[Pagina precedente]...rsj non giovò, poichè distruggea il loro impero, smembrandolo: agli altri popoli del globo non arrecò nè utile, nè danno: ai principi nati dopo lui, e che senza le sue virtù imitare lo vollero, gran danno arrecò; e più ancora ai popoli posteriori, che furono di quelle mal nate abortive ambizioni la vittima: Alessandro, in fine, alla universalità delle successive generazioni null'altro lasciò di se stesso, se non il terrore, o la maraviglia, del nome.
Ciro giovò ai Persj fondando il loro impero, e assicurandolo con savie leggi; per quanto pure elle siano combinabili col governo d'un solo. Ma Ciro, come avviene in ogni principato, assai più giovò ai suoi successori re, che non ai suoi popoli. E in prova di ciò, tolta una certa disciplina militare, che neppur molto durava, e che in nulla era da paragonarsi alla greca e romana dappoi, in qual virtù, in quale arte divennero mai eccellenti i Persiani? quai lumi ebbero? quali ne arrecarono alle soggiogate nazioni? quai tratti di sublime grandezza d'animo ci hanno tramandati le loro storie? dove sono le loro storie? Un vasto e muto silenzio di molti secoli, interrotto di tempo in tempo da milioni di schiavi armati, e sempre disfatti da poche centinaia di Greci liberi, ogniqualvolta all'Europa affacciavansi; è questa la storia della nazione che nacque dalle leggi di Ciro: e se i greci scrittori stati non fossero, nè di Ciro, nè de' suoi Persj, il nome pure pervenuto sarebbeci. L'utile arrecato da questo conquistatore legislatore a' suoi popoli, fu dunque assai picciolo; alle remote nazioni fu assolutamente nullo; alle postere, nullo: ed il nome di Ciro, per essere più antico e non Greco, è anche rimasto assai minore di quello d'Alessandro. Tanto è vero, che negli imperj assoluti non viene nulla più riputato chi fonda che chi distrugge: ed è questa una tacita giustizia degli uomini, che con ciò dimostrano, che negli assoluti imperj anco il fondare è un mero distruggere.
Tito, appellato delizia del genere umano, giovò per pochi anni a Roma col rispettare alquanto le leggi da' suoi predecessori barbaramente straziate; ma non ne fece pur niuna, che saldamente impedire potesse ai successori suoi di commettere le atrocità dei suoi antecessori. Qual utile effimero fu dunque mai questo? Perdonò Tito ad alcuni congiurati; ma ciò fece anche Augusto, e lo stesso Tiberio. Potea Tito giovare grandemente a Roma, tentando almeno di rifarla libera e virtuosa; ma ad una tal cosa neppure ei pensava. All'universale degli uomini non giovò egli, nè nocque; null'altro di lui rimane, che il nome; e questo si va proponendo ogni giorno per modello ai principi tutti. Tito non è perciò imitato; ma se pure il fosse, quale utile ne risulterebbe ai popoli sudditi? un brevissimo istante di precario respiro, per poi risoffrire al doppio le oppressioni del successore. Ed in fatti, se anco da noi tutti non si dovesse aver mai altri principi, che dei simili a Tito, ne saremmo quindi noi forse maggiormente uomini? nol credo; poichè i Romani non ridivennero maggiormente Romani sotto Tito, nè sotto Trajano, nè sotto gli Antonini, di quello che il fossero sotto Augusto, Tiberio, e Nerone. I veri Romani, cioè l'adunanza di tutte le virtù possibili in un ente umano, erano quella tal pianta, che allignar ben doveva a tempo dei Bruti, dei Catoni, e dei Fabj; ma, all'ombra dei Titi e dei Trajani, non mai.
Esaminate queste tre specie di principi grandi, veniamo presentemente al grande scrittore. Omero, verde e fresco dopo più di due mille anni, come se ier l'altro ei vivesse, agli uomini tutti presenti e futuri giova e gioverà ; nè ad alcuno mai nocque, se non a chi volle, senza averne l'ingegno, imitarlo. La virtù, e la sublimità egli insegna; il cuore dell'uomo sviluppa e commove: guerriero egli e legislatore, amico degli uomini e del vero, gli illumina discoprendolo. Ed a così immenso giovamento quanto dal suo insegnare si trae, vi si aggiunge di più quell'immenso diletto che a tutti egli arreca; cosa che nessun gran principe, neppure giovando, non arrecava ai popoli mai. Omero fu invidiato da Alessandro, senza accorgersene questi, nello invidiargli Achille: ma, se Omero rivivendo paragonasse la sua propria fama a quella d'Alessandro, non credo io che egli mai Alessandro invidiasse.
Ma, quando anche in vita fossero essi stati, o sembrati uguali il gran principe e il grande scrittore, eguale non può mai essere in appresso la loro memoria e fama, per due potentissime ragioni. Prima; che il principe non può aver giovato che ai soli suoi popoli, e per un dato tempo; lo scrittore a tutti, e per sempre. Seconda; che il principe ha tratto la propria grandezza da mezzi che non erano in lui stesso; poichè, se non avesse egli avuto e stato e potenza, nessuna delle sue imprese avrebbe potuta condurre a buon fine: ed inoltre, di cotesta sua propria grandezza niuno stabile effetto ai posteri ne può il principe tramandare; null'altro del suo alla voracità del tempo involandosi, fuorchè la memoria ed il nome: e questi anche, se debbono rimanere grandi davvero, abbisognano pur sempre d'un grande scrittore. Al contrario lo scrittore sublime, tutto in se stesso, ed in se solo, trovando; fabro egli solo della propria grandezza, non meno che dell'utile altrui; alle seguenti età tramanda eternamente la viva sua fama, non quasi un vuoto nome, ma corroborata e giustificata dal proprio libro.
CAPITOLO NONO.
SE SIA VERO, CHE LE LETTERE DEBBANO MAGGIORMENTE
PROSPERARE NEL PRINCIPATO, CHE NELLA REPUBBLICA.
Ragionando io da sì gran tempo di letterati e di principi, mi si para naturalmente innanzi una questione che par meritare capitolo da se; benchè molte parti di essa io ne sia venute accennando nel corso di questo libro secondo. "Le lettere, debbono elle veramente più prosperare nel principato che nella repubblica? e, se così è, quale ne può essere la trista e lamentevole cagione? il difetto di tal cosa sta egli nelle lettere stesse, o nei letterati, o nei popoli fra cui, e per cui questi scrivono?"
Di queste cose tutte, quanto potrò più brevemente sviluppandole, discorrerò. Ecco da prima, che se ai fatti ricorro, trovo pur troppo, che dei quattro secoli, in cui con lunghi intervalli fiorirono le lettere, tranne il primo e il più fecondo, quello di Atene libera, gli altri tre furono senza dubbio promossi e per così dire covati dai principi di cui conservano i nomi. Quindi, se imprendo ad esaminare la non lunga rassegna degli altissimi scrittori d'ogni nazione e d'ogni secolo, trovo il numero dei nati in principato per lo meno eguale al numero dei nati in repubblica; e la loro eccellenza trovo pur anche divisa; ma non però tanto, che la vera e massima eccellenza (cioè la massima utilità ) non si debba originare quasichè tutta dai letterati nati in repubblica. Gradatamente poscia ritrovo la seconda e minore eccellenza presso i nati in principato, ma non fattisi nè lasciatisi proteggere. La terza ed infima eccellenza finalmente ritrovo per lo più negli scrittori nati schiavi, rifattisi poi doppiamente schiavi; e, come tali, pagati, inceppati, e protetti.
E venendo agli esempj, se fra gli scrittori tutti noi poniamo in prima riga i sommi filosofi, che, come padri d'ogni lume, ci si debbono di necessità collocare; bisogna pur confessare, che questi erano tutti Greci; cioè liberi: e non erano, nè Egizi, nè Indiani, nè Persj, nè Assirj. E bisogna aggiungere, che non solamente erano liberi, ma anche sprotetti, e spesso anzi perseguitati. Tali furono Socrate, Platone, e Pittagora. A questi tre seguita e cede, a parere del retto giudizio, Aristotile; che la macchia d'essere stato pedagogo di Alessandro, e d'esserne nato suddito in Stagira, non poco pure oscurare dovea la sua fama fra i Greci, e alquanto forse la sua filosofia indebolire e minorare.
Ma non credo necessario di annoverare i tanti e tanti altri filosofi capi-setta, di cui la Grecia libera abbondò, per darla interamente vinta per questa parte di letteratura alle repubbliche. Lo investigare altamente le cagioni delle cose, e principalmente le morali, non fu, nè potea esser mai l'arte, non che promossa e protetta, ma nè pur tollerata ne' suoi cominciamenti, dal principe; il quale, fra le cagioni d'ogni male politico, non può ignorare d'esser egli la maggiore e la prima.
Se la filosofia seguitiamo traspiantata di Grecia in Italia, i veri romani filosofi troviamo pure essere stati quasi tutti anteriori ad Augusto: Panezio, Varrone, Lucrezio, Catone; ed in ultimo, maggiore di tutti, il gran Tullio; figlio, a dir vero, di morente repubblica, ma scrittore pure, e pensatore, non degno di nascente tirannide. Filosofi investigatori di politiche e morali verità , l'Italia non ne ebbe dappoi quasi niuno di vaglia, infino al Machiavello. Questi, profondissimo in tutto ciò che spetta ai governi, nella sublime e intera cognizione e sviluppo del cuor dell'uomo inimitabil maestro, è stato e merita d'essere capo-setta fra noi. Ma il Machiavello è pure anche figlio di una tal quale agonizzante repubblica: e benchè con alcune dediche ai medÃcei tiranni disonorasse egli alquanto se stesso, pure da essi per somma ventura sua non essendo stato protetto, luminosamente perciò scrisse il vero. Ciò non ostante, come pianta troppo straniera alla Italia serva e avvilita, poco fu egli considerato, e poco letto, e assai meno meditato e inteso finch'egli visse; dopo morte, rimase assai screditato ed egli e il suo libro. E circa a quest'autore mi conviene qui di passo osservare una strana bizzarria dell'ingegno umano; ed è, che dal solo suo libro del principe si potrebbero qua e là ricavare alcune massime immorali e tiranniche; e queste dall'autore sono messe in luce (a chi ben riflette) molto più per disvelare ai popoli le ambiziose e avvedute crudeltà dei principi, che non certamente per insegnare ai principi a praticarle; poichè essi più o meno sempre le adoprano, le hanno adoprate, e le adopreranno, secondo il loro bisogno ingegno e destrezza. All'incontro, il Machiavello nelle storie, e nei discorsi sopra Tito Livio, ad ogni sua parola e pensiero, respira libertà , giustizia, acume, verità , ed altezza di animo somma: onde chiunque ben legge, e molto sente, e nell'autore s'immedesima, non può riuscire se non un focoso entusiasta di libertà , e un illuminatissimo amatore d'ogni politica virtù. Eppure, il Machiavello, proscritto dai principi per mera vergogna di se stessi, e dai popoli poco letto e niente meditato, volgarmente viene da tutti creduto un vile precettore di tirannia, di vizi, e di viltà . Né sarà questa una delle minori prove in favore di quanto asserisco; che i filosofi non possono essere mai pianta di servitù; poichè la moderna Italia, in ogni servire maestra, il solo vero filosofo politico ch'ella abbia avuto finora, non lo conosce, nè stima.
A voler poscia seguitare le tracce della filosofia ne' suoi lenti e luminosi progressi, ci conviene varcar monti e mari, per ritrovar Bacone, Locke, e pochi altri, ma tutti figli di libertà . La Francia, così colta pel rimanente, non potea pure mai, come serva ch'ella era, procreare filosofi sommi, e massime in politica; o se pur li creò, non poteva allevargli e serbarli. Bayle ne fa prova, il quale, per poter essere filosofo vero, e scrivere come tale, si trovò costretto di cessar d'essere Francese, e di ricoverarsi in Olanda. Montaigne, oltre lo stemma gentilizio, (che in quei tempi serviva ancora d'usbergo) dalle due tirannidi e principesca e pretesca si sottrasse anche dietro alla scorza del pirronismo, e di un certo molle faceto, che tutti i suoi scritti veramente filosofici avviluppa, senza punto contaminarli. Montesquieu, in questi ultimi tempi, alquanto più ardiva, ma non però mai abbastanza; il che di tanto più gran macchia alla sua fama riesce, quanto si vede benissimo da ciascuno, che egli per solo timore tacque, o adombrò, o intralciò quelle semplici ed alte verità , le quali egli pure assai vivamente nel più profondo del cuore sentiva.
E, senza più dire dei filosofi, parmi dagli esempli aver provato abbastan...
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