle città; e fra questi, il minor numero di essi; cioè quei pochissimi, che non bisognosi di esercitare arte nessuna per campare, non desiderosi di cariche, non adescati dai piaceri, non traviati dai vizj, non invidiosi dei grandi, non vaghi di far pompa di dottrina, ma veramente pieni di una certa malinconia riflessiva, cercano ne' libri un dolce pascolo all'anima, e un breve compenso alle umane miserie; le quali forse assai più vivamente vengono sentite da chi il minor danno ne sopporta.
E così fatti lettori (a questi soli attribuisco io un tal nome) che non sono uno in dieci mila, spaventare potrebbero il principe?
Leggere, come io l'intendo, vuoi dire profondamente pensare; pensare, vuol dire starsi; e starsi, vuol dir sopportare.
Si esamini la storia, e si vedrà, che i popoli tutti ritornati di servitù in libertà, non lo furono già per via di lumi e verità penetrate in ciascuno individuo; ma per un qualche entusiasmo saputo loro inspirare da alcuna mente illuminata, astuta, e focosa: e neppur quella era una mente seppellita nell'ozio degli studj, ma pensante per se stessa; e di quel pensare che nasce da un sentimento naturale e profondo; forse risvegliato da un tratto di tale, o tal libro, ma non mai accattato dai molti di essi.
Ed in fatti; Giunio Bruto, Pelopida, Guglielmo Tell, Guglielmo di Nassau, Washington, e altri pochi grandi che idearono od eseguirono rivoluzioni importanti, non erano letterati di professione.
Crederei anzi, (e l'effetto finora me lo dimostra vero, pur troppo!) che i lumi moltiplicati e sparpagliati fra i molti uomini, li facciano assai più parlare, molto meno sentire, e niente affatto operare.
Si parla e si legge e si scrive in Parigi; e ci si obbedisce pure finora, quanto e più che a Costantinopoli, dove nessuno scrive, e pochi san leggere.
Ma pure, fra' Turchi, come in ogni altro asiatico dispotismo, sorge di tempo in tempo un tal capo, che nessuna altra dottrina conoscendo, fuorchè le leggi di natura fortemente sentite, dice con energica rozzezza a molti di quegli idiotissimi uomini: "Questo nostro principe è irreligioso; è tiranno; non è guerriero; si deponga, si uccida".
E spesso viene egli e deposto, ed ucciso.
Non nego però, che a lungo andare, lo spirito dei libri non s'incorpori, direi così, nello spirito dei popoli che nella loro lingua gli hanno; e penetra questo spirito in tutti gl'individui, o sia per tradizione, o sia per lettura effettiva, o sia per lo diverso pensare che si va facendo strada nel discorrere familiarmente; e penetra a tal segno, che in capo a qualche secolo si trova poi mutata affatto l'opinione di tutti.
Ma, colla stessa lentissima progressione, si trovano poi anche mutati i mezzi e l'arte del comandare; e gli uomini (pur troppo!) non si vengono niente meno di prima a tener sotto il freno da chi conoscere li sa e prevalersene.
Parmi adunque, che i principi moderni, visto i progressi non impedibili oramai delle lettere, non abbiano perciò a perseguitare i letterati, perchè invano il farebbero: ma, che sapendo essi serpeggiare fra loro, e, per così dire, innestarseli, potranno forse riuscire a rendere col tempo le lettere non essenzialmente contrarie alla somma della loro illimitata autorità, ed appena debolmente sfavorevoli a un certo eccessivo modo di esercitarla.
CAPITOLO NONO.
CHE GIOVEREBBE AL PRINCIPE DI ESTIRPAR LE LETTERE AFFATTO, POTENDO.
Se un solo principe vi fosse su questo globo; o se nessun altro governo vi fosse, che il principesco; o se qualche isola così ben guardata vi fosse, da cui nessun uomo uscire, nè alcuno entrar vi potesse; credo che in questi tre casi, il principato potrebbe con suo manifesto vantaggio proscrivere ogni lume di lettere, e ogni qualunque libro, che non insegnasse il servire.
Non si può mettere in dubbio, che l'uomo che si trova soggetto, non vuole per natura obbedire, se non il meno ch'ei può; e così, quello che si trova sovrano, vuol comandare il più ch'egli può.
Al principato dunque gioverebbe moltissimo la totale cecità e ignoranza dei sudditi tutti: nè mi par questa una proposizione che abbisogni di prove.
Ma dico di più: che in un tale stato di cose, la ignoranza perfetta dei sudditi gioverebbe al principe assai più, che non possono nuocergli nello stato presente i tanti lumi, che a noi pare d'avere.
E di quanto asserisco, ne trovo la prova nei fatti.
Malgrado questi nostri tanti lumi, malgrado che da molti di noi ben si sappia che ogni autorità illimitata non può avere altra base che la nostra debolezza, e non mai l'altrui forza, poichè nessun uomo ne ha tanta in se stesso da poter tutti sforzare; ogni giorno pure, e ad ogni capriccio da noi ciecamente si obbedisce tacendo.
Al contrario, nei paesi di perfetta ignoranza, l'autorità assoluta vien riputata, o di dritto divino, o privativa di quella tale stirpe, o necessaria e inerente alla natura dell'uomo; e quindi ogni fantasia del dominante viene senza mormorare accettata, come giusta, inviolabile, e sacra legge.
Certo è, che per gli animi volgari, più queta e secura cosa riesce il comandare a chi non dubita punto se obbedire si debba: ma, questo prezioso dubbio, trasmesso alle nazioni moderne europee per via dei libri antichi, non si può da nessun principe con niuna forza estirpare del tutto.
Ed in fatti, per quanto siano mai state perseguitate, o si perseguitino le lettere e i letterati, non si potrà però mai annichilare un Tacito; e questo solo è più che bastante per rivelare agli uomini ogni segreto dell'arte principesca.
Mi pare dunque chiarissima cosa, che il tentare d'impedire a mezzo ogni seme di vera letteratura, non sia nè prudenza, nè ragione, nè astuzia, nel moderno principe.
Nel mostrare egli di molto temere ciò che l'effetto e l'esperienza debbono avergli insegnato oramai che poco si dee temere da chiunque lo sa deviare, il principe non accresce di nulla la propria sicurezza; ma bensì in molto maggior dose si va egli procacciando in tal guisa e l'odio e il disprezzo di tutti.
Maometto secondo, nell'impadronirsi d'Alessandria fece ardere tutti i libri raccolti dai Tolomei, come inutili per chi sapeva obbedire, e dannosissimi per chi nol sapeva.
Ma molti secoli innanzi, quegli stessi Tolomei regnando assoluti in Egitto; molti secoli dopo, Lodovico decimoquarto, e assai altri principi, regnando assoluti in Europa, premiarono pure ed onorarono infiniti scrittori.
Ora io domando: Que' Tolomei in Egitto, questi Luigi, o Carli, o Franceschi in Europa, volevan eglino esser meno obbediti, che quel Maometto? nol credo: ma stimavano essi, che alla obbedienza dei sudditi, o niente, o pochissimo nuocessero e gli scrittori, ed i libri.
Né i principi nostri, in ciò credere, s'ingannavano punto, visto i moderni tempi ed i costumi europei.
Questi nostri costumi, che ogni cosa a mezzo ci danno; che coll'educazione indeboliscono sempre a metà la natura, e colla metà della rimanente natura corrompono e annichilano spesso quanto avrebbe operato la educazione; questi stessi costumi, dai quali non può andare esente il principe, poichè vi è nato egli pure, lo costituiscono un ente, che non si accorda mai con se stesso.
Ed in fatti, egli riunisce contradizioni massime e perenni; egli vorrebbe e non vorrebbe; egli è feroce, ed umano; despota, e privato; e mille altre cose miste, e contrarie tutte fra loro: da cui nondimeno sempre ne risulta l'intero nostro obbedire e tremare; e il non esser noi, per dir vero, nè Egiziani nè Turchi, ma nè tampoco Romani, nè Greci.
CAPITOLO DECIMO.
NON POTENDO IL PRINCIPE ESTIRPARE AFFATTO LE LETTERE, GLI GIOVA PARERNE IL RIMUNERATORE,
E L'APPOGGIO.
I viaggi, il commercio, e l'arte del cambio, hanno emancipato per così dire gli abitatori d'Europa: quindi i nostri padroni e pedagoghi politici non ci possono più tenere come bambini del tutto.
In oltre, il rimanervi alcuna picciola parte d'Europa, in cui l'uomo nasce, o libero, o meno oppresso, sforza anche i più risoluti oppressori ad osservare alcuni indispensabili risguardi coi sudditi.
In questo stato di cose, facilmente (pur troppo pe' principi) si promulgano le opinioni diverse, e si estendono rapidamente in Europa, allorchè da eccellenti uomini vengono poste in iscritto.
L'amore di novità, l'ozio, la curiosità, e anche il dolce fine di render se stesso migliore, sono le cagioni per cui da alcuni altri non volgari uomini si legge: e, fra tutti i libri, pare che quelli che scuotono il cuore dell'uomo, siano i più universalmente letti e gustati.
L'autore ottiene questa commozione in molte maniere; ma in nessuna più efficacemente, che illuminando con colori nobili patetici e forti le imprese grandi in se stesse, e da cui ne siano ridondati effetti importanti.
E suole ciò farsi, o fingendo per via di poesia, o traendo dai fonti della storia, o perorando al popolo, o su le cose umane generalmente filosofando.
Toltane dunque la passione d'amore, che sotto ogni governo può allignare, e più sotto i meno virtuosi, se l'autore vorrà maneggiarne alcuna dell'altre allegandone splendidi esempj, bisognerà pur sempre ch'egli ricorra ai popoli liberi.
Quindi è, che ai giovinetti ampiamente si insegnano le cose di Roma, di Atene, e di Sparta, ma raramente o non mai si favella a loro di Persia, d'Assirja, d'Egitto, e dei loro tiranni.
Volendo sotto qualunque velo insegnar la virtù, è dunque sforzato lo scrittore a cercarla dove ella è stata; ad indagarne, o accennarne le cagioni; a narrarne gli effetti; e ad incoraggire in somma i lettori alla imitazione di essa.
Perciò non mi pare, che abbisogni di prove l'asserire; che libro di sane lettere non vi può essere, il quale (per qualunque mezzo vi arrivi) non abbia però sempre per fine principalissimo ed unico, l'insegnar la virtù.
E intendo qui per virtù; Quella nobile ed utile arte, per cui l'uomo, col maggior vantaggio degli altri, procaccia ad un tempo la maggior gloria sua.
Ammessa questa definizione, che mi pare innegabile, ogni buon libro (che non sia però di scienze esatte, delle quali parlerò in appresso) dee necessariamente in quasi tutti i suoi principj offendere l'autorità illimitata; poichè, per quanto voglia anche lo scrittore essere discreto, e serbare riguardi, non può pure mai laudare il vizio; nè, molto meno, può insegnare la vera virtù, senza dimostrare o accennare, che il fonte di essa non può essere e non è stato mai, nè l'obbedire al capriccio di un solo, nè il servire, nè il tremare.
Ciò posto, io dunque dico; che nessuna vera sublime epica poesia, nessuna tragedia, nè commedia, nè storia, nè satira, nè opera filosofica, nè arte oratoria, nè in somma alcun ramo di belle lettere (tolto il madrigale, il sonetto puramente amoroso, e la pastorale) potrà mai riempire nel principato il suo proprio dovuto scopo, e dare nel vero, senza offendere o più o meno l'autorità assoluta.
E, se non volessi esser breve, e massimamente in questo primo libro, potrei ampiamente provare quanto asserisco.
Ma, per mille ragioni mi vaglia una sola; e siano i fatti.
Domando: Qual è il buon libro, (veramente stimato tale) che sviluppando altre passioni umane che l'amore, o tutto o in parte, da qualche principe, o in qualche tempo, non sia stato proibito, o screditato, o schernito, o calunniato, o perseguitato? Ma, che pro? i libri sussistono, e durano contra ogni ira, potente o impotente sia ella, purch'essi sian ottimi.
Non potendo adunque il moderno principe europeo assolutamente impedire che i libri buoni già fatti continuino ad esistere, e ad esser letti; nè che alcuni altri buoni, ma sempre pochi, se ne vadano scrivendo; accortamente farà egli, se saprà non mostrarsi interamente contrario alle lettere, e se saprà premiarne a tempo gli artefici; anteponendo però sempre i mediocri ai sommi; e astutamente cercando di fare che i sommi rimangano o paiano mediocri, coll'impedir loro cortesemente di pensare, e di scrivere, fin dove bisognerebbe.
Per la stessa ragione egli farà benissimo di fingere di onorare gli scrittori morti, col ristamparli; ancorchè tali siano, che se avessero scritto a tempo suo sotto lui, gli avrebbe egli, potendo, piuttosto soffocati, che non mai dati in luce.
In tal guisa perverrà forse il principe a persuadere ai più, che egli non teme l'effetto di una certa libertà di scrivere e di pensare.
E quella stessa apparente sua non curanza sarà anche uno scoraggimento grandissimo a chi sperasse di farsi un nome liberamente pensando e scrivendo; perchè una certa persecuzione contro ai libri fortemente e luminosamente veraci, costituisce per lo più la base della loro prima fama; e quindi maggiormente e più presto propagandogli, assai più utili in minor tempo li può rendere.
CAPITOLO UNDECIMO.
QUALI PREMII GIOVI PIÙ AL PRINCIPE DI DARE AI LETTERATI.
Insorta dunque a poco a poco in Europa questa classe d'uomini, che si assume l'incarico, pensando e scrivendo, di far pensare gli altri; e che, comunicando a tutti le proprie idee, perviene pure a spandere fra molti una semi-luce; i principi, che ereditariamente si assumono l'incarico d'impedir di pensare, si sono di necessità ritrovati nemici degli scrittori.
Ma la vicendevole paura (come in tante altre occorrenze umane il vediamo) gli ha tosto rapprossimati.
Gli autori, come già accennai, mossi dal bisogno dal timore e dalla vanagloria, per acquistar fama subita, ancorchè non durevole; i principi, mossi da vanità, dal timore d'essere con ingegno derisi smascherati e screditati per sempre, per parer buoni, e per non potere in fine altrimenti operare, attesa la gran piena presente de' letterati: sono queste, o mi pajono, le ragioni vere, per cui questi fra loro naturali nemici si vengono a cangiare in protettori e protetti.
La maniera con cui si ricompensano i letterati dai principi è per lo più con provvisioni pecuniarie, che chiudono loro la bocca a ogni verità luminosa chiaramente e fortemente esposta, quale deve essere per farsi strada nell'instupidito intelletto del volgo ignorante e servo.
Gli scrittori a vicenda, contraccambiano i principi con le smaccate lodi, con le deificazioni, co' falsi poemi, storie alterate, libri di diletto senz'utile, false massime in politica, falsa filosofia, &cc.
&cc.
Da questo commercio di reciproca dissimulazione il pubblico intanto ne rimane sempre più cieco e ingannato; e sempre più allontanato dal forte sentire, e dal vero, che sono i soli fonti d'ogni alto operare.
Ma siccome in questo primo libro io cerco (per quanto sia pure possibile ad un uomo libero) di farmi principe e non letterato, dovrò dire, che i principi fanno molto bene di operar così; poichè finora felicemente è riuscito loro, per via di mercede condita col timore, di spuntare in gran parte le saette dell'ira scrivana.
Ed a provare anche questo, mi bastano i fatti.
Chi può dubitare, per esempio, che Montesquieu e Corneille, non ricompensati, nè onorati dal principe, e aventi una esistenza indipendente affatto da lui, non sarebbero andati molto più in là nelle loro massime, sviluppando e lumeggiando col loro forte pennello tante importantissime cose spettanti alla felicità umana, le quali si vedono appena accennate, e velate assai nei loro timidi scritti?
Ma pure, i principi non sanno abbastanza impedire gl'ingegni sommi, colla loro bene adoprata protezione.
E, più d'ogni altro ente, il principe mi conferma quel profondo assioma del divino Machiavelli: Che gli uomini non sanno essere nè del tutto buoni, nè del tutto cattivi.
Dicesi che il gran Voltaire nella sua gioventù avesse mostrato assai desiderio di servire il re in commissioni estere; ed io facilmente m'induco a crederlo, poichè questo autore, immemore in ciò di se stesso, non arrossì di sempre firmarsi: Voltaire, gentiluomo di camera del re.
Il principe, o il ministro che non lo impiegò, commise dunque nell'arte principesca un errore non picciolo: Voltaire, impiegato dal re, e rappresentante il re, diveniva piccolo quanto il suo rappresentato; era vinto e legato per sempre; nulla avrebbe sc
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