ZIBALDONE, di Giacomo Leopardi - pagina 77
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Sallustio, Bell.
Catilinar.
c.8.
fine.
In hoc sumus sapientes, quod naturam optimam ducem, tanquam deum, sequimur, eique paremus...
Quid enim est aliud, gigantum modo bellare cum diis, nisi naturae repugnare? Cic.
Cato mai.
seu de Senect.
c.2.
Sentenze attissime o congiunte o separate, a servire di epigrafe o motto a qualche mio libro.
V.
p.601 capoverso 1.
Alla p.291.
margine.
Nemo enim est tam senex, qui se annum non putet posse vivere.
Cic.
Cato mai.
seu de Senect.
c.7.
fine.
E lo dice in proposito dei contadini che seminano ancorchè vecchissimi per l'anno futuro.
Qual cosa è più lontana dal noto e comune significato del verbo latino defendere, quanto il significato di proibire nel francese défendre, nello spagnuolo defender e nel difendere italiano presso gli antichi? E pure il significato proprio e primitivo del latino defendere (admodum propria et Latina huius verbi significatio, [600]ut ait Gell.
l.9.
c.1.
dice il Forcellini) è molto simile, e si accosta moltissimo alla detta significazione francese, e antica italiana: ed è questa, arceo, prohibeo, depello, propulso, come dice il Forcellini, il quale ne porta molti esempi di diverse età di scrittori.
Ora, come il verbo prohibeo, che ha questa medesima significazione, aveva ancora presso i latini espressamente quella di proibire o défendre (v.
il Forcellini) così è ben verisimile che il verbo defendere unisse (se non presso i noti scrittori, presso gli antichissimi, e presso il volgo) questo significato al sopraddetto.
In ogni modo è chiaro [che] l'uso del defendere in francese e nel vecchio italiano, per proibire, deriva dall'antichissimo, primo, e proprio significato di quel verbo latino; il quale, se anche è stato ridotto al significato di proibire, solamente nelle origini della nostra lingua, lo è stato però certo in forza della conservazione costante di quell'antichissimo significato, non più noto agli scrittori di quei tempi, e quindi necessariamente al solo volgo, e che si crederebbe perduto da lunghissimo tempo, se non [601]avessimo questa prova della sua costante conservazione fino all'ultima età della lingua latina.
(2 Feb.
1821.)
Alla p.599 Omnia vero, quae secundum naturam fiunt, sunt habenda in bonis.
Cic.
Cato mai.
seu de Senect.
c.19.
in proposito della morte dei vecchi.
(3.
Feb.
1821.)
Cic.
Cato mai.
seu de Senect.
c.23.
Et ex vita ita discedo, tamquam ex hospitio, non tamquam ex domo.
Il contesto vuol che si legga: At ex vita.
Quid enim habet vita commodi? quid non potius laboris? Sed habeat sane: habet certe tamen, aut satietatem, aut modum.
Non lubet enim mihi deplorare vitam, quod multi, et ii docti, saepe fecerunt; neque me vixisse poenitet; quoniam ita vixi, ut non frustra me natum existimem.
Cic.
Cato mai.
seu de Senect.
c.23.
in persona di Catone.
La mente nostra non può non solamente conoscere, ma neppur concepire alcuna cosa oltre i limiti della materia.
Al di là, non possiamo con qualunque possibile sforzo, immaginarci una [602]maniera di essere, una cosa diversa dal nulla.
Diciamo che l'anima nostra è spirito.
La lingua pronunzia il nome di questa sostanza, ma la mente non ne concepisce altra idea, se non questa, ch'ella ignora che cosa e quale e come sia.
Immagineremo un vento, un etere, un soffio (e questa fu la prima idea che gli antichi si formarono dello spirito, quando lo chiamarono in greco ???????da ????, e in latino spiritus da spiro: ed anche anima presso i latini si prende per vento, come presso i greci ???? derivante da ????, flo spiro, ovvero refrigero); immagineremo una fiamma; assottiglieremo l'idea della materia quanto potremo, per formarci un'immagine e una similitudine di una sostanza immateriale; ma una similitudine sola: alla sostanza medesima non arriva nè l'immaginazione, nè la concezione dei viventi, di quella medesima sostanza, che noi diciamo immateriale, giacchè finalmente è l'anima appunto e lo spirito che non può concepir se stesso.
In così perfetta oscurità pertanto ed ignoranza su tutto quello che è, o si suppone fuor della materia, con che [603]fronte, o con qual menomo fondamento ci assicuriamo noi di dire che l'anima nostra è perfettamente semplice, e indivisibile, e perciò non può perire? Chi ce l'ha detto? Noi vogliamo l'anima immateriale, perchè la materia non ci par capace di quegli effetti che notiamo e vediamo operati dall'anima.
Sia.
Ma qui finisce ogni nostro raziocinio; qui si spengono tutti i lumi.
Che vogliamo noi andar oltre, e analizzar la sostanza immateriale, che non possiamo concepir quale nè come sia, e quasi che l'avessimo sottoposta ad esperimenti chimici, pronunziare ch'ella è del tutto semplice e indivisibile e senza parti? Le parti non possono essere immateriali? Le sostanze immateriali non possono essere di diversissimi generi? E quindi esservi gli elementi immateriali de' quali sieno composte le dette sostanze, come la materia è composta di elementi materiali.
Fuor della materia non possiamo concepir nulla, la negazione e l'affermazione sono egualmente assurde: ma domando io: come dunque sappiamo che l'immateriale è indivisibile? Forse l'immateriale, e l'indivisibile nella nostra mente sono tutt'uno? sono gli attributi di una stessa idea? [604]Primieramente ho già dimostrato come l'idea delle parti non ripugni in nessun modo all'idea dell'immateriale.
Secondariamente, se l'immateriale è indivisibile e uno per essenza, non è egli diviso, non ha egli parti, quando le sostanze immateriali, ancorchè tutte uguali, sono pur molte e distinte? Dunque non vi sarà pluralità di spiriti, e tutte le anime saranno una sola.
Dopo tutto ciò, come possiamo noi dire che l'anima, posto che sia immateriale, non può perire per essenza sua propria? Se lo spirito non può perire per ciò che non si può sciogliere, così anche perchè non si può comporre, non potrà cominciare.
Meglio quei filosofi antichi i quali negando che le anime fossero composte, e potessero mai perire, negavano parimente che avessero potuto nascere, e volevano che sempre fossero state.
Il fatto sta che l'anima incomincia, e nasce evidentemente, e nasce appoco appoco, come tutte le cose composte di parti.
Oltracciò non osserviamo noi nell'anima [605]diversissime facoltà? la memoria, l'intelletto, la volontà, l'immaginazione? Delle quali l'una può scemare, o perire anche del tutto, restando le altre, restando la vita, e quindi l'anima.
Delle quali altri son più, altri meno forniti: come dunque la sostanza dell'anima è per natura, uguale tutta quanta?
Ma queste sono facoltà, non parti dell'anima.
Primo, l'anima stessa non ci è nota, se non come una facoltà.
Secondo, se l'anima è perfettamente semplice, e, per maniera di dire, in ciascheduna parte uguale alle altre parti, e a tutta se stessa, come può perdere una facoltà, una proprietà, conservando un'altra, e continuando ad essere? Come può accader questo, se noi pretendiamo cum simplex animi natura esset, neque haberet in se quidquam admistum dispar sui, atque dissimile, non posse eum dividi: quod si non possit, non posse interire? (Cic.
Cato mai.
seu de Senect.
c.21.
fine, ex Platone.) V.
p.629.
capoverso 2.
In somma fuori della espressa volontà e [606]forza di un Padrone dell'esistenza, non c'è ragione veruna perchè l'anima, o qualunque altra cosa, supposta anche e non ostante l'immaterialità debba essere immortale; non potendo noi discorrere in nessun modo della natura di quegli esseri che non possiamo concepire; e non avendo nessun possibile fondamento per attribuire ad un essere posto fuori della materia, una proprietà piuttosto che un'altra, una maniera di esistere, la semplicità o la composizione, l'incorruttibilità o la corruttibilità.
(4.
Feb.
1821.)
Cum proelium inibitis, (moneo vos ut) memineritis vos divitias, decus, gloriam, praeterea libertatem atque patriam in dextris vestris portare.
Parole che Sallustio (B.
Catilinar.
c.61 al.58.) mette in bocca a Catilina nell'esortazione ai soldati prima della battaglia.
Osservate la differenza dei tempi.
Questa è quella figura rettorica che chiamano Gradazione.
Volendo andar sempre crescendo, Sallustio mette prima le ricchezze, poi l'onore, poi la gloria, poi la libertà, [607]e finalmente la patria, come la somma e la più cara di tutte le cose.
Oggidì, volendo esortare un'armata in simili circostanze, ed usare quella figura si disporrebbero le parole al rovescio: prima la patria, che nessuno ha, ed è un puro nome; poi la libertà che il più delle persone amerebbe, anzi ama per natura, ma non è avvezzo neanche a sognarla, molto meno a darsene cura; poi la gloria, che piace all'amor proprio, ma finalmente è un vano bene; poi l'onore, del quale si suole aver molta cura, ma si sacrifica volentieri per qualche altro bene; finalmente le ricchezze, per le quali onore, gloria, libertà, patria e Dio, tutto si sacrifica e s'ha per nulla: le ricchezze, il solo bene veramente solido secondo i nostri valorosi contemporanei: il più capace anzi di tutti questi beni il solo capace di stuzzicar l'appetito, e di spinger davvero a qualche impresa anche i vili.
(4.
Feb.
1821.)
Alla p.465.
Bisogna combattere ad armi uguali, chi non vuol restare sicuramente inferiore.
Dunque [608]tutto il mondo oggidì essendo armato di egoismo, bisogna che ciascuno si provveda della medesima arma, anche i più virtuosi e magnanimi, se voglion far qualche cosa.
Alla p.570.
principio.
Perchè come gli oligarchi e gli ottimati a forza di fazioni, di clientele, di largizioni, di artifizi di ogni sorta, hanno vinto la plebe in cui risiedeva il potere, e l'hanno vinta colle forze comuni: così questi pochi nei quali risiede ora il potere; mediante l'egoismo e la ?????????, inevitabile quando la virtù e la natura è sparita dal mondo, non si accordano neppure intorno agl'interessi comuni di questa piccola società, il cui solo bene era divenuto loro scopo: e ciascuno cercando il ben proprio, si dividono di nuovo in partiti; il partito vincitore, si suddivide di nuovo per gli stessi motivi; finattanto che più presto o più tardi, la vittoria e il potere resta in mano di un solo, il quale essendo indivisibile, finalmente il governo divenuto monarchia, piglia [609]una forma stabile.
Così accadde in Roma.
Gli uomini chiari per gloria militare o domestica, per ricchezze, potere, eloquenza ec.
esercitavano già una specie di oligarchia, quando questa, abbassati tutti gli altri, si venne a ristringere nei primi Triumviri, finattanto che Cesare tolti di mezzo gli altri triumviri, ristrinse tutto in lui solo.
Così nel secondo triumvirato.
(4.
Feb.
1821.)
Alla p.590./6.
Anche durando in quel tale che si suppone monarca per diritto di natura, tutte le qualità che gli davano questo diritto; posto il caso che un altro membro di quella medesima società, arrivasse o coll'età, o coll'esercizio del corpo o dello spirito ec.
ec.
a possedere quelle stesse qualità in maggior grado, o anche maggiori, o più numerose qualità; il primo monarca perderebbe il suo diritto che si suppone naturale, alla monarchia, e non solo ancora vivendo, ma essendo ancor tale, quale incominciò a regnare, e per se medesimo in tutto e per tutto lo stesso, a ogni modo non dovrebbe più [610]regnare.
(4.
Feb.
1821.)
Neanche l'amor proprio è infinito, ma solamente indefinito.
Non è infinito, dico io non già secondo l'origine e il significato proprio di questa voce, ma secondo la forza che le sogliamo attribuire: come diciamo che Dio è infinito, perchè contiene perfettamente e realmente in se stesso tutta l'infinità.
Laddove sebbene l'uomo, e qualunque vivente, si ama senza confine veruno, e l'amor proprio non ha limiti nè misura, nè per durata nè per estensione, contuttociò l'animo umano o di qualunque vivente non è capace di un sentimento il quale contenga la totalità dell'infinito, e in questo senso dico io che l'amor proprio non è infinito: e che quantunque non abbia limiti, non deriva da questo che l'animo nostro abbia niente d'infinito, non più che quello di qualsivoglia animale.
E così non si può dedur nulla in questo proposito, dalla infinità dei nostri desideri, conseguenza della sopraddetta e spiegata [611]infinità dell'amor proprio.
Nè dalla nostra infinita, o vogliamo dire indefinita capacità di amare, cioè di essere piacevolmente affetti e inclinati verso gli oggetti; conseguenza dell'infinito amor del piacere, il quale deriva immediatamente e necessariamente dall'amor proprio infinito, o senza limiti nè misura.
(4.
Feb.
1821.)
Alla p.112.
Prima di Gesù Cristo, o fino a quel tempo, e ancor dopo, da' pagani, non si era mai considerata la società come espressamente, e per sua natura, nemica della virtù, e tale che qualunque individuo il più buono ed onesto, trovi in lei senza fallo e inevitabilmente, o la corruzione, o il sommo pericolo di corrompersi.
E infatti sino a quell'ora, la natura della società, non era stata espressamente e perfettamente tale.
Osservate gli scrittori antichi, e non ci troverete mai quest'idea del mondo nemico del bene, che si trova a ogni passo nel Vangelo, e negli scrittori moderni ancorchè profani.
Anzi (ed avevano [612]ragione in quei tempi) consideravano la società e l'esempio come naturalmente capace di stimolare alla virtù, e di rendere virtuoso anche chi non lo fosse: e in somma il buono e la società, non solo non parevano incompatibili, ma cose naturalmente amiche e compagne.
(4.
Feb.
1821.)
Alla p.535.
fine.
Così anche il piacere della speranza, non è mai piacere presente, nemmeno in quanto speranza; cioè l'atto del piacere della speranza, cammina in quel medesimo modo che ho notato nell'atto del piacere presente, o della rimembranza o considerazione del piacere passato.
(5.
Feb.
1821.)
Non è veramente furbo chi non teme, o presume e confida con certezza, di non poter essere ingannato, trappolato ec.: perchè non conosce dunque e non apprezza a dovere le forze della sua stessa furberia.
E per la stessa ragione non è sommo in veruna professione chi non è modesto; e la modestia, e lo stimarsi da non molto, e il credere intimamente e sinceramente di non aver conseguito tutto quel merito che si potrebbe e dovrebbe conseguire, questi dico sono segni e [613]distintivi dell'uomo grande, o certo sono qualità inseparabili da lui.
Perchè quanto più si possiede e si conosce a fondo una qualunque (ancorchè piccola) professione, tanto più se ne sentono e valutano le difficoltà; si conosce quanto la perfezione e la sommità sia difficile in essa: perchè le difficoltà della perfezione si sanno e si conoscono generalmente in ogni cosa, ma non si sentono così vivamente e precisamente, come in una professione intimamente posseduta: tanto più si comprende e vede e tocca con mano, quanto sia facile l'andar sempre più oltre, e il perfezionare anche ciò che si crede perfetto.
In somma quanto più l'uomo apprezza e stima una buona professione: e l'apprezza e stima quanto meglio la conosce; tanto meno apprezza se stesso.
Perchè mettendosi in confronto non già cogli altri cultori di quella professione (i quali forse gli cederanno), ma colla professione stessa; resta sempre malcontento del paragone, si trova lontano dall'uguaglianza, e riabbassa sempre più l'idea di se stesso.
(5.
Feb.
1821.)
[614]????????????? ???? ?????? ?? ??????????????, ??????? ????? ???????? ?????.
Isocrate, ???? ???????? ???? ????????? ?????.
Detto convenientissimo a quasi tutti i padri, le madri, e gli educatori de' nostri tempi.
(5.
Feb.
1821.)
È cosa notabile come l'uomo sommamente sventurato, o scoraggito della vita, e deposta già e complorata la speranza della propria felicità, ma non perciò ridotto a quella disperazione che non si acquieta se non colla morte; naturalmente, e senza veruno sforzo sia portato a servire e beneficar gli altri, anche quelli che o gli sono del tutto indifferenti, o anche odiosi.
E non già per vigore di eroismo, chè l'uomo in tale stato non è capace di nessun vigore d'animo; ma in certo modo, come non avendo più interesse nè speranza per te, trasporti l'interesse e la speranza agli affari altrui, e così cerchi di riempiere l'animo tuo, di occuparlo, e di rendergli i due sopraddetti sentimenti, cioè cura di qualche cosa, ossia scopo, e speranza, senza [615]i quali la vita non è vita, non si conosce, manca del senso di se stessa.
Il fatto sta che quando l'uomo si trova in tali circostanze, cioè disperato in maniera, non da odiarsi, (ch'è la ferocia della disperazione) ma da noncurarsi, e metter se stesso fuori della sfera de' suoi pensieri; non solo prova compiacenza nel servir gli altri, ma prende anche per gli affari loro (ancorchè, come ho detto di persone indifferenti) una certa affezione, un certo impegno, un desiderio ec.
tutto languido bensì, perchè l'animo suo non è più capace di sentimento vivo e forte, ma pur tale, ch'egli non è stato mai animato verso il bene altrui così sensibilmente.
E ciò accade anche appena l'uomo si riduce alla detta condizione, così che avviene in lui come un cangiamento improvviso: ed accade anche negli uomini stati infetti di egoismo.
In somma la persona degli altri sottentra nell'animo suo, quasi intieramente, alla persona propria, ch'è sparita, e messa in non cale e per perduta, come quella che non può più sperare, e non è più capace della felicità, senza cui la vita manca del suo fine, e scopo.
E il desiderio e la cura [616]e la speranza della felicità, che non possono più diriggersi alla felicità propria, riconosciuta impossibile, e nel cercar la quale sarebbero vane, e quindi non più sufficienti all'animo umano; si rivolgono alla felicità altrui: e ciò spontaneamente, e senz'ombra di eroismo.
E l'animo dell'uomo che mancatogli lo scopo della felicità, è moralmente morto, risorge a una languida vita, ma tuttavia risorge e vive in altrui, cioè nello scopo dell'altrui felicità, divenuto lo scopo suo.
Come quei corpi di sangue corrotto e malsano, e quindi incapaci di vita, che alcuni medici spogliavano (o proponevano di spogliare) del sangue proprio, e restituivano ad una certa salute, colla introduzione del sangue altrui, o di qualche animale; quasi cangiando la persona, e trasformando quella che non poteva più vivere, in un'altra capace di vita: e così conservando la vita di una persona, per se stessa inetta a vivere.
Ed è anche una cagione del detto effetto, quella ch'io son per dire.
L'uomo che sebbene disperato, non perciò si odia (cosa che avviene per [617]lo più, non mica, come parrebbe, prima che l'uomo cominci ad odiarsi, ma dopo che si è sommamente, ed inutilmente odiato, e così l'amor proprio, tentato ogni mezzo di soddisfarsi, resta del tutto mortificato, e l'animo esaurito d'ogni forza, si riduce alla calma, e alla quiete dello spossamento, e perde affatto la capacità di ogni sentimento vivo) l'uomo dico il quale senza odiarsi, solamente considera se stesso, e la vita sua come inutile, prova una compiacenza e soddisfazione, una (ma leggerissima) consolazione, nel trovar dove adoprare se stesso e la vita, che altrimenti non servirebbe più a nulla; e l'uso qualunque di se stesso e della vita, gittata già come cosa inutilissima, sebbene a lui non giovi nulla, sebbene egli non sia più capace d'illusioni, nè di credersi buono a gran cose; tuttavia lo conforta, rappresentandolo a se stesso, come alquanto meno inutile; o se non altro (e piuttosto) col pensiero di avere almeno adoprato, e non gittato affatto, quell'avanzo di esistenza, e di forza viva e materiale.
(5.
Feb.
1821.).
[618]Vedendosi esclusi essi dalla vita, cercano di vivere in certo modo in altrui, non per amor loro, e quasi neanche per amor proprio, ma perchè, sebben tolta la vita, resta però loro l'esistenza da occupare e da sentire in qualche maniera.
(6.
Feb.
1821.)
La disperazione della natura è sempre feroce, frenetica, sanguinaria, non cede alla necessità, alla fortuna, ma la vuol vincere in se stesso, cioè coi propri danni, colla propria morte ec.
Quella disperazione placida, tranquilla, rassegnata, colla quale l'uomo, perduta ogni speranza di felicità, o in genere per la condizione umana, o in particolare per le circostanze sue; tuttavolta si piega, e si adatta a vivere e a tollerare il tempo e gli anni; cedendo alla necessità riconosciuta; questa disperazione, sebbene deriva dalla prima, in quel modo che ho spiegato di sopra p.616.
fine, 617.
principio, tuttavia non è quasi propria se non della ragione e della filosofia, e quindi specialmente e singolarmente propria de' tempi moderni.
Ed ora infatti, si può dir che qualunque ha [619]un certo grado d'ingegno e di sentimento, fatta che ha l'esperienza del mondo, e in particolare poi tutti quelli ch'essendo tali, e giunti a un'età matura, sono sventurati; cadono e rimangono sino alla morte in questo stato di tranquilla disperazione.
Stato quasi del tutto sconosciuto agli antichi, ed anche oggi alla gioventù sensibile, magnanima, e sventurata.
Conseguenza della prima disperazione è l'odio di se stesso, (perchè resta ancora all'uomo tanta forza di amor proprio, da potersi odiare) ma cura e stima delle cose.
Della seconda, la noncuranza e il disprezzo e l'indifferenza verso le cose; verso se stesso un certo languido amore (perchè l'uomo non ha più tanto amor proprio da aver forza di odiarsi) che somiglia alla noncuranza, ma pure amore, tale però che non porta l'uomo ad angustiarsi, addolorarsi, sentir compassione delle proprie sventure, e molto meno a sforzarsi, ed intraprender nulla per se, considerando le cose come indifferenti, ed avendo quasi perduto il tatto e il senso dell'animo, e coperta di un callo tutta la facoltà sensitiva, desiderativa ec.
insomma le passioni e gli affetti d'ogni sorta; e quasi perduta per lungo uso, e forte e lunga pressione, quasi tutta l'elasticità delle [620]molle e forze dell'anima.
Ordinariamente la maggior cura di questi tali è di conservare lo stato presente, di tenere una vita metodica, e di nulla mutare o innovare, non già per indole pusillanime o inerte, che anzi ella sarà stata tutto l'opposto, ma per una timidità derivata dall'esperienza delle sciagure, la quale porta l'uomo a temere di perdere a causa delle novità, quel tal quale riposo o quiete o sonno, in cui dopo lunghi combattimenti e resistenze, l'animo suo finalmente s'è addormentato e raccolto, e quasi accovacciato.
Il mondo è pieno oggidì di disperati di questa seconda sorta (come fra gli antichi erano frequentissimi quelli della prima specie).
Quindi si può facilmente vedere quanto debba guadagnare l'attività, la varietà, la mobilità, la vita di questo mondo; quando tutti, si può dire, i migliori animi, giunti a una certa maturità, divengono incapaci di azione, ed inutili a se medesimi, e agli altri.
(6.
Feb.
1821.)
Floro IV.
12.
verso la fine: Hic finis [621]Augusto bellicorum certaminum fuit: idem rebellandi finis Hispaniae.
Certa mox fides et aeterna; CUM IPSORUM INGENIO IN PACIS PARTES PROMTIORE: tum consilio Caesaris.
Dopo aver letto tutto ciò che Floro dice delle virtù guerriere degli Spagnuoli II.
17.
18.
III.
22.
e in quel medesimo capo che ho citato, nelle cose che precedono immediatamente il riferito passo; (notate che Floro, si crede per congettura dai critici, oriundo Spagnuolo) considerando l'assedio famosissimo di Sagunto; ricordandosi di quel luogo di Velleio dove fra le altre molte cose del valore Spagnuolo, arriva a dire che la Spagna in tantum Sertorium armis extulit, ut per quinquennium dijudicari non potuerit, Hispanis Romanisne in armis plus esset roboris, et uter populus alteri pariturus foret; (II.90 sect.3.) dopo, dico, tutto questo e le altre infinite prove che si hanno del singolar valore Spagnuolo antico e moderno, fa maraviglia che Floro chiami l'indole [622]e l'ingegno degli Spagnuoli, promtius in pacis partes.
Ma questa è appunto la proprietà dei popoli meridionali, famosa presso gli scrittori filosofici moderni, massime stranieri.
Somma disposizione all'attività, ed al riposo: egualmente atti a guerreggiare valorosamente e disperatamente, ed a trovar piacevole e cara la pace, ed anche abusarne, ed esserne ridotti alla mollezza, e all'inerzia.
Tante risorse trovano questi popoli nella loro immaginazione, nel loro clima, nella loro natura, che la loro vita è occupata internamente, ancorchè neghittosa e nulla all'esterno.
Leur vie n'est qu'un rêve, dice la Staël.
Tanta è l'attività della loro anima, che questa come è capacissima di condurli ad una somma attività nel corpo (anzi alla sola vera attività esterna, perchè la sola che abbia il suo principio nell'attività interiore, come si vede nel paragone fra i soldati meridionali, e i settentrionali, che sono operosi piuttosto come macchine ubbidienti ad ogni impulso, che come viventi) così anche li dispensa dall'attività del corpo, e ne li compensa, ogni volta che questa manca: trovando essi bastante vita nel [623]loro interno, nel loro individuo.
Anzi questa proprietà, pregiudica bene spesso all'attività esterna, e per una soprabbondanza di vita interiore rende il mezzogiorno rêveur, indolente, insouciant (quantunque, offerta l'occasione, l'attività del corpo, ch'è l'effetto dell'entusiasmo e dell'immaginazione, o che allora è forte e viva, quando proviene da questi principii, prorompe vivamente; eccetto se l'assuefazione non ha di troppo intorpiditi certi popoli, come l'italiano).
Ailleurs, c'est la vie qui, telle quelle est, ne suffit pas aux facultés de l'ame; ici, (parla dei contorni di Napoli) ce sont les facultés de l'ame qui ne suffisent pas à la vie, et la surabondance des sensations inspire une rêveuse indolence dont on se rend à peine compte en l'éprouvant.
(Staël, Corinne l.
II.
ch.1.
Paris 1812.
5me édit.
t.2.
p.176.) Così infatti vediamo accaduto negl'italiani terribili anticamente, ed anche modernamente nella guerra, e oziosissimi e negligentissimi, e nulla curanti di novità e di movimento nella pace.
Così negli [624]Spagnuoli, popolo intieramente pacifico nell'ultimo secolo, e fortissimo guerriero e belligero nei due precedenti; e così anticamente bellicosissimo, o certo valorosissimo in difendersi fino ad Augusto; e da indi in poi, eternamente pacifico e fedele, come dice Floro: e similmente nel principio di questo secolo, passato in un attimo da un lunghissimo e profondissimo riposo, a una guerra possiamo dire spontanea, certo nazionale, e vivissima, e generale, ed atrocissima.
Così nei francesi valorosi in guerra, ed effeminati e molli nella pace.
Come appunto i fanciulli, giacchè anche questo effetto deriva dalle stesse cagioni, i quali sebbene attivissimi naturalmente, con tutto ciò obbligati dalle circostanze, all'inazione esterna, la suppliscono e compensano ed occupano intieramente, con una vivissima azione interna.
E per azione interna, intendo sì nei fanciulli, come nei detti popoli, anche quella che si dimostra al di fuori, ma che si occupa di bagattelle, e di nullità, ed in queste ritrova bastante pascolo e vita all'anima: e per conseguenza non deriva, [625]non si fonda, non è sufficiente all'uomo, se non in forza dell'energia, dell'immaginazione, delle facoltà insomma e della vita interna.
Tutto l'opposto accade nei Settentrionali, bisognosi di attività e di movimento e di novità e varietà esterna, se vogliono vivere, giacchè non hanno altra vita, mancando dell'interna.
E perciò in apparenza molto più attivi degli altri popoli, ma in realtà, e se vince la naturale tendenza ed indole, torpidissimi.
Gli orientali si possono, cred'io, mettere insieme coi meridionali in questo punto.
(7.
Feb.
1821.)
Lo scopo dei governi (siccome quello dell'uomo) è la felicità dei governati.
Forse che la felicità e la diuturnità della vita, sono la stessa cosa? Hanno sempre che dire delle turbolenze e pericoli degli antichi stati, e pretendono che costassero all'umanità molto più sangue e molte più vite, che non costano i governi ordinati e regolari e monarchici, ancorchè guerrieri, ancorchè tirannici.
Sia pure: che ora non voglio contrastarlo.
[626]Orsù, ragguagliamo le partite, dirò così, delle vite.
Poniamo che negli stati presenti, che si chiamano ordinati e quieti, la gente viva, un uomo per l'altro, 70 anni l'uno: negli antichi che si chiamano disordinati e turbolenti, vivessero 50 soli anni, a distribuir tutta la somma delle vite, ugualmente fra ciascheduno.
E che quei 70 anni sieno tutti pieni di noia e di miseria in qualsivoglia condizione individuale, che così pur troppo accade oggidì; quei cinquanta pieni di attività e varietà ch'è il solo mezzo di felicità per l'uomo sociale.
Domando io, quale dei due stati è il migliore? quale dei due corrisponde meglio allo scopo, che è la felicità pubblica e privata, in somma la felicità possibile degli uomini come uomini? cioè felicità relativa e reale, e adattata e realizzabile in natura, tal qual ella è, non riposta nelle chimeriche e assolute idee, di ordine, e perfezione matematica.
Oltracciò domando: la somma vera della vita, dov'è maggiore? in quello stato dove ancorchè gli uomini vivessero cent'anni l'uno, quella vita monotona e inattiva, sarebbe (com'è realmente) esistenza, ma non vita, [627]anzi nel fatto, un sinonimo di morte? ovvero in quello stato, dove l'esistenza ancorchè più breve, tutta però sarebbe vera vita? Anche ponendo dall'una parte 100 anni di esistenza, e dall'altra non più che 40, o 30 di vita, la somma della vita, non sarebbe maggiore in quest'ultima? 30 anni di vita non contengono maggior vita che 100 di morta esistenza? Questi sono i veri calcoli convenienti al filosofo, che non si contenti di misurar le cose, ma le pesi, e ne stimi il valore.
E non faccia come il secco matematico che calcola le quantità in genere e in astratto, ma relativamente alla loro sostanza, e qualità, e natura, e peso, e forza specifica e reale.
Aggiungo poi questo ancora.
Nego che la mortalità negli stati antichi fosse maggiore altro che in apparenza.
Lascio i tiranni, lascio i capricci, le passioni, le voglie de' principi, e non cerco se queste costino alla umanità più sangue, che non i disordini e le turbolenze di un popolo libero.
Dico che la vitalità negli stati antichi era tanto maggiore che nei presenti, non solo da compensare abbondantemente ogni cagione o principio di mortalità, ma da preponderare, [628]e far pendere la bilancia dalla parte della vita: brevemente, dico che la somma della vita negli stati antichi era maggiore che nei presenti; e questo non già per cause accidentali, o in maniera che potesse non essere: ma per cause essenziali, e inerenti alla natura di quegli stati; anzi tali, che tolti quegli stati, o simili a quelli, la somma della vita non può essere se non molto minore; la vitalità fuori di quelli o simili stati, non può esser tanta.
Gli esercizi e l'attività continua del corpo primieramente, e poi (che non poco, anzi sommamente contribuisce al ben essere fisico, e alla durata della vita) gli esercizi ed attività dell'anima, la varietà, il movimento, la forza delle azioni ed occupazioni, la rarità della noia, dell'inerzia ec.
conseguenze necessarie degli stati antichi, erano cause così grandi e certe di vitalità, come sono grandissime e certissime cause di mortalità (e mortalità ben più vasta, insita, e necessaria che non quella che deriva dalle turbolenze) i contrari delle predette cose, e nominatamente la mollezza, il lusso, i vizi corporali e spirituali ec.
ec.
conseguenze tutte necessarie degli stati presenti: insomma la corruzione fisica e morale, la continua noia, o mal essere [629]dell'animo ec.
Così che non è vero che le cagioni di morte (e così dico, le cagioni di miserie, di sventure, dolori ec.) fossero maggiori anticamente, anzi all'opposto sono maggiori oggidì.
Ed intendendo anche per vita, l'esistenza strettamente, si viene a conchiudere che la somma di questa, era maggiore negli antichi governi, e a causa degli antichi governi, che ne' presenti, e a causa de' presenti.
(8.
Feb.
1821.)
Alla p.476.
Vedi il ritratto di Silla in Sallustio Bell.
Iugurthin.
c.99.
Alla p.605.
fine.
Ma quando anche si supponga lo spirito, assolutamente semplice e senza parti, non segue ch'egli non possa perire.
Conosciamo noi la natura di un tal essere cosiffatto, per poter pronunziare s'egli è immortale o mortale? Non c'è che una maniera di perire, cioè il disciogliersi? Nella materia non ce n'è altra, e però noi non conosciamo se non questa maniera; ma parimente non conosciamo altra maniera d'essere che quella della materia.
Se una cosa può essere in maniera a noi del tutto [630]ignota e inconcepibile, anche può perire in maniera del tutto ignota e inconcepibile all'uomo.
Dico può perire, non dico perisce, perchè non posso, come non si può dire umanamente il contrario, non perisce, ovvero, non può perire perchè la materia perisce in altro modo, ed ella non può perire come la materia.
Dico può perire, perchè non è più difficile nè inverisimile una tal maniera di perire, che una tal maniera di essere; (una maniera, dico, inconcepibile all'uomo) una tal morte, che una tale esistenza.
Tutte due sono ugualmente fuori della nostra portata, la quale non si estende una mezza linea al di là della materia.
Vo anche più avanti, e dico, che se la semplicità è principio necessario d'immortalità, neanche la materia può perire.
Se la materia è composta, sarà composta di elementi che non sieno composti.
Non cerco ora se questi elementi sieno quelli de' chimici, o altri più remoti e primitivi; ma andiamo pur oltre quanto vogliamo, dovremo sempre arrivare e fermarci in alcune sostanze veramente semplici, e che non abbiano in se quidquam admistum dispar [631]sui, atque dissimile.
Queste sostanze dunque, se non c'è altra maniera di perire, fuorchè il risolversi, in che si risolveranno, o si possono risolvere? Dunque non potranno perire.
Direte, che anche queste, essendo pur sempre materia, hanno parti, e quindi sono divisibili e risolvibili, e possono perire, ancorchè tutte le parti sieno tra loro uguali, e di una stessa sostanza.
Bene; ma queste parti come possono perire? - Anch'esse avranno parti, finattanto che sono materia - Or via, suddividiamo queste parti, quanto mai si voglia; se non si arriverà mai a fare ch'elle non abbiano altre parti, e non sieno materia (come certo non si arriverà); neanche si arriverà a fare che la materia perisca.
Perchè questa ancorchè ridotta a menomissime parti, una di queste minime particelle, è si può dir tanto lontana dal nulla, quanto tutta la materia o qualunque altra cosa esistente, cioè tra essa e il nulla, ci corre un divario, e uno spazio infinito: chè dall'esistenza nel nulla, come dal nulla nell'esistenza, non si può andar mica per gradi, ma solamente per salto, e salto infinito.
[632]Dunque in un essere semplicissimo e senza parti, non c'è maggior principio nè ragione d'immortalità, di quello che sia nella materia, e nell'essere il più composto possibile.
Ma se per principio d'immortalità in un ente semplice e senza parti, intendono l'impossibilità di cangiar natura, e per perire non intendono l'annullarsi, giacchè neanche la materia si può naturalmente annullare, e tanta materia esiste oggi nè più nè meno, quanta è mai esistita; ma intendono il risolversi nei suoi elementi; dico io che quelle semplicissime sostanze delle quali la materia e qualunque cosa composta, deve necessariamente costare, non possono neppur esse risolversi, nè cangiar natura, ancorchè divise in quante parti, e quanto menome si voglia.
E la quantità di queste parti sarà sempre la stessa, e però di quelle primitive sostanze, ancorchè materiali ancorchè divise quanto si voglia, esisterà sempre la stessissima quantità, o divisa o congiunta che sia; e tutta questa quantità, e perciò tutta quella sostanza sarà sempre della stessissima natura.
In maniera che anche per questa parte, una sostanza supposta semplicissima e immateriale, non può contenere [633]maggiore immortalità, cioè immutabilità e incorruttibilità che i principii della materia, i quali non sono una supposizione, ma debbono necessariamente e realmente esistere.
(9.
Feb.
1821.)
Quand on est jeune, on ne songe qu'à vivre dans l'idée d'autrui: il faut établir sa réputation, et se donner une place honorable dans l'imagination des autres, et être heureux même dans leur idée: notre bonheur n'est point réel; ce n'est pas nous que nous consultons, ce sont les autres.
Dans un autre âge, nous revenons a nous; et ce retour a ses douceurs, nous commençons à nous consulter et à nous croire.
Mme.
la Marquise de Lambert, Traité de la Vieillesse, verso la fine: dans ses Oeuvres complètes, Paris 1808.
1re édit.
complète.
p.150.
Il vient un temps dans la vie qui est consacré à la vérite, qui est destiné à connoître les choses selon leur juste valeur.
La jeunesse et les passions fardent tout.
Alors nous revenons aux plaisirs simples; nous commençons à nous consulter [634]et à nous croire sur notre bonheur.
Ib.
p.153.
Queste riflessioni sono osservabili.
Non solo nella vecchiezza, ma nelle sventure, ogni volta che l'uomo si trova senza speranza, o almeno disgraziato nelle cose che dipendono dagli uomini, comincia a contentarsi di se stesso, e la sua felicità, e soddisfazione, o almeno consolazione a dipender da lui.
Questo ci accade anche in mezzo alla società, o agli affari del mondo.
Quando l'uomo vi si trova male accolto, o annoiato, o disgraziato, o in somma trova quello che non vorrebbe, ricorre a se stesso, e cerca il bene e il piacere nell'anima sua.
L'uomo sociale, finch'egli può, cerca la sua felicità e la ripone nelle cose al di fuori e appartenenti alla società, e però dipendenti dagli altri.
Questo è inevitabile.
Solamente o principalmente l'uomo sventurato, e massime quegli che lo è senza speranza, si compiace della sua compagnia, e di riporre la sua felicità nelle cose sue proprie, e indipendenti dagli altri; e insomma segregare la sua felicità, dall'opinione e dai vantaggi che ci risultano dalla società, e ch'egli non può conseguire, o sperare.
Forse per questo, o anche [635]per questo, si è detto che l'uomo che non è stato mai sventurato non sa nulla.
L'anima, i desideri, i pensieri, i trattenimenti dell'uomo felice, sono tutti al di fuori, e la solitudine non è fatta per lui: dico la solitudine o fisica, o morale e del pensiero.
Vale a dire che se anche egli si compiace nella solitudine, questo piacere, e i suoi pensieri e trattenimenti in quello stato, sono tutti in relazioni colle cose esteriori, e dipendenti dagli altri, non mai con quelle riposte in lui solo.
Non è però che la felicità o consolazione dell'uomo sventurato o vecchio, sieno riposte nella verità, e nella meditazione e cognizione di lei.
Che piacere o felicità o conforto ci può somministrare il vero, cioè il nulla? (se escludiamo la sola Religione).
Ma altre illusioni, forse più savie perchè meno dipendenti, e perciò anche più durevoli, sottentrano a quelle relative alla società.
E questo è in somma quello che si chiama contentarsi di se stesso, e omnia tua in te posita ducere, con che Cicerone (Lael.
sive de Amicit.
c.2.) definisce la sapienza.
Un sistema, [636]un complesso, un ordine, una vita d'illusioni indipendenti, e perciò stabili: non altro.
(9.
Feb.
1821.)
"La solitude" dit un grand homme, "est l'infirmerie des ames." Mme.
Lambert, lieu cité ci-dessus, p.153.
fine.
Nous ne vivons que pour perdre et pour nous détacher.
Mme Lambert, lieu cité ci-dessus, p.145.
alla metà del Traité de la Vieillesse.
Così è.
Ciascun giorno perdiamo qualche cosa, cioè perisce, o scema qualche illusione, che sono l'unico nostro avere.
L'esperienza e la verità ci spogliano alla giornata di qualche parte dei nostri possedimenti.
Non si vive se non perdendo.
L'uomo nasce ricco di tutto, crescendo impoverisce, e giunto alla vecchiezza si trova quasi senza nulla.
Il fanciullo è più ricco del giovane, anzi ha tutto; ancorchè poverissimo e nudo e sventuratissimo, ha più del giovane più fortunato; il giovane è più ricco dell'uomo maturo, la maturità più ricca della vecchiezza.
Ma Mad.
Lambert dice questo in altro senso, cioè rispetto alle perdite così dette reali, che si fanno coll'avanzar dell'età.
(9.
Feb.
1821.) Ma siccome nessuna cosa si possiede realmente, così nulla si può perdere.
Bensì quel detto è vero per quest'altra parte, relativamente alla condizione presente degli uomini, e [637]dello spirito umano, e della società.
(10.
Feb.
1821.)
Io non soglio credere alle allegorie, nè cercarle nella mitologia, o nelle invenzioni dei poeti, o credenze del volgo.
Tuttavia la favola di Psiche, cioè dell'Anima, che era felicissima senza conoscere, e contentandosi di godere, e la cui infelicità provenne dal voler conoscere, mi pare un emblema così conveniente e preciso, e nel tempo stesso così profondo, della natura dell'uomo e delle cose, della nostra destinazion vera su questa terra, del danno del sapere, della felicità che ci conveniva, che unendo questa considerazione, al manifesto significato del nome di Psiche, appena posso discredere che quella favola non sia un parto della più profonda sapienza, e cognizione della natura dell'uomo e di questo mondo.
V.
quest'allegoria notata, e sebbene non profondamente, tuttavia bastantemente spiegata nel morceau détaché di Mad.
Lambert intitolato Psyché en grec.
Ame.
(così) dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus p.284-285.
E forse l'allegoria sopraddetta sarà stata osservata anche dagli altri, e così credo.
Certo è che, o la non la significa nulla, o significa quel ch'io dico, e mostra che il mio sistema piacque agli antichissimi: con altro sistema la non si spiega.
Del resto combinando quest'osservazione, col racconto della Genesi, [638]dove l'origine immediata della infelicità e decadimento dell'uomo, si attribuisce manifestamente al sapere, come ho dimostrato altrove; mi si fa verisimile che in somma queste gran massime: l'uomo non è fatto per sapere, la cognizione del vero è nemica della felicità, la ragione è nemica della natura, ultimo frutto ed apice della più moderna e profonda, e della più perfetta o perfettibile filosofia che possa mai essere; fossero non solamente note, ma proprie, e quasi fondamentali dell'antichissima sapienza, se non altro di quella arcana e misteriosa, come l'orientale, e come l'egiziana dalla quale è chi pretende derivata, almeno in parte, la mitologia e la sapienza greca.
(10.
Feb.
1821.)
Vorranno i puristi che quando manca alla lingua nostra il vocabolo di una tal cosa, piuttosto che formarne uno nuovo, o adottarne uno straniero, o derivarne uno da lingue antiche, si usino circollocuzioni.
Lascio quanto le circollocuzioni troppo frequenti (e converrebbe che fossero frequentissime) tolgano di grazia, di forza, di proprietà, di rapidità al discorso, ed inceppino, ritardino, [639]impaccino, infastidiscano lo scrittore e il lettore, in qualunque caso.
Ma dico primieramente che si daranno infinite occorrenze, dove una di quelle cose che non hanno vocabolo italiano, accada di esprimerla frequentissimamente, tratto tratto, più volte nello stesso periodo.
Ora quando a grande stento si sarà trovata una circollocuzione che equivalga veramente, al che sarà spesso necessario ch'ella sia lunghissima, come ripeterla a ogni tratto, e in un periodo stesso più volte? come variarla, se appena se n'è trovata una che equivalga? come abbreviarla, se tolta qualche parola, ella non ha più la stessa forza, e non dice tutto, non esprime più quella tale idea, se non è tutta distesa ed intera? Una parola si adatta a prendere tutte le positure, s'introduce da per tutto, si maneggia facilmente, speditamente, e a beneplacito.
Ma una circollocuzione, un corpo grosso e disadatto, che se non ha tanto di luogo, non può entrare o giacere, come troverà sito, dirò così, in quelle pieghe, in quei cantoni, in quegli spicoli, in quegli spazietti, [640]in quei passaggetti, in quelle rivolte (rivolture, rivoltatine, che in tutti questi modi si può dire, come dice il Firenzuola, le rivolture degli orecchi) in quelle giratine, in quelle tortuosità, in quelle angustie e stretture del discorso o del periodo, così frequenti, dove spessissimo vorrà e dovrà entrare quella tale idea, ed entrerebbe la parola, la circollocuzione non già?
Dico in secondo luogo che infinite cose vi sono, le quali non si possono esprimere mediante veruna circollocuzione.
Verbigrazia quello che i francesi intendono così spesso per la parola génie (usata nello stesso senso dal Magalotti, come dice il Monti nella Biblioteca Italiana).
Come esprimere per circollocuzione quello che non si può definire? Dove manca la facoltà della definizione, manca parimente della circollocuzione.
E queste tali cose che s'intendono chiaramente, facilmente, e pienamente, per via di una parola convenuta, ma non si potrebbero nè definire adequatamente, nè dare ad intendere per nessuna circollocuzione, sono infinite in ogni genere, massimamente poi nelle materie filosofiche della natura ch'elle sono oggidì, nelle materie astratte ec.
Ed è ben naturale, [641]perchè le parole son fatte per le cose: a quella tal cosa, corrisponde quella tal parola; altre parole, ancorchè molte non corrispondono.
Sussiste la cosa, sussiste l'idea, sussiste la maniera di significarla e definirla, ma quella maniera, quel mezzo, e non altro.
Ogni volta che qualunque disciplina o cognizione, o speculazione umana, ma specialmente la filosofia, e la metafisica che considera i principii e gli elementi delle cose, i quali poco o nulla cadono nel sermone e nell'uso comune, le intimità, i secreti, le parti delle cose rimote e segregate dai sensi e dal pensiero dei più; ogni volta, dico, che questa ha ricevuto qualche incremento, o preso qualche nuovo sentiero, o cercata o trovata qualche novità, è stata necessaria, ed effettivamente adoperata la novità delle parole in qualunque lingua.
Lascio la latina che prima di Lucrezio e Cicerone era affatto impotente nelle materie filosofiche, e che tuttavolta aveva, come abbiamo noi nella francese, il sussidio e la miniera di una lingua sorella, ricchissima in questo genere, come negli altri.
La novità della filosofia di Platone, domandava la novità delle parole in quella medesima [642]lingua greca, sì ricca per ogni capo, e segnatamente nelle materie filosofiche tanto familiari alla Grecia da lunghissimo tempo.
E Platone inventava nuove parole, e tali, che in quella stessa lingua, così pieghevole, e trattabile; così non solamente ricca, ma feconda; così avvezza alle novità delle parole; così facile così suscettibile così spontaneamente adattabile alla formazione di nuove voci, riuscivano strane, assurde e ridicole ai volgari, al comune, alla gente che considera l'effetto, cioè la novità della voce, e non pesa la cagione, cioè la novità delle cose, e delle speculazioni.
Come ???????????che noi possiamo dire mensalità, e ???????? calicità.
(non c'è di meglio per esprimere in italiano questa parola: così mi sono accertato.) V.
Laerz.
(in Diog.
Cyn.
l.6.
segm.53.) e il Menag.
se ha nulla, e potrai anche riportare quel fatto che il Laerz.
riferisce in proposito.
Tanto le astrazioni ec.
sono lontane dall'uso comune.
E queste e altre tali parole le formava Platone, certo non più lodato per la sapienza di quello che fosse per la purità ed eleganza della favella Attica, e dello stile, e per tutti i pregi della eloquenza, [643]della elocuzione, e del bello scrivere e dire.
(10.
Feb.
1821.)
Non è bisogno che una lingua sia definitamente poetica, ma certo è bruttissima e inanimata quella lingua che è definitamente matematica.
La migliore di tutte le lingue è quella che può esser l'uno e l'altro, e racchiudere eziandio tutti i gradi che corrono fra questi due estremi.
(11.
Feb.
1821.)
Les enfans aiment à être traités en personnes raisonnables.
Mme.
de Lambert, Lettre à madame la supérieure de la Madeleine de Tresnel, sur l'éducation d'une jeune demoiselle; ou Lettre III.
dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, (p.633.) p.356.
Che rileva dunque che tu sia famoso tra coloro che nasceranno, se fosti ignoto a coloro che nacquero prima? (tra coloro, o quei che verranno, se fosti ignoto a coloro, o quelli che furono?) I quali non cedono alla posterità rispetto al numero, e indubitatamente la vincono rispetto alla virtù.
[644](Il numero dei quali non cede a quello de' posteri, e la virtù indubitatamente prevale, o senza fallo prevale.).
(11.
Feb.
1821.)
Non c'è forse persona tanto indifferente per te, la quale salutandoti nel partire per qualunque luogo, o lasciarti in qualsivoglia maniera, e dicendoti, non ci rivedremo mai più, per poco d'anima che tu abbia, non ti commuova, non ti produca una sensazione più o meno trista.
L'orrore e il timore che l'uomo ha, per una parte, del nulla, per l'altra, dell'eterno, si manifesta da per tutto, e quel mai più non si può udire senza un certo senso.
Gli effetti naturali bisogna ricercarli nelle persone naturali, e non ancora, o poco, o quanto meno si possa, alterate.
Tali sono i fanciulli: quasi l'unico soggetto dove si possano esplorare, notare, e notomizzare oggidì, le qualità, le inclinazioni, gli affetti veramente naturali.
Io dunque da fanciullo aveva questo costume.
Vedendo partire una persona, quantunque a me indifferentissima, considerava [645]se era possibile o probabile ch'io la rivedessi mai.
Se io giudicava di no, me le poneva intorno a riguardarla, ascoltarla, e simili cose, e la seguiva o cogli occhi o cogli orecchi quanto più poteva, rivolgendo sempre fra me stesso, e addentrandomi nell'animo, e sviluppandomi alla mente questo pensiero: ecco l'ultima volta, non lo vedrò mai più, o, forse mai più.
E così la morte di qualcuno ch'io conoscessi, e non mi avesse mai interessato in vita, mi dava una certa pena, non tanto per lui, o perch'egli mi interessasse allora dopo morte, ma per questa considerazione ch'io ruminava profondamente: è partito per sempre - per sempre? sì: tutto è finito rispetto a lui: non lo vedrò mai più: e nessuna cosa sua avrà più niente di comune colla mia vita.
E mi poneva a riandare, s'io poteva, l'ultima volta ch'io l'aveva o veduto, o ascoltato ec.
e mi doleva di non avere allora saputo che fosse l'ultima volta, e di non [646]essermi regolato secondo questo pensiero.
(11.
Feb.
1821.)
Nessun secolo de' più barbari si è creduto mai barbaro, anzi nessun secolo è stato mai, che non credesse di essere il fiore dei secoli, e l'epoca più perfetta dello spirito umano e della società.
Non ci fidiamo dunque di noi stessi nel giudicare del tempo nostro, e non consideriamo l'opinione presente, ma le cose, e quindi congetturiamo il giudizio della posterità, se questa sarà tale da poter giudicarci rettamente.
(12.
Feb.
1821.)
La somma della teoria del piacere, e si può dir anche, della natura dell'animo nostro e di qualunque vivente, è questa.
Il vivente si ama senza limite nessuno, e non cessa mai di amarsi.
Dunque non cessa mai di desiderarsi il bene, e si desidera il bene senza limiti.
Questo bene in sostanza non è altro che il piacere.
Qualunque piacere ancorchè grande, ancorchè reale, ha limiti.
Dunque nessun piacere possibile è proporzionato ed uguale alla [647]misura dell'amore che il vivente porta a se stesso.
Quindi nessun piacere può soddisfare il vivente.
Se non lo può soddisfare, nessun piacere, ancorchè reale astrattamente e assolutamente, è reale relativamente a chi lo prova.
Perchè questi desidera sempre di più, giacchè per essenza si ama, e quindi senza limiti.
Ottenuto anche di più, quel di più similmente non gli basta.
Dunque nell'atto del piacere, o nella felicità, non sentendosi soddisfatto, non sentendo pago il desiderio, il vivente non può provar pieno piacere; dunque non vero piacere, perchè inferiore al desiderio, e perchè il desiderio soprabbonda.
Ed eccoti la tendenza naturale e necessaria dell'animale all'indefinito, a un piacere senza limiti.
Quindi il piacere che deriva dall'indefinito, piacere sommo possibile, ma non pieno, perchè l'indefinito non si possiede, anzi non è.
E bisognerebbe possederlo pienamente, e al tempo stesso indefinitamente, perchè l'animale fosse pago, cioè felice, cioè l'amor proprio suo che non ha limiti, fosse definitamente soddisfatto: cosa [648]contraddittoria e impossibile.
Dunque la felicità è impossibile a chi la desidera, perchè il desiderio, sì come è desiderio assoluto di felicità, e non di una tal felicità, è senza limiti necessariamente, perchè la felicità assoluta è indefinita, e non ha limiti.
Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di non poter essere soddisfatto.
Ora questo desiderio è conseguenza necessaria, anzi si può dir tutt'uno coll'amor proprio.
E questo amore è conseguenza necessaria della vita, in quell'ordine di cose che esiste, e che noi concepiamo, e altro non possiamo concepire, ancorchè possa essere, ancorchè fosse realmente.
Dunque ogni vivente, per ciò stesso che vive (e quindi si ama, e quindi desidera assolutamente la felicità, vale a dire una felicità senza limiti, e questa è impossibile, e quindi il desiderio suo non può esser soddisfatto) perciò stesso, dico, che vive, non può essere attualmente felice.
E la felicità ed il piacere è sempre futuro, cioè non esistendo, nè potendo esistere realmente, esiste solo nel desiderio del vivente, e nella speranza, o aspettativa che ne segue.
Le [649]présent n'est jamais notre but; le passé et le présent sont nos moyens; le seul avenir est notre objet: ainsi nous ne vivons pas, mais nous espérons de vivre, dice Pascal.
Quindi segue che il più felice possibile, è il più distratto dalla intenzione della mente alla felicità assoluta.
Tali sono gli animali, tale era l'uomo in natura.
Nei quali il desiderio della felicità cangiato nei desiderii di questa o di quella felicità, o fine, e soprattutto mortificato e dissipato dall'azione continua, da' presenti bisogni ec.
non aveva e non ha tanta forza di rendere il vivente infelice.
Quindi l'attività massimamente, è il maggior mezzo di felicità possibile.
Oltre l'attività, altri mezzi meno universali o durevoli o valevoli, ma pur mezzi, sono gli altri da me notati nella teoria del piacere, p.e.
(ed è uno de' principali) lo stupore 1.
di carattere e d'indole: gli uomini così fatti sono i più felici: gli uomini incapaci di questa qualità, sono i più infelici: sii grande e infelice, detto di D'Alembert, Éloges de l'Académie Françoise (così, Françoise) dice la natura agli uomini grandi, agli uomini sensibili, passionati ec.: il senso vivo del desiderio di felicità li tormenta: questo desiderio [650]bisogna sentirlo il meno possibile, quantunque innato, e continuo necessariamente.
2.
derivato da languore o torpore ec.
artefatto, come per via dell'oppio, o proveniente da lassezza ec.
ec.
3.
derivato da impressioni straordinarie, dalla maraviglia di qualunque sorta, da avvenimenti, da cose vedute, udite ec.
insomma da sensazioni straordinarie di qualsivoglia genere: 4.
dalla immaginazione, dall'estasi che deriva dalla fantasia, da un sentimento indefinito, dalla bella natura ec.
e v.
la teoria del piacere.
Notate che l'immaginazione la vivacità, la sensibilità, le quali nocciono alla felicità per la parte dello stupore, giovano per la parte dell'attività.
E perciò sono piuttosto un dono della natura (ancorchè spesso doloroso), di quello che un danno; perchè effettivamente l'attività è il mezzo di distrazione il più facile, più sicuro e forte, più durevole, più frequente e generale e realizzabile nella vita.
(12.
Feb.
1828.).
Les passions même les plus vives ont besoin de la pudeur pour se montrer dans une forme séduisante: elle doit se répandre sur toutes vos actions; elle doit parer et embellir [651]toute votre personne.
On dit que Jupiter, en formant les passions, leur donna à chacune sa demeure; la pudeur fut oubliée, et quand elle se présenta, on ne savoit plus où la placer; on lui permit de se mêler avec toutes les autres.
Depuis ce temps-là, elle en est inséparable.
Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa fille, dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, (p.633.), p.60-61.
Che vuol dir questo, se non che niente è buono senza la naturalezza? Applicate questi detti della Marchesa anche alla letteratura, inseparabile parimente dal pudore, e a quello ch'io dico del sentimento, e del genere sentimentale nel Discorso sui romantici.
(13.
Feb.
1821.)
La curiosité est une connoissance commencée, qui vous fait aller plus loin et plus vite dans le chemin de la vérité.
Mme de Lambert, lieu cité ci-dessus, p.72.
Non intendo pienamente il sentimento della marchesa, ma il fatto è questo.
La curiosità o il desiderio di conoscere, non è per la massima parte, se non l'effetto della conoscenza.
Esaminate la natura, e [652]vedrete quanto la curiosità sia piccola, leggera e debole nell'uomo primitivo; come non gli cada mai nella testa il desiderio di saper quelle cose che non gli appartengono, o che sono state nascoste dalla natura (p.e.
le cose fisiche, astronomiche ec.
le origini i destini dell'uomo, degli animali, delle piante, del mondo); com'egli sia incapace d'intraprendere qualche seria operazione per informarsi di cosa veruna, e molto meno di cosa difficile a conoscersi (e queste sono appunto quelle che non si dovevano conoscere, e l'ignoranza delle quali, basta alla felicità dell'uomo, ancorchè informato di altre cose facili ed ovvie).
Piuttosto l'immaginazione sua supplisce, e gli fa credere di sapere una causa, che realmente non è quella ec.
In somma non è niente vero, che l'uomo sia portato irresistibilmente verso la verità e la cognizione.
La curiosità, qual è oggidì, e da gran tempo, è una di quelle qualità corrotte, con uno sviluppo e un andamento non dovuto, come tante altre qualità, passioni ec.
buone ed utili, anzi necessarie in [653]quel grado che la natura aveva dato loro, ma pessime e mortifere, quando sono passate ad altri gradi, e sviluppatesi più del dovere, e modificatesi diversamente.
Così che sebbene queste qualità e passioni sieno naturali in radice, ed umane, non perciò sono naturali, quali si trovano oggidì, nè dal loro stato presente si deve giudicare della natura e costituzione dell'uomo, nè dedurne intorno ai nostri destini quelle conseguenze che se ne deducono.
(13.
Feb.
1821.).
V.
p.657.
capoverso 1.
Les femmes apprennent volontiers l'Italien, qui me paroît dangereux, c'est la langue de l'Amour.
Les Auteurs Italiens sont peu châtiés; il règne dans leurs ouvrages un jeu de mots, une imagination sans règle, qui s'oppose à la justesse de l'esprit.
Mme Lambert, lieu cité ci-dessus, p.73-74.
(13.
Feb.
1821.)
Plus il y a de monde, (cioè, più gente ci sta d'intorno, più ci troviamo in mezzo al mondo attualmente) et plus les passions acquièrent d'autorité.
Ib.
p.81.
Un philosophe [654]assuroit: "...
que plus il avoit vu de monde, plus les passions acquéroient d'autorité..." Mme Lambert, Lettre à madame de ***, ou Lettre XV.
dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, p.395.
Così è generalmente: ma all'uomo veramente sventurato accade tutto il contrario.
Ogni volta ch'egli si presenta nel mondo, vedendosi respinto, il suo amor proprio mortificato, i suoi desideri frustrati, o contrariati, le sue speranze deluse, non solamente non concepisce veruna passione fuorchè quella della disperazione, ma per lo contrario, le sue passioni si spengono.
E nella solitudine, essendo lontane le cose e la realtà, le passioni, i desiderii, le speranze se gli ridestano.
(13.
Feb.
1821.)
Modérez votre goût pour les sciences extraordinaires, elles sont dangereuses, et elles ne donnent ordinairement que beaucoup d'orgueil; elles démontent les ressorts de l'ame...
Notre ame a bien plus de quoi jouir, qu'elle n'a de quoi connoître: (i mezzi di godere che quelli di conoscere: questo è il senso, [655]come apparisce dal contesto, e da altri luoghi delle sue opere paralleli a questo) nous avons les lumières propres et nécessaires à notre bien être; mais nous ne voulons pas nous en tenir là; nous courons après des vérités qui ne sont pas faites pour nous...
Ces réflexions dégoûtent des sciences abstraites.
Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa fille, dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, p.74-75-76.
Nous avons en nous de quoi jouir, mais nous n'avons pas de quoi connoître.
Nous avons les lumières propres et nécessaires à notre bien être; mais nous courons après des vérités qui ne sont pas faites pour nous...
Ces réflexions dégoûtent des vérités abstraites.
La même, Traité de la Vieillesse, l.
c.
p.146-147.
(13.
Feb.
1821.)
Examinez votre caractère, et mettez à profit vos défauts; il n'y en a point qui ne tienne à quelques vertus, et qui ne les favorise.
La Morale n'a pas pour objet de détruire la nature, mais de la perfectionner.
Mme Lambert, Avis d'une Mère a sa fille, lieu cité ci-dessus, p.84.
E segue mostrando con parecchi esempi, come ciascuna [656]imperfezione conduca, serva, e quasi racchiuda qualche virtù, conchiudendo: Il n'y a pas une foiblesse, dont, si vous voulez, la vertu ne puisse faire quelque usage.
ib.
p.
citée.
Da queste osservazioni fatte anche da molti altri, si può dedurre una verità molto generale ed importante, cioè con quanto leggere modificazioni quelle qualità umane che si chiamano viziose, e si presumono vizi naturali e inerenti, si riducano e si trovino, non esser altro che buone e giovevoli qualità, e come in origine e nella prima costituzione dell'uomo fosse buono ancor quello che ora pare essenzialmente e primitivamente cattivo, perciocchè essendosi facilmente corrotte quelle prime qualità naturali, e distoltesi dal loro fine, e non conoscendosi più a qual buon fine potessero esser destinate; la depravazione nostra ch'è opera dell'uomo, si prende per vizio naturale ed innato; e si confonde il mal uso delle qualità che si chiamano naturali, col buon uso a cui la natura le aveva destinate, e che ora non si scuopre più facilmente.
[657]In somma da tutto ciò si conferma la dottrina della perfezione naturale, e primitiva dell'uomo, considerando come sieno originalmente buone anche quelle qualità, che per una parte si hanno per naturali ed innate, e sono; per l'altra, si hanno per naturalmente cattive, e non sono: ma questo errore fa che la natura si creda viziosa, e bisognosa della ragione.
La qual ragione, anch'essa, abbiamo spessissimo dimostrato ch'è un sommo vizio, e contuttociò ell'è innata.
Ma tal quale era innata, non era vizio; bensì è vizio tal quale ella si trova, ed è adoperata oggidì.
(14.
Feb.
1821.)
Alla p.653.
Effettivamente la curiosità naturale, porta l'uomo, il fanciullo ec.
a voler vedere, sentire ec.
una cosa o bella, o straordinaria, o notabile relativamente all'individuo.
Ma non lo stimola mica e non lo tormenta, per saper la cagione di quel tale effetto che gli è piaciuto di vedere, udire ec.
Anzi l'uomo naturale ordinariamente, si contiene nella maraviglia, [658]gode del piacere che deriva da lei, e se ne contenta.
Così che la curiosità primitiva non porta l'uomo naturalmente, se non a desiderare e proccurarsi la cognizione di quelle cose, ch'essendo facili a conoscere (e l'uomo naturale desidera di conoscerle fino a quel punto fino al quale son facili), e quindi non essendo state nascoste dalla natura; la cognizione loro non nuoce all'ordine primitivo, non altera l'uomo, non isconviene alla sua natura, non pregiudica alla sua felicità e perfezione: non entrando quei tali oggetti nell'ordine delle cose che la natura ha voluto fossero sconosciute e ignorate.
Così si vede anche negli altri animali.
(14.
Feb.
1821.)
La ragione di quanto ho più volte osservato circa la difficoltà anzi impossibilità di riuscire in quelle cose che si fanno con troppo impegno, e tanto più quanto queste cose sono naturali, e quanto la perfezione loro consiste nella naturalezza, è questa.
Non riesce bene e secondo natura, se non quello che si fa naturalmente.
[659]Ma i detti mezzi non sono naturali, e il servirsi di essi non è secondo natura.
Dunque ec.
Non basta che un'operazione sia naturale: ma quanto più è o dev'esser naturale, tanto più bisogna farla naturalmente.
Anzi non è naturale, se non è fatta naturalmente.
(14.
Feb.
1821.)
L'invenzione e l'uso delle armi da fuoco, ha combinato perfettamente colla tendenza presa dal mondo in ordine a qualunque cosa, e derivata naturalmente dalla preponderanza della ragione e dell'arte, colla tendenza, dico, di uguagliar tutto.
Così le armi da fuoco, hanno uguagliato il forte al debole, il grande al piccolo, il valoroso al vile, l'esercitato all'inesperto, i modi di combattere delle varie nazioni: e la guerra ancor essa ha preso un equilibrio, un'uguaglianza che sembrava contraria direttamente alla sua natura.
E l'artifizio, sottentrando alla virtù, [660]ed agguagliandola, e anche superandola, e rendendola inutile, ha pareggiato gl'individui, tolta la varietà, spento quindi anche nella guerra, l'entusiasmo quasi del tutto, spenta l'emulazione, e toltale la materia, spento l'eroismo, giacchè tanto vale un soldato eroe, quanto un Martano, o se anche non l'ha spento, l'ha confuso colla viltà, e reso indistinguibile, e quindi senza eccitamento e senza premio: in fine ha contribuito sommamente anche per questa parte a mortificare il mondo e la vita.
Tanto è vero che il bello, il grande, il vario, non si trova se non che nella natura, e si perde subito appena si esce da lei, appena sottentrano l'arte e la ragione, in qualunque cosa.
(14 Feb.
1821.)
Diogene, ???????????? ????? ? ???????, ???, ????, ?????, ?? ???????? ??? ???????????; Laerz.
in Diog.
Cyn.
6.68.
Dalla nota del Menag.
si rileva ch'egli l'ha inteso della insensibilità dell'atto della morte.
[661]Delle diverse opinioni intorno alla pretesa legge naturale, v.
alcuni sentimenti e dommi di Diogene, ap.
Laert.
in Diog.
Cyn.
VI.
72-73.
e quivi il Menagio, il quale riporta in proposito alcune parole di Sesto Empirico, la cui opera Pyrronianarum Hypotyposeon, e l'altra Adversus Mathematicos, ossia adversus cuiusvis generis dogmaticos, è tutta relativa a questo argomento, ed a quello ch'io sostengo, che non c'è verità nessuna assoluta.
(14.
Feb.
1821.)
Dell'influenza del corpo sull'animo, e dell'esercizio sulla virtù, v.
le sentenze di Diogene, ap.
Laert.
in Diog.
Cyn.
VI.
70.
e quivi il Menag.
se ha nulla.
(14.
Feb.
1821.)
On aime à savoir les foiblesses des personnes estimables, non già solamente di quelle che si odiano o invidiano, ma di quelle che si amano, si ammirano, si trattano, ci obbligano e ci giovano coi loro benefizi, consigli ec.
e in questo senso lo dice Mad.
Lambert, La Femme Hermite.
Nouvelle Nouvelle.
[662]dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus (p.633.), p.229.
Tu puoi però applicarti questo pensiero, e rendertelo proprio, giacchè Mad.
lo stende, lo spiega, e l'applica in maniera ordinaria, così che il pensiero sembra comune, non fa gran colpo e non se ne osserva l'originalità.
Essa lo applica principalmente alla confidenza che ne deriva verso quelle tali persone: et j'étois trop heureuse de trouver en elle, non-seulement des conseils, mais de ces foiblesses aimables qui nous rendent plus indulgens pour celles d'autrui.
Ma si può considerare questa verità molto più in grande, dilatarla, osservarne i rapporti, applicarla anche al teatro, alla poesia, a' romanzi ec.
ed alle arti imitatrici, e confermarne quella regola di Aristotele, che il protagonista non sia perfetto.
(15.
Feb.
1821.)
Je crois que son estime (si parla di una persona amata, ma da cui non si spera nulla, e alla quale non si è mai dichiarato il proprio amore) doit être le prix de tout ce que je fais de bien; et je fais encore plus [663]grand cas d'elle (de son estime) que de tous les sentimens les plus tendres que je pourrois lui supposer.
(Quella che parla è una donna, e l'amato è un uomo).
Mme.
Lambert, Lieu cité ci-dessus, p.234.
Messer tale sentendo dire che la vita è una commedia, disse che oggidì è piuttosto una prova di commedia, ovvero una di quelle rappresentazioni, che talvolta i collegiali, o simili fanno per loro soli.
Perchè non ci sono più spettatori, tutti recitano, e la virtù e le buone qualità che si fingono, nessuno le ha, e nessuno le crede negli altri.
Anzi proponeva questo mezzo di fare che il mondo cessasse finalmente di essere un teatro, e la vita diventasse per la prima volta, almeno dopo lunghissimo tempo, un azion vera.
S'ella fu mai tale, fu perchè gli uomini, se non altro la maggior parte, erano veramente buoni, o tendevano alla virtù.
Questo ora è impossibile, e non è [664]più da sperare.
Dunque si cercasse il detto fine per un altro verso, quasi opposto.
Si riformassero il Galateo, le leggi, gl'insegnamenti pubblici e privati, l'educazione de' fanciulli, i libri di Morale, i vocabolari ec.
In maniera che quello che non è più necessario, anzi è disutile e dannoso in sostanza, non fosse più necessario neanche in apparenza.
Così si toglierebbe agli uomini la necessità di mentir sempre, e inutilmente, perchè non ingannano più nessuno; l'imbarazzo in cui questa li pone tante volte; la contraddizione fra l'esteriore, e l'interiore; la falsità ec.
si ricondurrebbe la verità nel mondo; la vita resterebbe nè più nè meno la stessa qual è oggidì, ma solamente tolto questo linguaggio e queste maniere di convenzione, e questo genere aereo ed inutile di bienséances, e di onore, e di riguardi a un pubblico che pensa ed opera come te, si toglierebbero agli uomini molti incomodi, e fatiche, e attenzioni, e sollecitudini [665]vane; e la vita sarebbe un fatto e non una rappresentazione: finalmente si concorderebbero una volta insieme quelle due cose discordi ab eterno, i detti e i fatti degli uomini.
Sperava e prognosticava che il mondo si sarebbe stancato di tante apparenze divenute inutili da che non servono più ad ingannare, e da che la commedia non è più spettacolo, e tutti sono attori.
Che avrebbe messo d'accordo la sostanza coll'apparenza, non già cambiando la sostanza, che Dio ce ne scampi, ma lasciandola intatta, e cambiando l'apparenza, les bienséances, il linguaggio ec.
cioè facendo che apparisca e si dica quello ch'è vero.
E notava che il mondo sembra che già inclini a questo, e non i fatti coi detti, ma i detti si comincino ad accomodare, ad accordare, a pacificare coi fatti; ed oramai vengano a trattato con questi loro nemici, e domandino essi le condizioni di pace.
E che forse [666]anche oggidì l'esteriore coll'interiore, i detti coi fatti sono più d'accordo che non furono da grantempo.
(16.
Feb.
1821.)
Je sentis que c'étoit quelque chose de bien douloureux, que de savoir ce que l'on aime attaché à quelque chose de parfait: (cioè la persona amata, a qualche altra persona perfetta, e degna dell'amor suo: e in questo senso lo dice Mad.
Lambert) mais loin que mon intérêt ait pris sur la justice que je devois à mon amie, (amata da colui ch'era amato dalla persona che parla, ed è una donna) ma délicatesse et la crainte de lui manquer ont augmenté son mérite à mes yeux.
Mme.
de Lambert lieu cité ci-dessus, (p.661.
fine), p.265.
fine.
Elle (l'imagination) nous donne de ces joies sérieuses qui ne font rire que l'esprit.
(cioè, il bello spirito, il bell'umore).
Mme de Lambert, Réflexions nouvelles sur les [667]femmes, dans ses Oeuvres complètes citées ci-dessus, (p.633.), p.166.
(16.
Feb.
1821.)
Quello che ho detto in altro pensiero intorno all'idea che i fanciulli si formano dei nomi, si deve estendere assai, perchè ordinariamente e generalmente, il fanciullo dal primo individuo che vede, si forma l'idea di tutta la specie o genere, in ogni sorta di cose; dal primo soldato, l'idea di tutti i soldati, dal primo tempio, l'idea di tutti i tempii ec.
E se la forma vivamente e durevolmente, se però altri individui della stessa specie, non vengono frequentemente o nella stessa fanciullezza, o poi, a scancellare l'idea concepita sul primo individuo.
Senza ciò, e massimamente se le idee di altri individui non sottentrano a quella del primo durante la fanciullezza, l'idea del primo si conserva per lunghissimo tempo anche nelle altre età, e serve nella nostra mente di tipo, a tutti gli altri individui della stessa specie di cui ci dobbiamo formare un'idea per relazione o cosa tale, e che non ci cadono sotto i sensi.
P.e.
avendo io di due anni veduto un colonnello, l'idea [668]ch'io mi formo naturalmente della persona di questo o di quel colonnello, ch'io non conosco di veduta, e in astratto, del colonnello, è ancora modellata su quella figura, quelle maniere ec.
Anche da ciò si deve inferire quanto sieno importanti le benchè minime impressioni della fanciullezza, e quanto gran parte della vita dipenda da quell'età; e quanto sia probabile che i caratteri degli uomini, le loro inclinazioni, questa o quell'altra azione ec.
derivino bene spesso da minutissime circostanze della loro fanciullezza, e come i caratteri ec.
e le opinioni massimamente (dalle quali poi dipendono le azioni, e quasi tutta la vita) si diversifichino bene spesso per quelle minime circostanze, e accidenti, e differenze appartenenti alla fanciullezza, mentre se ne cercherà la cagione e l'origine in tutt'altro, anche dai maggiori conoscitori dell'uomo.
(16.
Feb.
1821.).
V.
p.675.
principio
Quella maravigliosa facilità che hanno [669]i fanciulli di passare immediatamente dal più profondo dolore alla gioia, dal pianto al riso ec.
e viceversa, e ciò per minime cagioni; questa somma volubilità e versatilità d'indole e d'immaginazione, non dev'ella esser causa di una molto maggiore felicità, o molto minore miseria che nelle altre età?
(16.
Feb.
1821.)
L'orgueil nous sépare de la société: notre amour-propre nous donne un rang à part qui nous est toujours disputé: l'estime de soi-même qui se fait trop sentir est presque toujours punie par le mépris universel.
Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa fille, dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, (p.633.), p.99.
fine.
Così è naturalmente nella società, così porta la natura di questa istituzione umana, la quale essendo diretta al comun bene e piacere, non sussiste veramente, se l'individuo non accomuna [670]più o meno cogli altri la sua stima, i suoi interessi, i suoi fini, pensieri, opinioni, sentimenti ed affetti, inclinazioni, ed azioni; e se tutto questo non è diretto se non a se stesso.
Quanto più si trova nell'individuo il se stesso, tanto meno esiste veramente la società.
Così se l'egoismo è intero, la società non esiste se non di nome.
Perchè ciascun individuo non avendo per fine se non se medesimo, non curando affatto il ben comune, e nessun pensiero o azione sua essendo diretta al bene o piacere altrui, ciascuno individuo forma da se solo una società a parte, ed intera, e perfettamente distinta, giacchè è perfettamente distinto il suo fine; e così il mondo torna qual era da principio, e innanzi all'origine della società, la quale resta sciolta quanto al fatto e alla sostanza, e quanto alla ragione ed essenza sua.
Perciò l'egoismo è sempre stata la peste della società, e quanto è stato maggiore, tanto peggiore è stata [671]la condizione della società; e quindi tanto peggiori essenzialmente quelle istituzioni che maggiormente lo favoriscono o direttamente o indirettamente, come fa soprattutto il dispotismo.
(Sotto il quale stato la Francia era divenuta la patria del più pestifero egoismo, mitigato assai dalla rivoluzione, non ostante gl'immensi suoi danni, come è stato osservato da tutti i filosofi.) L'egoismo è inseparabile dall'uomo, cioè l'amor proprio, ma per egoismo, s'intende più propriamente un amor proprio mal diretto, male impiegato, rivolto ai propri vantaggi reali, e non a quelli che derivano dall'eroismo, dai sacrifizi, dalle virtù, dall'onore, dall'amicizia ec.
Quando dunque questo egoismo è giunto al colmo, per intensità, e per universalità; e quando a motivo e dell'intensità, e massime dell'universalità si è levata la maschera (la quale non serve più a nasconderlo, perchè troppo vivo, e perchè tutti sono animati dallo stesso sentimento), allora la natura del commercio sociale (sia relativo alla conversazione, [672]sia generalmente alla vita) cangia quasi intieramente.
Perchè ciascuno pensando per se (tanto per sua propria inclinazione, quanto perchè nessun altro vi pensa più, e perchè il bene di ciascheduno è confidato a lui solo), si superano tutti i riguardi, l'uno toglie la preda dalla bocca e dalle unghie dell'altro; gl'individui di quella che si chiama società, sono ciascuno in guerra più o meno aperta, con ciascun altro, e con tutti insieme; il più forte sotto qualunque riguardo, la vince; il cedere agli altri qualsivoglia cosa, o per creanza, o per virtù, onore ec.
è inutile, dannoso e pazzo, perchè gli altri non ti son grati, non ti rendono nulla, e di quanto tu cedi loro, o di quella minore resistenza che opponi loro, profittano in loro vantaggio solamente, e quindi in danno tuo.
E così, per togliere un esempio dal passo cit.
di Mad.
di Lambert, si vede nel fatto che oggidì, il disprezzo degli altri, e la stima aperta e ostentata di se stesso, non solamente non è più così dannosa come [673]una volta, ma bene spesso è necessaria, e chi non sa farne uso non guadagna nulla in questo mondo presente.
Perchè gli altri non sono disposti ad accordarti spontaneamente, e in forza del vero, e del merito nulla, come di nessuna altra cosa, così neanche di stima, e bisogna quindi che tu la conquisti come per forza, e con guerra aperta e ostilmente, mostrandoti persuasissimo del tuo merito, ad onta di chicchessia, disprezzando e calpestando gli altri, deridendoli, profittando d'ogni menomo loro difetto, rinfacciandolo loro, non perdonando nulla agli altri, cercando in somma di abbassarli e di renderteli inferiori, o nella conversazione o dovunque con tutti i mezzi più forti.
Che se oggidì ti vuoi procacciare la stima degli altri, col rispetto, buona maniera verso loro, col lusingare il loro amor proprio, dissimulare i loro difetti ec.
e quanto a te, colla modestia, col silenzio ec.
ti succede tutto l'opposto.
Essi profittano di te e de' tuoi riguardi verso loro, per innalzarsi, e della tua poca resistenza quanto a te, per deprimerti.
Quello che concedi [674]loro, l'adoprano in loro mero vantaggio, e danno tuo; quello che non ti arroghi o non pretendi, o quel merito che tu dissimuli, te lo negano e tolgono, per vederti inferiore ec.
Così, nel modo che ho detto ritornano effettivamente nel mondo i costumi selvaggi, e di quella prima età, quando la società non esistendo, ciascuno era amico di se solo, e nemico di tutti gli altri esseri o dissimili o simili suoi, in quanto si opponevano a qualunque suo menomo interesse o desiderio, o in quanto egli poteva godere a spese loro.
Costumi che nello stato di società son barbari, perchè distruttivi della società, e contrari direttamente all'essenza ragione, e scopo suo.
Quindi si veda quanto sia vero, che lo stato presente del mondo, è propriamente barbarie, o vicino alla barbarie quanto mai fosse.
Ogni così detta società dominata dall'egoismo individuale, è barbara, e barbara della maggior barbarie.
(17.
Feb.
1821.)
[675]Alla pag.668.
fine.
E questa non è forse una delle minime cagioni di quella verità Quot homines, tot sententiae, detto di Terenzio, (Phorm.
Act.
2.
sc.4.
ver.14.) Quot homines, tot sententiae: suus cuique mos.
(Negli adagi del Manuzio questo proverbio è riportato così, quot homines, non capita.) E similmente Oraz.
(Sat.
l.2.
sat.1.
v.27-28.) Quot capitum vivunt, totidem studiorum Millia.
Ed Euripide (in Phoenissis):
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??? ?? ?? ?????????? ????????? ?????
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Cunctis idem si pulchrum, et egregium foret,
Nulla esset anceps hominibus contentio.
At nunc simile nil, nil idem mortalibus:
Nisi verba forsan inter istos concinunt,
At re tamen, factisque convenit nihil.
[676]E Cicerone (de Fin.
bon.
et mal.
c.5.
verso il fine): sed quot homines, tot sententiae: falli igitur possumus.
Luogo omesso dal Manuzio.
Riferite le dette sentenze alla opinione comune, che si dia verità assoluta, anche tra gli uomini.
(17.
Feb.
1821.)
Non siamo dunque nati fuorchè per sentire, qual felicità sarebbe stata se non fossimo nati?
(18.
Feb.
1821.)
ENFIN ELLES AIMENT L'AMOUR, ET NON PAS L'AMANT.
Ces personnes se livrent à toutes les passions les plus ardentes.
Vous les voyez occupées du jeu, de la table: tout ce qui porte la livrée du plaisir est bien reçu.
Parla di quelle donne galanti qui ne cherchent et ne veulent que les plaisirs de l'amour, di quelle che ne cherchent dans l'amour que les plaisirs des sens, (o della galanteria dell'ambizione ec.) que celui d'être fortement occupées et entraînées, et que celui d'être aimées; di quelle che [677]possono associer d'autres passions à l'amour, e lasciare du vide dans (leur) son coeur, e che après avoir tout donné, possono non essere uniquement (occupées) occupé de ce qu'on aime; di quelle che se font une habitude de galanterie, et NE SAVENT POINT JOINDRE LA QUALITÉ D'AMIE A CELLE D'AMANT; di quelle che NE CHERCHENT QUE LES PLAISIRS, ET NON PAS L'UNION DES COEURS, e conseguentemente ÉCHAPPENT A TOUS LES DEVOIRS DE L'AMITIÉ: in somma delle donne d'oggidì tutte quante, e in fatti ancor ella sebbene distingue le donne amanti in tre specie, conchiude il discorso di questa specie, così: Voilà l'amour d'usage et d'à-présent, et où les conduit une vie frivole e dissipée.
Mme.
de Lambert, Réflexions nouvelles sur les femmes, dans ses oeuvres complètes, citées ci-dessus (p.633.) p.179.
(18.
Febbraio 1821.)
[678]Il faut convenir que les femmes sont plus délicates que les hommes en fait d'attachement.
Il n'appartient qu'à elles de faire sentir par un seul mot, par un seul regard, tout un sentiment.
Mme.
de Lambert, lieu cité ci-dessus, p.187.
Gli esercizi della persona che egli faceva in compagnia di cotali gentili uomini, non solamente per allora li furon cagione della fermezza e gagliardìa del corpo, ma eziandio dell'animo.
- Lo dice di Antonio Giacomini Tebalducci Malespini, famoso militare fiorentino, ancor giovane, Jacopo Nardi, Vita d'Antonio Giacomini Tebalducci Malespini, ediz.
di Lucca, Francesco Bertini, 1818.
[in] 8.
p.19..
(18 Feb.
1821.)
Nous n'avons qu'une portion d'attention et de sentiment; dès que nous nous livrons aux objets extérieurs, le sentiment dominant s'affoiblit: nos desirs ne sont-ils pas plus vifs et plus forts dans la retraite? Mme.
de Lambert, lieu cité ci-derrière (p.677.
fine) p.188.
[679]La solitudine è lo stato naturale di gran parte, o piuttosto del più degli animali, e probabilmente dell'uomo ancora.
Quindi non è maraviglia se nello stato naturale, egli ritrovava la sua maggior felicità nella solitudine, e neanche se ora ci trova un conforto, giacchè il maggior bene degli uomini deriva dall'ubbidire alla natura, e secondare quanto oggi si possa, il nostro primo destino.
Ma anche per altra cagione la solitudine è oggi un conforto all'uomo nello stato sociale al quale è ridotto.
Non mai per la cognizione del vero in quanto vero.
Questa non sarà mai sorgente di felicità, nè oggi; nè era allora quando l'uomo primitivo se la passava in solitudine, ben lontano certamente dalle meditazioni filosofiche; nè agli animali la felicità della solitudine deriva dalla cognizione del vero.
Ma anzi per lo contrario questa consolazione della solitudine deriva all'uomo oggidì, e derivava primitivamente dalle illusioni.
Come ciò fosse primitivamente, in quella vita occupata o da continua [680]sebben solitaria azione, o da continua attività interna e successione d'immagini disegni ec.
ec.
e come questo accada parimente ne' fanciulli, l'ho già spiegato più volte.
Come poi accada negli uomini oggidì, eccolo.
La società manca affatto di cose che realizzino le illusioni per quanto sono realizzabili.
Non così anticamente, e anticamente la vita solitaria fra le nazioni civili, o non esisteva, o era ben rara.
Ed osservate che quanto si racconta de' famosi solitari cristiani, cade appunto in quell'epoca, dove la vita, l'energia, la forza, la varietà originata dalle antiche forme di reggimento e di stato pubblico, e in somma di società, erano svanite o sommamente illanguidite, col cadere del mondo sotto il despotismo.
Così dunque torna per altra cagione ad esser proprio degli stati e popoli corrotti, quello ch'era proprio dell'uomo primitivo, dico la tendenza dell'uomo alla solitudine: tendenza stata interrotta dalla prima energia della vita sociale.
Perchè oggidì è così la cosa.
La presenza e l'atto della società spegne le illusioni, [681]laddove anticamente le fomentava e accendeva, e la solitudine le fomenta o le risveglia, laddove non primitivamente, ma anticamente le sopiva.
Il giovanetto ancora chiuso fra le mura domestiche, o in casa di educazione, o soggetto all'altrui comando, è felice nella solitudine per le illusioni, i disegni, le speranze di quelle cose che poi troverà vane o acerbe: e questo ancorchè egli sia d'ingegno penetrante, e istruito, ed anche, quanto alla ragione, persuaso della nullità del mondo.
L'uomo disingannato, stanco, esperto, esaurito di tutti i desideri, nella solitudine appoco appoco si rifà, ricupera se stesso, ripiglia quasi carne e lena, e più o meno vivamente, a ogni modo risorge, ancorchè penetrantissimo d'ingegno, e sventuratissimo.
Come questo? forse per la cognizione del vero? Anzi per la dimenticanza del vero, pel diverso e più vago aspetto che prendono per lui, quelle cose già sperimentate e vedute, ma che ora essendo lontane dai sensi e dall'intelletto, tornano a passare per la immaginazione sua, e quindi abbellirsi.
Ed egli torna a sperare [682]e desiderare, e vivere, per poi tutto riperdere, e morire di nuovo, ma più presto assai di prima, se rientra nel mondo.
Dalle dette considerazioni segue che oggi l'uomo quanto è più savio e sapiente, cioè quanto più conosce, e sente l'infelicità del vero, tanto più ama la solitudine che glielo fa dimenticare, o glielo toglie dagli occhi, laddove nello stato primitivo l'uomo amava tanto più la solitudine, quanto maggiormente era ignorante ed incolto.
E così l'ama oggidì, quanto più è sventurato, laddove anticamente, e primitivamente la sventura spingeva a cercare la conversazione degli uomini, per fuggire se stesso.
La qual fuga di se stesso oggi è impossibile nella società all'uomo profondamente sventurato, e profondamente sensibile, e conoscente; perchè la presenza della società, non è altro che la presenza della miseria, e del vuoto.
Perchè il vuoto non potendo essere riempiuto mai se non dalle illusioni, e queste non trovandosi nella società quale è oggi, resta che sia meglio riempiuto dalla solitudine, dove le illusioni [683]sono oggi più facili per la lontananza delle cose, divenute loro contrarie e mortifere, all'opposto di quello ch'erano anticamente.
(20.
Feb.
1821.)
La sua compagnia (di Antonio Giacomini) ne' collegi de' magistrati fu qualche volta ad alcuni non molto gioconda.
Nondimeno il suo parere le più volte prevaleva agli altri, e specialmente nel consiglio degli ottanta e de' richiesti e pratiche, nelle quali PIÙ LARGHE consultazioni l'autorità de' PARTICOLARI cittadini cede e dà luogo alle vere e ferme ragioni molto più facilmente, che non fa ne' magistrati DI MINOR NUMERO D'UOMINI.
Jacopo Nardi, Vita d'Antonio Giacomini.
Lucca per Francesco Bertini 1818.
p.85-86.
(22.
Feb.
1821.)
Nardi ec.
l.
cit.
qui sopra p.83.
Di quelle doti e di quelle virtù che o per natura o per instituto e lezione tutte furono sue.
Che ha da far qui la lezione? oltre che lo stesso Nardi p.102.
dice ch'egli non aveva dato opera alle scienze.
Leggi ed elezione, opposto a natura.
Ma v.
l'altra ediz.
del 1597.
Firenze, Sermartelli, in 4°
(23.
Feb.
1821.)
[684]Lorenzo de' Medici, Apologia ec.
nel fine: Non mi sarebbe TANTA fatica.
Leggi STATA.
L'errore è nell'ediz.
di Lucca per Francesco Bertini dietro il Nardi, Vita del Giacomini, p.
ult.
136.
Non so delle altre stampe.
??.4 ??????????????????????????????????????
??? ?????;
??.5 ????? ????????? ???? ??????,
?? ?? ???????? ???????? ??? ?? ???.
Aristofane, Pluto, o la Ricchezza, Atto 4.
Scena 3.
(23.
Feb.
1821.).
Alla p.241 ...che il mondo, o qualche buona parte del mondo sia quello che in greco si dice diglottos, e noi possiamo dire bilingue.
Come veramente oggidì quasi tutto il mondo civile è bilingue, cioè parla tanto le sue lingue particolari, quanto, al bisogno, la francese.
Eccettuato la stessa Francia, la quale non è bilingue, non solamente rispetto al grosso della nazione, ma anche de' letterati e dotti, pochi sono [685]quelli che intendono bene, o sanno veramente parlare altra lingua fuori della propria loro.
Il che se derivi da superbia nazionale, o da questo che usandosi la loro favella per tutto il mondo, non hanno bisogno d'altra per ispiegarsi con chicchessia, o vero, quanto alla intelligenza ed uso de' libri forestieri, dalla facilità e copia delle traduzioni che hanno, questo non è luogo da ricercarlo.
(23.
Feb.
1821.)
La lingua italiana porta pericolo, non solo quanto alle voci o locuzioni o modi forestieri, e a tutto quello ch'è barbaro, ma anche, (e questo è il principale) di cadere in quella timidità povertà, impotenza, secchezza, geometricità, regolarità eccessiva che abbiamo considerata più volte nella lingua francese.
In fatti da un secolo e più, ella ha perduto, non solamente l'uso, ma quasi anche la memoria di quei tanti e tanti idiotismi, e irregolarità felicissime della lingua nostra, nelle quali principalmente consisteva la facilità, l'onnipotenza, la varietà, [686]la volubilità, la forza, la naturalezza, la bellezza, il genio, il gusto la proprietà ((((((((), la pieghevolezza sua.
Non parlo mica di quelle inversioni e trasposizioni di parole, e intralciamenti di periodi alla latina, sconvenientissimi alla lingua nostra, e che dal Boccaccio e dal Bembo in fuori, e più moderatamente dal Casa, non trovo che sieno stati adoperati e riconosciuti da nessun buono scrittore italiano.
Ma parlo di quella libertà, di quelle tanto e diversissime figure della dizione, per le quali la lingua nostra si diversificava dalla francese dell'Accademia, era suscettibile di tutti gli stili, era così lontana dal pericolo di cadere nell'arido, nel monotono, nel matematico, e in somma di quelle che la rendevano similissima nel genio, nell'indole, nella facoltà, nel pregio alle lingue antiche, e specificatamente alla greca, alla quale si accostava da vicino anche nelle forme particolari e speciali, cioè non solamente nel genere, ma anche nella specie: siccome alla latina si accosta sommamente per la qualità individuale de' vocaboli e delle frasi.
Ma oggidì ella va a perdere, anzi ha già perduto presso [687]il più degli scrittori, le dette qualità che sono sue vere, proprie, intime, e native; e dico anche presso quegli scrittori che a gran fatica arrivano pure a preservarsi dai barbarismi.
(e qui riferite quello che ho detto altrove, come in detti scrittori facciano pessima comparsa le parole e modi italiani, in una tessitura di lingua che per quanto non sia barbara, non è l'italiana: e gli antichi accidenti in una sostanza tutta moderna e diversa.) E così anche la lingua nostra si riduceva ad essere una processione di collegiali, come diceva, se non erro, il Fénélon, della francese.
Del che mi pare che bisogni stare in somma guardia, tanto più, quanto la inclinazione, lo spirito, l'andamento dei tempi, essendo tutto geometrico, la lingua nostra corre presentissimo rischio di geometrizzarsi stabilmente e per sempre, di inaridirsi, di perdere ogni grazia nativa (ancorchè conservi le parole e i modi, e scacci i barbarismi), di diventare unica come la francese, laddove ora ella si può chiamare un aggregato di più lingue, ciascuna adattata al suo soggetto, o anche a questo [688]e a quello scrittore; e così divenuta impotente, in luogo di contenere virtualmente tutti gli stili (secondo la sua natura, e quella di tutte le belle e naturali lingue, come le antiche, non puramente ragionevoli), ne contenga uno solo, cioè il linguaggio magrissimo ed asciuttissimo della ragione, e delle scienze che si chiamano esatte, e non sia veramente adattata se non a queste, che tale infatti ella va ad essere, e lo possiamo vedere in ogni sorta di soggetti, e fino nella poesia italiana moderna de' volgari poeti.
Come appunto è accaduto alla lingua francese, perchè ancor ella da principio, ed innanzi all'Accademia, e massime al secolo di Luigi 14.
non era punto unica, ma l'indole sua primitiva e propria somigliava moltissimo all'indole della vera lingua italiana, e delle antiche; era piena d'idiotismi, e di belle e naturalissime irregolarità; piena di varietà; subordinatissima allo scrittore (notate questo, che forma la difficoltà dello scrivere, come pure dell'intendere la nostra lingua a differenza della francese) e suscettibile di prendere quella forma e quell'abito che il soggetto richiedesse, o il carattere dello scrittore, o che questi volesse darle; adattata [689]a diversissimi stili; piena di nerbo, o di grazia, di verità, di proprietà, di evidenza, di espressione; coraggiosa; niente schiva degli ardiri com'è poi divenuta; parlante ai sensi ed alla immaginativa, e non solamente, come oggi, all'intelletto; (sebbene anche al solo intelletto può parlare la lingua italiana, se vuole) pieghevole, robusta, o delicata secondo l'occorrenza; piena di sève, di sangue e di colorito ec.
ec.
Delle quali proprietà qualche avanzo se ne può notare nella Sévigné, e nel Bossuet e in altri scrittori di quel tempo.
Talmente che s'ella fosse rimasta quale ho detto, non sarebbe mai stata universale, con che vengo a dir tutto.
E s'ella prima della sua mortifera riforma, avesse avuto tanto numero di cultori quanto n'ebbe l'italiana, che l'avessero condotta secondo il suo carattere primitivo, e d'allora, alla perfezione, come fu condotta la nostra, sarebbe anche più evidente questo ch'io dico [690]della prima e originale natura della lingua francese, la quale ben si congettura efficacemente dalla considerazione de' loro antichi scrittori, ma non si può pienamente sentire perch'ella non ebbe scrittore perfetto in quel primo genere, o non ne ebbe quanto basta.
Nè quel primo genere prese mai stabilità, ma quando le fu data forma stabile e universale nella nazione, fu ridotta, quale oggi si trova, ad essere in ogni possibile genere di scrittura, piuttosto una serie di sentenze e di pensieri esattissimamente esposti e ordinati, che un discorso.
Dove l'intelletto e l'utilità non desidera nulla, ma l'immaginazione il bello, il dilettevole la natura, i sensi ec.
desiderano tutto.
(24.
Feb.
1821.)
Il secolo del cinquecento è il vero e solo secolo aureo e della nostra lingua e della nostra letteratura.
Quanto alla lingua moltissimi disconvengono da questo ch'io dico, volendo che il suo vero secol d'oro, fosse il trecento.
Ma osservino.
Quasi tutti gli scrittori del cinquecento, toscani o non toscani, hanno bene e convenientemente [691]adoperata la nostra lingua, e tutti più o meno possono servire di norma al bello scrivere, e sarebbe ammirato e studiato uno scrittore d'oggidì che avesse tanti pregi di lingua quanto l'infimo de' mediocri scrittori di quel tempo.
Questo è ben altro che ammirare la felicità della Francia dove tutti appresso a poco scrivono bene quanto alla lingua.
Considerate quello che ho detto altrove del sommo divario fra la nostra lingua e la francese, e non vi parrà poca meraviglia che una lingua così difficile, varia, ricca, immensa, pieghevole e subordinata allo scrittore, come l'italiana, trovasse un secolo, dove tutti o la massima parte la scrivessero bene, e questo in ogni sorta di soggetti e di stili, in ogni qualità di scrittori, e anche in quelle cose che si scrivevano e si scrivono correntemente e senza studio, come lettere e cose tali, dove il cinquecento è sempre quasi [692]perfetto modello della buona lingua italiana a tutti i secoli.
Diranno che anche nel trecento accadeva lo stesso.
Voglio lasciar passare questa proposizione, che ben considerata parrà forse falsissima.
Ma supponendo che sia verissima, che maraviglia che scriva bene, chi in questo medesimo, che egli scrive, porta inseparabilmente la ragione dello scriver bene? Giacchè noi diciamo che i trecentisti scrivevano bene, perciò appunto ch'erano trecentisti; e indistintamente tutto quello ch'è del trecento, o imita e somiglia la scrittura di quel secolo, si approva e si dice bene scritto, perchè appartiene al trecento.
E si dà a quel secolo autorità di regolare il nostro giudizio intorno alla bella lingua italiana, non a noi di giudicare se quel secolo usasse una bella lingua.
Io so e dico che la usava bellissima, e do ragione e lodo quelli che colle debite restrizioni e condizioni fanno degli scrittori del trecento i modelli [693]o il fondamento e la sorgente della buona lingua italiana di tutti i secoli.
Quest'autorità l'hanno avuta tutti i padri di tutte le buone e belle lingue (come della latina ec.): e l'hanno avuta non già per capriccio o pregiudicata opinione de' successori, ma per la forza della natura che operava in quei padri effettivamente, e perchè la natura è la massima fonte del bello.
Ma non perciò le dette qualità derivavano in quei padri da merito loro, nè essi ponevano (eccetto pochissimi) veruno studio alla bellezza e all'ordine della lingua.
Nel modo che Omero certamente non sudava per seguire e praticare le regole del poema epico, le quali non esistevano, anzi sono derivate dal suo poema, e quella maniera ch'egli ha tenuto è poi divenuta regola.
Ma Omero come ingegno sovrano ch'egli era, studiava la natura e gli uomini e il bello per creare le regole che ancora non esistevano: laddove i trecentisti erano quasi tutti uomini da poco e ignorantissimi, e scrivevano quello che veniva loro nella [694]penna.
E quanto è venuto loro nella penna, tanto si è giudicato che fosse il più bel fiore della nostra lingua, non dico ingiustamente, ma certo senza merito loro.
V.
p.705.
Aggiungete che fuori de' Toscani, pochissimi in quel secolo scrivevano la lingua nostra in modo che si potesse sopportare, all'opposto del cinquecento dove tutta l'Italia scriveva correttamente e leggiadramente, così che il trecento, quando anche non valessero le suddette ragioni, non si potrebbe riputare il migliore della nostra lingua, nè paragonare al cinquecento se non quanto alla Toscana.
Quanto alla letteratura nessuno disconviene da quello ch'io dico, perchè il trecento ebbe tre o quattro letterati famosi, ma nel resto ebbe non letteratura ma ignoranza.
Quello però ch'io dico, sarebbe molto più riconosciuto in Italia e fuori, e si giudicherebbe meglio, e con maggiore convincimento, quanto sia vero che il cinquecento [695]sia l'ottimo ed aureo secolo della letteratura italiana, anzi in questo pregio superi non solo tutti gli altri secoli italiani, ma anche tutti i migliori secoli delle letterature straniere; se si ponesse mente a questo ch'io son per dire.
Primieramente la stessa universalità che ho notata in quel secolo rispetto alla buona lingua, si deve anche notare rispetto al buono stile: e ciò in tutti i generi e di soggetti, e di scrittori nelle scritture più familiari e usuali ec.
insomma con tutte quelle particolarità che ho notate quanto alla lingua p.691.
Collo studio, e la giusta applicazione delle norme greche e latine, lo stile del cinquecento generalmente aveva acquistato tal nobiltà e dignità, e tant'altra copia di pregi, che quasi era venuto alla perfezione, eccetto principalmente una certa oscurità ed intralciamento, derivante in gran parte dalla troppa lunghezza de' periodi, e dalla troppa copia [696]delle figure di dizione, e dall'eccessivo ed eccessivamente continuato concatenamento delle sentenze; vizio tutto proprio di quel secolo, il quale voleva forse con ciò dare al discorso quella gravità che ammirava ne' latini, ma che si doveva conseguire con altri mezzi (quali sono quegli altri molti che lo stesso secolo ha ottimamente adoperati): vizio ignoto si può dire al trecento, e a tutti gli altri secoli ancorchè viziosissimi: vizio provenuto anche dal soverchio studio dei latini, la cui imitazione è pericolosa per questa parte ancora, come per le trasposizioni; vizio che avrebbe potuto molto correggersi con un maggiore studio de' greci, ma principalmente degli ottimi e primi, perchè i più moderni declinarono anch'essi (sebbene valenti) a questo difetto, e ad un'indole di scrittura più latina che greca: vizio che non saprei se appartenga più allo stile ovvero alla lingua: vizio finalmente che se non togliere, certo si può moltissimo [697]alleggerire con una diversa punteggiatura, come si è fatto da molti presso i latini, i quali pure ne avevano gran bisogno, tanto per la lunghezza de' periodi talvolta, i quali si sono divisi col mezzo de' punti, quanto massimamente e sempre per la qualità della loro costruzione.
La detta perfezione prima o dopo quel secolo non si è mai veduta in nessunissimo stile nè italiano nè forestiero, dai latini in poi (dico quanto allo stile non ai pensieri): nessun'altra nazione ci è pervenuta in veruno de' suoi migliori secoli; e forse quello stesso maggior grado di perfezione che lo stile forestiero ha conseguito ne' suoi secoli d'oro, non si troverà che fosse così universale negli scrittori nazionali di quel tempo, com'era la detta perfezione in Italia nel cinquecento.
Secondariamente il pregio letterario del cinquecento è meno [698]conosciuto, e stimato assai meno del vero, perchè non si conosce la somma e singolare ricchezza di quel secolo.
Eccetto gli scrittori toscani registrati in buona parte dalla Crusca fra' testi di lingua, e perciò ricercati per farne serie, e per lusso, e simili motivi, e ristampati per uso di lingua, gli altri toscani, non adoperati dall'antica Crusca, e la massima parte de' cinquecentisti non toscani, non sono letti quasi da nessuno, conosciuti di pregio da pochissimi dotti, di nome solo da pochissimi altri, e ignorati di nome e di tutto dalla moltitudine dei letterati, da tutto il resto degli odierni italiani, e da tutti quanti gli stranieri.
E tuttavia è somma la copia di quegli scrittori che essendo così ignorati, sono tuttavia o più degli altri, o quanto gli altri che si conoscono, pregevolissimi e degnissimi di considerazione, di studio, e d'immortalità.
E giacciono in quelle vecchie stampe, in preda ai tarli, e alla polvere [699](se però sono stati mai stampati, come p.e.
la storia del Baldi, di cui parla il Perticari, è ms.), in fondo alle librerie, scorrettissimamente, e sordidamente stampati, senza veruno che si curi di guardarli.
Da quelle poche operette insigni del cinquecento ristampate in questi ultimi anni, e da quelle che si è proposto di ristampare, e che si è veduto come non cedano forse a veruna delle già note e famose, si può conoscere quanta ricchezza di quel secolo, quanta gloria nostra, sia oscurata e sepolta dalla dimenticanza, dall'ignoranza, dalla pigrizia, dalla noncuranza di questo secolo.
Che se porrete mente quanto minore sia il numero de' buoni cinquecentisti noti alla universalità degl'italiani, rispetto a quelli conosciuti dai letterati, i quali pur tanti ne ignorano; e quanto pochi fra quei medesimi conosciuti universalmente fra noi, si conoscano fuori d'Italia; non vi farete più maraviglia se la fama del [700]cinquecento letterato è oramai nell'Europa, piuttosto nome che fatto; piuttosto un avanzo di antica tradizione, che opinione presente; potendosi contar sulle dita i cinquecentisti noti fuori d'Italia.
E così dico proporzionatamente di tutta l'altra nostra letteratura.
Ma gli stranieri hanno ben ragione, se non ne sanno più, di quello che ne sappiamo noi stessi, i quali generalmente ci troviamo appresso a poco nel medesimo caso.
Del resto quello ch'io dico della perfezione di stile nei cinquecentisti si deve intendere dei prosatori, non dei poeti.
Anzi io mi maraviglio come quella tanta gravità e dignità che risplende ne' prosatori, si cerchi invano in quasi tutti i poeti di quel secolo, e bene spesso anche negli ottimi.
I difetti dello stile poetico di quel secolo, anche negli ottimi, sono infiniti, massime la ridondanza, gli epiteti, i sinonimi accumulati (al contrario delle prose) ec.
lasciando i più essenziali difetti di arguzie, insipidezze ec.
anche nell'Ariosto e nel Tasso.
E non è dubbio che Dante e Petrarca (sebbene non senza gran difetti di stile) furono nello stile più vicini alla [701]perfezione che i cinquecentisti, e così lo stile poetico del trecento (riguardo a questi due poeti) è superiore al cinquecento: (tanto è vero che la poesia migliore è la più antica, all'opposto della prosa, dove l'arte può aver più luogo).
E dal trecento in poi lo stil poetico italiano non è stato richiamato agli antichi esemplari, massime latini, nè ridotto a una forma perfetta e finita, prima del Parini e del Monti.
V.
gli altri miei pensieri in questo proposito.
Parlo però del stile poetico, perchè nel resto se si eccettuano quanto agli affetti il Metastasio e l'Alfieri (il quale però fu piuttosto filosofo che poeta), quanto ad alcune (e di rado nuove) immagini il Parini e il Monti (i quali sono piuttosto letterati di finissimo giudizio, che poeti); l'Italia dal cinquecento in poi non solo non ha guadagnato in poesia, ma ha avuto solamente [702]versi senza poesia.
Anzi la vera poetica facoltà creatrice, sia quella del cuore o quella della immaginativa, si può dire che dal cinquecento in qua non si sia più veduta in Italia; e che un uomo degno del nome di poeta (se non forse il Metastasio) non sia nato in Italia dopo il Tasso.
(27.
Feb.
1821.)
Camillo Porzio, La congiura de' Baroni del Regno di Napoli contra il Re Ferdinando I.
ediz.
terza, cioè Lucca 1816.
per Franc.
Bertini, p.23.
E vedeva ciascuno che indugiava più l'occasione che il lor animo, ad offendersi, e che con ogni picciola scintilla di fuoco infra di loro si poteva eccitare grandissimo incendio.
Che vuol dire, l'occasione indugiava ad offenderti? oltre che il lor animo era già offeso, e gravissimamente, come viene dal dire.
Leggi ad accendersi, lezione confermata ancora dal seguito del surriferito passo.
Ivi, p.24.
Affermando il Re essergli stato rimesso da' suoi predecessori (il tributo alla Chiesa) [703]e che si doveva per il regno di Napoli e di Sicilia; ma che egli allora solo quello di Napoli possedeva.
Rimesso potrebbe valer condonato, e predecessori riferirsi al Papa: potrebbe valer mandato, e predecessori riferirsi al Re.
Senso sempre oscurissimo.
Io leggerei: predecessori che e' o ch'e'.
V.
p.708.
capoverso 2.
Ivi, p.37.
Suavissima riputo e verissima la sentenza che c'insegna li costumi de' soggetti andar sempre dietro all'usanze de' dominatori.
Leggi savissima.
(27.
Feb.
1821.)
Non possiamo nè contare tutti gli sventurati, nè piangerne uno solo degnamente.
Allo sviluppo ed esercizio della immaginazione è necessaria la felicità o abituale o presente e momentanea; del sentimento, la sventura.
Esempio me stesso: e il mio passaggio dalla facoltà immaginativa, alla sensitiva, essendo quella in me presso ch'estinta.
(28.
Feb.
1821.)
[704]L'uomo dev'esser libero e franco nel maneggiare la sua lingua, non come i plebei si contengono liberalmente e disinvoltamente nelle piazze, per non sapere stare decentemente e con garbo, ma come quegli ch'essendo esperto ed avvezzo al commercio civile, si diporta francamente e scioltamente nelle compagnie, per cagione di questa medesima esperienza e cognizione.
Laonde la libertà nella lingua dee venire dalla perfetta scienza e non dall'ignoranza.
La quale debita e conveniente libertà manca oggigiorno in quasi tutti gli scrittori.
Perchè quelli che vogliono seguire la purità e l'indole e le leggi della lingua, non si portano liberamente, anzi da schiavi.
Perchè non possedendola intieramente e fortemente, e sempre sospettosi di offendere, vanno così legati che pare che camminino fra le uova.
E quelli che si portano liberamente, hanno quella libertà de' plebei, che deriva dall'ignoranza della lingua, dal non saperla maneggiare, e dal non curarsene.
E questi in comparazione [705]degli altri sopraddetti, si lodano bene spesso come scrittori senza presunzione.
Quasi che da un lato fosse presunzione lo scriver bene (e quindi anche l'operar bene, e tutto quello che si vuol fare convenientemente, fosse presunzione); dall'altro lato scrivesse bene chi ne dimostra presunzione.
Quando anzi il dimostrarla, non solamente in ordine alla buona lingua, ma a qualunque altra dote della scrittura, è il massimo vizio nel quale scrivendo si possa incorrere.
Perchè in somma è la stessa cosa che l'affettazione; e l'affettazione è la peste d'ogni bellezza e d'ogni bontà, perciò appunto che la prima e più necessaria dote sì dello scrivere, come di tutti gli atti della vita umana, è la naturalezza.
(28.
Feb.
1821.)
Alla p.694.
Perchè la lingua non era ancora formata nè stabilita, nè il suo corpo ordinato, e neppure la sua gramatica.
Essi la formavano, ma per forza del tempo, e [706]di circostanze accidentali ed estrinseche, non come Omero per forza del suo proprio ingegno formava l'Epopea.
(Eccettuo però Dante Petrarca e il Boccaccio: e nel secondo massimamente ritrovo una forma ammirabilmente stabile, completa, ordinata, adulta, uguale, e quasi perfetta di lingua, degnissima di servire di modello a tutti i secoli quasi in ogni parte.) Quindi non è maraviglia se quel trecentista andava per una strada, quest'altro per un'altra; se non ci è maggiore difficoltà che mettergli d'accordo tra loro, e coll'ordine della lingua, anche in cose essenziali, e ordinare la forma e i precetti della lingua sopra i trecentisti; se formicano d'imperfezioni e di scorrezioni; se non sono uguali neppure, nè in verun modo a se stessi ec.
ec.
ec.
Formata che fu la lingua, allora divenne possibile, necessaria e difficilissima la perfezion sua: la qual perfezione da nessun secolo è stata portata nè in così alto grado, nè in tanta universalità come nel cinquecento.
[707]Ed ecco in qual senso e per quali ragioni io dico che il cinquecento fu il vero ed unico secol d'oro della nostra lingua; cioè rispetto all'adoprarla, dove che il trecento l'avea preparata; rispetto allo spendere quel tesoro che il trecento avea magnificamente e larghissimamente accumulato; e in tal maniera che della lingua sarà sempre poverissimo chi non si provvederà immediatamente a quel tesoro: essendo veramente il trecento la sorgente ricchissima inesausta e perenne della nostra lingua; sorgente aperta e necessaria a tutti i secoli.
(28.
Feb.
1821.)
Perchè in fatti il secol d'oro di una lingua o di qualunque altra disciplina, non è quello che la prepara, ma quello che l'adopra, la compone de' materiali già pronti, e la forma; giacchè realmente quel secolo che formò e determinò la lingua italiana fu più veramente il cinquecento che il trecento, lasciando stare che i primi precetti della lingua nostra furono dati, s'io non erro, in quel secolo, dal Bembo.
Ma il cinquecento [708]formò e determinò la lingua italiana in maniera ch'ella guadagnando nella coltura e nell'ordine, non perdè nulla affatto nella naturalezza, nella copia, nella varietà, nella forza, e neanche nella libertà, (quanta è compatibile colla chiarezza e bellezza, e colla necessità di essere intesi, e quindi convenientemente ordinati nel favellare): in somma e soprattutto, non mutò in verun conto l'indole e natura sua primitiva, come la cambiò interamente la francese, nella formazione e determinazione fattane dall'Accademia e dal secolo di Luigi 14.
(1.
Marzo 1821.)
Camillo Porzio l.
cit.
(p.702.) p.80.
In un tratto di ciascuno il sacco, il fuoco e la morte si temeva.
Leggi da ciascuno.
(1 Marzo 1821.).
Alla p.703.
Che se rimesso in questo senso (di traditum che in latino viene e metaforicamente, e quasi anche propriamente a dire la stessa cosa) paresse strano, questo non avverrà se non a coloro che non conosceranno l'usanza [709]e lo stile di questo scrittore.
(2.
Marzo 1821.)
Alla p.120.
Aggiungete che nelle monarchie, o reggimenti di un solo o di pochi (che reggimento di pochi si può veramente chiamare ogni monarchia, dove non è possibile che tutto effettivamente dipenda, derivi, e si regoli secondo la volontà di uno solo, massime quanto più ella è grande) le cagioni degli avvenimenti sono molto più menome e moltiplici che negli stati liberi e popolari, ancorchè paia l'opposto.
Perchè le cagioni che operano in tutto un popolo, o nella massima, o in buona parte di quello, o in somma in molti, non sono nè così piccole, nè tante, nè così varie, nè così difficili a congetturare, quando anche fossero nascoste, come quelle che operano in uno o in diversi individui particolarmente.
E si vede in fatti, chi conosce un tantino la storia de' regni, come i massimi avvenimenti sieno spesso derivati da piccolissimi affettacci di quel re, di quel ministro ec.
da menome circostanze, da una passioncella, da una parola, da una ricordanza, da un'assuefazione individuale, [710]da un carattere particolare, da inclinazioni; da qualità, accidenti della vita, amicizie o nimicizie ec.
contratte dal principe o dal ministro ec.
nello stato privato.
Quindi si può vedere, quanto la storia oggidì sia oscura e difficile allo scrittore, e come spesso debba riuscire in gran parte falsa, e quindi inutile ai lettori; consistendo la chiave di sommi avvenimenti, la spiegazione di somme maraviglie, nella cognizione di aneddoti sempre difficili, spesso impossibili a sapere.
E così oggi gli scrittori di aneddoti e bazzecole di corte, sono più benemeriti forse della storia, che i sommi storici, e scrittori delle massime cose.
(2.
Marzo 1821.)
Alla p.81.
fine.
L'uomo in tanto è malvagio nè più nè meno, in quanto le azioni sue contrastano co' suoi principii.
Quanto più dunque da un lato i principii 1.
sono meglio stabiliti, definiti, divulgati, chiariti, specificati, e formati; 2.
l'uomo n'è imbevuto profondamente, e radicatamente persuaso: dall'altro lato quanto più le opere contrastano a questi principii; [711]tanto più l'uomo è malvagio.
E tanto peggiori realmente sono i popoli e i secoli, quanto più le dette circostanze e de' principii, e delle azioni sono universali, come per mezzo del Cristianesimo, e ne' suoi primi secoli massimamente.
Questa è la misura con cui bisogna definire la malvagità degl'individui, e delle nazioni e de' tempi; e considerare l'odio che meritano e che realmente ispirano.
E per questa parte il nostro secolo si può giudicare meno malvagio.
(2.
Marzo 1821.)
Lettere diverse da quelle del nostro alfabeto sono pure il ?????greco, e la zediglia spagnuola, analoghe fra loro, ma che non si possono confondere col nostro z, o t, o s, e si pronunziano con una conformazione di organi appropriata loro.
E si troverà più differenza tra questa conformazione di organi, e quella che si richiede per la pronunzia del nostro z, o t, o s, di quella che si possa trovare fra la conformazione di organi nella pronunzia del d, e l'altra nella pronunzia del t: le quali però nessuno dubita [712]che non sieno lettere diverse, benchè la lingua e i denti le producano ambedue, con leggerissimo e quasi insensibile divario di collocazione.
Così che dalla piccola differenza di collocazione non si può dedurre che due o più lettere sieno le stesse, perchè basta un nulla a diversificarle, come se ne potrebbero addurre altri esempi.
Del resto dico lo stesso del thau ebraico, e del th inglese.
(3.
Marzo 1821.)
Non vale il dire che i piaceri, i beni, le felicità di questo mondo, sono tutti inganni.
Che resta levati via questi inganni? E chi per le sue sventure manca di questi benchè ingannosi piaceri e beni, che altro gode o spera quaggiù? In somma l'infelice è veramente e positivamente infelice; quando anche il suo male non consista che in assenza di beni; laddove è pur troppo vero che non si dà vera nè soda felicità, e che l'uomo felice, non è veramente tale.
(3.
Marzo 1821.)
Alla p.370.
Ma osservate che spessissime volte questa impazienza pregiudica al fine.
Perchè tu, volendo veder l'esito in qualunque [713]modo, per liberarti dal timore di non ottenere il tuo fine, perdi quello che avresti conseguito se non avessi temuto, e se quindi ti fossi diportato più quietamente, con meno confusione ec.
Insomma avessi sostenuto di aspettare che la cosa andasse come doveva, e nel tempo conveniente ec.
Insomma spessissimo nei negozi dubbi, ancorchè non di somma importanza, affrettando l'esito, non tanto per ismania di conseguire, quanto per impazienza di dubitare, perdiamo il nostro intento: e questo ci accade anche nelle menome e giornaliere e materiali operazioni della vita.
Notate quelle parole non tanto per ismania ec.
nelle quali consiste la novità e proprietà di questo pensiero, perchè il detto effetto dell'impazienza è comunemente notato, ma si attribuisce all'impazienza di conseguire.
(3.
Marzo 1821.)
[714]Spesse volte il troppo o l'eccesso è padre del nulla.
Avvertono anche i dialettici che quello che prova troppo non prova niente.
Ma questa proprietà dell'eccesso si può notare ordinariamente nella vita.
L'eccesso delle sensazioni o la soprabbondanza loro, si converte in insensibilità.
Ella produce l'indolenza e l'inazione, anzi l'abito ancora dell'inattività negl'individui e ne' popoli; e vedi in questo proposito quello che ho notato con Mad.
di Staël, Floro ec.
p.620 fine - 625 principio.
Il poeta nel colmo dell'entusiasmo della passione ec.
non è poeta, cioè non è in grado di poetare.
All'aspetto della natura, mentre tutta l'anima sua è occupata dall'immagine dell'infinito, mentre le idee segli affollano al pensiero, egli non è capace di distinguere, di scegliere, di afferrarne veruna: in somma non è capace di nulla, nè di cavare nessun frutto dalle sue sensazioni: dico nessun frutto o di considerazione e di massima, ovvero di uso e di scrittura; di teoria nè di pratica.
L'infinito non si [715]può esprimere se non quando non si sente: bensì dopo sentito: e quando i sommi poeti scrivevano quelle cose che ci destano le ammirabili sensazioni dell'infinito, l'animo loro non era occupato da veruna sensazione infinita; e dipingendo l'infinito non lo sentiva.
I sommi dolori corporali non si sentono, perchè o fanno svenire, o uccidono.
Il sommo dolore non si sente, cioè finattanto ch'egli è sommo; ma la sua proprietà, è di render l'uomo attonito, confondergli, sommergergli, oscurargli l'animo in guisa, ch'egli non conosce nè se stesso, nè la passione che prova, nè l'oggetto di essa; rimane immobile, e senza azione esteriore, nè si può dire, interiore.
E perciò i sommi dolori non si sentono nei primi momenti, nè tutti interi, ma nel successo dello spazio e de' momenti, e per parti, come ho detto p.366-368.
Anzi non solo il sommo dolore, ma ogni somma passione, ed anche ogni sensazione, ancorchè non somma, tuttavia tanto straordinaria, e, per qualunque verso, grande, che l'animo nostro non sia capace di contenerla [716]tutta intera simultaneamente.
Così sarebbe anche la somma gioia.
Ma bisogna osservare che di rado avviene che la gioia ancorchè grande e straordinaria, ci renda attoniti, e quasi senza senso, e che la sua grandezza ne renda impossibile il pieno e distinto sentimento.
Questo ci accadeva forse e senza forse da fanciulli, e sarà pure senza fallo avvenuto negli uomini primitivi; ma oggidì per poco che l'uomo abbia di esperienza e di cognizione, è ben difficile che sia suscettibile di una gioia, la quale sia tanta da non poter essere contenuta pienamente nell'animo suo, e da ridondare.
Bensì egli è suscettibilissimo (almeno il più degli uomini) di un tal dolore.
Ma la somma gioia dell'uomo di oggidì, è sempre o certo ordinariamente tale che l'animo n'è capacissimo; e questo, non ostante ch'egli vi debba necessariamente esser poco assuefatto, laddove quanto al dolore o a qualunque passione dispiacevole, non è così.
Ma il fatto [717]sta che il male, soggetto del dolore e delle passioni dispiacevoli, è reale; il bene, soggetto della gioia, non è altro che immaginario: e perchè la gioia fosse tale da superare la capacità dell'animo nostro, si richiederebbe, come ne' fanciulli e ne' primitivi, una forza e freschezza d'immaginazione persuasiva, e d'illusione, che non è più compatibile colla vita di oggidì.
(4.
Marzo 1821.)
Porzio l.
cit.
(p.702.) p.126.
E se egli ec.
a cui fa dubbio che ec.
non l'abbia ad osservare? Leggi a cui fia.
Ivi, p.134.
ed i Principi allora affermano di aver perdonato i falli quando han potere di castigargli; ma se sopraffatti da' pericoli maggiori differiscono la vendetta, non perciò la cancellano.
Non c'è senso.
Leggi quando non han potere.
(4.
Marzo 1821.).
Nunquam minus solus quam cum solus.
Ottimamente vero: ma (contro quello che si usa [718]credere e dire) perchè oggidì colui che si trova in compagnia degli uomini, si trova in compagnia del vero (cioè del nulla, e quindi non c'è maggior solitudine); chi lontano dagli uomini, in compagnia del falso.
Laonde questo detto sebbene antico e riferito al sapiente, conviene molto più a' nostri secoli, e non al sapiente solo, ma alla universalità degli uomini, e massime agli sventurati.
(4.
Marzo 1821.)
L'uomo d'immaginazione di sentimento e di entusiasmo, privo della bellezza del corpo, è verso la natura appresso a poco quello ch'è verso l'amata un amante ardentissimo e sincerissimo, non corrisposto nell'amore.
Egli si slancia fervidamente verso la natura, ne sente profondissimamente tutta la forza, tutto l'incanto, tutte le attrattive, tutta la bellezza, l'ama con ogni trasporto, ma quasi che egli non fosse punto corrisposto, sente ch'egli non è partecipe di questo bello che ama ed ammira, si vede fuor della sfera della bellezza, come l'amante [719]escluso dal cuore, dalle tenerezze, dalle compagnie dell'amata.
Nella considerazione e nel sentimento della natura e del bello, il ritorno sopra se stesso gli è sempre penoso.
Egli sente subito e continuamente che quel bello, quella cosa ch'egli ammira ed ama e sente, non gli appartiene.
Egli prova quello stesso dolore che si prova nel considerare o nel vedere l'amata nelle braccia di un altro, o innamorata di un altro, e del tutto noncurante di voi.
Egli sente quasi che il bello e la natura non è fatta per lui, ma per altri (e questi, cosa molto più acerba a considerare, meno degni di lui, anzi indegnissimi del godimento del bello e della natura, incapaci di sentirla e di conoscerla ec.): e prova quello stesso disgusto e finissimo dolore di un povero affamato, che vede altri cibarsi dilicatamente, largamente, e saporitamente, senza speranza nessuna di poter mai gustare altrettanto.
Egli insomma [720]si vede e conosce escluso senza speranza, e non partecipe dei favori di quella divinità che non solamente, ma gli è anzi così presente così vicina, ch'egli la sente come dentro se stesso, e vi s'immedesima, dico la bellezza astratta, e la natura.
(5.
Marzo 1821.)
Oggidì i viaggi più curiosi e più interessanti che si possono fare in Europa cioè nel paese incivilito, sono quelli de' paesi meno inciviliti, cioè la Svizzera, la Spagna e simili, che tuttavia conservano qualche natura e proprietà.
Le descrizioni de' costumi, de' caratteri, delle opinioni, delle usanze di questi paesi hanno sempre della varietà, della singolarità, della importanza, della curiosità.
Quelle degli altri paesi Europei (salvo nelle usanze, costumi, opinioni popolari, come ho detto in altro pensiero p.147.
perchè il popolo è sempre più tenace della natura) i quali non hanno oramai proprietà, cioè carattere proprio, si rassomigliano tutte fra loro, e col carattere de' costumi, [721]opinioni ec.
di quella tal nazione, alla quale quelle altre si descrivono, così che pochissimo possono aver di curioso, eccetto nelle minute particolarità di usanze sociali, ec.
nelle quali l'incivilimento e il commercio universale, non è per anche arrivato ad agguagliare interamente il mondo.
Ma in grosso, e nella sostanza, e nelle cose principali, e per natura loro, non per capriccio, importanti, possiamo oramai dire, che di queste tali nazioni, conosciuta una, son conosciute tutte.
(5.
Marzo 1820.).
Dovunque l'arte tiene la principal parte in luogo della natura, manca la varietà, sebbene sottentri una sterile curiosità.
P.e.
gli Stati uniti si diversificano molto dal governo, costumi ec.
degli altri paesi civili, ma quella è una differenza d'arte, non di natura, è parto della ragione, della filosofia del sapere, è cosa artifiziale, non naturale.
[722]Quindi la curiosità che ne deriva, è una curiosità secca, e quella varietà, è quasi falsa, ascitizia, non propria delle cose, non sostanziale, non inerente alla nazione, e alla natura di lei, e per così dire, una varietà monotona.
Al contrario di quella curiosità e varietà che deriva dalla considerazione della Svizzera, della Spagna ec.
curiosità e varietà, naturale, propria, innata.
V.
il pensiero precedente.
(5.
Marzo 1821.)
Lo sventurato non bello, e maggiormente se vecchio, potrà esser compatito, ma difficilmente pianto.
Così nelle tragedie, ne' poemi, ne' romanzi ec.
come nella vita.
(6.
Marzo 1821.)
Porzio l.
cit.
(p.702.) p.145.
principio.
ciascun vedeva che quella prima dell'altre gli anderebbe ad oppugnare.
Leggi egli anderebbe, altrimenti non regge il senso.
Ivi p.155.
Che se nell'altre rocche [723]de' Baroni fusse stata la metà di provvisione ec.
Manca una qualche parola, come di detta, di questa, di tale provvisione, conforme apparisce dagli antecedenti, dove riferisce le provvisioni che si trovarono nel castello di Sarno, quando fu avuto dal Re.
(6.
Marzo 1821.)
Post ignem aetheria domo
Subductum, macies, et nova febrium
Terris incubuit cohors,
Semotique prius tarda necessitas
Leti corripuit gradum.
Orazio, od.3.
v.29-33.
l.
I.
Questo effetto, attribuendolo Orazio favolosamente alla violazione delle leggi degli Dei, ed alla temerità degli uomini verso il cielo, viene ad attribuirlo nel vero significato, alla violazione e corruzione delle leggi naturali e della natura; verissima cagione dell'incremento che l'imperio della morte ha guadagnato sopra gli uomini.
(7.
Marzo 1821.)
Alla p.526.
Florum, perpetuum Horatii imitatorem observat Rosellus Baumon in Massoni Hist.
Critica Rei literar.
Tom.14.
p.222.
Fabricio, B.
Lat.
l.2.
c.23.
§.2.
t.1.
p.626.
[724]Alla p.509.
Da questa osservazione deducete che Floro, stampato la prima volta in 4.
a Parigi in Sorbonae domo, senza nota di anno o di luogo, ma circa il 1470.
(Fabric.) era uno de' non molti classici conosciuti e letti al tempo del Petrarca.
(7.
Marzo 1821.)
L'uomo è così inclinato alla lode, che anche in quelle cose dov'egli non ha mai nè cercato nè curato di esser lodevole, e ch'egli stima di nessun pregio, ancora in queste l'esser lodato lo compiace.
Anzi spesso lo indurrà a cercar di rialzare presso se stesso il pregio e l'opinione di quella tal cosa minima nella quale è stato lodato; e a persuadersi che essa, o l'essere lodevole in essa, non sia del tutto minimo nell'opinione altrui.
(7.
Marzo 1821.)
I poeti, oratori, storici, scrittori in somma di bella letteratura, oggidì in Italia, non manifestano mai, si può dire, la menoma forza d'animo (vires animi, e non intendo dire la magnanimità), ancorchè il soggetto, o l'occasione ec.
contenga [725]grandissima forza, sia per [se] stesso fortissimo, abbia gran vita, grande sprone.
Ma tutte le opere letterarie italiane d'oggidì sono inanimate, esangui, senza moto, senza calore, senza vita (se non altrui).
Il più che si possa trovar di vita in qualcuno, come in qualche poeta, è un poco d'immaginazione.
Tale è il pregio del Monti, e dopo il Monti, ma in assai minor grado, dell'Arici.
Ma oltre che questo pregio è rarissimo nei nostri odierni o poeti o scrittori, oltre che in questi rarissimi è anche scarso (perchè il più de' loro pregi appartengono allo stile), osservo inoltre che non è veramente spontaneo nè di vena, e soggiungo che non solamente non è, ma non può essere, se non in qualche singolarissima indole.
La forza creatrice dell'animo appartenente alla immaginazione, è esclusivamente propria degli antichi.
Dopo che l'uomo è divenuto stabilmente infelice, e, che peggio è, l'ha conosciuto, [726]e così ha realizzata e confermata la sua infelicità; inoltre dopo ch'egli ha conosciuto se stesso e le cose, tanto più addentro che non doveva, e dopo che il mondo è divenuto filosofo, l'immaginazione veramente forte, verde, feconda, creatrice, fruttuosa, non è più propria se non de' fanciulli, o al più de' poco esperti e poco istruiti, che son fuori del nostro caso.
L'animo del poeta o scrittore ancorchè nato pieno di entusiasmo di genio e di fantasia, non si piega più alla creazaone delle immagini, se non di mala voglia, e contro la sottentrata o vogliamo dire la rinnuovata natura sua.
Quando vi si pieghi, vi si piega ex instituto, ????????, per forza di volontà, non d'inclinazione, per forza estrinseca alla facoltà immaginativa, e non intima sua.
La forza di un tal animo ogni volta che si abbandona all'entusiasmo (il che non è più così frequente) si rivolge all'affetto, [727]al sentimento, alla malinconia, al dolore.
Un Omero, un Ariosto non sono per li nostri tempi, nè, credo, per gli avvenire.
Quindi molto e giudiziosamente e naturalmente le altre nazioni hanno rivolto il nervo e il forte e il principale della poesia dalla immaginazione all'affetto, cangiamento necessario, e derivante per se stesso dal cangiamento dell'uomo.
Così accadde proporzionatamente anche ai latini, eccetto Ovidio.
E anche l'Italia ne' principii della sua poesia, cioè quando ebbe veri poeti, Dante, il Petrarca, il Tasso, (eccetto l'Ariosto) sentì e seguì questo cangiamento, anzi ne diede l'esempio alle altre nazioni.
Perchè dunque ora torna indietro? Vorrei che anche i tempi ritornassero indietro.
Ma la nostra infelicità, e la cognizione che abbiamo, e non dovremmo aver, delle cose, in vece di scemare, si accresce.
Che smania è questa dunque di voler fare quello stesso che facevano i nostri avoli, quando noi siamo così mutati? di ripugnare alla natura delle cose? di voler fingere una [728]facoltà che non abbiamo, o abbiamo perduta, cioè l'andamento delle cose ce l'ha renduta infruttuosa e sterile, e inabile a creare? di voler essere Omeri, in tanta diversità di tempi? Facciamo dunque quello che si faceva ai tempi di Omero, viviamo in quello stesso modo, ignoriamo quello che allora s'ignorava, proviamoci a quelle fatiche a quegli esercizi corporali che si usavano in quei tempi.
E se tutto questo ci è impossibile, impariamo che insieme colla vita e col corpo, è cambiato anche l'animo, e che la mutazione di questo è un effetto necessario, perpetuo, e immancabile della mutazione di quelli.
Diranno che gl'italiani sono per clima e natura più immaginosi delle altre nazioni, e che perciò la facoltà creatrice della immaginativa, ancorchè quasi spenta negli altri, vive in loro.
Vorrei che così fosse, come sento in me dalla fanciullezza e dalla prima giovanezza in poi, e vedo negli [729]altri, anche ne' poeti più riputati, che questo non è vero.
Se anche gli stranieri l'affermano, o s'ingannano, come in cose lontane, e come il lontano suol parere bellissimo o notabilissimo; ovvero intendono solamente di parlare in proporzione degli altri popoli, non mai nè assolutamente, nè in comparazione degli antichi, perchè anche l'immaginativa italiana, in vigore dell'andamento universale delle cose umane, è illanguidita e spossata in maniera, che per quel che spetta al creare, non ha quasi più se non quella disposizione che gli deriva dalla volontà e dal comando dell'uomo, non da sua propria ed intrinseca virtù, ed inclinazione.
Ma la vera causa per cui gl'italiani, a differenza di tutti gli altri, non conoscono oggidì altra poesia che la immaginativa, e della sentimentale sono affatto digiuni, ve la dirò io.
In quest'ozio, in [730]questa noia, in questa frivolezza di occupazioni, o piuttosto dissipazioni, senza scopo, senza vita, in somma senza nè patria nè guerre nè carriere civili o letterarie nè altro oggetto di azioni o di pensieri costanti, l'italiano non è capace di sentir nulla profondamente, nè difatto egli sente nulla.
Tutto il mondo essendo filosofo, anche l'italiano ha tanto di filosofia che basta e per farlo sempre più infelice, e per ispegnergli o vero intorpidirgli l'immaginazione, di cui la natura l'avrebbe dotato; ma non quanta si richiede a conoscere intimamente le passioni, gli affetti, il cuore umano, e dipingerlo al vivo; oltre che quando anche potesse conoscergli, non saprebbe dipingergli, giacchè bisogna convenire che all'italiano d'oggidì manca la massima parte di quello studio ch'è duopo per iscriver cose, come son queste, difficilissime.
Sicchè l'italiano, ancorchè si metta a scrivere col cuore profondamente commosso, o sullo stesso incominciare non trova più nulla, e non sapendo che si dire, ricorre ai generali; [731]ovvero volendo esprimere proprio quello ch'ei sente, non sa farlo, e scrive come un fanciullo.
Per tutte queste ragioni dunque l'italiano non essendo oggidì capace di poesia affettuosa, ricorre e si dedica interamente alla immaginosa, non per natura o per vocazione, ma per volontà ed elezione.
E appunto perciò o non vi riesce punto, o solamente coll'imitare, e tener dietro agli antichi, come un fanciullo alla mamma; nel modo che (sia detto fra noi) ha fatto il Monti: il quale non è poeta, ma uno squisitissimo traduttore, se ruba ai latini o greci; se agl'italiani, come a Dante, uno avvedutissimo e finissimo rimodernatore del vecchio stile e della vecchia lingua.
Ma gl'italiani contuttociò, e contro la natura de' tempi e della poesia, si gittano ad un genere che oggi non può essere se non o forzato o imitativo, e lo fanno perchè questo riesce loro molto più facile del sentimentale.
[732]1.
nessuno dubita che l'imitare a certi ingegni massimamente, che hanno pochissima o forza, o abitudine ed esercizio di forza, e d'impazienza e di calore ec.
non sia molto più facile che il creare.
E gl'italiani d'oggidì, poetando, appresso a poco, sempre imitano, anche quando non trascrivono, come spesso fanno, e come fa l'Arici, che quello si chiama copiare.
2.
Come è più facile un racconto che un dramma, perchè nel dramma ogni errore d'imitazione è palese, e si richiede una molto più esatta corrispondenza alla natura ed al vero; così agl'italiani d'oggidì, persone, come ho detto, che non sentono, e non hanno bastante cognizione del cuore umano, è molto più facile il genere immaginativo, che alla fine è cosa arbitraria, e dove si può anche abbagliare, come ha fatto l'Ariosto, di quello che il sentimentale dove bisogna seguire esattamente e passo passo la natura ed il vero, e dove il cuor di ciascuno, è prontissimo [733]e acutissimo e rigoroso giudice della verità o falsità, della proprietà o improprietà, della naturalezza, o forzatura, della efficacia o languidezza ec.
delle invenzioni, delle situazioni de' sentimenti, delle sentenze, delle espressioni ec.
E la facoltà immaginativa si può in qualche modo fingere, o forzare, o almeno comandare: la sensitiva non mai.
E perciò non è maraviglia se quei moderni italiani i quali, nelle circostanze che ho esposte di sopra, hanno pur voluto pubblicare opere sentimentali, sono stati fischiati, o degni di esserlo.
Tanto più che la imitazione, (e questi tali si son dati tutti e totalmente alla imitazione degli stranieri) se disdice all'immaginativo, molto più al sentimentale, per la stessa ragione per cui il sentimento non si può nè fingere nè proccurare, almeno forzatamente.
E così tutti i sensati italiani e forestieri, si accordano in dire che l'Italia manca del genere sentimentale.
[734]Ma non osservano che con ciò vengono a dire e confessare che l'odierna Italia manca di letteratura, certo di poesia.
Quasi che il detto genere fosse proprio di questa o quella nazione, e non del tempo.
Quasi che oggidì la condizione generale degli uomini ammettesse altro genere di poesia, e che il mancare di questo genere non fosse lo stesso che mancar di poesia.
La poesia sentimentale è unicamente ed esclusivamente propria di questo secolo, come la vera e semplice (voglio dire non mista) poesia immaginativa fu unicamente ed esclusivamente propria de' secoli Omerici, o simili a quelli in altre nazioni.
Dal che si può ben concludere che la poesia non è quasi propria de' nostri tempi, e non farsi maraviglia, s'ella ora langue come vediamo, e se è così raro non dico un vero poeta, ma una vera poesia.
Giacchè il sentimentale è fondato e sgorga dalla filosofia, dall'esperienza, dalla cognizione [735]dell'uomo e delle cose, in somma dal vero, laddove era della primitiva essenza della poesia l'essere ispirata dal falso.
E considerando la poesia in quel senso nel quale da prima si usurpava, appena si può dire che la sentimentale sia poesia, ma piuttosto una filosofia, un'eloquenza, se non quanto è più splendida, più ornata della filosofia ed eloquenza della prosa.
Può anche esser più sublime e più bella, ma non per altro mezzo che d'illusioni, alle quali non è dubbio che anche in questo genere di poesia si potrebbe molto concedere, e più di quello che facciano gli stranieri.
(8.
Marzo 1821.)
La lingua greca da' suoi principii fino alla fine, non lasciò mai di arricchirsi, e acquistar sempre, massimamente nuovi vocaboli.
Non è quasi scrittor greco di qualsivoglia secolo, che venga nuovamente in luce, il quale non possa servire ad impinguare il vocabolario greco di qualche novità.
[736]Non è secolo della buona lingua greca (la quale si stende molto innanzi, cioè almeno a Costantino, giacchè credo che S.
Basilio e S.
Crisostomo si citino nel Glossario sebbene anche nel Vocabolario) ne' cui scrittori la lingua non si trovi arricchita di nuove voci e anche modi, che non si osservano ne' più antichi.
E questi incrementi erano tutti della propria sostanza e del proprio fondo, giacchè la lingua greca fu oltremodo schiva d'ogni cosa forestiera, ma trovava nelle sue radici e nella immensa facilità e copia de' suoi composti, la facoltà di dir tutto quello che bisognava, e di conformare la novità delle parole alla novità delle cose, senza ricorrere ad aiuti stranieri.
Insomma il tesoro e la natura, e non solamente ricchezza, ma fertilità naturale e propria della lingua greca, era tale da bastare da per se sola, a tutte le novità che occorresse di esprimere, come un paese così fertile che fosse sufficiente ad alimentare [737]qualunque numero di nuovi abitatori o di forestieri.
E questo si può vedere manifestamente anche per quello che interviene oggidì.
Giacchè in tanta diversità di tempi e di costumi e di opinioni, in tanta novità di conoscenze e di ritrovati, e fino d'intere scienze e dottrine, qualunque novità massimamente scientifica occorra di significare e denominare, si ha ricorso alla lingua greca.
Nessuna lingua viva, ancorchè pure le lingue vive sieno contemporanee alle nostre cognizioni e scoperte, si stima in grado di bastare a questo effetto, e s'invoca una lingua morta e antichissima per servire alla significazione ed enunziazione di quelle cose a cui le lingue viventi e fiorenti non arrivano.
La rivoluzione francese, richiedendosi alla novità delle cose, la novità delle parole, ha popolato il vocabolario francese ed anche europeo di nuove voci greche.
La fisica, la Chimica, la storia naturale, le matematiche, [738]l'arte militare, la nautica, la medicina, la metafisica, la politica, ogni sorta di scienze o discipline, ancorchè rinnovellate e diversissime da quelle che si usavano o conoscevano dagli antichi greci, ancorchè nuove di pianta, hanno trovato in quella lingua il capitale sufficiente ai bisogni delle loro nomenclature.
Ogni scienza o disciplina nuova, comincia subito dal trarre il suo nome dal greco.
E questa lingua ancorchè da tanti secoli spenta, resta sempre inesauribile, e provvede a tutto, e si può dire che prima mancherà all'uomo la facoltà di sapere di conoscere e di scoprire, prima saranno esaurite tutte le fonti dello scibile, di quello che manchi alla lingua greca la facoltà di esprimerlo, e sia inaridita la fonte delle sue denominazioni e parole.
Il qual uso, ancorchè io lo biasimi e condanni per le ragioni che ho dette altrove, non è però che non renda evidente e palpabile l'onnipotenza immortale di quella lingua.
[739]Così la lingua greca che non avea nè Accademie nè Vocabolari, senza perder mai la facoltà di arricchirsi, e di far fruttare il suo terreno ubertosissimo, costantemente però e tenacemente nemica delle merci straniere (o per carattere nazionale, o per la stessa ricchezza sua che bastava a tutto) si mantenne sempre come fertile e prolifica e viva e vegeta e copiosa, così pura e sincera, fino ai tempi che Costantino trasportando quasi l'Italia nella Grecia, e l'occidente in oriente, con quella infinita e subitanea novità di costumi, di abitatori, di corte, ec.
introducendo e stabilendo, ed erigendo per così dire la lingua latina nel bel mezzo delle provincie greche e della lingua greca, forzò quell'idioma per sì lungo spazio indomito e vittorioso di tutti gli assalti forestieri, e illeso fra tutti i pericoli di barbarie che aveva incontrati, a ricevere voci straniere, e mescolarle colle proprie (non per bisogno, ma per uso e [740]commercio quotidiano, e presenza di gente straniera, e questa numerosa, e padrona) e finalmente imbarbarire suo malgrado e a viva forza.
V.
p.981.
capoverso 1.
La qual mescolanza e quasi fusione di usi costumi opinioni linguaggi occidentali e orientali, sebbene il mondo inclinava già fortemente alla barbarie, anzi vi aveva già messo il piede, tuttavia credo che contribuisse ancor ella ad imbarbarire scambievolmente, le une colle altre nazioni, inducendole e forzandole a guastare, o dismettere i loro primitivi istituti e costumi, assai più di quello che avessero fatto per l'addietro, il quale allontanamento e declinazione dal primitivo, è l'ordinaria e certa sorgente di barbarie e di corruzione fra gli uomini.
Della lingua latina non si può dire la stessa cosa che ho detto della greca.
E tuttavia mi par di vedere che la primitiva proprietà, natura, essenza ed organizzazione della lingua latina, fosse ottimamente ordinata e disposta a produrre lo stesso effetto.
Ma questo [741]non seguì per le ragioni che son per dire.
Non andrò ora cercando se le radici latine (dico primitive e pure latine) sieno così copiose come le greche.
Il commercio e la diffusione dei greci, il molto maggior tempo ch'essi durarono e con essi i loro studi, e la loro lingua, li pose in grado di accrescer le loro cognizioni, e quindi le loro radici, molto più che i latini, popolo ristretto in brevi limiti finattanto che col resto del mondo non conquistò anche la Grecia: ma allora i progressi delle sue cognizioni, del suo dominio, del suo commercio, non giovarono a quello delle sue radici; certamente questo non corrispose a quell'altro, per la ragione che dirò poi.
V.
in questo proposito Senofonte ????????????????????????????????.
Lasciando le radici, osserverò che la stessa immensa facoltà dei composti che si ammira, e rende più che altra cosa inesauribile la lingua greca, l'aveva ancora ne' suoi principii la lingua latina, e l'ebbe per lungo tempo, cioè per lo meno sino a Cicerone il quale principalmente [742]fissò, ordinò, stabilì, compose, formò e determinò la lingua latina.
Ponete mente a ciascuna delle antiche e primitive radici latine, e vedrete in quante maniere, con quanto piccole giunte e variazioni, sieno ridotte a significare diversissime cose per mezzo di composti, sopraccomposti, ossia decomposti, e derivati, o di metafore, nello stesso modo appunto che la lingua greca per gli stessi mezzi si rende atta a dir tutto e chiaramente e propriamente e puramente e facilissimamente.
Osservate per esempio il verbo duco o facio e consideratelo in tutti i suoi derivati o composti, e sopraccomposti, e in tutti i loro e suoi significati ed usi o propri o metaforici, ma però sempre così usitati, che benchè metaforici, son come propri.
Con ogni esame mi sono accertato che il verbo duco e il verbo facio per la copia de' composti, sopraccomposti, con preposizione e senza, derivati e loro composti, significati ed usi propri e traslati, tanto di questi che suoi, è adattattissimo a servire di esempio.
(Ludifico, carnifex, sacrificium, labefacto ed altri infiniti sono i composti del verbo facere senza preposizione nè particelle ec.
ma con altri nomi, alla greca.) E con queste considerazioni vedrete quanto la primitiva natura della lingua latina fosse disposta, a somiglianza della greca, alla onnipotenza di esprimer tutto facilmente, e tutto del suo ed a sue spese; alla pieghevolezza, trattabilità, duttilità ec.
Come questa facoltà di servirsi così bene delle sue radici, di estendersi, dilatarsi guadagnare conquistare con sì [743]poca fatica, metter così bene e a sì gran frutto il suo proprio capitale, coltivare con sì gran profitto il proprio terreno; questa facoltà dico, che nella lingua greca durò sino alla fine, come venisse così presto a mancare nella lingua latina, alla quale abbiamo veduto ch'era non meno naturale e caratteristica che alla greca, a cui poi si attribuì e si attribuisce come esclusivamente sua, verrò esponendolo e assegnandone le ragioni che mi parranno verisimili.
La lingua greca nel tempo in cui ella pigliava forma, consistenza, ordine, e stabilità (giacchè prima o dopo questo tempo la cosa non avrebbe avuto lo stesso effetto) non ebbe uno scrittore nel quale per la copia, varietà, importanza, pregio e fama singolarissima degli scritti, si riputasse che la lingua tutta fosse contenuta.
L'ebbe la lingua latina, l'ebbe appunto nel tempo che ho detto, e l'ebbe in Cicerone.
Questi per tutte le dette condizioni, per l'eminenza del suo ingegno, e lo splendore [744]delle sue gesta, del suo grado, della sua vita, e di tutta la sua fama, per aver non solo introdotta ma formata e perfezionata non solo la lingua, ma la letteratura, l'eloquenza, la filosofia latina, trasportando il tutto dalla Grecia, per essere in somma senza contrasto il primo il sommo letterato e scrittore latino in quasi tutti i generi, soprastava tanto agli altri, che la lingua latina scritta, si riputò tutta chiusa nelle sue opere, queste tennero luogo di Accademia e di Vocabolario, l'autorità e l'esempio suo presso i successori, non si limitò ad insegnare, e servir di norma e di modello, ma, come accade, a circoscrivere; la lingua si riputò giunta al suo termine; gl'incrementi di essa si stimarono già finiti; si credè giunto il colmo del suo accrescimento; si temè la novità; si ebbe dubbio e scrupolo di guastare e far degenerare in luogo di arricchire; le fonti della ricchezza della lingua si stimarono chiuse.
ec.
E così Cicerone fra gl'infiniti benefizi fatti alla sua [745]lingua, gli fece anche indirettamente per la troppa superiorità e misura della sua fama e merito, troppo soverchiante e primeggiante, questo danno di arrestarla, come arrivata già alla perfezione, e come in pericolo di degenerare se fosse passata oltre: e quindi togliergli l'ardire, la forza generativa, e produttrice, la fertilità, e inaridirla.
Nello stesso modo che avvenne alla eloquenza e letteratura latina, per lo stesso motivo, e per la stessa persona (v.
Velleio nel fine del 1mo libro).
Che siccome per la letteratura si stimò quasi giunta l'ora del riposo, tanto egli l'aveva perfezionata (v.
p.801.
fine) (cosa che non accadde mai nella Grecia, giacchè a nessuno scrittore in particolare competeva questa qualità, e la perfezione di un secolo il quale s'intreccia e addentella col seguente, non ispaventa tanto quanto quella di un solo, che in se stesso racchiude e definisce e circoscrive la perfezione) così appunto intervenne anche alla lingua, la quale similmente, [746]come già matura e perfetta, cessò di crescere e isterilì.
Questa può essere una ragione.
Quest'altra mi sembra la principale.
Da qualunque origine derivasse la lingua e la letteratura e filosofia e sapienza greca, certo è che la Grecia, se non fu l'inventrice delle sue lettere, scienze, ed arti, le ricevè informi, ed instabili, e imperfette, e indeterminate, e così ricevute, le formò, stabilì, perfezionò, determinò essa medesima, e nel suo proprio seno, e di sua propria mano ed ingegno, così che vennero la sua letteratura ed il suo sapere ad essere sue proprie, ed opera si può dir sua: quindi non ebbe bisogno di ricorrere ad altre lingue per esprimere le sue cognizioni (se non se, come tutte le lingue, nei primordi, e nelle primissime derivazioni delle sue radici, giacchè nessuna lingua è nata coll'uomo, ma derivata l'una dall'altra più o meno anticamente, finchè si arriva ad una lingua assolutamente madre e primitiva, che nessuno conosce): non ebbe dico bisogno di queste, ma formando le sue cognizioni, formò insieme la lingua; e [747]quindi pose sempre a frutto, e coltivò il suo proprio fondo, e trasse da se stessa tutto il tesoro della favella.
Ma ai latini non accadde lo stesso.
La loro letteratura, le loro arti, le loro scienze vennero dalla Grecia, e tutto in un tratto, e belle e formate.
Essi le ricevettero già ordinate, composte, determinate, provvedute intieramente del loro linguaggio, trattate da scrittori famosissimi: in somma i latini non ebbero e non fecero altra opera che traspiantare di netto le scienze, arti, lettere greche nel loro terreno.
Quindi era ben naturale che quelle discipline ch'essi non avevano formate, portassero seco anche un linguaggio non latino, perchè dovunque le discipline si formano, e ricevono ordine e corpo stabile e determinato, quivi se ne forma il linguaggio, e questo passa naturalmente alle altre nazioni insieme con esse discipline.
Non avendole dunque i latini nè create nè formate, ma ricevute quasi per manus belle e fatte, neanche ne crearono nè formarono, [748]ma riceverono parimente il linguaggio.
Lucrezio volendo trattar materie filosofiche s'era lagnato della novità delle cose e della povertà della lingua, come potremmo far noi oggidì, volendo trattare la moderna filosofia.
Cicerone, da grande e avveduto uomo, il quale benchè gelosissimo della purità della favella, conosceva che alla novità delle cose era necessaria la novità delle parole, e che queste non sarebbero 1.
intese e chiare, 2.
inaffettate e naturali, se non fossero appresso a poco quelle medesime che erano in comune e confermato uso in quelle tali discipline; fu ardito, e trattando materie si può dir greche popolò il latino di parole greche, certo di essere inteso, e di non riuscire affettato, perchè la lingua greca era divulgatissima e familiare fra' suoi, come appunto oggi la francese, e quelle parole notissime, e usitatissime anzi proprie di quelle discipline, come oggi le francesi nelle moderne materie filosofiche e simili.
E di più erano necessarie.
Così dunque la lingua latina si pose in grado di discorrer delle [749]cose, e di essere scritta, ma vi si pose per mezzi alieni e non propri.
Bisogna anche osservare che non questa o quella disciplina, ma si può dir tutte le discipline, e cognizioni umane, tutto quello che scrivendo si può trattare, anzi anche conversando urbanamente, cioè tutta la coltura tutti i soggetti regolati e ordinati, erano venuti dalla Grecia in Roma, immediatamente e interamente.
Quindi successe quel che doveva, che la lingua latina, affogata ed oppressa tutto in un tratto dalla copia delle cose nuove, disperata di poterla subito (come sarebbe bisognato) pareggiare colla novità delle parole tirate dal proprio fondo, abbandonò il suo terreno, abbracciò la suppellettile straniera di linguaggio, che trovava già pronta, e da tutti intesa ed usata: e così la facoltà generativa della lingua latina, rimase o estinta o indebolita, e si trasformò nella facoltà adottiva.
Cicerone ne aveva usato [750]da suo pari con discrezione e finissimo giudizio e gusto, non lasciando in nessun modo di coltivare il fondo della sua lingua, di accrescerla, e di cavarne quanto era possibile in quella strettezza, in quella tanta copia di nuove cose, accompagnate da parole straniere già divulgate ed usitate.
Ma dopo Cicerone si passarono i limiti: parte perch'essendo (com'è oggi relativamente al francese) molto più facile il tirar dalla lingua greca già ben provveduta di tutto, e a tutti nota, le parole e modi occorrenti, di quello che dalla latina che non le dava senza studio, e profonda cognizione di tutte le sue risorse; quelli che non erano così periti della loro lingua (perizia ben rara e difficile trattandosi di una tal lingua, come della nostra oggidì: e pochi o nessuno la possedè così a fondo come Cicerone) senza troppo curare di accertarsi s'ella avesse o non avesse come esprimere convenientemente e pianamente il bisognevole, [751]davan sacco alla lingua greca che l'aveva tutto alla mano.
Parte perchè non la sola necessità, o la difficoltà dell'uso del latino in quei casi, o finalmente l'ignoranza della propria lingua, ma anche il vezzo spingeva i romani (come oggi ec.) ad usare le parole e modi greci in iscambio delle parole e modi latini, e mescolarli insieme, come che quelli dessero grazia e spirito alla favella gentile, e in somma ci entrò di mezzo oltre la letteratura e la filosofia, anche la moda.
Orazio già avea dato poco buon esempio.
Uomo in ogni cosa libertino e damerino e cortigiano, in somma tutto l'opposto del carattere Romano, e nelle opere tanto seguace della sapienza fra' cortigiani, quanto Federigo II tra i re.
Non è maraviglia se la lingua romana gli parve inferiore alla sua propria eleganza e galanteria.
Sono noti e famosi quei versi della poetica, dov'egli difende e ragiona su questo suo costume.
Egli però come uomo di basso ma sottile ingegno, se nocque coll'esempio, non pregiudicò grandemente colla pratica; anzi io non voglio contendere s'egli, quanto a se, giovasse piuttosto o pregiudicasse alla sua lingua, perchè i suoi ardimenti paiono a tutti, e li credo anch'io, se non altro, in massima parte, felicissimi; ma poco [752]tempo dopo la sua morte, cioè al tempo di Seneca ec.
per ambedue le dette ragioni la cosa era ita tant'oltre che la lingua latina impoveriva dall'un canto e dall'altro imbarbariva effettivamente per grecismo come oggi l'italiana per francesismo.
Ed è curioso come tristo l'osservare che siccome la lingua latina rendè poi con usura il contraccambio di questo danno e di questa barbarie alla greca, quando già mezzo barbara le si riversò tutta, per così dire, nel seno, sotto Costantino e successori, così oggidì la lingua francese rende con eccessiva usura alla nostra quella corruttela che ne ricevè al tempo dei Medici in Francia ec.
La lingua latina fu (per poco spazio) restituita, se non all'antica indole, certo a uno splendore somigliante all'antico (insieme colla letteratura parimente corrotta) da parecchi scrittori del secolo tra Nerva e Marcaurelio, fra' quali Tacito ec.
del che non è ora luogo a parlare.
Solamente noterò per incidenza, e perchè fa a questo discorso delle lingue, un parallelo curiosissimo che si può fare tra Frontone e i presenti ristoratori della lingua italiana.
[753]Il qual Frontone, come apparisce ora dalle reliquie de' suoi scritti ultimamente scoperte, merita un posto distinto, fra i ristauratori e zelatori della purità come della letteratura così della lingua latina.
Nel qual pregio egli forse e senza forse, cred'io, è l'ultimo di tempo, che si conosca, o abbia almeno qualche distinta rinomanza.
Ma egli (colpa della nostra natura) volendo riformare il troppo libertinaggio, e castigare la viziosa novità della lingua, cadde, come appunto gran parte de' nostri, nell'eccesso contrario.
Giacchè una riforma di questa natura, deve consistere nel mondar la lingua dalle brutture, distoglierla dal cattivo cammino, e rimetterla sul buono.
Non già ricondurla a' suoi principii, e molto meno voler che di quivi non si muova.
Perchè la lingua e naturalmente e ragionevolmente cammina sempre finch'è viva, e come è assurdissimo il voler ch'ella stia ferma, contra la natura delle cose, così è pregiudizievole e porta discapito il volerla riporre più indietro che non bisogna, e obbligarla a rifare quel cammino [754]che avea già fatto dirittamente e debitamente.
Laddove bisogna riporla nè più nè meno in quel luogo che conviene al tempo e alle circostanze, osservando solamente che questo luogo sia proprio suo e conveniente alla sua natura.
Ma Frontone in luogo di purificare la lingua, la volle antiquare, richiamando in uso parole e modi, per necessaria vicenda delle cose umane, dimenticati, ignorati e stantii, e fino come pare, l'antica ortografia, volendo quasi immedesimare, in dispetto della natura e del vero, il suo tempo coll'antico.
Come che quei secoli che son passati, e quelle mutazioni che sono accadute e nella lingua, e in tutto quello che la modifica, dipendesse dalla volontà dell'uomo il fare che non fossero passati e non fossero accadute, e il cancellare tutto l'intervallo di tempo ed altro che sta fra il presente e l'antico.
Nè osservò che siccome la lingua cammina sempre, perch'ella segue le cose le quali sono istabilissime e variabilissime, così ogni secolo anche il più buono e casto ha la sua lingua modificata in una maniera propria, la quale allora solo è cattiva, [755]quando è contraria all'indole della lingua, scema o distrugge 1.
la sua potenza e facoltà, 2.
la sua bellezza e bontà naturale e propria, altera perde guasta la sua proprietà, la sua natura, il suo carattere, la sua essenziale struttura e forma ec.
Fuori di questo, com'è altrettanto vano, che dannoso e micidiale l'assunto d'impedire ch'ella si arricchisca, così è impossibile e dannoso l'impedire che si modifichi secondo i tempi e gli uomini e le cose, dalle quali la lingua dipende e per le quali è fatta, non per qualche ente immaginario, come la virtù o la giustizia ch'è immutabile o si suppone.
E perchè Cicerone non iscrisse come il vecchio Catone ec.
non perciò resta ch'egli non sia, come in ordine a tutto il rimanente, così pure alla lingua, il sommo scrittor latino: nè che Virgilio non sia il primo poeta latino, e limpidissimo specchio di latinità (riconosciuto dallo stesso Frontone negli Exempla elocutionum), perciò che la sua lingua è ben diversa [756]da quella di Ennio di Livio Andronico, ec.
e anche di Lucrezio.
Bisogna però ch'io renda giustizia a Frontone, perchè se egli cadde in quel difetto che ho notato, vi cadde con molto più discrezione giudizio e discernimento sì nelle massime o nella ragione, che nella pratica, di quello che facciano molti degli odierni italiani, avendo anche molto riguardo a fuggir l'affettazione, per la quale massimamente e per la oscurità si rende assurdo e barbaro l'uso di molte parole antiquate; e possedendo la sua lingua veramente, e quindi, sebben peccasse nella troppa imitazione degli antichi, non però cercando, come fanno i nostri, di dar colore di antichità a' suoi scritti, col solo materiale e parziale uso delle parole e modi vecchi, senza osservare se la scrittura sapesse poi veramente di antico, e se quelle parole e modi vi cadessero acconciamente e naturalmente, o forzatamente, e dissonando dal corpo della composizione.
Frontone non sognò neppure la massima di vietare la conveniente e giudiziosa novità e formazione delle parole o modi, anzi egli stesso ne dà esempio di tratto in tratto.
Il che [757]fanno i nostri per impotenza, ignoranza, povertà, e niun possesso di lingua; credendo di esser buoni scrittori italiani quando hanno imparato e usato a sproposito e come capita, un certo numero di parole e modi antichi, non curandosi poi, o non sapendo vedere se corrispondano al resto e all'insieme del colorito e dell'andamento, e testura del discorso, ovvero sieno come un ritaglio di porpora cucito sopra un panno vile, o certo d'altro colore ed opera.
Ma conviene ch'io dica quello ch'è vero, che non mi è riuscito mai di trovare negli antichi scrittori latini o greci, per difettosi che sieno, tanta goffaggine, e incapacità, e piccolezza di giudizio, e debolezza e scarsezza di mezzi, e decisa insufficienza alle imprese, agli assunti ec.
quanto negli odierni italiani: e Frontone del resto non fu niente povero d'ingegno.
Il suo peccato si può ridurre all'aver considerato come modelli di buona lingua, piuttosto Ennio che Virgilio e che lo stesso Lucrezio (che tanto l'arricchì nella parte filosofica) piuttosto Catone che Tullio; all'aver creduto che in quelli e non in questi fosse la perfezione della lingua latina, all'avere attinto più da quelli che da questi, e consideratili come fonti più ricchi o più sicuri ec.; o certo aver loro attribuita senza veruna ragione (conforme però all'ordinario rispetto per l'antico) maggiore autorità in fatto di lingua.
ec.
ec.
Questo sia detto in trascorso e per digressione.
Tornando al proposito, cioè all'arricchire [758]la lingua del prodotto delle sue proprie sostanze, e dalla greca e latina, passando alle vive, questa è sempre stata e sarà sempre facoltà inseparabile dalla vita delle lingue, e da non finire se non colla loro morte.
Tutte le lingue vive la conservano, eccetto quelli che vorrebbero che la italiana la deponesse.
La francese, la quale a differenza dell'italiana, si è spogliata della facoltà di usare quelle delle sue parole e modi antichi e primitivi, che le potessero tornare in acconcio (come ho detto altrove); parimente a differenza di ciò che si esigerebbe dalla italiana, ha conservato sempre ed usato la facoltà di mettere a frutto e moltiplico il suo presente tesoro.
E la stessa lingua latina, la quale per le ragioni che ho detto, perdè in parte questa facoltà dopo Cicerone, non la perdè, se non in quanto a quella felicissima ed immensa facoltà di composti e sopraccomposti o con preposizione o particella, ovvero di più parole insieme; facoltà che la metteva quasi [759](cioè in proporzione della quantità delle radici e de' semplici) al paro della greca; facoltà che si può vedere e nelle primitive parole latine composte nei detti modi, o con avverbi (come propemodum e mille altre), in somma come le greche, e che sono durate nell'uso della latinità sino alla fine, ma non però imitate nè accresciute; e in quelle che poi caddero dall'uso, e si possono veder ne' più antichi latini (come in Plauto lectisterniator, legirupus, lucrifugae e mille altre, e prendo le primissime che ho incontrate subito), e servono a far conoscere la primitiva costituzione, forma, usanza, e potenza di quella lingua: facoltà in fine, ch'è la massima e più ricca sorgente della copia delle parole, e della onnipotenza di tutto esprimere, ancorchè nuovissimo; il che si ammira nel greco, e si potè una volta notare anche nel latino.
I primi scrittori latini, il loro linguaggio sacro o governativo ec.
antico (come lectisternium antica festa romana) abbondano siffattamente di parole composte alla greca di due o più voci, che non si può forse leggere un passo di detti autori ec.
senza trovarne, ma la più parte andate in disuso.
Spesso eran proprie di quel solo che le inventava.
Talvolta anche di eccessiva lunghezza, come clamydeclupetrabracchium parola di antico poeta riferita da Varrone (De L.
L.
lib.4.) (p.3.
della mia ediz.
del 400.) Quest'uso ottimo e felicissimo, e questa facoltà, fu o trascurata, o comunque [760]lasciata trasandare, abbandonare, dismettere, dimenticare alla lingua latina, che era per forza d'essa facoltà così bene istradata alla onnipotenza, ne' suoi principii.
Ma la facoltà di arricchire la propria lingua col prodotto delle sue proprie radici in ogni altro genere, coi derivati ec.
non fu mai abbandonata finch'ella visse, e non poteva esserlo, stante ch'ella vivesse.
Non solamente i cattivi o mediocri, ma anche i buoni ed ottimi scrittori dopo Cicerone, se ne prevalsero tutti, e tutti scrivendo aumentarono il tesoro della lingua, e questa non lasciò mai di far buoni e dovuti progressi, finchè fu adoperata da buoni e degni scrittori.
Così deve tenersi per fermissimo, ch'è indispensabile di fare a tutte le lingue finch'elle vivono.
La facoltà de' composti pur troppo non è propria delle nostre lingue.
Colpa non già di esse lingue, ma principalmente dell'uso che non li sopporta, non riconosce nelle nostre lingue meridionali [761](delle settentrionali non so) questa facoltà, delle orecchie o non mai assuefatteci, o dissuefattene da lungo tempo.
Perchè del resto 1.
le nostre preposizioni, massimamente nella lingua italiana, sarebbero per la più parte, appresso a poco non meno atte alla composizione di quello che fossero le greche e latine, e noi non manchiamo di particelle attissime allo stesso uso, anzi molte ritrovate espressamente per esso (come ri, o re, tra o stra, arci, dis, o s, in negativo o privativo, e affermativo, mis, di, de ec.
E di queste abbondiamo anzi più de' latini, e forse anche dei greci stessi, e credo certo anche de' francesi e degli spagnuoli.) V.
il Monti, Proposta alla voce Nonuso, e se vuoi p.2078.
2.
anche ai composti di più parole la lingua massimamente italiana, sarebbe dispostissima, come già si può vedere in alcuni ch'ella usa comunemente (valentuomo, passatempo, tuttavolta, capomorto, capogatto, tagliaborse, beccafico, falegname, granciporro, e molti e molti altri); v.
p.1076.
e Monti, Proposta ec.
v.
guardamacchie ed anche la lingua francese (emportepièce, gobemouche, fainéant coi derivati ec.) 3.
non manchiamo neppure di avverbi atti a servire alla composizione.
4.
la nostra lingua benchè non si pieghi e non ami in questo genere la novità, ha però non poco in questo genere, come i composti colla preposizione in, tra, fra, oltra, [762]sopra, su, sotto, contra, anzi ec.
ec.
e Dante fra gli altri antichi aveva introdotto subito nel quasi creare la nostra lingua, la facoltà, il coraggio, ed anche l'ardire de' composti, de' quali egli abbonda (come indiare, intuare, immiare, disguardare ec.
ec.) massime con preposizioni avverbi, e particelle.
E così gli altri antichi nostri.
Ma a noi pure è avvenuto, come ai latini, che questa onnipotente facoltà, propria della primitiva natura della nostra lingua, (sebbene allora pure in minor grado che, non solo della greca, ma anche della latina) s'è lasciata malamente e sfortunatamente perdere quasi del tutto, ancorchè si conservino buona parte di quelli che si sono trovati in uso, e si adoprino come recentissimi, attestando continuamente la primiera facoltà e natura della nostra lingua; ma de' veramente nuovi e recenti non si gradiscono.
E tutto questo appresso a poco è avvenuto anche alla lingua francese.
V.
p.805.
Dei composti dunque, gli scrittori di oggidì non hanno gran facoltà, ma non però nessuna (tanto in italiano che in francese): anzi ce ne resta ancor tanta da potere, senza [763]la menoma affettazione formare e introdurre molti nuovi composti chiarissimi, facilissimi, naturalissimi, mollissimi per l'una parte; e per l'altra utilissimi; specialmente con preposizioni e particelle ec.
Quanto poi ai derivati d'ogni specie (purchè sieno secondo l'indole e le regole della lingua, e non riescano nè oscuri nè affettati) e a qualunque parola nuova che si possa cavare dalle esistenti nella nostra lingua, che stoltezza è questa di presumere che una parola di origine e d'indole italianissima, di significazione chiarissima, di uso non affettata nè strana ma naturalissima, di suono finalmente non disgrata all'orecchio, non sia italiana ma barbara, e non si possa nè pronunziare ne scrivere, per questo solo, che non è registrata nel Vocabolario? (E quello che dico delle parole dico anche delle locuzioni e modi, e dei nuovi usi qualunque delle parole o frasi ec.
già correnti, purchè questi abbiano le dette condizioni.) Quasi che la lingua italiana sola, a differenza di tutte le altre esistenti, e di qualunque ha mai esistito, si debba, mentre ancor vive nell'uso quotidiano della nazione, considerar come morta e morire vivendo, ed essere a un tempo viva e morta.
Converrebbe che anche questa nazione vivesse come morta, cioè che nella sua esistenza non [764]accadesse mai novità, divario, mutazione veruna, nè di opinioni, nè di usi, nè di cognizioni (come, e più di quello che si dice della China, la cui lingua in tal caso potrà essere immobile): e di più che sia in tutto e per tutto conforme alla vita e alle condizioni de' nostri antichi, e di que' secoli dopo i quali non vogliono che sia più lecita la novità delle parole.
E infatti che differenza troveremo fra la lingua italiana viva, e le morte, ammesso questo pazzo principio? Che libertà che facoltà avremo noi nello scrivere la lingua nostra presente, più di quello che nell'adoprare la greca e latina che sono antiche ed altrui? e le cui fonti sono disseccate e chiuse da gran tempo, restando solo quel tanto ch'elle versarono mentre furono aperte, e quelle lingue vissero.
Anzi io tengo per fermo che quegli scrittori italiani i quali nel cinquecento maneggiarono la lingua latina in maniera da far quasi dubbio se ella fosse loro artifiziale o naturale, furono assai meno superstiziosi di quello che molti vorrebbero che fossimo noi trattando la lingua nostra.
E noi medesimi oggidì (parlo degli scienziati o letterati di tutta Europa) derivando, come facciamo spessissimo, [765]dal greco le parole che ci occorrono per li nostri usi presenti, e per novità di cose ignotissime ai parlatori di quella lingua, non formiamo voci parimente ignote all'antica lingua greca? Ci facciamo scrupolo se non sono registrate nel Lessico, o se non hanno per se l'autorità degli antichi scrittori? Non innuoviamo noi in una lingua morta, stranierissima, e al tutto fuori d'ogni nostro diritto? Il che, sebbene si facesse con buon giudizio, e coi dovuti rispetti all'indole di quella lingua (al che per verità pochi hanno l'occhio nella formazione di tali voci), a ogni modo vi si potrebbe sofisticar sopra, e dire che la eredità che ci è pervenuta delle antiche lingue, è come di beni infruttiferi, dai quali non si può nè ricavare nè pretendere altro servigio che dell'usarli identicamente.
Ma la nostra lingua propria è un'eredità, un capitale fruttifero, che abbiamo ricevuto da' nostri maggiori, i quali come l'hanno fatto fruttare, così ce l'hanno [766]trasmesso perchè facessimo altrettanto, e non mica perchè lo seppellissimo come il talento del Vangelo, ne abbandonassimo affatto la coltivazione, credessimo di custodirlo, e difenderlo, quando gli avessimo impedito ogni prodotto, la vegetazione, il prolificare; lo considerassimo e ce ne servissimo come di un capitale morto ec.
Osservo anche questo.
Noi ci vantiamo con ragione della somma ricchezza, copia, varietà, potenza della nostra lingua, della sua pieghevolezza, trattabilità, attitudine a rivestirsi di tutte le forme, prender abito diversissimo secondo qualunque soggetto che in essa si voglia trattare, adattarsi a tutti gli stili; insomma della quasi moltiplicità di lingue contenute o possibili a contenersi nella nostra favella.
Ma da che cosa stimiamo noi che sieno derivate in lei queste qualità? Forse dalla sua primitiva ed ingenita natura ed essenza? Così ordinariamente si dice, ma c'inganniamo di gran lunga.
Le dette qualità, le lingue non [767]le hanno mai per origine nè per natura.
Tutte a presso a poco sono disposte ad acquistarle, e possono non acquistarle mai, e restarsene poverissime e debolissime, e impotentissime, e uniformi, cioè senza nè ricchezza, nè copia, nè varietà.
Tale sarebbe restata la lingua nostra, senza quello ch'io dirò.
Tutte lo sono nei loro principii, e non intendo mica nei loro primissimi nascimenti, ma finattanto che non sono coltivate, e con molto studio ed impegno, e da molti, e assiduamente, e per molto tempo.
Quello che proccura alle lingue le dette facoltà e buone qualità, è principalmente (lasciando l'estensione, il commercio, la mobilità, l'energia, la vivacità, gli avvenimenti, le vicende, la civiltà, le cognizioni, le circostanze politiche, morali, fisiche delle nazioni che le parlano) è, dico, principalmente e più stabilmente e durevolmente che qualunque altra cosa, la copia e la varietà degli scrittori che l'adoprano e coltivano.
(V.
p.1202.) Questa siccome, per ragione della maggior durata, e di altre molte circostanze, fu maggiore nella Grecia che nel Lazio, perciò la lingua greca possedè le dette [768]qualità, in maggior grado che la latina; ma non prima le possedè che fosse coltivata e adoperata da buon numero di scrittori, e sempre (come accade universalmente) in proporzione che il detto numero e la varietà o de' soggetti o degli stili o degl'ingegni degli scrittori, fu maggiore, e s'accrebbe.
La lingua latina similmente non le possedè (sebben meno della greca, pure in alto grado) se non quando ebbe copia e varietà di scrittori.
Tutte le lingue antiche e moderne che hanno mancato di questo mezzo, hanno anche mancato di queste qualità.
Per portare un esempio (oltre le lingue Europee meno colte) la lingua Spagnuola, nobilissima, e di genio al tutto classico, e somigliantissima poi alla nostra particolarmente, sì per lo genio, come per molti altri capi, e sorella nostra non meno di ragione che di fatto, e di nascita che di sembianza, costume, indole, non è inferiore alla nostra nelle dette qualità, se non perchè l'è inferiore principalmente nella copia e varietà degli scrittori.
Se la lingua francese, non ostante la gran quantità degli scrittori, e degli [769]ottimi scrittori, si giudica ed è tuttavolta inferiore alla nostra ed alle antiche per questo verso, ciò è avvenuto per le ragioni particolari che ho più volte accennate.
La riforma di essa lingua, la regolarità prescrittale, la figura datale, avendo uniformato tutti gli stili, la poesia alla prosa; impedita la varietà e moltiplicità della lingua, secondo i vari soggetti e i vari ingegni; tolta la libertà, e la facoltà inventiva agli scrittori, in questo particolare; tolto loro l'ardire, anzi rendutinegli affatto schivi e timidi ec.
ec.
la Francia è venuta a mancare della varietà degli scrittori, non ostante che n'abbia la copia, ed abbia la varietà de' soggetti, perchè tutti i soggetti da tutti gl'ingegni si trattano, possiamo dire, in un solo modo.
E ciò deriva anche dalla natura e forza della eccessiva civiltà di quella nazione, e della influenza della società: così stretta e legata, che tutti gl'individui francesi fanno quasi un solo individuo.
E laddove [770]nelle altre nazioni, si cerca ed è pregio il distinguersi, in quello è pregio e necessità il rassomigliarsi anzi l'uguagliarsi agli altri, e ciascuno a tutti e tutti a ciascuno.
Queste ragioni rendendogli timidi dell'opinione del ridicolo ec.
e scrupolosi osservatori delle norme prescritte e comuni nella vita, li rende anche superstiziosi, timidi, schivi affatto di novità nella lingua.
Ma tutto ciò quanto alle sole forme e modi, perchè questi soli, sono stati fra loro determinati, e prescritti i termini (assai ristretti) dentro i quali convenga contenersi, e fuor de' quali sia interdetto ogni menomo passo.
E così quanto allo stile uniforme si può dire in tutti, e in tutti i generi di scrittura, anche nelle traduzioni ec.
tirate per forza allo stile comune francese, ancorchè dallo stile il più renitente e disperato; e quanto in somma all'unità del loro stile, e del loro linguaggio che ho notata altrove.
Ma non quanto alle parole, nelle quali, restata libera in Francia la facoltà inventiva, e il derivare novellamente dalle proprie fonti, sempre aperte sinchè la lingua vive; la lingua francese cresce di parole ogni giorno e crescerà.
Che se le cavassero sempre dalle proprie fonti, o con quei rispetti che si dovrebbe, non avrei luogo a riprenderli, come ho fatto altrove, e della corruzione e dell'aridità a cui vanno portando la loro lingua.
[771]La quale inoltre, da principio, era, come la nostra, attissima alla novità ed al bell'ardire, anche nei modi, secondo che ho detto altrove.
La lingua tedesca, rimasa per tanti secoli impotente ed umile, ancorchè parlata da tanta e sì estesa moltitudine di popoli, non per altro che per avere avuto nell'ultimo secolo e ne' pochi anni di questo, immensa copia e varietà di scrittori, è sorta a sì alto grado di facoltà e di ricchezza e potenza.
La lingua italiana dunque, scritta per sei secoli fino al 18vo.
inclusivamente, e scritta da una infinità di autori d'ogni soggetto, d'ogni stile, d'ogni carattere, d'ogni ingegno, oltracciò abbondantissima, quanto e più, certo prima di qualunque altra lingua viva, non solo di scrittori comunque, ma scrittori peritissimi nel linguaggio, coltivatori assidui, ed espressamente dedicati allo studio della lingua, maestri e modelli del bel parlare, studiosissimi delle lingue antiche per derivarne nella nostra tutto il buono e l'adattato, liberi, coraggiosi, e felicemente arditi nell'uso della lingua; questa lingua [772]dico, da piccoli anzi vili e rozzi e informi principii, come tutte le altre, e da barbare origini; di più, cresciuta e fatta se non matura certo adulta e vigorosissima fra le tenebre dell'ignoranza, della superstizione, degli errori della barbarie; non per altro che per li detti motivi, e prima e sola fra le viventi, è venuta in tal fiore di bellezza, di forza, di copia, di varietà, ec.
che giunge quasi a pareggiare le due grandi antiche (chi bene ed intimamente e in tutta la sua estensione la conosce), non avendo rivale fra le moderne.
Se dunque abbiamo veduto come le doti delle lingue, e in ispecie la copia e la varietà, non derivano principalmente se non dalla copia e varietà degli scrittori, e non da natura di essa; ne segue che quando gli scrittori lasceranno per trascuraggine o ignoranza, di arricchirla, e peggio se saranno impediti di farlo, la lingua non arricchirà, non crescerà, non monterà più, e siccome le cose umane, non si fermano mai in un punto, ma vanno sempre innanzi o retrocedono, così la lingua non avanzando più, retrocederà, [773]e dopo essere isterilita, impoverirà ancora, perderà quello che avea guadagnato, e finalmente si ridurrà a tal grado di miseria e d'impotenza, che non sarà più sufficiente all'uso e al bisogno, e allora sì che le converrà domandare soccorso alle lingue straniere e imbarbarire del tutto, per quel motivo appunto il quale si credeva doverla preservare dalla corruzione, e mantenerla pura e sana.
Forse che non vediamo già accadere tutto questo? Quante ricchezze delle già guadagnate, e per così dire, incamerate, ha ella perduto quasi e senza quasi del tutto! Ma di questo dirò poi.
Vogliamo noi dunque ridurre la lingua italiana e nelle parole e nei modi, a quella stessa paura, scrupolosità, superstizione, schiavitù, grettezza, uniformità della lingua francese nei soli modi? Almeno i francesi hanno una scusa nella natura della loro nazione, a cui la società è vita, alimento, diletto, e spavento, sanguisuga, tormento, morte.
[774]A noi manca questa scusa, se già non vogliamo infrancesire interamente anche nei costumi, usi, vita, gusti, idee, inclinazioni ec.
e perdere fino alla sembianza, aspetto, forma d'italiani, come abbiamo più che incominciato.
Diranno che la lingua, benchè per lo mezzo, e l'ardire e libertà degli scrittori, è giunta però a quella perfezione, la quale non possa oltrepassare senza guastarsi.
Vi giunse, cred'io, nè più nè meno in quel punto in cui finì di pubblicarsi l'ultimo Vocabolario della Crusca, giacchè in questo o certo nei precedenti, sono riportate moltissime parole coll'autorità di scrittori ancora viventi e scriventi.
Anzi il Buonarroti scrisse la Fiera appostatamente per somministrar parole al Vocabolario.
L'ultimo tomo dunque di questo, e quell'anno, quel mese, quel giorno in cui fu pubblicato chiuse per sempre le fonti della lingua italiana, state aperte da cinque secoli.
Ma lasciando le burle, do e non concedo che la lingua italiana, sia stata già [775]portata dagli scrittori a quella somma perfezione a cui possa pervenire in ordine a tutte le altre qualità, (errore manifestissimo, ma lasciamolo passare).
Nella ricchezza, copia, e varietà nego che veruna lingua del mondo, o attuale o possibile, possa mai essere perfetta finchè non muore.
E ciò nasce che le cose ancora vivono sempre, e si modificano sempre novellamente, e si moltiplicano le conosciute: ora una lingua non è mai perfettamente ricca, anzi perfettamente fornita del necessario, finch'ella non può esprimere perfettamente, e convenientemente tutte le cose, e tutte le possibili modificazioni delle cose di questo mondo.
Sicchè una lingua non avrà più mestieri di accrescimento, allora solo quando o essa o il mondo sarà finito.
Quali effetti produca poi, e quanto sia pericoloso il volere arrestare una lingua, come già perfetta, e lo scoraggirsi di accrescerla, per la persuasione [776]che ciò non sia più necessario, nè lecito e giovevole, nè possibile, si può vedere in quello che ho detto della lingua latina.
E prima di partire da questo soggetto della ricchezza e copia e bontà generale e potenza delle lingue proccurata principalmente dalla copia e varietà ed ingegno degli scrittori, osserverò che quella medesima superiorità di circostanza ch'ebbe la lingua greca sulla latina, e che fu seguita dall'effetto di restarle realmente e sempre superiore nella sostanza, l'abbiamo noi pure sopra tutte le altre lingue viventi, e colte.
Perchè siccome la coltura della lingua greca, e gli scrittori suoi, incominciati assai per tempo, abbracciarono lunghissimo spazio, e il loro numero fu grande in ciascun tempo; e siccome in proporzione di questo spazio e di questo numero, la ricchezza e varietà e potenza della lingua greca, crebbe in modo che non potè mai essere agguagliata dalla latina: così la lingua italiana [777]scritta già come ho detto da sei secoli in qua, e, si può dire, in ciascun secolo, abbondantissima di diversissimi scrittori e cultori, ha su tutte le altre lingue moderne e colte quello stesso vantaggio di circostanza ch'ebbe la greca sulla latina.
Vantaggio che per nessuno ingegno e nessuno sforzo e studio di nessuna nazione ci potrà mai esser levato, se noi non vorremo.
Ma ecco che noi siamo fermati, e la lingua nostra non fa più progressi.
La lingua francese infaticabilmente si accresce di tutte le parole che le occorrono.
La lingua tedesca avanza e precipita come un torrente, e guadagna tuttogiorno vastissimi spazi, in ogni genere di accrescimento.
Noi da qualche tempo arrestati, neghittosi, ed immobili, manchiamo del bisognevole per esprimere e per trattare la massima parte delle cognizioni e delle discipline e dottrine moderne, ed usi e opinioni ec.
ec.
oggi più rapide nel crescere e propagarsi, e variare ec.
di quello che mai [778]fossero, e in proporzione che la nostra indolenza e infingardaggine presente, è opposta alla energia ed attività passata.
Così la lingua italiana perde il vantaggio dello spazio che avea guadagnato per valore de' suoi antichi e primi padri, sopra le altre lingue, e queste correndo più velocemente che mai, fra tanto che la nostra siede e dorme, riguadagneranno tutto lo spazio perduto per la inerzia de' loro antichi, arriveranno ben presto la nostra e la passeranno.
E la nostra non solo non sarà più nè superiore nè uguale alle altre colte moderne, ma tanto inferiore, che divenuta impotente, e buona solo a parlare o scrivere ai bisavoli; o non saprà esprimer niente del bisognevole, nè parlare e scrivere in nessun modo ai contemporanei; o lo farà (come già lo fa per quel poco che parla e scrive delle cose e cognizioni moderne, o per quello che ne dice non del suo, ma copiando o seguendo gli stranieri) invocando l'altrui soccorso, servendosi degl'istrumenti e mezzi altrui, e quasi trasformandosi [779]in un'altra, o vogliamo dire, facendosi provincia e suddita di un regno straniero (come i piccoli e deboli confederati de' grandi e potenti) essa ch'era capo di tutte le lingue viventi.
Laddove siccome le altre lingue (come anche le altre letterature, e repubbliche scientifiche) raddoppiano l'energia e la veemenza e gagliardia del loro corso, così che in breve riguadagneranno lo spazio perduto da' loro maggiori in confronto nostro, e, se noi non ci moviamo, ci pareggeranno finalmente ben presto, e poi ci passeranno (che in quanto a moltissimi rami del sapere è già accaduto): così conviene che ancor noi pareggiamo i nostri ai loro sforzi, e così non perdendo il vantaggio acquistato, restiamo perpetuamente superiori a tutti, se non nel presente valore, certo pel detto vantaggio acquistato dagli avi, e mantenuto da noi.
Conchiuderò con una osservazione che benchè fatta, io credo, da altri, tuttavia merita di essere ripetuta, perchè sia sempre più [780]considerata e sempre meglio svolta.
Non solamente i bisogni della lingua aumentano e si rinnuovano tuttogiorno, ma i mezzi della lingua, senza la novità delle parole, tuttogiorno diminuiscono.
Quante voci e modi e frasi che una volta erano e usitatissime, e naturalissime, e chiarissime, e comunissime, ed utilissime efficacissime espressivissime frequentissime nel discorso, ora per essere antiquate, o non son chiare, o anche potendosi intendere, anche essendo chiarissime, non si debbono nè possono usare perchè non riescono e non cadono naturalmente, e manifestano e sentono quello che sopra ogni cosa si deve occultare, lo studio e la fatica dello scrittore.
Questo accade in ogni lingua; tutte si vanno rinnovando, cioè dismettendo delle vecchie, e adottando delle nuove voci e locuzioni.
Se questa seconda parte viene a mancare, la lingua non solamente col tempo non crescerà nè acquisterà, come hanno sempre fatto tutte le lingue colte o non colte, e come si è sempre inculcato a tutte le lingue [781]colte, ma per lo contrario perderà continuamente, e scemerà, e finalmente si ridurrà così piccola e povera e debole, che o non saprà più parlare nè bastare ai bisogni, o ricorrerà alle straniere; ed eccoti per un altro verso che quello stesso preteso preservativo contro la barbarie, cioè la intolleranza della giudiziosa novità, la condurrebbe alla barbarie a dirittura.
E per parlare particolarmente della lingua italiana non vediamo noi negli effetti 1.
quanto le lingue sieno soggette a perdere delle ricchezze loro: 2.
come perdendo da una parte e non guadagnando dall'altra, la lingua non più per vezzo (che oramai il vezzo del francesismo è fuggito, anzi temutone da tutti gli scrittori italiani il biasimo e il ridicolo) ma per decisa povertà e necessità imbarbarisca? Prendiamoci il piacere di leggere a caso un foglio qualunque del Vocabolario e notiamo tutte quelle parole e frasi ec.
che sono uscite fuor d'uso, e che non si potrebbero usare, o non senza difficoltà.
Io credo che nè meno due terzi del vocabolario [782]sieno più adoperabili effettivamente nè servibili in nessuna occasione, nè merce mai più realizzabile.
Queste perdute, infinite altre che sebbene dimenticate e fuor d'uso, sono però ricchezza viva e realissima (come spesso necessarissima) perchè chiare a chiunque, e ricevute facilmente e naturalmente dal discorso e dagli orecchi di chi si voglia, ma tuttavia sono abbandonate e dismesse per ignoranza della lingua (la quale in chi maggiore in chi minore, in quasi tutti si trova, perchè il pieno possesso dell'immenso tesoro della lingua non appartiene oggi a nessuno neanche de' più stimati per questo); finalmente la mancanza delle voci nuove adatte e necessarie alla novità delle cose, costringono gli scrittori d'oggidì a ricorrere alla barbarie, trovando la lingua loro del tutto insufficiente ai loro concetti, benchè sempre poverissimi, triti, ordinari, triviali, ristrettissimi, scarsissimi; e benchè spesso anzi per lo più vecchissimi e canuti.
Conchiudo che la giudiziosa novità, (e massime tutta quella che si può derivare dalle nostre stesse fonti) l'arruolare al nostro esercito [783]nuove truppe, l'accrescere la nostra città di nuove cittadinanze, in luogo che pregiudichi per natura sua, e quando si faccia nei debiti modi, alla purità della lingua, è anzi l'unico mezzo sufficiente di difesa, di far testa, di resistere alla irruzione della barbarie, la quale sovrasta inevitabilmente a tutte le lingue che mentre il mondo, e le cose, e gli uomini, e i suoi stessi parlatori camminano, e avanzano, o certo si muovono; non vogliono più, o sono impedite di più camminare nè progredire, nè muoversi in verun lato o modo: e vogliono, o son forzate a volere (inutilmente) quella stabilità, che non ebbero mai nè avranno gli uomini e le cose umane, al cui servigio elle son destinate, e al cui seguito le costringe in ogni modo la natura.
Conchiudo che impedire alle lingue la giudiziosa e conveniente novità, non è preservarle, ma tutt'uno col guidarle per mano, e condannarle, e strascinarle forzatamente alla barbarie.
(8-14.
Marzo 1821.)
[784]Da torvo parola italianissima e di Crusca, il Caro nell'Eneide (l.2.
dove parla del simulacro di Pallade) fece torvamente, parola che non si trova nel Vocabolario.
Ci può esser voce più chiara, più naturale, e ad un tempo più italiana di questa? Ma perchè non istà scritta nella Crusca, e perchè a quegli Accademici non piacque di porre la famosissima Eneide del Caro fra i testi, avendoci messo tanti libracci, però quella voce non si potrà usare? Questo lo dico per un esempio, ?? ?? ????.
Del resto questo è un derivato senza ardire nessuno, e sebbene anche di questa specie se ne danno infiniti, e così anche giovano moltissimo alla lingua, sì per la moltitudine, sì anche individualmente; nondimeno sono forse di maggior utile i derivati, o usi nuovi di parole o modi già correnti, fatti con un certo ardire.
Ma ho portato questo esempio per dimostrare come si possano far nuovi derivati dalle nostre proprie radici, che sebbene nuovi, abbiano lo stessissimo aspetto delle parole vecchie e usitate, sì per la chiarezza che per la naturalezza, per la forma, suono ec.
e quindi sieno tanto italiane quanto la stessa Italia.
Del qual genere se ne danno, come ho detto, infiniti a ogni passo.
(15.
Marzo 1821.)
[785]Tutto quello che ho detto della derivazione di nuove parole o modi ec.
dalle proprie radici, o dei nuovi usi delle parole o modi già correnti, lo voglio estendere anche alle nuove radici, non già straniere, non già prese dalle lingue madri, ma italiane, e non già d'invenzione dello scrittore, ma venute in uso nel linguaggio della nazione, o anche nelle scritture anche più rozze ed impure, purchè quelle tali radici abbiano le condizioni dette di sopra in ordine ai nuovi derivati ec.
E queste nuove radici possono esser nuove in due sensi, o nuove nella scrittura, ma antiche nell'uso quotidiano; o nuove ancora in questo.
V.
p.800.
fine.
Qui non voglio entrare nelle antichissime quistioni, qual popolo d'Italia, qual classe ec.
abbia diritto di somministrar nuovi incrementi alla lingua degli scrittori.
Osserverò solamente 1.
quel luogo di Senofonte circa la lingua attica che ho citato p.741.
in marg.
notando che la Grecia si trovava appunto nella circostanza dell'Italia per la varietà dei dialetti, e che quello che prevalse [786]fu quello che tutti gli abbracciò (come dice quivi Senofonte) cioè l'attico, come quello che fra noi si chiama propriamente italiano.
Giacchè c'è gran differenza tra quell'attico usitato da' buoni scrittori greci, divulgato per tutto, quello di cui parla Senofonte ec.
ec.
e l'attico proprio.
Nello stesso modo fra il toscano proprio, e il toscano sinonimo d'italiano.
V.
p.961.
capoverso 1.
2.
Che senza entrare in discussioni è ben facile il distinguere (almeno agli uomini giudiziosi, perchè già senza buon giudizio non si scriverà mai bene per nessun verso) se una parola usitata in questa o quella parte d'Italia, non però ammessa ancora o nelle scritture o nel vocabolario, ec.
abbia le dette condizioni, cioè sia chiara, facile, inaffettata, di sapore di suono di forma italiana.
(Giacchè di origine italiana, è sempre ch'ella è usata in Italia da molti, purchè non sia manifestamente straniera, e questo di recente venuta; mentre infinite sono le antiche parole straniere domiciliate, e fatte cittadine della nostra lingua.) In questo caso qualunque sia la parte d'Italia che la usa, una voce, una frase qualsivoglia sarà sempre [787]italiana, e salva quanto alla purità, restando che per usarla nelle scritture si considerino le altre qualità necessarie oltre la purità ad una voce o frase per essere ammessa nelle scritture, e in questo o quel genere di scrittura, in questa o quella occasione ec.
3.
Che tutte le lingue crescono in questo modo, cioè coll'accogliere, e porre nel loro tesoro le nuove voci create dall'uso della nazione; e che come quest'uso è sempre fecondo, così le porte della scrittura e della cittadinanza, sono sempre aperte, per diritto naturale, a' suoi novelli parti, in tutte le lingue, fuorchè nella nostra, secondo i pedanti.
E questa è una delle massime, e più naturali e legittime e ragionevoli fonti, della novità, e degl'incrementi necessari della favella.
Perchè cogl'incrementi delle cognizioni, e col successivo variar degli usi, opinioni, idee, circostanze intrinseche o estrinseche ec.
ec.
crescono le parole e il tesoro della lingua nell'uso quotidiano, e da quest'uso debbono passare nella scrittura, se questa ha da parlare ai contemporanei, e da contemporanea, e delle cose del tempo ec.
Così cresce ogni momento di parole proprissime e francesissime [788]la lingua francese, mediante quel fervore e quella continua vita di società e di conversazione, che non lascia esser cosa bisognosa di nome, senza nominarla; massime se appartiene all'uso del viver civile, o alle comuni cognizioni della parte colta della nazione: e per l'altra parte mediante quella debita e necessaria libertà, che non fa loro riguardare come illecita una parola in ogni altro riguardo buona, e francese, ed utile, e necessaria, per questo solo che non è registrata nel vocabolario, o non anche adoperata sia nelle scritture in genere, sia nelle riputate e classiche.
4.
Ripeterò quello che ho detto della necessità di ammettere la giudiziosa novità a fine appunto di impedire che la lingua non diventi barbara.
Perchè la novità delle cose necessitando la novità delle parole, quegli che non avrà parole proprie e riconosciute dalla sua lingua, per esprimerle; forzato dall'imperioso bisogno ricorrerà alle straniere, e appoco appoco si romperà ogni riguardo, e trascurata la purità della lingua, si cadrà del tutto nella barbarie.
[789]Il che si può vedere, oltre l'esempio nostro, per quello della lingua latina, perchè questa parimente, dopo Cicerone, mancata, o per trascuraggine e ignoranza, come ho detto altrove, e per non trovarsi nè così perfetti possessori, e assoluti padroni della lingua, nè così industriosi, oculati, giudiziosi, solerti, artifiziosi coltivatori del di lei fondo, e negoziatori della sua merce e capitali, come Cicerone; o per timidità, scoraggimento, falsa e dannosa opinione che la ricchezza della lingua fosse già perfetta, o ch'ella in quanto a se non fosse più da crescere nè da muovere, nè da toccare; o per superstizione di pedanti che sbandissero le nuove voci tratte dall'uso, o dalle radici della lingua, come mancanti di autorità competente di scrittori (il che veramente accadeva, come si vede in Gellio); o anche per falsa opinione che le radici o l'uso, o insomma il capitale proprio della lingua non avessero effettivamente più nulla da dare, che facesse al caso, o convenisse alle scritture ec.
ec.: mancata dico per tutte queste ragioni alla lingua latina la debita libertà, e la [790]giudiziosa novità, ebbe ricorso, per bisogno, allo straniero, e degenerò in barbaro grecismo.
E come, per fuggir questo male, è necessario dar giusta e ragionata (non precipitata, e illegittima, e ingiudicata e anarchica) cittadinanza anche alle parole straniere, se sono necessarie, molto più bisogna e ricercare con ogni diligenza, e trovate accogliere con buon viso, e ricevere nel tesoro della buona e scrivibile e legittima favella, sì i derivati delle buone e già riconosciute radici, sì le radici che non essendo ancora riconosciute, vanno così vagando per l'uso della nazione, senza studio nè osservazione, di chi le fermi, le cerchi, le chiami, le inviti, e le introduca a far parte delle voci o modi riconosciuti, e a partecipare degli onori dovuti ai cittadini della buona lingua.
5.
In ultimo osserverò che non si hanno da avere per forestiere quelle voci o frasi, che benchè tali di origine hanno acquistato già stabile e comune domicilio nell'uso quotidiano, e molto più se nelle scritture di vaglia.
Queste voci o frasi sono [791]come naturalizzate, e debbono partecipare ai diritti e alle considerazioni delle sopraddette.
Altrimenti siamo da capo, perchè una grandissima parte delle nuove voci e frasi di cui s'accresce l'uso quotidiano, vengono dallo straniero.
E tutte le lingue ancorchè ottime, ancorchè conservate nella loro purità, ancorchè ricchissime, si accrescono col commercio degli stranieri, e per conseguenza con una moderata partecipazione delle loro lingue.
Le cognizioni, le cose di qualunque genere che ci vengono dall'estero, e accrescono il numero degli oggetti che cadono nel discorso, o scritto o no, e quindi i bisogni della denominazione e della favella, portano naturalmente con se, i nomi che hanno presso quella nazione da cui vengono, e da cui le riceviamo.
Come elle son nuove, così nella lingua nostra, non si trova bene spesso come esprimerle appositamente e adequatamente in nessun modo.
L'inventar di pianta nuove radici nella nostra lingua, è impossibile all'individuo, e difficilissimamente e rarissimamente accade nella nazione, come si può facilmente osservare: [792]e questo in tutte le lingue, perchè ogni nuova parola deve aver qualche immediata e precisa ragione per venire in uso, e per esser tale e non altra, e per esser subito e generalmente e facilmente intesa e applicata a quel tale oggetto, e ricevuta in quella tal significazione; il che non può avvenire mediante il capriccio di un'invenzione arbitraria.
Di più, c'è forse lingua che ne' suoi principii e di mano in mano non sia stata composta di voci straniere e d'altre lingue? Quante ne ha la lingua nostra prese dal francese, dallo spagnuolo, dalle lingue settentrionali, e tuttavia riconosciute, e necessariamente, e legittimamente divenute da gran tempo italiane? Come in fatti si formerebbe una lingua senza ciò? colla sola invenzione a capriccio, o mediante un trattato, un accordo fatto espressamente, e individuo per individuo, da tutta la nazione? Perchè dunque quello ch'era lecito anzi necessario ne' principii e dopo, non sarà lecito ora nel caso della stessa necessità relativamente a questa o quella parola? Così fa tuttogiorno la lingua francese, così [793]hanno fatto e fanno necessariamente e per natura tutte le lingue antiche e moderne.
E sebbene la lingua greca fosse così schiva d'ogni foresteria, anche per carattere nazionale, come si è veduto dall'aver essa mantenuta la sua purità forse più lungo tempo di tutte le altre, e anche in mezzo alla corruzione totale della sua letteratura, ec.
e alla schiavitù straniera della nazione, al commercio ai viaggi antichi e moderni, alla dimora di tanti suoi nazionali in Roma ec.
ec.
(come Plutarco) nondimeno la lingua attica, riconosciuta più universalmente di qualunque altra dagli scrittori per lingua propriamente greca, e fra le greche elegantissima, bellissima e purissima, attesta Senofonte nel luogo citato da me p.741.
ch'era un misto non solo di ogni sorta di voci greche, ma anche prese da ogni sorta di barbari, mediante il commercio marittimo degli Ateniesi, e la cognizione ed uso di oggetti stranieri, che questo commercio proccurava loro, come dice pure Senofonte.
Che se la necessità, naturale come ho [794]detto, e comune a tutte le lingue, porta a ricevere per buone anche le voci straniere, entrate recentemente nell'uso quotidiano, o non ancora entratevi nemmeno (purchè siano intelligibili), tanto più quelle che colla molta dimora fra noi, si sono familiarizzate e domesticate co' nostri orecchi, ed hanno quasi perduto l'abito, e il portamento, e la sembianza, e il costume straniero, o certo l'opinione di straniere.
Anzi queste pure vanno cercate sollecitamente, ed accolte, e preferite, per sostituirle, quanto sia possibile alle intieramente estranee.
Giacchè ripeto che con ogni cura bisogna arricchir la lingua del bisognevole, e farlo con buon giudizio, ed esplorate le circostanze e la necessità ec.
ec.
acciocchè non sia fatto senza giudizio, e senza previo esame, ma alla ventura e illegittimamente; perocchè quella lingua che non si accresce, mentre i soggetti della lingua moltiplicano, cade inevitabilmente, e a corto andare nella barbarie.
Per aver poco bisogno [795]di voci straniere, è necessario che una nazione, non solo abbia coltivatori di ogni sorta di cognizioni e nel tempo stesso diligenti, studiosi e coltivatori della lingua, ed in se stessa una vita piena di varietà, di azione, di movimento ec.
ec.
ma ancora ch'ella sia l'inventrice o di tutte o di quasi tutte le cognizioni, e di tutti gli oggetti della vita che cadono nella lingua, e non solo pura inventrice, ma anche perfezionatrice, perchè dove le discipline, e le cose s'inventano, si formano, si perfezionano, quivi se ne creano i vocaboli, e questi con quelle discipline e con quegli oggetti, passano agli stranieri.
Così appunto è avvenuto alla Grecia, e però appunto la sua lingua si fe' così ricca, e potè mantenersi così pura, a differenza della latina.
Perchè la greca abbisognava di poco dagli stranieri, da' quali poche notizie e nessuna disciplina (si può dire) ricevea (eccetto negli antichissimi tempi, cioè intanto che la lingua diveniva tale): la latina viceversa.
All'Italia da principio veniva ad accader quasi lo stesso, essendo ella inventrice di tutte quasi le discipline che si conobbero in quei tempi, [796]abbondandone nel suo seno i coltivatori, e questi diligenti, studiosi e padroni della lingua; ed avendo anche molta vita e varietà e riputazione al di fuori, e spirito patriotico, sebben disunito, pure e forse anche più valevole, a fornirla di molti oggetti di lingua.
Ma essendosi fermata nel momento che le discipline e sono cresciute di numero, e tutte portate a un perfezionamento rapidissimo, e vastissimo; non essendo intervenuta per nessuna parte ai travagli immensi di questi ultimi secoli, tanto nel perfezionamento delle cognizioni, quanto nel resto; di più avendo nello stesso tempo per diverse cagioni, trascurata affatto la sua lingua, in maniera che anche quegli italiani scrittori che hanno cooperato alquanto (e ben poco, e pochi) col resto dell'Europa, al progresso ultimo delle cognizioni, non hanno niente accresciuta la lingua del suo, avendo scritto non italiano, ma barbaro, ed avendo adottate di pianta le rispettive nomenclature o linguaggi che aveano trovate presso gli stranieri nello stesso genere, o in generi simili al loro (se per avventura essi ne fossero stati gl'inventori): è doloroso, ma necessario il dire, che s'ella d'ora innanzi non vuol esser la sola parte d'Europa meramente ascoltatrice, o ignorare affatto le nuove universalissime cognizioni, s'ella vuol parlare a' contemporanei, e di cose adattate al tempo, come tutti i buoni scrittori han fatto, e come bisogna pur fare in ogni modo; le conviene ricevere [797]nella cittadinanza della lingua (bisogna pur dirlo) non poche, anzi buona quantità di parole affatto straniere.
Si consoli però che tutte le nazioni, quando più quando meno hanno avuto il medesimo bisogno, quale in un tempo, quale in un altro; l'ha avuto anche la sua antica lingua, cioè la latina; l'abbiamo avuto noi stessi nei principii della nostra lingua (e se ora ci bisogna ritornare a quella necessità che si prova nei principii, nostra colpa): e non creda di diventar barbara, se saprà far quello ch'io dico con retto e maturo e accurato e posato giudizio.
Anzi si dia fretta a introdurre e scegliere queste medesime voci straniere se non vuole che la lingua imbarbarisca del tutto, e senza rimedio.
Perchè l'unica via di arrestare i progressi della corruttela è questa.
Proclamare lo studio profondo e vasto della lingua, e nel tempo stesso la libertà che ciascun scrittore impadronitosi bene della lingua e conosciutone a fondo l'indole e le risorse, usi il suo giudizio nell'introdurre, e impiegare e spendere la novità necessaria, anche straniera.
Finchè uno scrittore qualunque (che non sia da bisavoli) [798]sarà privo di questa libertà, sarà stimato impuro se vorrà usare la necessaria novità si vedrà costretto a scegliere fra quella che si chiama e se le presenta e prescrive come purità di lingua, e tra la facoltà di trattare il suo soggetto e di esprimere i suoi pensieri (originali e propri, o no, ma solamente moderni): disperando di una purità nella quale sia non solamente difficile, (come sempre sarà ed in ogni caso) ma del tutto impossibile di esprimere i suoi pensieri, la trascurerà affatto, e diverrà (malgrado ancora la buona intenzione) colpevole per la forza del bisogno, ricorrendo a quella barbarie la quale sola gli fornirà il modo di farsi intendere e di scrivere.
Ovvero al più seguirà quella miserabile separazione fra gli scrittori vuotissimi e nulli ma puri, e fra gli scrittori di cose ma barbari; quando nessun de' due può mai sperare l'immortalità, ma molto meno i primi, senza riunire le due qualità e i due pregi che consistono nelle parole e nelle cose.
Disordini però tutti già tanto inoltrati in Italia, e bisognosi di sì lunga opera, e di tanto ingegno e [799]giudizio, e di tanta difficoltà a ripararli, che io con dolore predico che non se ne verrà certo a capo in questa generazione, e chi sa quando.
(Giacchè per rimetter davvero in piedi la lingua italiana, bisognerebbe prima in somma rimettere in piedi l'Italia, e gl'italiani, e rifare le teste e gl'ingegni loro, come lo stesso bisognerebbe per la letteratura, e per tutti gli altri pregi e parti di una buona e brava e valorosa nazione; che con questi ingegni, con queste razze di giudizi e di critica, faremo altro che ristaurare la lingua.) Perchè se si presume di averlo conseguito collo sbandire e interdire e precludere affatto la novità delle cose e del pensiero, lasciando stare che in fatti non si è conseguito un fico, perchè eccetto pochissimi i più puri e vuoti scrivono barbarissimamente, dico, non ostante l'amore ch'io porto a questa purità, e lo stimarla necessarissima, che il rimedio è peggio del male.
Vero è che da gran tempo gli scrittori italiani puri ed impuri si sono egualmente dispensati dal pensare, e anche dal [800]dire, talmente che se alcuno de' nostri scritti ci fosse pericolo che potesse passare di là da' monti o dal mare, gli stranieri si maraviglierebbero sodamente come, in questo secolo, in una nazione posta nel mezzo d'Europa si possa scrivere in modo, che l'aver letto, si può dire, qualunque de' libri italiani che ora vengono in luce, sia lo stesso nè più nè meno che non aver letto nulla.
Del resto il punto sta che la novità ch'io dico (e parlo in particolare della straniera) si sappia convenevolmente introdurre.
Perchè tutte le lingue antiche e moderne sono composte di elementi stranieri, e pur tutte hanno avuto il tempo della loro purità e naturalezza; e potrà riaverlo anche l'italiana, non ostante l'aggiunta de' molti nuovi e necessari elementi stranieri, purchè si sappia fare, e non si trascuri, anzi si coltivi profondamente, e sempre più il proprio terreno.
(16.
Marzo 1820.)
Alla p.785.
Oltre di queste due sorte di novità ce ne sono altre simili delle quali intendo pur di parlare.
Cioè una voce italianissima e di buona lega può esser nuova per questo [801]solo, che non si trova nel vocabolario trovandosi ne' testi; o non trovarsi nè in questi nè in quello, ma bensì ne' buoni libri di lingua non citati (che sono infiniti, massime de' buoni tempi ed hanno in diritto la stessissima autorità che i citati) o finalmente trovarsi solo nelle scritture mediocri o pessime in lingua, ma pure aver tutte le condizioni richieste per esser legittima.
E di queste parole o frasi ce ne ha moltissime.
Massimamente poi se si trovino nelle scritture non buone de' buoni tempi, dove a ogni modo la natura e l'indole vera e prima della lingua italiana la conosceva e la sentiva ciascun italiano molto meglio che oggidì, e l'Italia aveva la mente e le orecchie molto meno inclinate e meno avvezze alle parole ai modi al genio straniero delle lingue.
(16.
Marzo 1821.)
Alla p.745.
Difficilmente si vedrà che una qualunque nazione una qualunque letteratura abbia avuto in due diversi tempi (eccetto se il tempo e la nazione è del tutto rinnuovata, come l'italiana rispetto alla latina) due scrittori eccellenti e sommi in [802]uno stesso genere.
Da che quel genere ne ha avuto uno perfetto, e riguardato come perpetuo modello, sebbene quel genere possa avere diverse specie, gl'ingegni grandi e superiori, o sdegnando di non poter essere se non uguali a quello, e di dovere avere un compagno, o per la naturale modestia e diffidenza di chi conosce bene e sente la difficoltà delle imprese, temendo di restare inferiori in un assunto, di cui già è manifesta, sperimentata, conseguita, la perfezione, e posta negli occhi di tutti e nei propri loro; si sono sempre rivolti ad altro, e solamente i piccoli ingegni de' quali è propria la confidenza e temerità sono entrati nell'arringo, spronati dalle lodi di quell'eccellente, e dalla gola di quella celebrità, quasi fosse facile a conseguire, e misurando l'impresa non da se stessa e dalla sua difficoltà, ma dal loro desiderio di riuscirci, e dal premio che era proposto al buon successo.
Un'altra ragione, e fortissima è, che quando il genere ha già avuto uno sommo, il genere non è più nuovo; non vi si può più essere originale, senza che, è impossibile esser sommo.
O se vi si potrebbe pur essere originale, v'è quella eterna difficoltà, che anche gl'ingegni sommi, vedendo una strada già fatta, in un modo o in un altro s'imbattono in quella; o confondono il genere con quella tale strada, quasi fosse l'unica a convenirgli, benchè mille ve ne siano da poter fare, e forse migliori assai.
La stessa Grecia in tanta copia di scrittori e poeti d'ogni genere, [803]e di buoni secoli letterati dopo Omero, e, quel ch'è forse più, in tanta distanza da lui, non ebbe mai più nessun epico, se non dappoco, come Apollonio Rodio.
E lo stesso Omero (se è vero che l'Odissea è posteriore all'Iliade, come dice Longino) non aggiunse niente alla sua fama pubblicando l'Odissea.
Sebbene, chiunque si fosse quest'Omero, io congetturo e credo che l'Iliade e l'Odissea non sieno di uno stesso autore, ma questa imitata dallo stile, dalla lingua, dal fare, e dall'Argomento di quella, con quel languore, e sovente noia che ognuno può vedere.
La qual congettura io rimetto a quei critici che sono profondamente versati nelle antichità omeriche, e di quei tempi antichissimi, e conoscono intimamente i due poemi: purchè oltre a questo, siano anche persone di buon gusto e giudizio.
Taccio de' latini e degl'infelici loro tentativi di Epopea dopo Virgilio, così prestante ed eminente in essa fra loro, come Cicerone nell'eloquenza.
Sebbene il Tasso non si può veramente nel [804]suo genere dire perfetto, neppur sommo come Omero (che sommo fu egli, ma non il suo poema, nè egli quivi), contuttociò l'Italia dopo lui non ebbe poema epico degno di memoria, sebbene molti o piccoli o mediocri ingegni, tentassero la stessa carriera.
Anzi quantunque vi sia tanta differenza fra il genere del poema dell'Ariosto e quello del Tasso, pure sembrò strano ch'egli si accingesse a quel travaglio dopo l'Ariosto, e pubblicata la Gerusalemme, i suoi nemici non mancarono di paragonarla all'Orlando, di posporla, di accusare il Tasso di temerità ec.
Dopo Molière la Francia non ha avuto grandi comici, nè l'Italia dopo Goldoni.
Tutto questo, sebbene apparisca forse principalmente nella letteratura, tuttavia si può applicare a molti altri rami del sapere, o di altri pregi umani.
Si possono però citare in contrario il Racine dopo il Corneille, e il Voltaire dopo lui, e qualche tragico inglese dopo Shakespeare, ma nessuno però di quella eccellenza e fama.
La quale per cadere nel mio discorso, dev'essere assolutamente prestante, sorpassante e somma sì nel modello, come nel successore o successori.
(17.
Marzo 1821.).
V.
p.810.
capoverso 1.
[805]Alla p.762.
Per poco che si osservi facilmente si scuopre che tutte le lingue colte, da principio hanno avuto e adoperato estesamente la facoltà dei composti, come poi tutte, cred'io, (eccetto la greca che la conservò fino alla fine) l'hanno quale in maggiore quale in minor parte perduta.
Tutte però hanno conservato o tutti, o maggiore o minor parte dei loro primi composti, divenuti bene spesso così familiari, che han preso come apparenza e opinione di radici, e forse così hanno servito di materia essi stessi a nuove composizioni.
La lingua Spagnuola ha composti, e derivati da' composti (come pure le altre lingue, chè anche questi derivati sono un bellissimo e fecondissimo genere di parole): ed alcuni bellissimi e utilissimi e felicissimi altrettanto che arditi, come tamaño, demàs, e da questo ademàs, demasìa, demasiado, demasiadamente, sinrazon, sinjusticia, sinsabor, pordiosear cioè limosinare, e pordioseria mendicità, ec.
che sono di grande uso e servigio.
Tutte le lingue colte hanno ancora avuto delle particelle destinate espressamente alla composizione e che non si trovano fuor de' composti.
Così la greca, così la latina, così la francese, la spagnuola (des ec.
ec.), l'inglese [806](mis ec.
ec.) ec.
Ed è tanta la necessità de' composti che senza questi nessuna lingua sarebbe mai pervenuta a quello che si chiama o ricchezza, o coltura, o anche semplice potenza di discorrere di molte cose, o di alcune cose particolarmente e specificatamente.
Perchè le radici converrebbe che fossero infinite per esprimere e tutte le cose occorrenti, e tutte le piccole gradazioni, e differenze e nuances e accidenti di una cosa, per ciascuna delle quali gradazioncelle si richiederebbe una diversa radice, altrimenti il discorso non sarà mai nè espressivo nè proprio, e neanche chiaro, anzi per lo più equivoco, improprio, dubbio, oscuro, generico, indeterminato.
Così appunto avviene alla lingua ebraica (la quale non par che si possa mettere fra le colte) perchè con bastanti radici e derivati, è priva di composti: o quasi priva: non avendo che fare i suoi suffissi ed affissi colla composizione, ma essendo come casi o inflessioni o accidenti o affezioni (????) de' nomi e de' verbi, o segnacasi ec.
e non variando punto il significato essenziale, nè la sostanza della parola; come presso noi batterlo, uccidermi, dargli, andarvi, uscirne ec.
che non si chiamano, nè sono composti nel nostro senso.
Dal che segue ch'ella ed è soggetta alle dette difficoltà, e disordini; e resta poverissima; ed io dico che tale ci parrebbe eziandio quando anche in quella lingua esistessero altri libri, oltre la Bibbia, se però questi libri mancassero parimente de' composti.
Ci vorrebbero, ho detto, infinite radici.
Ora [807]una più che tanta moltitudine di radici, è difficilissima per natura, giacchè un composto, subito s'intende, ma perchè una radice, sia subito e comunissimamente intesa (com'è necessario), e passi nell'uso universale, ci vuol ben altro.
Perciò la invenzione delle radici in qualunque società d'uomini parlanti, o primitiva o no, è sempre naturalmente scarsa, e povera quella lingua che non può esprimersi senza radici, perch'ella non si esprimerà mai se non indefinitamente, ed ogni parola (come accade nell'Ebraico) avrà una quantità di significati.
V.
se vuoi, Soave, append.
al Capo 1.
Lib.3.
del Compendio di Locke, Venezia 37a ediz.
1794.
t.2.
p.12.
fine-13.
e Scelta di opusc.
interess.
Milano 1775.
volume 4.
p.54.
e questi pensieri p.1070.
capoverso ult.
E se, volete vedere facilmente, perchè una lingua appena è cominciata a divenire un poco colta, e ad aver bisogno di esprimere molte cose, e queste specificatamente e chiaramente e distintamente e le loro differenze ec.
perchè, dico, abbia subito avuto ricorso e trovati i composti, osservate.
Che sarebbe l'aritmetica se ogni numero si dovesse significare con cifra diversa, e non colla diversa composizione di pochi elementi? Che sarebbe la scrittura se ogni parola dovesse esprimersi colla sua cifra o figura particolare, come dicono della scrittura Cinese? La stessa [808]facilità e semplicità di metodo, e nel tempo stesso fecondità anzi infinità di risultati e combinazioni, che deriva dall'uso degli elementi nella scrittura e nell'aritmetica, anzi in tutte le operazioni della vita umana, anzi pure della natura (giacchè, secondo i chimici tutto il mondo e tutti i diversissimi corpi si compongono di un certo tal numero di elementi diversamente combinati, e noi medesimi siamo così composti e fatti anche nell'ordine morale come ho dimostrato in molti pensieri sulla semplicità del sistema dell'uomo); deriva anche dall'uso degli elementi nella lingua.
Al che si ponga mente per giudicarne quanto sia necessario anche oggidì ritenere più che si possa, e nella nostra e in qualunque lingua, la facoltà de' nuovi composti, atteso l'immenso numero delle nuove cose bisognose di denominazione (massime nella lingua nostra); numero che ogni giorno necessariamente e naturalmente si accresce: e d'altra parte l'impossibilità della troppa moltiplicità delle radici, sì al fatto, o all'invenzione, sì all'uso, intelligenza, e diffusione, sì anche alle facoltà della memoria e dell'intelletto umano, ed alla chiarezza delle idee che debbono risultare dalla parola, chiarezza quasi incompatibile colle nuove radici (v.
p.951.), e compatibilissima coi nuovi composti; oltre alla mancanza di gusto che deriva dalle nuove radici, le quali sono sempre termini, come ho spiegato altrove: non così i composti derivati dalla propria lingua.
Lo dico senza dubitare.
La lingua più ricca sarà sempre quella che avrà conservata [809]più lungamente, e più largamente adoperata la facoltà dei composti, e oggidì quella che la conserverà maggiore, e maggiormente l'adoprerà.
L'esempio della lingua greca, ricchissima fra quante furono sono e saranno, anzi sempre e anche oggi inesauribile, conferma abbondantemente col fatto questa mia sentenza, già sì evidente in ragione.
E d'altra parte la mia teoria serve a spiegare il secreto e il fenomeno di una tal lingua sempre uguale alla copia qualunque delle cose.
Se dunque vogliamo che una lingua sia veramente onnipotente quanto alle parole, conserviamole o rendiamole, e se è possibile, accresciamole la facoltà de' nuovi composti e derivati, cioè l'uso degli elementi ch'essa ha, e il modo, la facoltà di combinarli quanto più diversamente, e moltiplicemente si possa.
Questo, e non la moltiplicità degli elementi forma la vera e sostanziale ricchezza copia e onnipotenza delle lingue (quanto alle parole) come la forma di tutte le altre cose umane e naturali.
Generalizziamo un [810]poco le nostre idee, e facilmente ci persuaderemo di questo ch'io dico, e come, per natura universale delle cose umane, la detta facoltà sia non solo la principale e fondamentale, ma necessaria e indispensabile sorgente della ricchezza copia e potenza di qualunque lingua, e della proprietà, definitezza, e chiarezza dell'espressione: dico quanto alle parole.
(18.
Marzo 1821.)
Alla p.804.
Bisogna osservare che quanto agli autori drammatici la cosa va diversamente, sì perchè infinite e diversissime sono le circostanze che decidono de' successi del teatro, massime in certe nazioni, e secondo la differenza di queste; sì massimamente perchè il teatro di qualunque nazione benchè abbia già il suo sommo drammatico, vuol sempre novità, anzi non domanda tanto la perfezione quanto la novità degli scritti; questa richiede sopra ogni altra cosa, a questa fa bene spesso più plauso che ai capi d'opera dei sommi autori già conosciuti.
Così che ad un drammatico resta sempre [811]il suo posto da guadagnarsi, la sua parte di lode da proccurarsi, il suo eccitamento all'impresa, e il suo premio proposto al buon successo, e tutte queste cose son tali, che anche un autore di grande ingegno ne può essere soddisfatto e stimolato: oltre ai piccoli incidenti di società che eccitano a composizioni teatrali, oltre coloro che per mestiere ed interesse ricercano e stimolano scrittori di tal genere, oltre gl'interessi o i bisogni degli autori, gl'impegni, il desiderio di certe lodi di certi successi diremo così cittadineschi, o di partito, o di conversazione, e di amici ec.
oltre massimamente la varietà successiva de' costumi e delle usanze non meno teatrali e appartenenti alle rappresentazione quanto di quelle che occorrono nella vita e nelle cose da rappresentarsi.
Così che allo scrittore drammatico, resta sempre un campo sufficiente.
E la gran fama di Sofocle non impedì che gli succedesse un Euripide.
La differenza tra questo e gli altri generi di componimento, consiste che gli effetti, l'uso, la destinazione di questo è come viva, [812]e sempre viva, e cammina, laddove degli altri è come morta ed immobile.
Non sarebbe così se esistessero come anticamente quelle radunanze del popolo, dove Erodoto leggeva la sua storia, e se le poesie fossero scritte come i poemi d'Omero per esser cantati alla nazione, e se i tempi de' Tirtei e de' Bardi non fossero svaniti.
Perchè tali componimenti non essendo più di uso, ci contentiamo di quello che in quel tal genere è già perfetto, e appena desideriamo altro nuovo modello di perfezione.
Altrimenti accade di quello che è sempre di uso vivo, e se tale avesse continuato ad essere l'eloquenza latina dopo Cicerone ella avrebbe forse avuto nuovi sommi oratori.
(18.
Marzo 1821)
In quelle parole che incominciano per s impura, la lingua par che abbia bisogno di un appoggio avanti la s, ossia avanti la parola.
La lingua francese e la spagnuola amano questo appoggio nelle così fatte parole che hanno ricevute da' latini o da chicchessia, ovvero formate da loro.
E la spagnuola principalmente che non ha se non pochissime parole cominciate da s impura.
[813](Il Franciosini ne riporta solo 16, e tutte cominciate da sc con dietro varie vocali).
Ora dovendo dare alla lingua questo appoggio di una vocale non si è scelta altra che la e.
Così da sperare gli spagnuoli hanno fatto esperar, i francesi espérer, da species gli spagnuoli especie, i francesi espèce, da spiritus gli spagnuoli espiritu i francesi esprit, da studium gli spagnuoli estudio i francesi estude che poi tolta via la s hanno fatto étude, da scribere gli spagnuoli escrivir, gli antichi francesi escrire, da stomachus estomago estomac ec.
ec.
Tanto è vero che dove la lingua ha bisogno di un appoggio o gradisce un appoggio per pronunziare una consonante, e riposarla nella vocale, senza che questa sia determinata, la lingua sceglie naturalmente e cade e si riposa nella e.
E così anche, come si vede per la detta osservazione, quando questa vocale le ha da servire come di gradino alla pronunzia di consonanti.
L'Italia quanto alla s impura non è stata più delicata dei latini e de' latini.
[814]Vero è però che quando la s impura, sarebbe preceduta da consonante, l'Italia per usanza non naturale, ma gramaticale, artifiziale, acquisita, e particolare sua, v'interpone la i non la e (in ispirito ec.).
Credo però che il contrario facessero scrivendo i primi italiani.
Del resto riferite alla suddetta osservazione il nostro dire ef el ec.
e non if il.
(18.
Marzo 1821.)
La nostra condizione oggidì è peggiore di quella de' bruti anche per questa parte.
Nessun bruto desidera certamente la fine della sua vita, nessuno per infelice che possa essere, o pensa a torsi dalla infelicità colla morte, o avrebbe il coraggio di proccurarsela.
La natura che in loro conserva tutta la sua primitiva forza, li tiene ben lontani da tutto ciò.
Ma se qualcuno di essi potesse desiderar mai di morire, nessuna cosa gl'impedirebbe questo desiderio.
Noi siamo del tutto alienati dalla natura, e quindi infelicissimi.
Noi desideriamo bene spesso la morte, e ardentemente, e come unico evidente e calcolato rimedio delle nostre infelicità, in maniera che noi la desideriamo spesso, e con piena ragione, e siamo costretti a desiderarla [815]e considerarla come il sommo nostro bene.
Ora stando così la cosa ed essendo noi ridotti a questo punto, e non per errore, ma per forza di verità, qual maggior miseria che il trovarsi impediti di morire, e di conseguire quel bene che siccome è sommo, così d'altra parte sarebbe intieramente in nostra mano; impediti, dico, o dalla Religione, o dall'inespugnabile, invincibile, inesorabile, inevitabile incertezza della nostra origine, destino, ultimo fine, e di quello che ci possa attendere dopo la morte? Io so bene che la natura ripugna con tutte le sue forze al suicidio, so che questo rompe tutte le di lei leggi più gravemente che qualunque altra colpa umana; ma da che la natura è del tutto alterata, da che la nostra vita ha cessato di esser naturale, da che la felicità che la natura ci avea destinata è fuggita per sempre, e noi siam fatti incurabilmente infelici, da che quel desiderio della morte, che non dovevamo mai, secondo natura, neppur concepire, in dispetto della natura, e per forza di ragione, s'è anzi impossessato di noi; [816]perchè questa stessa ragione c'impedisce di soddisfarlo, e di riparare nell'unico modo possibile ai danni ch'ella stessa e sola ci ha fatti? Se il nostro stato è cambiato, se le leggi stabilite dalla natura non hanno più forza su di noi, perchè non seguendole in nessuna di quelle cose dov'elle ci avrebbero giovato e felicitato, dobbiamo seguirle in quella dove oggidì ci nocciono, e sommamente? Perchè dopo che la ragione ha combattuta e sconfitta la natura per farci infelici, stringe poi seco alleanza, per porre il colmo all'infelicità nostra, coll'impedirci di condurla a quel fine che sarebbe in nostra mano? Perchè la ragione va d'accordo colla natura in questo solo, che forma l'estremo delle nostre disgrazie? La ripugnanza naturale alla morte è distrutta negli estremamente infelici, quasi del tutto.
Perchè dunque debbono astenersi dal morire per ubbidienza alla natura? Il fatto è questo.
Se la Religione non è vera, s'ella non è se non un'idea concepita dalla [817]nostra misera ragione, quest'idea è la più barbara cosa che possa esser nata nella mente dell'uomo: è il parto mostruoso della ragione il più spietato; è il massimo dei danni di questa nostra capitale nemica, dico la ragione, la quale avendo scancellato dalla mente dall'immaginativa e dal cuor nostro tutte le illusioni che ci avrebbero fatti e ci faceano beati; questa sola ne conserva, questa sola non potrà mai cancellare se non con un intiero dubbio (che è tutt'uno, e ragionevolmente deve produrre in tutta la vita umana gli stessi effetti nè più nè meno che la certezza), questa sola che mette il colmo alla disperata disperazione dell'infelice.
La nostra sventura il nostro fato ci fa miseri, ma non ci toglie, anzi ci lascia nelle mani il finir la miseria nostra quando ci piaccia.
L'idea della religione ce lo vieta, e ce lo vieta inesorabilmente, e irrimediabilmente, perchè nata una volta quest'idea nella mente nostra, come [818]accertarsi che sia falsa? e anche nel menomo dubbio come arrischiare l'infinito contro il finito? Non è mai paragonabile la sproporzione che è tra il dubbio e il certo con quella che è tra l'infinito e il finito, ancorchè questo certo, e quello quanto si voglia dubbio.
Così che siccome l'infelicità per quanto sia grave, nondimeno si misura principalmente dalla durata, essendo sempre piccola cosa quella che può durare, volendo, un momento solo, e di più servendo infinitamente ad alleggerire qualunque male il saper di certo ch'è in nostra mano il sottrarcene ogni volta che ci piaccia; così possiamo dire che oggi in ultima analisi la cagione della infelicità dell'uomo misero, ma non istupido nè codardo, è l'idea della Religione, e che questa, se non è vera, è finalmente il più gran male dell'uomo, e il sommo danno che gli abbiano fatto le sue disgraziate ricerche e ragionamenti e meditazione; o i suoi pregiudizi.
(19.
Marzo 1821.)
[819]Che cosa è barbarie in una lingua? Forse quello che si oppone all'uso corrente di essa? Dunque una lingua non imbarbarisce mai, perchè ogni volta ch'ella imbarbarisse, quella barbarie non potendo essere in altro che nell'uso corrente (altrimenti sarà barbarie parziale di questo o di quello, e non della lingua), non sarebbe barbarie essendo conforme all'uso.
Barbaro nella lingua non è dunque altro se non quello che si oppone all'indole sua primitiva: e chiunque ponga mente, converrà in questo: giacchè in fatti una parola, uno scrittore barbaro ordinarissimamente sono conformi all'uso di quel tempo, lo seguono, ne derivano, e così accade oggidì nella lingua italiana.
Di più, nessun secolo sarebbe mai, o sarebbe [820]mai stato barbaro per nessuna lingua.
Al più si potrebbe dire se quella lingua di quel tal secolo fosse più o meno bella, ricca, buona, ec.
confrontando fra loro i secoli di una stessa lingua, come si confrontano le diverse lingue fra loro, delle quali se questa o quella si giudica men pregevole, non perciò si giudica barbara.
Anzi si chiamerebbe barbara se contro l'indole sua, volesse adottare e accomodarsi all'andamento di una lingua migliore più bella ec.
come se la lingua inglese volesse adottare le forme della greca ec.
Insomma barbarie in qualunque lingua non è nè la mancanza di qualsivoglia pregio, nè quello che contraddice all'uso corrente, ma quello solo che contraddice all'indole sua primitiva, per conservar la quale ella deve conservarsi anche meno pregevole, se tale è la sua natura, perchè i pregi essendo relativi, sarebbe vizio e bruttezza in lei, quello ch'è virtù e bellezza in un'altra, se si oppone alla sua natura in cui consiste la perfezion vera [821](benchè relativa) non solo di una llngua, ma di ciascuna cosa che sia.
Da queste osservazioni particolari; facili, chiare, e di cui tutti convengono, salite dunque ad una più generale, ma tanto vera quanto le precedenti, e che non si può negare se queste si riconoscono, e concedono.
Che cosa è barbarie nell'uomo? Quello che si oppone all'uso corrente? Dunque nessun popolo, nessun secolo barbaro.
Barbarie è quel solo che si oppone alla natura primitiva dell'uomo.
Ora domando io se i nostri costumi, istituti, opinioni ec.
presenti sarebbero stati compatibili colla nostra prima natura.
Come potevano esserlo, quando anzi la natura ci ha posti evidentemente i possibili ostacoli? Che non siano compatibili colla nostra primitiva natura, è così manifesto, anche per la osservazione sì di ciascuno di noi, sì de' fanciulli, selvaggi, ignoranti ec.
ec.
che non ha bisogno di dimostrazione.
Dunque se non sono compatibili, è quanto dire che le ripugnano e contrastano.
Dunque? dunque son barbari.
[822]Che sieno conformi all'uso e all'abitudine, non val più di quello che vaglia la stessa circostanza a scusare un secolo depravato nella lingua.
Che si stimino buoni assolutamente, e più buoni de' naturali e primitivi, primieramente non val più di quello che vaglia nella lingua, come ho detto; poi, siccome nella lingua, questa opinione è erronea, e deriva dall'inganno parte dell'abitudine, parte della immaginaria perfezione assoluta, là dove è sostanzialmente imperfezione e vizio tutto ciò che si oppone all'indole e natura particolare e primitiva di una specie, quando anche questo medesimo sia virtù e perfezione in altra specie.
(20.
Marzo 1821.)
Non solamente ciascuna specie di bruti stima o esplicitamente e distintamente, o certo implicitamente e confusamente, di esser la prima e più perfetta nella natura, e nell'ordine delle cose, e che tutto sia fatto per lei, ma anche nello stesso modo ciascun individuo.
E così accade tra gli uomini, che implicitamente [823]e naturalmente ciascuno si persuade la stessa cosa.
Parimente non v'è popolo sì barbaro che non si creda implicitamente migliore, più perfetto, superiore a qualunque altro, e non si stimi il modello delle nazioni.
Parimente non v'è stato secolo sì guasto e depravato, che non si sia creduto nel colmo della civiltà, della perfezione sociale, l'esemplare degli altri secoli, e massimamente superiore per ogni verso a tutti i secoli passati, e nell'ultimo punto dello spazio percorso fino allora dallo spirito umano.
Con questa differenza però, che sebbene tutto è relativo in natura, è relativo peraltro alle specie, così che le idee che una specie ha della perfezione ec.
appresso a poco sono comuni agl'individui tutti di essa (massime se sono le idee naturali alla specie).
Quindi è naturale e conseguente che un individuo, sebben portato naturalmente a credersi superiore al resto della sua specie, e tutto il mondo destinato all'uso [824]e vantaggio suo, contuttociò con poco di raziocinio facilmente possa riconoscere la superiorità di altri individui della stessa specie, e credere il mondo avere per fine la sua specie intera, e questa essere tutta la più perfetta delle cose esistenti, e l'apice della natura.
Quindi parimente un popolo, un secolo (ho parlato e parlo degli uomini, e si può applicare proporzionatamente agli altri viventi) o qualche individuo in essi, possono ben riconoscere la superiorità di altri popoli e secoli, perchè le idee relative del bello e del buono sono però, almeno in gran parte, generali in ciascuna specie, quando non derivino da pregiudizi, da circostanze particolari, o da alterazione qualunque di questa o di quella parte della specie, com'è avvenuto fra gli uomini, essendo alterata la loro natura, e diversamente alterata, e quindi anche alterate le idee naturali, e diversificate le opinioni ec.
Questo, dico, accade facilmente all'individuo umano, rispettivamente alla sua propria specie.
Ma rispetto ad un'altra specie non [825]così.
1.
Perchè le idee che son vere relativamente alla specie nostra, noi (e così ciascuna specie di viventi) le crediamo (e ciò per natura) vere assolutamente: quello ch'è buono e perfetto per noi, lo crediamo buono e perfetto assolutamente; e quindi misurando le altre specie sulla nostra misura, le stimiamo tutte inferiori d'assai; nè possiamo mai credere che in una specie diversa dalla nostra ci sia tanta bontà e perfezione quanta in essa nostra, perchè la perfezione essendo relativa e particolare, noi la crediamo assoluta, e norma universale.
2.
Perchè non ci possiamo mai porre nei piedi e nella mente di un'altra specie (come nessun bruto), per concepire le idee ch'essa ha del buono, del bello, del perfetto, e misurare quella specie secondo queste idee, le quali sono diversissime dalle nostre, e non entrano nella capacità della nostra natura, e nel genere della nostra facoltà nè intellettiva, nè immaginativa, nè ragionatrice, nè concettiva [826]ec.
ec.
(20.
Marzo 1821.)
An censes (ut de me ipso aliquid more senum glorier) me tantos labores diurnos nocturnosque domi militiaeque suscepturum fuisse, si iisdem finibus gloriam meam, quibus vitam, essem terminaturus? nonne melius multo fuisset, otiosam aetatem, et quietam, sine ullo labore et contentione traducere? SED, NESCIO QUOMODO, ANIMUS ERIGENS SE, POSTERITATEM SEMPER ITA PROSPICIEBAT, QUASI, CUM EXCESSISSET E VITA, TUM DENIQUE VICTURUS ESSET; quod quidem ni ita se haberet, ut animi immortales essent, haud optimi cuiusque animus maxime ad immortalitatem gloriae niteretar.
Catone maggiore appresso Cic.
Cato maior seu de Senect.
c.
ult.
23.
Tanto è vero che il piacere è sempre futuro, e non mai presente, come ho detto in altri pensieri.
Con la quale osservazione io spiego questo che Cicerone dice, e quello che vediamo negli uomini di certa fruttuosa ambizione; dico quella speranza riposta [827]nella posterità, quel riguardare, quel proporsi per fine delle azioni dei desideri delle speranze nostre la lode ec.
di coloro che verranno dopo di noi.
L'uomo da principio desidera il piacer della gloria nella sua vita, cioè presso a' contemporanei.
Ottenutala, anche interissima e somma, sperimentato che questo che si credeva piacere, non solo è inferiore alla speranza (quando anche la gloria in effetto fosse stata maggiore della speranza), ma non piacere, e trovatosi non solo non soddisfatto, ma come non avendo ottenuto nulla, e come se il suo fine restasse ancora da conseguire (cioè il piacere, infatti non ottenuto, perchè non è mai se non futuro, non mai presente); allora l'animo suo erigens se quasi fuori di questa vita, posteritatem respicit, come che dopo morte tum denique victurus sit, cioè debba conseguire il fine, il complemento essenziale della vita, che è la felicità, vale a dire il piacere, non conseguito ancora, e già troppo evidentemente non conseguibile da lui in questa vita; allora la speranza del piacere, non avendo [828]più luogo dove posarsi, nè oggetto al quale indirizzarsi dentro a' confini di questa vita, passa finalmente al di là, e si ferma ne' posteri, sperando l'uomo da loro e dopo morte quel piacere, che vede sempre fuggire, sempre ritrarsi, sempre impossibile e disperato di conseguire, di afferrare in questa vita.
E si riduce l'uomo a questo estremo, perchè come il fine della vita è la felicità, e questa qui non si può conseguire, ma d'altra parte una cosa non può mancare di tendere al suo fine necessario, e mancherebbe se mancasse del tutto la speranza, così questa non trovando più dimora in questa vita arriva finalmente a collocarsi al di là di lei, colla illusione della posterità.
Illusione appunto più comune negli uomini grandi, perchè laddove gli altri, conoscendo meno le cose, o ragionando meno, ed essendo meno conseguenti, dopo infiniti parziali disinganni e delusioni, continuano pure a sperare dentro i limiti della lor vita; essi al contrario ben persuasi, e ben presto, cioè con poche esperienze, disperati dell'attuale e vero piacere in questa vita, e d'altronde [829]bisognosi di scopo, e quindi della speranza di conseguirlo, e spronati pure dall'animo alle grandi azioni, ripongono il loro scopo, e speranza, al di là dell'esistenza, e si sostentano con questa ultima illusione.
Quantunque non solo dopo morte o non saremo capaci di felicità nessuna, o di tutt'altra da quella che possa derivare dai posteri; ma quando anche fossimo allora tanto capaci di godere della fama nostra appo i futuri, quanto siamo ora di quella appo i contemporanei, quella fama (durando le stesse condizioni dell'animo nostro e del piacere) ci riuscirebbe, siccome questa presente, del tutto insipida, e vuota, e incapace di soddisfare, e proccurare un piacere altro che futuro, dico un piacere attuale e presente.
(20.
Marzo 1821.).
Applicate questi pensieri alla speranza di felicità futura in un altro mondo.
La ingiuria eccita in tutti gli animi il desiderio di vederla punita, ma negli alti il desiderio di punirla.
(20.
Marzo 1821.)
Desiderar la vita, in qualunque caso, e in tutta l'estensione di questo desiderio, [830]non è insomma altro che desiderare l'infelicità; desiderar di vivere è quanto desiderare di essere infelice.
(20.
Marzo 1821.)
Non solamente è ridicolo che si pretenda la perfettibilità dell'uomo, in quanto alla mente, o a quello che vi ha riguardo, come ho detto in altro pensiero, ma anche in quanto ai comodi corporali6.
Paiono oggi così necessari quelli che sono in uso, che si crede quasi impossibile la vita umana, senza di questi, o certo molto più misera, e si stimano i ritrovamenti di tali comodità, tanti passi verso la perfezione e la felicità della nostra specie, massime di certe comodità che sebbene lontanissime dalla natura, contuttociò si stimano essenziali e indispensabili all'uomo.
Ora io non domanderò a costoro come abbian fatto gli uomini a viver tanto tempo privi di cose indispensabili; come facciano oggi tanti popoli di selvaggi; parecchi ancora de' nostrali e sotto a' nostri occhi, tuttogiorno.
(anzi ancora quegli stessi più che mai assuefatti a tali cose pretese indispensabili, quando per mille diversità di accidenti, si trovano in circostanza di mancarne, alle volte anche volontariamente.) I quali tutti, in luogo di accorgersi della loro infelicità, hanno anzi creduto [831]e credono e si accorgono molto meno di essere infelici, di quello che noi facciamo a riguardo nostro: e molto meno lo erano e lo sono, sì per questa credenza, come anche indipendentemente.
Non chiamerò in mio favore la setta cinica, e l'esempio e l'istituto loro, diretto a mostrare col fatto, di quanto poco, e di quante poche invenzioni e sottigliezze abbisogni la vita naturale dell'uomo.
Non ripeterò che, siccome l'abitudine è una seconda natura, così noi crediamo primitivo quel bisogno che deriva dalla nostra corruzione.
E che molti anzi infiniti bisogni nostri sono oggi reali, non solamente per l'assuefazione, la quale, com'è noto, dà o toglie la capacità di questo o di quello, e di astenersi da questo o da quello; ma anche senza essa per lo indebolimento ed alterazione formale delle generazioni umane, divenute oggidì bisognose di certi aiuti, soggette a certi inconvenienti, e quindi necessitose di certi rimedi, che non avevano alcun luogo nella umanità primitiva.
Così la medicina, così l'uso di certi cibi, di vesti diversificate secondo le stagioni, di [832]preservativi contra il caldo, il freddo ec.
di chirurgia ec.
ec.
Lascerò tutte queste cose e perchè sono state dette da altri, e perchè potrebbero deridermi come partigiano dell'uomo a quattro gambe.
Solamente ripeterò quel ragionamento che ho usato nella materia della perfettibilità mentale.
Dunque se tutto questo era necessario o conveniente alla perfezione e felicità dell'uomo, come mai la natura tanto accurata e finita maestra in tutto, glielo ha non solo lasciato ignorare, ma nascosto, quanto era in lei? Diranno che la natura avendo dato a un vivente le facoltà necessarie, ha lasciato a lui che con queste facoltà ritrovasse e si procacciasse il bisognevole, e che all'uomo ha lasciato più che al bruto, perchè a lui diede maggiori facoltà, e così proporzionatamente ha fatto secondo le maggiori o minori facoltà negli altri bruti.
Altro è questo, altro è mettere una specie di viventi in una infinita distanza da quello che si suppone necessario al suo ben essere, e alla perfezione della sua esistenza.
Altro è permettere anzi volere e disporre che infinito [833]numero, che moltissime generazioni di questi viventi restassero prive o affatto o in massima parte di cose necessarie alla loro perfezione.
Altro è mettere nel mondo il detto vivente tutto nudo, tutto povero, tutto infelice e misero, col solo compenso di certe facoltà, per le quali, solamente dopo un gran numero di secoli, sarebbe arrivato a conseguire qualche parte del bisognevole a minorare l'infelicità di una vita il cui scopo non è assolutamente altro che la felicità.
Altro è ordinare le cose in modo che gran parte di questa specie (come tanti selvaggi poco fa scoperti, o da scoprirsi) dovesse restare fino al tempo nostro, e chi sa fino a quando, appresso a poco nella stessa imperfezione e infelicità primitiva (il che si può applicare anche alla pretesa perfettibilità della mente e delle varie facoltà dell'uomo).
E tutto ciò in una specie privilegiata, e che si suppone la prima nell'ordine di tutti gli esseri.
Bel privilegio davvero, ch'è quello di veder tutti gli altri viventi conseguire immediatamente la loro relativa perfezione [834]e felicità, senza stenti, nè sbagli, ed essa intanto per conseguire la propria, stentare, tentare mille strade, sbagliare mille volte, e tornare indietro, e finalmente dovere aspettare lunghissimo ordine di secoli, per conseguire in parte il detto fine.
Osserviamo quanti studi, quante invenzioni, quante ricerche, quanti viaggi per terra e per mare a remotissime parti, e combattendo infiniti ostacoli, sì della fortuna, sì (ch'è più notabile) e massimamente della natura, per ridurci, quanto al corpo, nello stato presente, e proccurarci di quelle stesse cose che ora si stimano essenziali alla nostra vita.
Osserviamo quante di queste, ancorchè già ritrovate, abbiano bisogno ancora dei medesimi travagli infiniti per esserci procacciate.
Osserviamo quanto ancora ci manchi, quanto sia di scoperta recentissima o assolutamente o in comparazione dell'antichità della specie umana; quanto ogni giorno si ritrovi, e quanto si accrescano le cognizioni pretese utili alla vita, anche delle più essenziali (come in chirurgia, medicina ec.); quante cose si ritroveranno e verranno poi in uso, che a noi avranno mancato, e che i nostri [835]posteri giudicheranno tanto indispensabili, quanto noi giudichiamo quelle che abbiamo.
Domando se tutta questa serie di difficilissimi mezzi conducenti al fine primario della natura ch'è la felicità e perfezione delle cose esistenti e il loro ben essere, e massime de' viventi, e de' primi tra' viventi, entravano nel sistema, nel disegno, nel piano della natura, nell'ordine delle cose, nella primordiale disposizione e calcolo relativamente alla specie umana.
Domando se nel piano nell'ordine nel calcolo de' mezzi conducenti al fine essenziale e primario, ch'è la felicità e perfezione, mezzi per conseguenza necessari ancor essi, v'entrava anche il caso.
Ora è noto quante scoperte delle più sostanziali in questo genere, e dell'uso il più quotidiano, e di effetti e applicazioni rilevantissime, non le debba l'uomo se non al puro e semplice caso.
Dunque il puro e semplice caso entrava nel sistema primordiale della natura; dunque ella lo ha calcolato come mezzo necessario; dunque [836]ella ne ha fatto dipendere il fine essenziale e primario; dunque si è contentata che non accadendo il tale e tale altro caso, o non accadendo in quel tal modo ec.
ec.
o accadendo bensì quello ma non questo ec.
la specie umana, la maggiore delle sue opere, restasse imperfetta e infelice, e priva del fine della sua esistenza, e similmente tutte quelle parti dell'ordine delle cose che dipendono o hanno stretta connessione colla specie umana.
Bisogna osservare che la sfera del caso si stende molto più che non si crede.
Un'invenzione venuta dall'ingegno e meditazione di un uomo profondo, non si considera come accidentale.
Ma quante circostanze accidentalissime sono bisognate perchè quell'uomo arrivasse a quella capacità.
Circostanze relative alla coltura dell'ingegno suo; relative alla nascita, agli studi, ai mezzi estrinseci d'infiniti generi, che colla loro combinazione l'han fatto tale, e mancando lo avrebbero reso diversissimo (onde è stato detto che l'uomo è opera del caso); relative alle scoperte e cognizioni acquistate da altri prima [837]di lui, acquistate colle medesime accidentalità, ma senza le quali egli non sarebbe giunto a quel fine; relative all'applicazione determinata della sua mente a quel tale individuato oggetto ec.
ec.
ec.
Nello stessissimo modo discorrete di una scoperta fatta p.e.
mediante un viaggio, mediante un'Accademia, una intrapresa pubblica, o regia ec.
la quale scoperta si suol mettere del tutto fuori della sfera degli accidenti.
E vedrete che siccome da una parte la sfera del caso, in tutte le cose, massime umane, si stende assai più che non si crede, così d'altra parte, o tutte o il più di quelle invenzioni ec.
che ora sono d'uso creduto di prima necessità, ed essenziale alla vita umana, sono effettivamente dovute al caso.
Paragonate ora questa incredibile negligenza della natura, nell'abbandonare a un mezzo sì incerto lo scopo primario della primaria specie di viventi, cioè la felicità dell'uomo; con quella certezza e immancabilità di mezzi che la natura ha adoperata per tutti gli altri suoi fini, ancorchè di minore importanza: e giudicate se si possa mai supporre [838]per vera.
(21.
Marzo 1821.).
V.
p.870.
fine.
Quanto più l'indole, la struttura, l'andamento di una lingua, è conforme alle regole naturali, semplice, diritto ec.
tanto più quella lingua è adattata alla universalità.
E per lo contrario tanto meno, quanto più ella è figurata, composta, contorta, quanto più v'ha nella sua forma di arbitrario, di particolare e proprio suo, o de' suoi scrittori ec.
non della natura comune delle cose.
Le prime qualità spettano per eccellenza alla lingua francese, quantunque la lingua italiana le possieda molto più della latina, anzi senza confronto; tuttavia in esse (e felicemente) cede alla francese, come tutte le lingue moderne Europee, quantunque nessuna di queste ceda in esse qualità alla latina, anzi la vinca di gran lunga, e neppure alla greca.
Come queste qualità giovino alla universalità di una lingua, è manifesto già per se stesso, ma lo sarà anche più per le segg.
considerazioni.
Un effetto naturale di dette qualità, è che il linguaggio degli scrittori, o nulla [839][o] poco differisca dal familiare, e comune alla nazione.
Così accade alla Francia, il contrario in Italia, il contrarissimo nel latino.
Questo effetto cagiona che, quella stessa lingua che si parla trovandosi scritta, 1.
se ne dimezzi per così dire la difficoltà: 2.
le persone volgari, o la conversazione qualunque alta o bassa dei parlatori di quella lingua, sia tanto buona maestra e propagatrice di essa presso gli stranieri, fuori o dentro il paese, come lo possano essere gli scrittori: 3.
e per lo contrario gli scrittori lo siano tanto, quanto i negozianti, i viaggiatori, e chiunque parla quella lingua cogli stranieri, sì nel suo proprio paese come fuori: 4.
quindi e i parlatori e gli scrittori propaghino tutti unitamente una sola e stessa lingua ovvero linguaggio; o vogliamo dire due linguaggi così poco differenti, che inteso qualsivoglia de' due, senza nessuna fatica s'intenda e si parli anche l'altro.
Effetto notabilissimo: perchè l'influenza degli scrittori è somma nel propagare una lingua; ma d'altra parte per mezzo degli scrittori, non può mai divenire [840]universale, se da essi non s'impara a parlarla cioè usarla; ed allora potrà esser divulgata per solo studio e ornamento, com'era una volta l'italiana: l'influenza de' parlatori è somma, ma minore assai, se non cospira con quella degli scrittori, se per mezzo di essa non si viene a capo di mettersi in relazione col resto della nazione, colla totalità per così dire di essa, il che non si può fare se non per mezzo degli scrittori, e tanto più, quanto più questi sono divulgati intesi e letti dalla totalità della nazione, e non dalla sola classe letterata.
La unione di queste due influenze, partorisce dunque un effetto massimo.
Lo straniero di qualunque condizione, per qualunque circostanza, per qualunque inclinazione, per qualunque professione, per qualunque mezzo, per qualunque fine, abbia dovuto, abbia voluto, si sia abbattuto ad apprendere quella lingua, è padrone di tutta quanta ella è, di parlarla e intender chi la parla, di leggerla, di scriverla, di usarla comunque le aggrada, nella conversazione, nel commercio, e al tavolino; di mettersi in communicazione con tutta [841]quella nazione che la parla o scrive, e con tutti quegli stranieri che l'adoprano in qualunque modo e per qualunque motivo.
Il letterato che l'ha appresa per istruirsi, e per conoscere quella letteratura; il negoziante che l'ha appresa per usi di mercatura; quegli che l'ha appresa senza studio, e per sola pratica o de' nazionali, o de' forestieri ec.
ec.
tutti sono appresso a poco nello stesso grado, ed hanno gli stessi vantaggi.
Questi effetti risultano dalla parità di linguaggio fra gli scrittori e la nazione, e risultano in maggiore o minor grado, in proporzione che la causa è maggiore o minore.
In Francia è grandissima, e non solo la detta parità di linguaggio, ma anche la effettiva popolarità e nazionalità degli scrittori e della letteratura.
In Italia oggidì (che nel trecento era tutto l'opposto) la lingua scritta degli scrittori, sebbene differisca dalla parlata molto meno che fra' latini, tuttavia differisce, credo, più che in qualunque altro paese culto, certamente Europeo.
[842]E questo forse in parte cagiona la nessuna popolarità della nostra letteratura, e l'essere gli ottimi libri nelle mani di una sola classe, e destinati a lei sola, ancorchè pel soggetto non abbiano a far niente con lei.
Il che però deriva ancora dalla nessuna coltura, e letteratura, e dalla intera noncuranza degli studi anche piacevoli, che regna nelle altre classi d'Italia; noncuranza che deriva finalmente dal mancare in Italia ogni vita, ogni spirito di nazione, ogni attività, ed anche dalla nessuna libertà, e quindi nessuna originalità degli scrittori ec.
Queste cagioni influiscono parimente l'una sull'altra, e nominatamente sulla disparità della lingua scritta e parlata, e tutte con iscambievoli effetti contribuiscono sì a tener lontano dall'Italia ogni spirito di patria, ogni vita, ogni azione; sì ad impedire ogni originalità degli scrittori; sì finalmente a mantenere la intera divisione che sussiste fra la classe letterata e le altre, fra la letteratura e la nazione italiana.
Nel cinquecento, e anche durante il seicento, sebbene la lingua scritta italiana, si [843]fosse allontanata dalla parlata, molto più che nel trecento (non però quanto oggidì), tuttavia la letteratura continuava ancora in grandissima relazione colle classi, se non volgari, certo non di professione letterata, e quindi anche passava agli stranieri.
E ciò, parte perchè la nazione conservava ancora un sentimento, uno spirito patrio, un'azione, una vita, e gli scrittori bastante libertà ed originalità; parte perchè l'italiano che si parlava, era italiano ancora, più o meno, e non barbaro, come oggidì, che volendo scrivere come si parla, non si scriverebbe italiano, anzi appena si riuscirebbe a farsi intendere alla stessa nazione.
Ed allora lo studio della lingua era più diffuso, e la letteratura parimente, e più viva e in movimento, e maggiore il numero dei letterati di professione, e degli scrittori buoni, e di quelli che senza esser letterati, aveano tanta letteratura quanto basta per essere buon lettore, e per curarsi di leggere.
E gli argomenti che si trattavano erano più nazionali, più importanti, più nuovi, [844]più propri dello scrittore ec.
brevemente c'era un altro spirito letterario e negli scrittori e nella nazione.
Dall'applicazione di questi principii alle lingue moderne, passiamo alle lingue antiche.
Che la forma e struttura di una lingua fosse così ragionevole, così conforme alla stretta verità ed ordine delle cose, come lo può essere in qualche lingua moderna, non era possibile fra gli antichi, dove regnava molto più l'immaginazione, che la secca e infelice ragione.
Non bisogna dunque nelle ragioni della universalità di una lingua antica, ricercar troppa conformità, con quelle che richiedonsi allo stesso effetto in una lingua moderna.
Una lingua antica poteva essere adattata alla universalità fino a un certo segno, e conseguirla, ma non mai quanto una moderna.
La lingua greca sebbene più figurata non solo della francese, ma della italiana (dico della italiana che non pecchi di troppa, e a lei non naturale conformità col latino andamento, come peccò alle volte nel 500.
al contrario [845]del 300, e della sua vera indole) contuttociò era nella sua primitiva qualità, di una forma, se non ragionevole, naturalissima però, e semplicissima, e facilissima.
Sino a tanto ch'ella mantenne il suo vero genio, mantenne anche queste proprietà.
Le mantenne in Erodoto, in Senofonte, negli Oratori Attici, e generalmente più o meno in tutti gli scrittori degli ottimi suoi secoli sempre appresso a poco, in proporzione dell'antichità rispettiva.
Gli scrittori che successero a questi, benchè buoni ancor essi, benchè lontani dalla turgidezza, dall'arguzia, dalla decisa oscurità, dalla soverchia intralciatura, dalla immodestia dello stile e della lingua, allontanarono però moltissimo la lingua greca, da quella nativa, nuda, schietta, spontanea, facile bellezza e grazia de' suoi ottimi e primi scrittori, e sforzarono la sua primitiva natura ed indole, accostandola piuttosto alla struttura latina, che alla propria sua.
Questo si nota in Polibio, in Dionigi d'Alicarnasso, ma molto più ne' susseguenti, come in Luciano, molto più e soprattutto in Longino.
Scrittori elegantissimi, [846]di eleganza non affettata, non impura, non corrotta, non malsana, ma diversa da quella semplicissima eleganza dell'antica lingua greca, e se non contraria e ripugnante, certo rimota dall'indole e dal costume suo primitivo: nello stesso modo che si può dire di alcuni cinquecentisti modellatisi forse troppo sui latini, e non perciò corrotti, nè affettati, nè ripugnanti all'indole della lingua italiana, ma diversi dal di lei primitivo costume manifestato nei trecentisti; appresso i quali la lingua italiana, come somiglia moltissimo nell'andamento alla greca, così ebbe poi a patire quella stessa, benchè per se medesima non cattiva, diversificazione che patì, come ho detto, la lingua greca; e come questa, cessare appoco appoco da quella parità di linguaggio ch'era tra gli scrittori e la nazione, nell'una e nell'altra lingua, come della greca lo dirò poi.
Di facilissima ch'era l'antica scrittura greca, divenne appoco a poco, se non oscura, certo difficile, essendo declinata in quell'idioma lavorato ed ornato, che o nello stesso [847]tempo, o poco prima o dopo, divenne proprio de' latini, da' quali io non discrederei che fosse passato quel costume e quel gusto ai greci (ma bisognerebbe esaminare gli scrittori greci intermedii fra Demostene, e quelli che furono ai tempi Romani); sebben potesse molto naturalmente nascere dallo studio, dagli Atticisti che uscivan fuori, dal ridursi la cosa a regola, e la eleganza a misura e meditazione, e ricerca ec.
Longino, sebbene fioritissimo delle possibili eleganze e gentilezze della lingua greca, le ricerca tanto, e le accumola (senza però affettazione), che si trovano più frasi e modi figurati in lui che in dieci antichi greci tutti insieme; e sì per questo sì per la struttura intrecciata, composta, manipolata dell'orazione; la lunghezza, e strettissima e fortissima legatura de' periodi, le ambagi ec.
riesce tanto difficile quanto i più difficili e lavorati scrittori latini.
Ai quali egli somiglia tanto, che, massime vedendolo studioso di Cicerone, non dubito, quanto a lui, che quello scrivere non gli sia derivato dai latini, e ch'egli non abbia o voluto trasportare, [848]o (come si fosse) trasportato l'indole e gli spiriti latini nella lingua greca, quanto però questa lo comportava; perchè a ogni modo, come faranno sempre tutte le lingue, ella conserva anche presso lui, il suo sembiante diverso dall'altrui.
Non dirò niente de' Sofisti, e degli altri scrittori dell'infima letteratura greca, anche di quella letteratura già moriente e disperata (come ai tempi di Teofilatto Arcivescovo di Bulgaria).
I quali quando volevano stare davvero sull'attillato, scrivevano in modo che unita alla viziosa e corrotta ricercatezza, arguzia, e oscurità dello stile, la ricercatezza, e attortigliamento, e tortuosità della lingua, sono di tanta difficoltà ad intenderli, di quanto poco uso ad averli intesi.
Questa declinazione della lingua greca dal suo primo sentiero, e costume ed indole, si può far manifesto ancora considerando la lingua d'Isocrate.
Il quale è tanto famoso per la delicatissima cura che poneva nella scelta e collocazione delle parole, nella struttura ed armonia de' periodi, che si potrebbe credere ch'egli, quantunque pel tempo appartenga a quegli [849]antichi scrittori ch'io ho distinto da' più moderni, pel carattere però della sua lingua appartenesse piuttosto a quegli ultimi.
E pure la sua cura, qualunque fosse, è così nascosta, la sua lingua, la collocazione e l'ordine delle sue parole, la struttura de' periodi, e dell'orazione, così facile, piana, semplice, naturale, spontanea, che non solo non si allontana dalla primitiva indole della sua lingua, ma riesce anche più chiaro e facile e stralciato di parecchi altri degli ottimi; e certo non meno di veruno di essi.
Tanto che a paragonare Isocrate stimato l'elegantissimo e l'accuratissimo degli ottimi scrittori greci, col meno elegante e lavorato de' buoni, si troverà questo, molto più difficile, e men piano e svolto di lui.
Sicchè, come da Senofonte ed Erodoto conosciamo qual fosse la semplicità e la soavità, da Tucidide e Demostene la forza e il nervo di quella antica lingua greca, così da Isocrate conosciamo qual ne fosse la eleganza, e la galanteria; e quanto diversa da quella che sotto questo nome fu introdotta [850]ne' secoli e dagli scrittori ancor buoni e notabilissimi, ma non ottimi, della greca letteratura.
Finchè questa dunque durò nel suo primo ed ottimo stato, la diversità fra la lingua parlata e scritta, fu piccola, e, credo io, non molto maggiore di quella che ora sia in Francia.
Prova ne può essere fra le altre molte l'aver letto Erodoto la sua storia al popolo, e averne riscosso quegli applausi nazionali che tutti sanno.
Cosa che non sarebbe avvenuta, se (posta nel rimanente la parità delle circostanze) il Guicciardini avesse letta la sua storia alla moltitudine.
E se T.
Livio o Tacito avessero fatto lo stesso, non al cospetto di giudici scelti e intelligenti, ma avendo per giudice, o anche avendo ad esser giudicati da alcuni pochi, ma applauditi però con entusiasmo dalla moltitudine, crediamo noi che vi sarebbero riusciti? Quanto alle Orazioni de' famosi oratori latini, dette nella concione, ognuno sa, che le scritte erano diverse dalle recitate, e però da quelle che abbiamo di Cicerone non possiamo argomentare che [851]quello stesso linguaggio egli usasse col popolo.
Sì dunque la naturalezza, semplicità e facilità di forma della lingua greca, tanto negli antichi scrittori, quanto nella nazione; sì la quasi uniformità di linguaggio che ne seguiva fra i detti scrittori, e il popolo, come questa era effetto di quella, così ambedue unitamente contribuivano a rendere la lingua greca adattata alla universalità; adattata dico in proporzione dei tempi, non quanto bisognerebbe esserlo oggidì, nè quanto lo è la francese, chè oggidì una lingua per essere universale, ha bisogno di essere arida e geometrica, e la greca era floridissima e naturalissima; di essere ristretta, e la greca era larghissima e ricchissima; di essere non bella, e la greca era bellissima.
Perciò la greca non era, e nessuna bella e naturale lingua lo potrà esser mai, pienamente nè stabilmente universale; ma, sì per le dette ragioni, sì per le recate in altro pensiero, serviva a quella universalità lassamente [852]considerata, e non assolutamente, che poteva convenire ad un tempo, dove nè la ragione, nè le cognizioni esatte, nè la filosofia, nè l'esattezza assolutamente, nè il commercio scambievole delle nazioni, e de' loro individui fra essi, avevano fatto progressi paragonabili in grandezza nè in estensione agli odierni.
E si può anche notare, che siccome erano ancora i tempi della immaginazione e non della ragione, così (sebben quella è varia, e questa monotona, e uniforme dappertutto) contuttociò quella stessa immaginazione che regolava quella lingua fra i greci, poneva anche gli altri popoli, ancora governati dalla immaginazione, in grado di adattarsi senza troppa difficoltà a quella lingua, come conforme al carattere di que' secoli, e di trovare corrispondente alla propria inclinazione, la naturalezza di quella lingua (parola che io intendo qui di opporre alla ragionevolezza e geometria, e di adoperarla in questo senso).
Egli è evidente che quanto più l'andamento di una lingua è naturale semplice facile, e non capriccioso presso gli scrittori, [853]tanto più si conforma al carattere della favella usuale e popolare.
E che siccome queste qualità di una lingua, la rendono più o meno atta alla universalità, così anche alla detta conformità fra il parlato e lo scritto, conformità dalla quale di nuovo nasce una grande attitudine alla universalità.
Perchè la favella del popolo, sebbene immaginosa ordinariamente e in qualunque nazione, è però sempre semplice, piana, facile, o inclina sempre a queste qualità, ed alla naturalezza dell'ordine, e si allontana dal lavorato, dall'arbitrario, da tutto quello che deriva puramente dall'individuo o da una data classe d'individui, e non dalla natura e delle cose e del popolo: natura che sebben diversa dalla ragione, e molto più varia e copiosa e rigogliosa della ragione; tuttavia presso a poco si rassomiglia da per tutto e in tutti i popoli.
Onde il linguaggio comune di qualunque popolo, massime relativamente a quelle nazioni che appartengono ad una stessa classe (come le nazioni colte di Europa) e formano quasi una famiglia; un tal linguaggio [854], dich'io, per lo meno dentro i limiti di quella tal famiglia di nazioni, è sempre per se medesimo, e astraendo dalle circostanze particolari, adattato più o meno alla universalità.
Non così quello degli scrittori, i quali bene spesso allontanandosi appoco appoco dall'andamento popolare della loro lingua, si allontanano altresì dal carattere universale.
E così la lingua scritta di questa o quella nazione, prendendo appoco appoco un andamento proprio, e qualità proprie e speciali, per questa proprietà e specialità, si viene allontanando più o meno dalla linea universalmente riconosciuta, ed allontana dalla universalità la loro lingua che vi era naturalmente adattata.
Giacchè siccome la lingua della nazione influisce su quella dello scrittore, così anche la scritta sulla parlata.
Talmente che anche la lingua popolare di una nazione, sebbene senza fallo adattata da principio alla universalità, può e viene effettivamente perdendo più o meno, o scemando la sua disposizione a questa qualità.
[855]Il detto effetto degli scrittori, e diversificazione della lingua scritta, dall'andamento naturale della lingua, accadde in Grecia, ma tardi, e dopo i loro sommi scrittori.
Non è accaduto in Francia.
È seguito in Italia dal cinquecento in poi.
Seguì in Roma, nella prima stabile formazione della lingua latina scritta, e per opera de' primi veramente classici di quella nazione.
Del che resta a parlare.
I primi scrittori latini, ancorchè perduti, pur si conosce dai loro frammenti, o da quel poco che ne resta comunque, che, al pari di tutti i primi scrittori di qualunque lingua, avevano un andamento naturale e semplice, che si accosta al vero e antico genio della lingua greca, a quello dell'antica lingua italiana, ossia del trecento; e per conseguenza anche al loro linguaggio nazionale e parlato.
Il che si dimostra anche per altre ragioni, quando non bastasse la semplice e facile loro andatura per convincere che non si scostavano molto dal latino volgare.
[856]Una delle quali ragioni, o argomenti e conghietture (giacchè del latino non ci resta il parlato, ma il solo scritto), si è il trovare in essi buon numero di parole, modi, forme, che non si trovano negli autori dell'aurea latinità, e che pure son passate, o somigliano alle passate nella nostra lingua, derivata in gran parte (come con grandi ragioni si prova) dal volgare latino.
E in genere si trova ne' detti antichi latini gran conformità (anche in piccole minuzie e materialità, fino di ortografia) coll'italiano, e molto maggiore, che ne' seguenti latini scrittori.
Ma o provenisse dalla differenza dei tempi fra l'ottima letteratura greca e la latina (che certo la greca venne a tempi di maggior naturalezza, anzi gli ottimi suoi secoli furono compagni degli ottimi tempi della greca repubblica, laddove quelli della latina furono contemporanei precisamente della declinazione e corruzione morale e politica del popolo romano, avvenuta per l'eccesso di civiltà, e questo per l'eccesso di potere); o provenisse da [857]questo che i greci formarono da se la loro letteratura e il loro gusto, e quindi più naturalmente, laddove i latini la formarono sopra quella dei greci (onde ella fu tutto parto di studio, trovò al suo stesso nascere l'arte già formata e insignorita dello scrivere, e fece per l'aiuto l'esempio, e l'insegnamento di una nazione straniera, così rapidi progressi, che la natura appena ebbe scarsissimo tempo di precedere l'arte, e la letteratura latina fu subito e intieramente in balia delle regole, e dichiaratamente artifiziale, e polita: oltre che la stessa arte anche in Grecia, piuttosto declinava già all'eccessivo, di quello che lasciasse più niente alla natura: onde la letteratura latina superò immantinente a gran distanza, quella della Grecia contemporanea, com'è naturale che in un paese dove la letteratura è recente, ella non declini prima di essere stata ottima, e l'eccesso dell'arte non abbia luogo, prima [858]che lo abbia avuto il di lei giusto grado: nel quale però durò poco appo i latini, e la loro letteratura come fu rapida in salire, così nello scendere: e ciò per la condizione de' tempi già precipitanti lungi dalla natura, il torrente della civiltà che ingrossava e tagliava i nervi alla grandezza e alla forza della specie umana; il contagio dell'arte già passata nella Grecia al di là della maturità, sì nel resto, come nello scrivere; e la circostanza che la letteratura latina tardò tanto da cominciare quando restava poco tempo a poter durare in buon essere, poco tempo alla forza alla grandezza, alla vera vita degli uomini, poco tempo all'imperio della natura, e delle facoltà vitali dell'uomo, quando era imminente la corruzione e il precipizio della società, di Roma, delle nazioni civili, della libertà, del mondo) da quale di queste cagioni provenisse, o da ambedue insieme, il fatto sta che appena la lingua latina scritta prese forma stabile, e acquistò [859]perfezione, si allontanò dalla parlata più di quello che mai facesse lingua colta del mondo; pose e creò una somma distinzione fra la lingua degli scrittori, e quella del popolo; si allontanò quanto mai si possa dire dall'andamento e struttura naturale e comune e universale del discorso (senza però opporsi alla natura): e per tutte queste ragioni la lingua latina, non ostante l'estesissima diffusion della nazione, divenne la meno adattata alla universalità che mai si vedesse: e non ottenne, seppur vogliamo credere o dire che mai l'ottenesse, questa universalità, se non quando fu imbarbarita; e perduta la sua proprietà, la lingua scritta si confuse un'altra volta colla parlata, prese tante forme e caratteri, quanti popoli e scrittori l'adoperarono, e divenne piuttosto una famiglia di lingue tutte barbare, che una lingua universale nè colta.
Il che presto accadde, e durò fino al nascere [860]delle sue figlie, o piuttosto fino al crescere che queste fecero, e al separarsi da lei, perchè per lungo tempo (siccome accade in tutte le lingue figlie) non si poterono considerare se non come parte di quella famiglia di lingue barbare contenute nella latina, smembrandosi questa e facendosi in brani, come il grande imperio della sua nazione, e contemporaneamente al di lui misero diflusso.
Del resto la lingua latina scritta ne' primi veri e formati classici di essa, fu ridotta a tale artifizio, squisitezza, tortuosità, intrecciatura, composizione, lavoro, circuito, tessitura di periodi, obliquità di costruzione ec.; acquistò subito così stretta proprietà di modi, di frasi, di voci, proprietà inviolabile senza offesa formale della lingua; tanto precisa distinzione nell'uso de' suoi sinonimi, ossia delle innumerabili voci destinate alla significazione delle nuances di uno stesso oggetto; che quella lingua contenne il più di eleganza arbitraria che mai si vedesse, fu opera espressa dello scrittore più che qualunque altra; abbisognò di sì [861]profonda, sottile, minuta, esatta, e determinata cognizione non solo della sua indole, ma di ciascun modo, frase, parola, a volerla trattare senza offendere la sua sì propria e individuale e arbitraria altrettanto che definita proprietà; che allontanandosi estremamente dal volgare, e formando subito due lingue separate, cioè la scritta e la parlata, s'impossibilitò ancora, sì per questa, sì per quelle ragioni, alla universalità.
Alcuni scrittori latini, che anche nel tempo della perfezionata loro lingua letterata, si accostarono un poco più degli altri ai loro antichi scrittori, o al popolo, e conservarono maggiormente l'antico carattere della lingua; si accostarono altresì più degli altri agli ottimi greci, furono più semplici, più facili e piani, meno contorti e lavorati ec.
e si avvicinarono ancora al genio futuro della lingua italiana.
Tali furono Cesare, Cornelio Nipote, e sopra tutti Celso, del quale vedi quello che ho notato altrove, [862]della gran somiglianza che ha, sì col greco, sì massimamente coll'italiano, tanto nell'andamento, come nelle minute forme, frasi, voci.
E dovunque si trova nei latini scrittori, un tantino di quel candore e di quella grazia nativa, che non fu mai proprio della loro letteratura (eccetto i primi e non perfetti scrittori); si trova altresì maggiore e notabile somiglianza col carattere della lingua greca, e della nostra, e quindi anche del volgare latino, da cui la nostra è derivata, e a cui non dubito che Celso non si accostasse notabilmente, e più che ogni altro Classico conosciuto del secolo d'oro o d'argento.
Tuttavia anche in questi scrittori medesimi, si trova sempre un'aria di maggior coltura, una lingua più lavorata, più nitida, meno semplice, meno piana e naturale che quella degli ottimi greci, anzi in tal grado che non è possibile mai di confonderli con questi.
E certo quel candore, quella nuda venustà de' greci, e anche [863](ma quanto alla sola lingua) de' nostri trecentisti, non fu mai propria della scrittura e letteratura latina, se non forse della primitiva.
E verisimilmente non la comportava il carattere della nazione romana, assai più grave che graziosa, e quantunque naturale e semplice anch'essa (come tutte le antiche, non ancora, o non del tutto corrotte, e massime come tutte le nazioni libere e forti e grandi) tuttavia, padrona piuttosto della natura, di quello che amante e vagheggiatrice, come la nazione greca.
(21-24.
Marzo 1821.)
Come la proprietà delle parole è ben altro che la secchezza e nudità di ciascuna, così anche la semplicità e naturalezza e facilità della struttura di una lingua e di un discorso, è ben altro che l'aridità e geometrica esattezza di esso.
Così distinguete il carattere dell'ottima e antica scrittura greca da quello della moderna e riformata francese.
Così quello dell'ottima e antica e propria lingua e scrittura italiana, sì da quello della [864]francese, sì da quello dell'odierna italiana.
La quale quando anche non fosse barbara per le parole, modi ec.
è barbara pel geometrico, sterile, secco, esatto dell'andamento e del carattere.
Barbara per questo, tanto assolutamente, quanto relativamente all'essere del tutto straniera e francese, e diversa dall'indole della nostra lingua; ben altra cosa che lo straniero de' vocaboli o frasi, le quali ancorchè straniere non sono essenzialmente inammissibili, nè cagione assoluta di barbarie; bensì l'indole straniera in qualunque lingua è sostanzialmente barbara, e la vera cagione della barbarie di una lingua, che non può non esser barbara, quando si allontana, non dalle frasi o parole, ma dal carattere e dall'indole sua.
E tanto più barbaro è l'odierno italiano scritto, quanto il sapore italiano di certi vocaboli e modi per lo più ricercati ed antichi, e la cui italianità risalta e dà negli occhi; contrasta colla innazionalità ed anche coll'assoluta differenza del carattere totale della scrittura.
(24.
Marzo 1821.)
[865]Lodo che si distornino gl'italiani dal cieco amore e imitazione delle cose straniere, e molto più che si richiamino e invitino a servirsi e a considerare le proprie; lodo che si proccuri ridestare in loro quello spirito nazionale, senza cui non v'è stata mai grandezza a questo mondo, non solo grandezza nazionale, ma appena grandezza individuale; ma non posso lodare che le nostre cose presenti, e parlando di studi, la nostra presente letteratura, la massima parte de' nostri scrittori, ec.
ec.
si celebrino, si esaltino tutto giorno quasi superiori a tutti i sommi stranieri, quando sono inferiori agli ultimi: che ci si propongano per modelli; e che alla fine quasi ci s'inculchi di seguire quella strada in cui ci troviamo.
Se noi dobbiamo risvegliarci una volta, e riprendere lo spirito di nazione, il primo nostro moto dev'essere, non la superbia nè la stima delle nostre cose presenti, ma la vergogna.
E questa ci deve spronare a cangiare strada del tutto, e rinnovellare ogni cosa.
Senza ciò non faremo [866]mai nulla.
Commemorare le nostre glorie passate, è stimolo alla virtù, ma mentire e fingere le presenti è conforto all'ignavia, e argomento di rimanersi contenti in questa vilissima condizione.
Oltre che questo serve ancora ad alimentare e confermare e mantenere quella miseria di giudizio, o piuttosto quella incapacità d'ogni retto giudizio, e mancanza d'ogni arte critica, di cui lagnavasi l'Alfieri (nella sua vita) rispetto all'Italia, e che oggidì è così evidente per la continua esperienza sì delle grandi scempiaggini lodate, sì dei pregi (se qualcuno per miracolo ne occorre) o sconosciuti, o trascurati, o negati, o biasimati.
(24.
Marzo 1821.)
Che vuol dire che i così detti barbari, o popoli non ancora arrivati se non ad una mezza o anche inferiore civiltà, hanno sempre trionfato de' popoli civili, e del mondo? I Persiani degli Assiri inciviliti, i greci de' Persiani già corrotti, i Romani de' greci giunti al colmo della civiltà, i settentrionali de' Romani nello [867]stesso caso? Anzi che vuol dire che i Romani non furono grandi se non fino a tanto che furono quasi barbari? Vuol dire che tutte le forze dell'uomo sono nella natura e illusioni; che la civiltà, la scienza ec.
e l'impotenza sono compagne inseparabili; vuol dire che il fare non è proprio nè facoltà che della natura, e non della ragione; e siccome quegli che fa è sempre signore di chi solamente pensa, così i popoli o naturali o barbari che si vogliano chiamare, saranno sempre signori dei civili, per qualunque motivo e scopo agiscano.
Non dubito di pronosticarlo.
L'Europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi barbari che la minacciano dai fondi del Settentrione; e quando questi di conquistatori diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare.
Ma finattanto però che resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene e persuasive, e costanti, e non ragionate, e grandi illusioni, i popoli civili saranno lor preda.
Dopo quel tempo, quando à son tour la civiltà divenuta oggi sì rapida vasta e potente conquistatrice, non avrà più nulla da conquistare, allora o si tornerà alla barbarie, e se sarà possibile, alla natura per una nuova strada, e tutta opposta al naturale, cioè la strada dell'universale corruzione come ne' bassi tempi; o io non so pronosticare più oltre quello che si dovrà aspettare.
Il mondo allora comincerà un altro andamento, e quasi un'altra essenza ed esistenza.
(24.
Marzo 1821.)
[868]Quella sentenza che gli uomini sono sempre i medesimi in tutti i tempi e paesi, non è vera se non in questo senso.
I periodi che l'uomo percorre, e quelli di ciascuna nazione paragonati insieme, come i periodi de' tempi fra loro, sono sempre appresso a poco uguali o somigliantissimi; ma le diverse epoche che compongono questi periodi, sono fra loro diversissime, e quindi anche gli uomini di quest'epoca, rispetto a quelli di quell'altra, e questa nazione oggi trovandosi in un'epoca, rispetto a quell'altra nazione che si trova in altra epoca.
Come chi dicesse che l'orbita de' pianeti è sempre la stessa, non però verrebbe a dire che il punto, l'apparenza in cui essi si trovano, fosse sempre una.
I periodi della società si rassomigliano in tutti i tempi.
Questo è un vero assioma.
E l'eccessiva civiltà avendo sempre condotto i popoli alla barbarie, anzi precedutala immediatamente, anzi partecipato di essa; così accadrà anche ora, o il detto assioma riuscirà falso per la prima volta.
Del resto che gli uomini sieno gli stessi in tutti i tempi, a non volerlo intendere, o emendare come io dico, è proposizione o falsa o ridicola.
Falsa se si vuole estendere agli effetti delle facoltà umane, che ora sviluppate, ora [869]no, ora più, ora meno, ora attivissime, ora così sepolte nel fondo dell'animo da non lasciarsi scoprire nemmeno ai filosofi (come p.e.
la sensibilità odierna negli antichi, e peggio ne' primitivi, la ragione ec.
ec.), hanno diversificato la faccia del mondo in maniera infinita, e in moltissime guise.
Domando io se questi italiani d'oggi sono o paiono i medesimi che gli antichi; se il secolo presente si rassomiglia a quello delle guerre Persiane, o peggio, della Troiana.
Domando se i selvaggi si rassomigliano ai francesi, se Adamo ci riconoscerebbe per uomini, e suoi discendenti ec.
Ridicola se non vuole significare fuorchè questo, che l'uomo fu sempre composto degli stessi elementi e fisici e morali in tutti i tempi.
(ma elementi diversamente sviluppati e combinati, come i fisici, così i morali).
Cosa che tutti sanno.
Le qualità essenziali non sono mutate, nè mutabili, dal principio della natura in poi, in nessuna creatura, bensì le accidentali, e queste per la diversa disposizione delle essenziali, che partorisce una diversità [870]rilevantissima, e quanto possa esser, notabile, in quelle cose, che sole naturalmente, possono variare.
Questa proposizione dunque in quest'ultimo senso, sarebbe tanto importante quanto il dire che il mare, il sole, la luna sono le stesse in tutti i tempi ec.
(lasciando ora una fisica trascendente che potrebbe negarlo, e ponendolo per vero, com'è conforme all'opinione universale).
(25.
Marzo 1821.)
Intorno alla ragione proclamata, e alla tentata geometrizzazione del mondo, nella rivoluzione francese v.
anche parecchie cose notabili, e qualche notizia e fatto nell'Essai sur l'indifférence en matière de Religion nell'ultima parte del capo 10.
(che abbraccierà una 20na di pagg.) dove riduce le dottrine che ha esposte, all'esempio formale della rivoluzione francese, da quel periodo che incomincia Esisteva, sono già trent'anni, una nazione governata da una stirpe antica di re ec.
sino alla fine del capo.
(26.
Marzo 1821.)
Alla p.838.
principio.
Osservate ancora [871]quanti di quei mestieri che servono alla preparazione di cose anche usualissime, e stimate necessarie alla vita oggidì, sieno per natura loro nocivi alla salute e alla vita di coloro che gli esercitano.
Che ve ne pare? Che la natura abbia molte volte disposto alla sussistenza o al comodo di una specie, la distruzione o il danno di un'altra specie, o parte di lei, questo è vero, ed evidente nella storia naturale.
Ma che abbia disposta ed ordinata precisamente la distruzione di una parte della stessa specie, al comodo, anzi alla perfezione essenziale dell'altra parte (certo niente più nobile per natura, ma uguale in tutto e per tutto alla parte sopraddetta), questo chi si potrà indurre a crederlo? E questi tali mestieri, ancorchè usualissimi, e comunissimi, e riputati necessari alla vita, non saranno barbari, essendo manifestamente contro natura? E quella vita che li richiede e li suppone, ancorchè comoda, e stimata civilissima, non verrà dunque ella pure ad essere evidentemente contro natura? Non sarà dunque barbara?
(30.
Marzo 1821.)
Alla p.499.
fine.
A quello che ho detto della derivazione di favellare ec.
da fabulari ec.
aggiungete lo spagnuolo hablar, habla ec.
cioè fablar, [872]fabla ec.
da fabula ec.
secondo il costume spagnuolo di scambiare la f nell'h, come in herir per ferir, in hembra per fembra, in hazer o hacer per facer, e mille altre parole.
(30.
Marzo 1821.)
L'amor proprio dell'uomo, e di qualunque individuo di qualunque specie, è un amore di preferenza.
Cioè l'individuo amandosi naturalmente quanto può amarsi, si preferisce dunque agli altri, dunque cerca di soverchiarli in quanto può, dunque effettivamente l'individuo odia l'altro individuo, e l'odio degli altri è una conseguenza necessaria ed immediata dell'amore di se stesso, il quale essendo innato, anche l'odio degli altri viene ad essere innato in ogni vivente.
V.
p.926.
capoverso 1.
Dal che segue per primo corollario, che dunque nessun vivente, è destinato precisamente alla società, il cui scopo non può essere se non il ben comune degl'individui che la compongono: cosa opposta all'amore esclusivo e di preferenza, che ciascuno inseparabilmente [873]ed essenzialmente porta a se stesso, ed all'odio degli altri, che ne deriva immediatamente, e che distrugge per essenza la società.
Così che la natura non può nel suo primitivo disegno aver considerata, nè ordinata altra società nella specie umana, se non simile più o meno a quella che ha posta in altre specie, vale a dire una società accidentale, e nata e formata dalla passeggera identità d'interessi, e sciolta col mancare di questa; ovvero durevole, ma lassa o vogliamo dir larga e poco ristretta, cioè di tal natura che giovando agli interessi di ciascuno individuo in quello che hanno tutti di comune, non pregiudichi agl'interessi o inclinazioni particolari in quello che si oppongono ai generali.
Cosa che accade nelle società de' bruti, e non può mai accadere in una società, così unita, ristretta, precisa, e determinata da tutte le parti, come è quella degli uomini.
È cosa notabilissima che la società tanto più per una parte si è allargata, quanto più si è ristretta, dico fra gli uomini.
E quanto più si è ristretta, tanto più è mancato [874]il suo scopo, cioè il ben comune, e il suo mezzo, cioè la cospirazione di ciascuno individuo al detto fine.
Conseguenza naturale, ma niente osservata, del corollario precedente, e della proposizione da cui questo deriva.
Osservate.
Ridotto l'uomo dallo stato solitario a quello di società, le prime società furono larghissime.
Poco ristrette fra gl'individui di ciascuna società, e scarse nella rispettiva estensione e numero; niente o pochissimo ristrette fra le diverse società.
Ma in questo modo il ben comune di ciascuna società era effettivamente cercato dagl'individui, perchè da un lato non pregiudicava, dall'altro favoriva, anzi spesso costituiva il ben proprio.
E il ben comune risultava effettivamente da dette società, simili più o meno alle naturali, e conforme alle considerazioni fatte nel precedente corollario.
Le società si sono ristrette di mano in mano che veniamo giù discendendo dai tempi naturali; e ristrette per due capi: 1.
tra gl'individui di una stessa società: 2.
tra le diverse società.
Oggi questa ristrettezza è al colmo in tutti due questi capi.
Ciascuna società è così vincolata 1.
dall'obbedienza che deve per tutti i versi, in tutte le minuzie, con ogni matematica esattezza al suo capo, o governo, 2.
dall'esattissimo [875]regolamento, determinazione, precisazione di tutti i doveri e osservanze, morali, politiche, religiose, civili, pubbliche, private, domestiche ec.
che legano l'individuo agli altri individui; è, dico, tanto vincolata, e stretta e circoscritta, che maggior precisione e strettezza non si potrebbe forse immaginare per questa parte.
Le diverse società poi, sono così strette fra loro (dico le civili massimamente, ma non solamente), che l'Europa forma una sola famiglia, tanto nel fatto, quanto rispetto all'opinione, e ai portamenti rispettivi de' governi, delle nazioni, e degl'individui delle diverse nazioni.
In questo momento poi, l'Europa è piuttosto una nazione governata da una dieta assoluta; o vogliamo dire sottoposta ad una quasi perfetta oligarchia; o vogliamo dire comandati da diversi governatori, la cui potestà e facoltà deriva e risiede nel corpo intero di essi ec.
di quello che si possa chiamare composta di diverse nazioni.
Che è derivato e deriva da tutto ciò? [876]1.
L'incamminamento espresso della società ad un senso tutto e diametralmente opposto al sopraddetto, cioè ad allargarsi tanto anzi sciogliersi per una parte, ch'è la più importante, quanto per l'altra si stringe.
Cosa ch'è sempre accaduta dal principio della società in poi, in proporzione del maggiore stringimento di essa.
Considerate le antiche lassissime società, e vedrete che amor di patria, ossia di essa società, si trovava in ciascun individuo, che calore in difenderla, in proccurare il suo bene, in sacrificarsi per gli altri ec.
Venite giù di mano in mano, e troverete le società sempre più ristrette e legate in proporzione dell'incivilimento.
Ma che? Osservate i nostri tempi.
Non solo non c'è più amor patrio, ma neanche patria.
Anzi neppur famiglia.
L'uomo, in quanto allo scopo, è tornato alla solitudine primitiva.
L'individuo solo, forma tutta la sua società.
Perchè trovandosi in gravissimo conflitto gl'interessi e le passioni, a causa della strettezza e vicinanza, svanisce l'utile della società in massima parte; resta il danno, cioè il detto conflitto, nel quale l'uno individuo, e gl'interessi [877]suoi, nocciono a quelli dell'altro, e non essendo possibile che l'uomo sacrifichi intieramente e perpetuamente se stesso ad altrui, (cosa che ora si richiederebbe per conservare la società) e prevalendo naturalmente l'amor proprio, questo si converte in egoismo, e l'odio verso gli altri, figlio naturale dell'amor proprio, diventa nella gran copia di occasioni che ha, più intenso, e più attivo.
2.
Si è perduto in gran parte e si va sempre perdendo lo scopo della società, ch'è il bene comune, e ciò per la stessa ragione per cui se n'è perduto il mezzo, cioè la cospirazione degl'individui al detto fine.
Dilatiamo ora queste considerazioni, e seguendo ad applicarle ai fatti, ed alla storia dell'uomo, paragoniamo principalmente gli antichi coi moderni, cioè la società poco stretta e legata, e poco grande, cioè di pochi, con la società strettissima, e grandissima, cioè di moltissimi.
Ho detto che l'amor proprio è inseparabile [878]dall'uomo, e così l'odio verso gli altri ch'è inseparabile da esso, e che per conseguenza esclude primitivamente ed essenzialmente la stretta comunione e società sì degli uomini, che degli altri viventi.
Ma siccome l'amor proprio può prendere diversissimi aspetti, in maniera, ch'essendo egli l'unico motore delle azioni animali, esso stesso che è ora egoismo, un tempo fu eroismo, e da lui derivano tutte le virtù non meno che tutti i vizi; così nelle antiche e poche ristrette società (come pure accade anche oggi in parecchie delle popolazioni selvagge che si scoprono, o quando furono scoperte, come alcune Americane) l'amor proprio fu ridotto ad amore di quella società dove l'individuo si trovava, ch'è quanto dire amor di corpo o di patria.
Cosa ben naturale, perchè quella società giovava effettivamente all'individuo, e tendeva formalmente al suo scopo vero e dovuto, così che l'individuo se le affezionava, e trasformando se stesso in lei, trasformava l'amor di se stesso nell'amore di lei.
Come appunto accade nei partiti, nelle congregazioni, negli ordini ec.
massime quando sono nel primitivo [879]vigore, e conservano la prima lor forma.
Nel qual tempo gl'individui che compongono quel tal corpo, fanno causa comune con lui, e considerano i suoi vantaggi, gloria, progressi, interessi ec.
come propri: e quindi amandolo, amano se stessi, e lo favoriscono come se stessi.
Che questo in ultima analisi è l'unico principio dell'amor di corpo, di patria, di Religione, universale o dell'umanità, e di qualunque possibile amore in qualunque animale.
Dunque l'amor proprio si trasformava in amor di patria.
E l'odio verso gli altri individui? Non già spariva, ch'è sempre ed eternamente inseparabile dall'amor proprio, e quindi dal vivente: ma si trasformava in odio verso le altre società o nazioni.
Cosa naturale e conseguente, se quella tal società o patria, era per ciascuno individuo come un altro se stesso.
Quindi desiderio di soverchiarle, invidia de' loro beni, passione di render la propria patria signora delle altre nazioni, ingordigia altresì de' loro beni e robe, e finalmente odio ed astio dichiarato; tutte cose che nell'individuo trovandosi verso gli altri individui, lo rendono per natura, [880]incompatibile colla società.
Dovunque si è trovato amor vero di patria, si è trovato odio dello straniero: dovunque lo straniero non si odia come straniero, la patria non si ama.
Lo vediamo anche presentemente in quelle nazioni, dove resta un avanzo dell'antico patriotismo.
Ma quest'odio accadeva massimamente nelle nazioni libere.
Una nazione serva al di dentro, non ha vero amor di patria, o solamente inattivo e debole, perchè l'individuo non fa parte della nazione se non materialmente.
L'opposto succede nelle nazioni libere, dove ciascuno considerandosi come immedesimato e quasi tutt'uno colla patria, odiava personalmente gli stranieri sì in massa, come uno per uno.
Con queste osservazioni spiegate la gran differenza che si scorge nella maniera antica di considerare gli stranieri, e di operare verso le altre nazioni, paragonata colla maniera moderna.
Lo straniero non aveva nessun diritto sopra l'opinione, l'amore, il favore degli antichi.
E parlo degli antichi nelle nazioni più colte e civili, e in queste, degli uomini più grandi, colti, ed anche illuminati e filosofi.
Anzi la filosofia di allora (che dava molto più nel segno della presente) insegnava e inculcava l'odio nazionale e individuale dello straniero, come di prima necessità alla conservazione [881]dello stato, della indipendenza, e della grandezza della patria.
Lo straniero non era considerato come proprio simile.
La sfera dei prossimi, la sfera dei doveri, della giustizia, dell'onesto, delle virtù, dell'onore, della gloria stessa, e dell'ambizione; delle leggi ec.
tutto era rinchiuso dentro i limiti della propria patria, e questa sovente non si estendeva più che una città.
Il diritto delle genti non esisteva, o in piccolissima parte, e per certi rapporti necessari, e dove il danno sarebbe stato comune se non avesse esistito.
La nazione Ebrea così giusta, anzi scrupolosa nell'interno, e rispetto a' suoi, vediamo nella scrittura come si portasse verso gli stranieri.
Verso questi ella non avea legge; i precetti del Decalogo non la obbligavano se non verso gli Ebrei: ingannare, conquistare, opprimere, uccidere, sterminare, derubare lo straniero, erano oggetti di valore e di gloria in quella nazione, come in tutte le altre; anzi era oggetto anche di legge, giacchè si sa che la conquista di Canaan fu fatta per ordine Divino, e così cento altre guerre, spesso nell'apparenza ingiuste, co' forestieri.
Ed anche oggidì gli Ebrei conservano, e con ragione e congruenza, questa opinione, che non sia peccato l'ingannare, o far male comunque all'esterno, che chiamano (e specialmente il Cristiano) Goi ywg [882]ossia gentile, e che presso loro suona lo stesso che ai greci barbaro: (v.
il Zanolini, il quale dice che, nel plurale però si deve intendere, chiamano oggi i Cristiani \ywg goiìm) riputando peccato, solamente il far male a' loro nazionali.
E con queste osservazioni si deve spiegare una cosa che può far maraviglia nella Ciropedia.
Dove Senofonte vuol dare certamente il modello del buon re, piuttosto che un'esatta istoria di Ciro.
E nondimeno questo buon re, dopo conquistato l'impero Assirio, diventa modello e maestro della più fina, fredda, e cupa tirannide.
Ma bisogna notare che questo è verso gli Assiri, laddove verso i suoi Persiani, Senofonte lo fa sempre umanissimo e liberalissimo.
Ma egli stima che sia tanto da buon re l'opprimere lo straniero, e l'assicurarsi in tutti i modi della sua soggezione, come il conservare una giusta libertà a' nazionali.
Senza la qual distinzione e osservazione, si potrebbe quasi confondere Senofonte con Machiavello, e prendere un grosso abbaglio intorno alla sua vera intenzione, e all'idea ch'egli ebbe del buon Principe.
Nel qual proposito osserverò che la regola e il metodo di Ciro (o di Senofonte) di preferire in tutto e per tutto i Persiani ai nuovi sudditi, e dichiarare per tutti i versi, quella, [883]nazion dominante, e queste, soggette e dipendenti, non fu seguito da Alessandro, il quale anzi a costo d'inimicarsi i Macedoni, pare che tra' suoi sudditi di qualunque nazione volesse stabilire una perfetta uguaglianza, e quasi preferir fino i conquistati adottando le vesti e le usanze loro.
Il suo scopo fu certo quello di conservarli piuttosto coll'amore che col timore, e colla forza: e non li stimò schiavi (secondo il costume di quei tempi), ma sudditi.
E quanto ai Romani, vedi in questo particolare la fine del Capo 6.
di Montesquieu, Grandeur etc.
Oltre che i Romani accordando la cittadinanza a ogni sorta di stranieri conquistati, gli agguagliavano più che mai potessero ai cittadini e compatrioti: ma questa cosa non riuscì loro niente bene, com'è noto, e come ho detto in altro pensiero p.457.
Tornando al proposito, Platone nella Repubblica l.5.
(vedilo) dice: i Greci non distruggeranno certo i greci, non li faranno schiavi, non desoleranno le campagne, nè bruceranno le case loro; ma in quella vece faranno tutto questo ai Barbari.
E le Orazioni d'Isocrate tutte piene di misericordia verso i mali de' Greci, sono spietate verso i barbari, o Persiani, ed esortano continuamente la nazione e Filippo, a sterminarli.
Sono notabilissime in questo proposito le sue due Orazioni ???????????, e ???? ????????, dove inculca di proposito l'odio de' Barbari nello stesso tempo e per le stesse ragioni che l'amore dei greci, e come conseguenza di questo.
V.
specialmente quel luogo del panegirico, che comincia ?????????? ?? ??? ???????, e finisce ??? ????? ????? ???????? ??????????, dove parla di Omero e de' Troiani, p.175-176.
della ediz.
del Battie, Cambridge 1729.
molto dopo la metà dell'orazione ma ancor lungi dal fine.
E questa opposizione di misericordia e giustizia verso i propri, e fierezza e ingiustizia verso gli stranieri, è il [884]carattere costante di tutti gli antichi greci e romani, e massime de' più cittadini, e assolutamente de' più grandi e famosi: nominatamente poi degli scrittori, anche i più misericordiosi, umani e civili.
È insigne a questo proposito un luogo di Temistio nell'Orazione scoperta dal Mai ???????? ????????????? ??? ?? ???????? ??? ????? In eos a quibus ob praefecturam susceptam fuerat vituperatus cap.25.
Eccolo ??? ?????? ?? ??? ?? ???? ????????? ??? ??????????? ??????.
??? ?? ????? ????? ??? ?????????? ?????, ???? ?? ???????????.
??????????? ? ????????????, ???? ?? ???????????? ????????? ?? ?????????, ??? ??? ???????? ???????????, ????? ?? ????? ?????? ? ?????? ??????? ? ??? ???????? ????????.
(regium dominatum exercuit.
Maius.) ??????????? ?? ????? ??? ???????? ?????, ? ????? ????? ????? ?? ???????? ? ????????????????? (qui clementia indiget.
Maius.) ??? ?? ?? ?????? ? ?????????, ? ?? ??? ?? ?????????? (Mediol.
regiis typis.
1816.
inventore et interprete Angelo Maio p.66.
V.
tutto quel capo, e parte del resto, che tutto fa a questo proposito, ma, il luogo riferito principalmente, e dà gran luce e tutta appropriata, al mio discorso.
V.
anche l'oraz.10.
di Temistio dell'ediz.
Harduin.
p.132.
B-C.
e l'Oraz.
1.
p.[885]6.
B.
citt.
qui in margine dal Mai, come contenenti luoghi paralleli al riportato.) Così egli lodando Teodosio magno.
E infatti la filantropia, o amore universale e della umanità, non fu proprio mai nè dell'uomo nè de' grandi uomini, e non si nominò se non dopo che parte a causa del Cristianesimo, parte del naturale andamento dei tempi, sparito affatto l'amor di patria, e sottentrato il sogno dell'amore universale, (ch'è la teoria del non far bene a nessuno) l'uomo non amò veruno fuorchè se stesso, ed odiò meno le nazioni straniere, per odiar molto più i vicini e compagni, in confronto dei quali lo straniero gli dovea naturalmente essere (com'è oggi) meno odioso, perchè si oppone meno a' suoi interessi, e perch'egli non ha interesse di soverchiare, invidiare ec.
i lontani, quanto i vicini.
Da tutte queste osservazioni e fatti, risulta un'altra osservazione e un altro fatto conosciutissimo, e caratteristico dell'antichità; o piuttosto risulta la spiegazione di questo fatto.
Perchè amando l'individuo la patria sua, e conseguentemente odiando gli stranieri, ne seguiva che le guerre fossero sempre nazionali.
E tanto più accanite, quanto l'individuo era da ambe le parti più infiammato della sua causa, cioè dell'amor patrio.
Massimamente dunque lo erano quelle de' popoli liberi, o fatte a un popolo libero, [886]per la stessa ragione, per cui, come ho detto, un popolo libero ama maggiormente la patria, e maggiormente odia lo straniero.
Così che sì la nazione e l'armata straniera, sì l'individuo straniero, era come nemico privato dell'individuo che combatteva pel suo popolo libero, e per la sua patria.
E questa è una delle principali e più manifeste ragioni per cui i popoli più amanti della patria loro, e fra questi i liberi, sono stati sempre i più forti, i più formidabili al di fuori, i più bellicosi, i più intrepidi, i più atti alle conquiste, ed effettivamente, per così dire, i più conquistatori.
Dall'esser le guerre, nazionali, dovea risultare quest'altro effetto, che avea luogo realmente fra gli antichi, ed ha luogo in tutte le nazioni selvagge, e proporzionatamente in quelle che conservano maggiore spirito di nazione, e maggior primitivo, come gli Spagnuoli.
Cioè le guerre dovevano essere, a morte, e senza perdono (giacchè tutti e ciascuno erano nimici fra loro), senza distinzione ec.
E l'effetto della vittoria doveva essere il cattivare intieramente non solo il governo, ma la nazione intiera; (come si vide principalmente in Asia a tempo de' monarchi Assiri nelle lor guerre co' Giudei ec.
e al tempo di Tito Vespasiano) [887]o certo spogliarla de' costumi, leggi, governatori propri, dei tempii, de' sepolcri, della roba, del danaio, delle proprietà, delle mogli, dei figli ec.
e ridurla se non in ischiavitù, come si costumò antichissimamente, spogliando il vinto anche del suo paese; certo però in servitù: e considerarla come nazione dipendente, soggiogata, non partecipe di nessun vantaggio della nazion dominante, e non appartenente a lei, se non come suddita, nè avente con lei altro di comune, nè diritti, nè ec.
come se fosse di altra razza d'uomini.
E conseguentemente e congruentemente: perchè insomma tutta quanta la nazione essendo stata ed essendo nemica del vincitore, tutta si trattava come nemica vinta e domata, e tutta era preda del nemico trionfante.
Quindi la disperazione delle guerre l'ostinazione delle resistenze le più inutili, lo scannarsi scambievolmente le popolazioni intiere, piuttosto che aprir le porte al nemico, perchè in fatti il vinto andava nelle mani e nell'assoluta balìa di un nemico mortale, com'egli lo era del vincitore.
Quindi anche il combattere le nazioni intere, e l'essere tutti soldati, quanti potevano portar armi, e ciò sempre: cioè tanto in guerra quanto (se non in atto certo in potenza e disposizione) nel tempo di pace.
Perchè le nazioni, massime vicine, erano sempre in istato di guerra, odiandosi tutte scambievolmente, e cercando l'una di sorpassar l'altra in [888]qualunque modo per conseguenza necessaria del vero amor patrio.
(V.
in questo proposito, se però vuoi, l'Essai sur l'indifférence en matière de Religion ch.10.
dove discorre di proposito in questa materia, sebbene in senso opposto al mio, durante 9.
pagg.
della traduz.
di Bigoni cioè dalla p.160.
alla 169.
ossia dal periodo che comincia: Ma questo non è tutto ancora.
Quando i rapporti sociali ec.
sino a quello che incomincia: INCEDO PER IGNES.
Egli trova anche una conformità di quest'ultimo costume nella moltitudine delle armate odierne, che fa derivare dalla nazionalità delle guerre di questi ultimi anni.
Osservo però che questo derivò in principio dalla sola ambizione e dispotismo di Luigi 14.)
Conchiudo che l'indipendenza, la libertà, l'uguaglianza di un popolo antico, non solo non importava l'indipendenza, la libertà, l'uguaglianza degli altri popoli, rispetto a lui, e per quanto era in lui; ma per lo contrario importava la soggezione e servitù degli altri popoli, massime vicini, e l'obbedienza de' più deboli.
E un popolo libero al di dentro era sempre tiranno al di fuori, se aveva forze per esserlo, e questa forza nasceva sovente dalla sua libertà.
Nel modo stesso che un principe, per esser egli indipendente e libero, e non aver legami nè ostacoli alla sua volontà, non perciò lascia di tiranneggiare il suo popolo.
Anzi quanto più è geloso della sua libertà, tanto più ne toglie a' sudditi, o a' più deboli di lui.
Così quanto [889]più una nazione sentiva ed amava se stessa, che avviene massimamente ai popoli liberi, tanto più era nemica delle straniere, e desiderosa di elevarsi sopra loro, di farsene ubbidire, e conquistate, opprimerle; tanto più invidiosa de' loro beni, ingorda del loro ec.
effetto naturale dell'amor nazionale, come lo è dell'amor proprio rispetto agl'individui: essendo insomma l'amor patrio, non altro che egoismo nazionale, e rispetto alla nazione intera, egoismo della nazione.
E così dite di qualunque amore o spirito di corpo, di parte ec.
Quella nazione dove regna fortemente e vivacemente ed efficacemente l'amor nazionale, è come un grande individuo: e alla maniera dell'individuo, amando se stessa, si ama di preferenza, e desidera, e cerca di superare le altre in qualunque modo.
E quanto all'essere un popolo tanto più tiranno di fuori, quanto più geloso della libertà propria, e nemico della tirannia di dentro, v.
l'esempio moderno, che pare all'autore dell'Essai ec.
di vedere nell'Inghilterra rispetto a' suoi stabilimenti fuor d'Europa.
Vedilo, dico, al luogo citato nella pagina precedente.
Questi quadri paiono non solamente disgustosi, anzi terribili, ma tali che nessun male, nessun cattivo stato si possa paragonare col detto stato delle nazioni antiche.
E ciò avverrà massimamente a quelli che considerano la vita come un bene per se stessa, qualunque ella sia.
Ma passiamo ora ai moderni, e consideriamo il rovescio della medaglia.
1.
L'uomo non si potrà mai (come nessun vivente) spogliare dell'amor di se stesso, nè questo dell'odio verso [890]altrui.
Riconcentrato il potere, tolto agl'individui quasi del tutto il far parte della nazione, di più, spente le illusioni, l'individuo ha trovato e veduto il ben comune come diviso e differente dal ben proprio.
Dovendo scegliere, non ha esitato a lasciar quello per questo.
E non poteva altrimenti, essendo uomo, e vivendo.
Sparite effettivamente le nazioni, e l'amor nazionale, s'è spento anche l'odio nazionale, e l'essere straniero non è più colpa agli occhi dell'uomo.
S'è perciò spento l'odio verso altrui, l'amor proprio? allora si spegnerà quando la natura farà un altro ordine di cose e di viventi.
La fola dell'amore universale, del bene universale, col qual bene ed interesse, non può mai congiungersi il bene e l'interesse dell'individuo, che travagliando per tutti non travaglierebbe per se, nè per superar nessuno, come la natura vuol ch'ei travagli; ha prodotto l'egoismo universale.
Non si odia più lo straniero? ma si odia il compagno, il concittadino, l'amico, il padre, il figlio; ma l'amore è sparito affatto dal mondo, sparita la fede, la giustizia, l'amicizia, l'eroismo, ogni virtù, fuorchè l'amor di se stesso.
Non si hanno più nemici nazionali? ma si hanno nemici privati, e tanti quanti son gli uomini; ma non si hanno più amici di sorta alcuna, nè doveri se non verso se stesso.
Le nazioni sono in pace al di fuori? [891]ma in guerra al di dentro, e in guerra senza tregua, e in guerra d'ogni giorno, ora, momento, e in guerra di ciascuno contro ciascuno, e senza neppur l'apparenza della giustizia, e senz'ombra di magnanimità, o almeno di valore, insomma senz'una goccia di virtù qualunque, e senz'altro che vizio e viltà; in guerra senza quartiere; in guerra tanto più atroce e terribile, quanto è più sorda, muta, nascosta; in guerra perpetua e senza speranza di pace.
Non si odiano, non si opprimono i lontani e gli alieni? ma si odiano, si perseguitano, si sterminano a tutto potere i vicini, gli amici, i parenti; si calpestano i vincoli più sacri; e la guerra essendo fra persone che convivono, non c'è un istante di calma, nè di sicurezza per nessuno.
Qual nemicizia dunque è più terribile? Quella che si ha co' lontani, e che si esercita solo nelle occasioni, certo non giornaliere; o quella ch'essendo co' vicini si esercita sempre e del continuo, perchè continue sono le occasioni? Quale è più contraria alla natura, alla morale, alla società? Gl'interessi de' lontani non sono in tanta opposizione coi nostri (e per quanto lo sono, si odia adesso il lontano, come e più che anticamente, bensì meno apertamente e più vilmente).
Ma gl'interessi de' vicini essendo co' nostri in continuo urto, la guerra più terribile è quella che deriva dall'egoismo, e dall'odio naturale verso altrui, rivolto non più verso lo straniero, [892]ma verso il concittadino, il compagno ec.
2.
Per qual cagione l'amore universale sia un sogno, non mai realizzabile, risulta dalle cose dette in questo discorso, e l'ho esposto già in altri pensieri.
Ora non potendo il vivente senza cessar di vivere, spogliarsi nè dell'amor proprio, nè dell'odio verso altrui, resta che queste passioni prendano un aspetto, quanto si può migliore; resta che l'amor proprio dilati quanto più può il suo oggetto (ma non può troppo dilatarlo senza perdersi il se stesso ch'è indivisibile dall'uomo, e quindi ricadere inevitabilmente nell'amor di se solo); e che l'odio verso altrui si allontani quanto più si può, cioè scelga uno scopo lontano.
Questo avviene per la prima parte, quando l'individuo trova una comunione e medesimezza d'interesse con quelli che lo circondano; e per la seconda, quando egli non trova la principale opposizione a questo interesse se non ne' lontani.
Ecco dunque l'amor patrio, e l'odio degli stranieri.
E per tutte queste ragioni, io dico, che stante l'amor proprio, e l'odio naturale dell'uomo verso altrui, passioni che lo rendono per natura indisposto alla società, una società non può sussistere veramente, cioè essere effettivamente ordinata al suo scopo ch'è il ben comune di tutta lei, se le dette passioni non prendono il detto aspetto; cioè: la società non può sussistere senz'amor patrio, ed odio degli stranieri.
Ed essendo l'uomo essenzialmente ed [893]eternamente egoista, la società per conseguenza, non può essere ordinata al ben comune, cioè sussistere con verità, se l'uomo non diventa egoista di essa società, cioè della sua nazione o patria, e quindi naturalmente nemico delle altre.
E per tutte queste ragioni, ed altre che ho spiegato altrove, dico, e segue evidentemente, che la società ed esisteva fra gli antichi, ed oggi non esiste.
3.
Come senz'amor patrio non c'è società, dico ancora che senz'amor patrio non c'è virtù, se non altro, grande, e di grande utilità.
La virtù non è altro in somma, che l'applicazione e ordinazione dell'amor proprio (solo mobile possibile delle azioni e desiderii dell'uomo e del vivente) al bene altrui, considerato quanto più si possa come altrui, perchè in ultima analisi, l'uomo non lo cerca o desidera, nè lo può cercare o desiderare se non come bene proprio.
Ora se questo bene altrui, è il bene assolutamente di tutti, non confondendosi questo mai col ben proprio, l'uomo non lo può cercare.
Se è il bene di pochi, l'uomo può cercarlo, ma allora la virtù ha poca estensione, poca influenza, poca utilità, poco splendore, poca grandezza.
Di più, e per queste stesse ragioni, poco eccitamento e premio, così che è rara e difficile; giacchè siamo da capo, mancando allora o essendo poco efficace lo sprone che muove l'uomo ad abbracciar la virtù, cioè il ben proprio.
Talchè anche per questo capo [894]è dannosa la soverchia ristrettezza e piccolezza, o poca importanza e pregio delle società, dei corpi, dei partiti ec.
E riguardo all'altro capo, cioè la poca utilità delle virtù che si rapportano al bene o agl'interessi qualunque di pochi, o poco importanti ec.
questa è la ragione per cui non sono lodevoli, anzi spesso dannosi i piccoli corpi, società, ordini, partiti, corporazioni, e l'amore e spirito di questi negl'individui.
Giacchè le virtù e i sacrifizi a cui questi amori conducono l'individuo, sono piccoli, ristretti, bassi, umili, e di poca importanza, vantaggio, ed entità.
In oltre nuocono alla società maggiore, perchè siccome l'amor di patria produce il desiderio e la cura di soverchiare lo straniero, così l'amore de' piccoli corpi, essendo parimente di preferenza, produce la cattiva disposizione degl'individui verso quelli che non appartengono a quella tal corporazione, e il desiderio di superarli in qualunque modo.
Così che nasce la solita disunione d'interessi, e quindi di scopo, e così queste piccole società, distruggono le grandi, e dividono i cittadini dai cittadini, e i nazionali dai nazionali, restando tra loro la società sola di nome.
Dal che potete intendere il danno delle sette, sì di qualunque genere, come particolarmente di queste famose moderne e presenti, le quali ancorchè studiose o in apparenza, o, poniamo anche, in sostanza del bene di tutta la patria, si vede per esperienza, che non hanno mai fatto alcun bene, e sempre gran male, e maggiore ne farebbero, se arrivassero a prevalere, e conseguire i loro intenti; e ciò per le dette ragioni, e perchè l'amor della setta (fosse pur questa purissima) nuoce all'amore della nazione ec.
V.
p.1092.
principio.
Resta dunque che l'egoismo sociale, abbia per oggetto una società di tal grandezza ed estensione, che senza cadere negl'inconvenienti delle piccole, non sia tanto grande, che l'uomo per cercare il di lei bene, sia costretto a perdere di vista se stesso; [895]il che egli non potendo fare mentre vive, ricadrebbe nell'egoismo individuale.
L'egoismo universale (giacchè anche questo non potrebb'essere altro che egoismo, come tutte le passioni e tutti gli amori dei viventi) è contraddittorio nella sua stessa nozione, giacchè l'egoismo è un amore di preferenza, che si applica a se stesso, o a chi si considera come se stesso: e l'universale esclude l'idea della preferenza.
Molto più poi è stravagante l'amore sognato da molti filosofi, non solo di tutti gli uomini, ma di tutti i viventi, e quanto si possa, di tutto l'esistente: cosa contraddittoria alla natura, che ha congiunto indissolubilmente all'amor proprio una qualità esclusiva, per cui l'individuo si antepone agli altri, e desidera esser più felice degli altri, e da cui nasce l'odio, passione così naturale e indistruggibile in tutti i viventi, come l'amor proprio.
Ma tornando al proposito, la detta società di mezzana grandezza, non è altro che una nazione.
Perchè l'amore delle particolari città native è dannoso oggi, come l'amore de' piccoli corpi, non producendo niente di grande, come non dà eccitamento nè premio a virtù grandi; e d'altra parte, staccando l'individuo dalla società nazionale, e dividendo le nazioni in tante parti, tutte intente a superarsi l'una coll'altra, e quindi nemiche scambievoli.
Del che non si può dare maggior pregiudizio.
Le città antiche, se anche erano piccole come le moderne, e tuttavia servivano [896]di patria, erano però più importanti assai, per la somma forza d'illusioni che vi regnava, e che somministrando grandi eccitamenti, e premi grandi ancorchè illusorii, bastava alle grandi virtù.
Ma questa forza d'illusioni non è propria se non degli antichi, che come il fanciullo, sapevano trar vita vera da tutto, ancorchè menomo.
La patria moderna dev'essere abbastanza grande, ma non tanto che la comunione d'interessi non vi si possa trovare, come chi ci volesse dare per patria l'Europa.
La propria nazione, coi suoi confini segnati dalla natura, è la società che ci conviene.
E conchiudo che senza amor nazionale non si dà virtù grande.
Da tutto ciò deducete il gran vantaggio del moderno stato, che ha tolto assolutamente il fondamento, anzi la possibilità della virtù, certo della virtù grande, e grandemente utile; della virtù stabile e solida, e che abbia una base e una fonte durevole e ricca.
4.
Lascio la gran vita che nasce dall'amor patrio, e in proporzione della sua forza, ch'è massima ne' popoli liberi, e che gli antichi godevano mediante questo; e la morte del mondo, sparito che sia l'amor patrio, morte che noi sperimentiamo da gran tempo.
5.
Le guerre moderne sono certo meno accanite delle antiche, e la vittoria meno terribile e dannosa al vinto.
Questo è naturalissimo.
Non esistendo più nazioni, [897]e quindi nemicizie nazionali, nessun popolo è vinto, nessuno vincitore.
Chi vince non vince quel tal popolo, ma quel tal governo.
I soli governi sono nemici fra loro.
Dunque la vittoria non si esercita sopra la nazione (la quale come l'asino di Fedro cambia solamente la soma, o l'asinaio); ma sopra il solo governo.
Una nazione conquistata perde il suo governo, e ne riceve un altro che presso a poco è il medesimo.
Non essendo nemica della conquistatrice, non avendo avuto guerra con essa, nè questa con lei, partecipa ai di lei vantaggi, alle cariche pubbliche ec.
Non perde le proprietà, nè la libertà civile, nè i costumi ec.
(Alle volte non perderà neppure le sue leggi).
Ma come tutto il suo, non era suo, ma del suo padrone, così tutto questo, senza nuovo danno de' suoi individui, come presso gli antichi, passa di peso e senza scomporsi ad essere di un altro padrone.
Anticamente il privato perdeva individualmente le sue proprietà perchè individualmente ne aveva.
Ora non egli che non le ha individualmente, e non le può perdere, ma il suo principe vinto perde tutte insieme le proprietà de' suoi sudditi, ch'erano generalmente ed unitamente sue; e questo per conseguenza accade senza cangiamenti nello stato de' particolari, e senza nuove violazioni de' diritti privati e individuali.
S'ella diviene dipendente al di fuori, lo era già al di dentro.
La sua dipendenza non è nuova se non di nome, perchè la sua indipendenza era pur tale.
E se ora dipende dallo straniero, lo straniero è per lei tutt'uno che il nazionale; perchè la nazione non esisteva neppur prima della conquista; ed ella non amando se stessa, non avendo amor patrio, non odia dunque lo straniero, se non come il nazionale, e come l'uomo odia l'altro uomo.
Il diritto delle nazioni [898]è nato dopo che non vi sono state più nazioni.
Ella dunque gode gli stessi diritti, che godeva prima della conquista, e gli gode ora come la conquistatrice.
Quanto alle guerre, elle non sono già nè meno frequenti, nè meno ingiuste delle antiche.
Perchè la sorgente delle guerre, che una volta era l'egoismo nazionale, ora è l'egoismo individuale di chi comanda alle nazioni, anzi costituisce le nazioni.
E questo egoismo, non è nè meno cupido, nè meno ingiusto di quello.
Dunque, come quello, misura i suoi desiderii dalle sue forze; (spesso anche oltre le forze) e la forza è l'arbitra del mondo oggidì, come anticamente, non già la giustizia, perchè la natura degli uomini non si cambia, ma solo gli accidenti.
Questi che esagerano l'ingiustizia e frequenza delle guerre antiche prima del Cristianesimo, del diritto delle genti, e del preteso amore universale; mostra che abbiano bensì letto la storia antica, ma non quella de' secoli Cristiani fino a noi.
Quella storia e questa presentano appuntino le stesse ingiustizie, le stesse guerre, lo stesso trionfo della forza ec.
nè il Cristianesimo ha migliorato in ciò il mondo di un punto; colla differenza che allora le esercitavano, allora combattevano le nazioni, ora gl'individui, o vogliamo dire i governi; allora per conseguenza i combattenti o gl'ingiusti, erano giusti e virtuosi verso qualcuno, cioè verso i proprii, adesso verso nessuno; allora le nimicizie [899]partorivano le grandi virtù, e l'eroismo in ciascuna nazione, adesso i grandi vizi e la viltà; allora una nazione opprimeva l'altra, adesso tutte sono oppresse, la vinta come la vincitrice; allora serviva il vinto, adesso la servitù è comune a lui col vincitore; allora i vinti erano miseri e schiavi, cosa naturalissima in tutte le specie di viventi, oggi lo sono nè più nè meno anche i vincitori e fortunati, cosa barbara e assurda; allora chi moveva la guerra, era spesso ingiusto colla nazione a cui la moveva, adesso chi la muove è ingiusto, appresso a poco, tanto con quella a cui la move, quanto con quella per cui mezzo e forza la muove: e ciò tanto nel muoverla, quanto in tutto il resto delle sue azioni pubbliche.
E i governi oggi tra loro, sono in istato di guerra (o aperta o no) tanto continua, quanto le nazioni anticamente.
Lascio le atrocità commesse anche ne' primi e più fervorosi tempi Cristiani sopra i Capi delle nazioni vinte: cosa conseguente, perch'essi erano i vinti, e non le nazioni.
E così costumavasi, per naturale effetto, anche anticamente, nella vittoria di nazioni serve al di dentro e monarchiche.
Nè mancano esempi più recenti nelle storie, di questa naturale conseguenza dello stato presente dei popoli, cioè dell'odio privato o pubblico fra' loro capi, e delle sevizie usate sopra i principi vinti o prigioni ec.
Vengo all'atto della guerra.
Anticamente, dicono, combattevano le nazioni intere: le guerre de' tempi [900]Cristiani fatte con piccoli eserciti, hanno meno sangue, e meno danni.
Ma anticamente combatteva il nemico contro il nemico, oggi l'indifferente coll'indifferente, forse anche coll'amico, il compagno, il parente; anticamente nessuno era che non combattesse per la causa propria, oggi nessuno che non combatta per causa altrui; anticamente il vantaggio della vittoria era di chi avea combattuto, oggi di chi ha ordinato che si combatta.
È in natura che il nemico combatta il suo nemico, e per li suoi vantaggi; e ciò si vede anche nei bruti, certo non corrotti, anche dentro la loro propria specie, e co' loro simili.
Ma non è cosa tanto opposta alla natura, quanto che un individuo senza nè odio abituale, nè ira attuale, con nessuno o quasi nessuno vantaggio ed interesse suo, per comando di persona che certo non ama gran fatto, e probabilmente non conosce, uccide un suo simile che non l'ha offeso in nessuna maniera, e che, per dir poco, non conosce neppure e non è conosciuto dall'uccisore.
Anzi di più, un individuo ch'egli odia per lo più molto meno di quello che gli comanda di ucciderlo, e certo molto meno di gran parte fra' suoi stessi compagni d'arme, e fra' suoi concittadini.
Perchè oggi gli odi, le invidie, le nimicizie, si esercitano coi vicini, e nulla ordinariamente coi lontani: l'egoismo individuale ci [901]fa nemici di quelli che ci circondano, o che noi conosciamo, ed hanno attenenza con noi; e massime di quelli che battono la nostra stessa carriera, e aspirano allo stesso scopo che noi cerchiamo, e dove vorremmo esser preferiti; di quelli che essendo più elevati di noi, destano per conseguenza l'invidia nostra, e pungono il nostro amor proprio.
Lo straniero al contrario ci è per lo meno indifferente, e spesso più stimato dei conoscenti, perchè la stima ec.
è fomentata dalla lontananza, e dalla ignoranza della realtà, e dallo immaginario che ne deriva: ed infatti in un paese dove non regni amor patrio, il forestiero è sempre gradito, e i costumi, i modi ec.
ec.
tanto suoi, come di qualunque nazione straniera, sono sempre preferiti ai nazionali, ed egli lo è parimente.
Così che il soldato oggidì è molto più nemico sì di quelli in cui compagnia combatte, sì di quelli in cui vantaggio, per cui volere, sotto di cui combatte, che di coloro ch'egli combatte ed uccide.
E tutto ciò per natura delle cose, e non per capriccio.
Talchè, se vorremo una volta considerar bene le cose, non le apparenze, troveremo molta più barbarie oggidì nella uccisione di un nemico solo, che anticamente nel guasto di un popolo: perchè questo era del tutto secondo natura; quello è per tutti i versi contrario alla natura.
[902]Voglio andare anche più avanti, e mostrare che questo preteso vantaggio del poco numero de' combattenti, ha sussistito finora non per altro se non perchè le nazioni hanno conservato qualche cosa di antico, e continuato ad essere in qualche modo nazioni; e che ora che hanno cessato affatto di esserlo, il detto vantaggio non può più sussistere.
Certo che le nazioni non essendo più nemiche l'una dell'altra, e gli eserciti essendo come truppe di operai pagati perchè lavorino il campo del padrone, e il numero di un esercito non richiedendosi che sia se non quanto è quello dell'altro, le guerre si potrebbero sbrigare con pochissimo numero di combattenti, e anche con un compromesso, dove due sole persone pagate combattessero insieme per decider la causa.
Ma l'egoismo dell'uomo porta ch'egli impieghi ad ottenere il suo fine tutte quante le forze ch'egli può impiegare a tale effetto.
Un grand'esercito, sì per se stesso, sì per le imposte che bisognano a mantenerlo, non si mantiene senza incomodo e danno e spesa dei sudditi.
Finchè i sudditi non sono stati affatto servi, finchè la moltitudine è stata qualche cosa, finchè la voce della nazione si è fatta sentire, finchè la carne umana, eccetto quella di un solo per nazione, non è stata ad intierissima disposizione di questo solo che comanda, e come la carne, così tutto il resto, e la nazione per tutti i versi; fino, dico, [903]ad un tal punto, il principe non potendo adoperare la nazione a' suoi propri fini, se non sino ad un certo segno, le armate non furono più che tanto numerose.
La nazione, che era ancora in qualche modo nazione, non tollerava facilmente 1.
di guerreggiare pel puro capriccio del suo capo, e in bene di lui solo, 2.
le leve forzate, o almeno eccessive, 3.
l'eccesso delle imposte per far la guerra.
Non tollerava, dico, tutto questo, o poneva il principe in gravissimi pericoli e disturbi al di dentro.
Così che era dell'interesse del principe di risparmiare la nazione, che ancora tanto o quanto esisteva, e risparmiarla, sì nelle altre cose, sì massimamente dove si trattava del suo sangue, e delle sue proprietà più care, che sono i figli, i congiunti ec.
Dal tempo della distruzione della libertà, fino ai principii o alla metà del seicento, i sovrani se anche erano più tiranni d'oggidì, cioè più violenti e sanguinarii, appunto per l'urto in cui erano colla nazione, non sono stati però mai padroni così assoluti de' popoli, come in appresso.
Basta legger le storie e vedere come fossero frequenti e facili e pericolose in quei tempi le sedizioni, i tumulti popolari ec.
che per qualunque cagione nascessero, mostravano pur certo che la nazione era ancor viva, ed esisteva.
E non era strano in quei tempi, come dopo, [904]il vedere scorrere il sangue de' principi per mano de' suoi soggetti.
Di più il potere era assai più diviso, tanto colle baronie, signorie, feudi, ch'era il sistema monarchico d'allora, quanto colle particolari legislazioni, privilegii, governi in parte indipendenti delle città o provincie componenti le monarchie.
Così che il re, non trovando tutto a sua sola disposizioine, e non potendo servirsi della nazione per le sue voglie, se non con molti ostacoli, le armate venivano ad esser necessariamente piccole: ed è cosa manifesta che quando la signoria di una nazione è divisa in molte signorie, il signore di tutte, non può prendere da ciascuna se non poco, e infinitamente meno di quello che prenderebbe s'egli fosse il signore immediato, e se tutto dipendesse intieramente dall'arbitrio suo.
Cosa dimostrata dalla storia, ed osservata dai politici.
Ed anche per questo si stima nella guerra come principalissimo vantaggio, l'assoluta padronanza di un solo, e la intera monarchia, come quella di Macedonia in mezzo alla Grecia divisa ne' suoi poteri.
(Il che però ne' miei principii si deve intendere solamente nel caso che quelle nazioni combattute da una potenza dispotica non siano dominate da vero amor di patria, o meno, se è possibile, di quella nazione soggetta al dispotismo.
E tale era la Grecia ai tempi Macedonici, laddove la sola Atene aveva una volta resistito alla potenza dispotica della Persia, e vintala.
Perchè del resto è certo che un solo vero soldato della patria, val più di dieci soldati di un despota, se in quella nazione monarchica non esiste altrettanto o simile patriotismo.
E appunto nella battaglia di Maratona, uno si trovò contro dieci, cioè 10.m contro 100.m e vinsero.) Sono anche note le costituzioni di quei tempi, le carte nazionali, l'uso degli stati generali, corti ec.
come in Francia, in Ispagna ec.
con che o la moltitudine faceva ancora sentir la sua voce, o certo il potere restava meno indipendente ed uno, e il monarca più legato.
[905]Ma da che il progresso dell'incivilimento o sia corruzione, e le altre cause che ho tante volte esposte, hanno estinto affatto il popolo e la moltitudine, fatto sparire le nazioni, tolta loro ogni voce, ogni forza, ogni senso di se stesse, e per conseguenza concentrato il potere intierissimamente nel monarca, e messo tutti i sudditi e ciascuno di essi, e tutto quello che loro in qualunque modo appartiene, in piena disposizione del principe; allora e le guerre son divenute più arbitrarie, e le armate immediatamente cresciute.
Ed è cosa ben naturale, e non già casuale, ma conseguenza immancabile e diretta della natura delle cose e dell'uomo.
Perchè quanto un uomo può adoperare in vantaggio suo, tanto adopera; ed ora che il principe può adoperare al suo qualunque scopo o desiderio, tutta quanta è, e tutto quanto può la nazione, segue ch'egli l'adopri effettivamente senz'altri limiti che quelli di lei stessa, e delle sue possibili forze.
Il fatto lo prova.
Luigi 14.
o primo, o uno de' primi di quei regnanti che appartengono all'epoca della perfezione del dispotismo, diede subito l'esempio al mondo, della moltitudine delle armate.
Dato che sia questo esempio il seguirlo è necessario.
Perchè siccome oggi la grandezza di un'armata è arbitraria bensì, ma dipende, e deve corrispondere quanto si possa a quella del nemico, [906]così se quella del nemico è grande, bisogna che ancor voi, se potete, ancorchè non voleste, facciate che la vostra sia grande, e superi, potendo, in grandezza la nemica; nello stesso modo che la potreste far piccola, anzi menomissima per le stesse ragioni, nel caso opposto, come ho detto p.902.
Infatti l'esempio di Luigi 14.
fu seguito sì da' principi suoi nemici, sì da Federico secondo, il filosofo despota, e l'autore di molti nuovi progressi del despotismo, da lui felicemente coltivato e promosso.
Ed egli parimente obbligò alla stessa cosa i suoi nemici.
Finalmente la cosa è stata portata all'eccesso da Napoleone, per ciò appunto ch'egli è stato l'esemplare della forse ultima perfezione del despotismo.
Non però quest'eccesso è l'ultimo a cui vedremo naturalmente e inevitabilmente arrivare la cosa.
Dico inevitabilmente, supposti i progressi o la durata del dispotismo, e del presente stato delle nazioni, le quali due cose, secondo l'andamento dei tempi, il sapere che regna ec.
non pare che per ora, possano far altro che nuovi progressi, o pigliar nuove radici.
E in questo caso, dico inevitabilmente, sì per l'egoismo naturale dell'uomo, e conseguentemente del principe, egoismo il cui effetto è sempre necessariamente proporzionato al potere dell'egoista; sì ancora perchè dato che sia l'esempio, e preso il costume questo andamento, la cosa si rende necessaria anche a chi non la volesse.
E [907]che ciò sia vero, osservate.
Come si potrebbe rimediare a questo costume, ancorchè egli sia in ultima analisi arbitrario e dipendente dalla volontà? Con un accordo generale dei principi, di tutti coloro che possono mai guerreggiare? Non ignoro che questo accordo si tentò, o si suppose che si tentasse o proponesse al Congresso di Vienna.
E certo l'occasione era l'ottima che potesse mai darsi, ed altra migliore non si darà mai.
So però che nulla se n'è fatto.
Forse avranno conosciuta l'impossibilità, che realmente vi si oppone.
Primo, qual è oggi la guarentia de' trattati, se non la forza o l'interesse? Qual forza dunque o quale interesse vi può costringere a non cercare il vostro interesse con tutte le forze che potete? Secondo, (e questo prova più immediatamente che, anche volendo, non si può rimediare) chi si fida di un trattato precedente, in tempo di guerra? Chi non conosce quello che ho detto qui sopra nel primo luogo? e generalmente, chi non conosce la natura universale e immutabile dell'uomo? Se dunque il principe conosce tutto ciò, dunque sospetta del suo nemico; dunque anche non volendo, è obbligato a tenersi e provvedersi in modo ch'egli sappia resistere quanto più si può, a qualunque forza che il nemico voglia impiegare per attaccarlo.
Chi è colui che possa levar mille uomini, e ne levi cento, non sapendo se il nemico l'assalterà [908]con cento o con mille, anzi avendo più da creder questo che quello? E quando si fosse fatto l'accordo generale, e osservatolo per lungo tempo, tanto maggiore sarebbe il vantaggio proposto a chi improvvisamente rompesse il patto: e quindi presto o tardi questo tale non mancherebbe.
Ciò lo metterebbe in pieno possesso del suo nemico, e dopo un esempio solo di questa sorta, ognuno diffiderebbe, nessuno vorrebbe sull'incertezza arrischiare il tutto, e tutti ritornerebbero al primo costume.
E ciò si deve intendere non meno in tempo di guerra che di pace, essendo sempre continuo il pericolo che i governi portano l'uno dall'altro.
E ciò ancora è manifesto dal fatto, e dalle grandi forze che si tengono ora in tempo di pace, così che non c'è ora un tempo dove un paese resti disarmato, anzi non bene armato, a differenza sì de' tempi antichi, sì de' secoli cristiani anteriori a questi ultimi.
Da tutto ciò segue che le armate non solo non iscemeranno più, ma cresceranno sempre, cercando naturalmente ciascuno di superare l'altro con tutte le sue forze, e le sue forze stendendosi quanto quelle della nazione: che quindi le nazioni intiere, come fra gli antichi, si scanneranno scambievolmente, ma non, come fra gli antichi, spontaneamente, e di piena volonterosità, anzi vi saranno cacciate per marcia forza; non odiandosi scambievolmente, anzi essendo in piena indifferenza, e forse anche bramando di esser vinte (perchè, ed anche questo è notabile, perduto l'amor di patria, e l'indipendenza interna, la novità del padrone, e delle leggi, governo ec.
non solo non è odiata nè temuta, ma spesso desiderata e preferita) non per il proprio bene, ma per l'altrui; non per il ben comune, ma di uno solo; anzi di quei soli che abborriranno più di qualunque altro, [909]e più assai di chi combatteranno; insomma non secondo natura, nè per effetto naturale, ma contro natura assolutamente.
E lo stesso dite di tutte le altre conseguenze del dispotismo, sì rispetto alla guerra, come indipendentemente da essa.
Cioè i popoli, sì per causa delle proprie e delle altrui armate, sì astraendo da ciò, saranno smunti, impoveriti, disanguati, privati delle loro comodità, impedita o illanguidita l'agricoltura, collo strapparle i coltivatori, e collo spogliarla del prodotto delle sue fatiche; inceppato e scoraggiato il commercio e l'industria, collo impadronirsi che farà del loro frutto, il sempre crescente dispotismo ec.
ec.
ec.
In somma le nazioni, senza odiarsi come anticamente, saranno però come anticamente desolate, benchè senza tumulto, e senza violenza straordinaria; lo saranno dall'interno più che dall'estero, e da questo ancora, secondo le circostanze ec.
ec.
E tutto ciò non già verisimilmente, o senza una stabile e necessaria cagione, ma per conseguenza immancabile della natura umana, la quale non perchè sia diversa e peggiore ne' principi, ma semplicemente come natura umana, li porterà inevitabilmente a tutto questo; e il fatto già lo dimostra in moltissime e grandissime parti.
E tutto ciò senza ricavarne quell'entusiasmo, quel movimento, quelle virtù, quel valore, quel coraggio, quella tolleranza dei mali e delle fatiche, quella costanza, quella forza, quella vita pubblica e individuale, che derivava agli antichi anche dalle stesse grandi calamità: anzi per lo contrario, crescendo in proporzione delle moderne calamità, [910]il torpore, la freddezza, l'inazione, la viltà, i vizi, la monotonia, il tedio, lo stato di morte individuale, e generale delle nazioni.
Ecco i vantaggi dell'incivilimento, dello spirito filosofico e di umanità, del diritto delle genti creato, dell'amore universale immaginato, dell'odio scambievole delle nazioni distrutto, dell'antica barbarie abolita.
Queste mie osservazioni sono in senso tutto contrario a quello dell'Essai ec.
loc.
cit.
da me p.888.
il quale fa derivare la moltitudine delle armate moderne dallo spirito ed odio nazionale, ed egoismo delle nazioni, ed io (credo molto più giustamente) dalla totale ed ultima estinzione di questo spirito, e quindi di quest'odio, e di questo egoismo.
6.
Non solamente le virtù pubbliche, come ho dimostrato, ma anche le private, e la morale e i costumi delle nazioni, sono distrutti dal loro stato presente.
Dovunque ha esistito vero e caldo amor di patria, e massime dove più, cioè ne' popoli liberi, i costumi sono stati sempre quanto fieri, altrettanto gravi, fermi, nobili, virtuosi, onesti, e pieni d'integrità.
Quest'è una conseguenza naturale dell'amor patrio, del sentimento che le nazioni, e quindi gl'individui hanno di se stessi, della libertà, del valore, della forza delle nazioni, della rivalità che hanno colle straniere, e di quelle illusioni grandi e costanti e persuasive che nascono da tutto ciò, e che vicendevolmente lo producono: ed ella è cosa evidente che la virtù non ha fondamento se non se nelle illusioni, e che dove mancano le illusioni, manca la virtù, e regna il vizio, nello stesso modo che la dappocaggine e la viltà.
Queste son cose evidenti nelle storie, ed osservate da tutti i filosofi, e politici.
Ed è tanto vero; che le virtù private si trovano sempre in proporzione coll'amor patrio, e colla forza e magnanimità di una nazione; e l'indebolimento di queste [911]cose, colla corruttela dei costumi; e la perdita della morale si trova nella storia sempre compagna della perdita dell'amor patrio, della indipendenza, delle nazioni, della libertà interna, e di tutte le antiche e moderne repubbliche: influendo sommamente e con perfetta scambievolezza, la morale e le illusioni che la producono, sull'amor patrio, e l'amor patrio sulle illusioni e sulla morale.
È cosa troppo nota qual fosse la depravazione interna de' costumi in Francia da Luigi 14.
il cui secolo, come ho detto, fu la prima epoca vera della perfezione del dispotismo, ed estinzione e nullità delle nazioni e della moltitudine, sino alla rivoluzione.
La quale tutti notano che ha molto giovato alla perduta morale francese, quanto era possibile 1.
in questo secolo così illuminato, e munito contro le illusioni, e quindi contro le virtù: 2.
in tanta, e tanto radicata e vecchia depravazione, a cui la Francia era assuefatta: 3.
in una nazione particolarmente ch'è centro dell'incivilimento, e quindi del vizio: 4.
col mezzo di una rivoluzione operata in gran parte dalla filosofia, che volere o non volere, in ultima analisi è nemica mortale della virtù, perch'è amica anzi quasi la stessa cosa colla ragione, ch'è nemica della natura, sola sorgente della virtù.
(30.
Marzo-4.
Aprile 1821.)
Analogo al pensiero precedente è questo che segue.
[912]È cosa osservata dai filosofi e da' pubblicisti che la libertà vera e perfetta di un popolo non si può mantenere, anzi non può sussistere senza l'uso della schiavitù interna.
(Così il Linguet, credo anche il Rousseau, Contrat social l.3.
ch.15.
ed altri.
Puoi vedere anche l'Essai sur l'indifférence en matière de Religion, ch.10.
nel passo dove cita in nota il detto luogo di Rousseau insieme con due righe di questo autore.) Dal che deducono che l'abolizione della libertà è derivata dall'abolizione della schiavitù, e che se non vi sono popoli liberi, questo accade perchè non vi sono più schiavi.
Cosa, che strettamente presa, è falsa, perchè la libertà s'è perduta per ben altre ragioni, che tutti sanno, e che ha toccate in cento luoghi.
Con molto maggior verità si potrebbe dire che l'abolizione della schiavitù è provenuta dall'abolizione della libertà; o vogliamo, che tutte due son provenute dalle stesse cause, ma però in maniera che questa ha preceduto quella e per ragione e per fatto.
La conseguenza, dico, è falsa: ma il principio della necessità della schiavitù ne' popoli precisamente liberi, è verissimo.
Ecco in ristretto il fondamento e la sostanza di questa proposizione.
L'uomo nasce libero ed uguale agli altri, e tale egli è per natura, e nella stato primitivo.
Non così nello [913]stato di società.
Perchè in quello di natura, ciascuno provvede a ciascuno de' suoi bisogni e presta a se medesimo quegli ufficii che gli occorrono, ma nella società ch'è fatta pel ben comune, o ella non sussiste se non di nome, ed è al tutto inutile che gli uomini si trovano insieme, ovvero conviene ch'essi si prestino uffizi scambievoli, e provvedano mutuamente a' loro bisogni.
Ma ciascuno a ciascun bisogno degli altri non può provvedere: ovvero sarebbe cosa ridicola, e inutile, che io p.e.
pensassi intieramente a te, tu intieramente a me, potendo nello stesso modo viver separati, e far ciascuno per noi.
Dunque segue la necessità delle diverse professioni e mestieri, alcuni necessari alla vita assolutamente, ovvero tali quali li avrebbe esercitati l'individuo anche nella condizione naturale; altri non necessari, ma derivati appoco appoco dalla società e conducenti ai comodi e vantaggi che si godono (o si pretende godere) nella vita sociale, e intendo anche quei comodi primi primi, che ora passano per necessità; altri finalmente resi effettivamente necessari dalla stessa società come sono i mestieri che provvedono a cose divenuteci indispensabili per l'assuefazione, quello di chi insegna, quello massimamente di chi provvede alle cose pubbliche e veglia al bene e all'esistenza precisa di essa società; quello delle persone che difendono il buono dal cattivo (giacchè nata [914]la società nasce il pericolo del debole rispetto al forte) e la società istessa dalle altre società ec.
ec.
ec.
In somma, o la società non esiste assolutamente, o in essa esiste necessariamente la differenza dei mestieri e dei gradi.
Questo porterebbe le nazioni alle gerarchie, e così accadde infatti da principio, e accade ne' popoli ancora non inciviliti, siccome ne' civili.
Ma corrotta appoco appoco la società, e introdotto l'abuso del potere; e quindi i popoli avendo scosso il giogo e ripigliata la libertà naturale, ripigliarono con ciò anche l'uguaglianza.
Ed oltre che questa naturalmente vien dietro alla libertà, ho dimostrato altrove che la vera e precisa libertà non può mantenersi in una repubblica, senza tutta quella uguaglianza di cui mai possa esser capace la società.
Ma la libertà ed uguaglianza dell'uomo gli è bensì naturale nello stato primitivo; ma non conviene nè si compatisce, massime nella sua stretta nazione, collo stato di società, per le ragioni sopraddette.
Restava dunque, che richiedendosi nella società che l'uomo serva all'uomo, e questo opponendosi alla uguaglianza, l'uomo di una tal società fosse servito da uomini di un'altra, o di più altre società o nazioni, ovvero da una parte di quella medesima società, posta fuori de' diritti, de' vantaggi, delle proprietà, della uguaglianza, della libertà di questa, insomma considerata come estranea alla [915]nazione, e quasi come un'altra razza e natura di uomini dipendente, subalterna, e subordinata alla razza libera e uguale.
Ecco l'uso della schiavitù interna ne' popoli liberi e uguali; uso tanto più inerente alla costituzione di un popolo, quanto egli è più intollerante della propria servitù, come si è veduto negli antichi.
In questo modo la disuguaglianza in quel tal popolo libero veniva ad esser minore che fosse possibile, essendo le fatiche giornaliere, i servigi bassi, che avrebbero degradata l'uguaglianza dell'uomo libero, la coltura della terra ec.
destinata agli schiavi: e l'uomo libero, chiunque si fosse, e per povero che fosse, restando padrone di se, per non essere obbligato ai quotidiani servigi mercenarii, che vengono necessariamente a togliere in sostanza la sua indipendenza e libertà; e non partecipando quasi, in benefizio comune della società, se non della cura delle cose pubbliche, e del suo proprio governo, della conservazione o accrescimento della patria col mezzo della guerra ec.
colle sole differenze che nascevano dal merito individuale ec.
Tale infatti era la schiavitù nelle antiche repubbliche.
Tale in Grecia, tale quella degl'Iloti, stirpe tutta schiava presso i Lacedemoni, oriunda di Elos (?????) terra (oppidum) o città (casi Strabone presso il Cellar.
1.967.) del Peloponneso, presa a forza da' Lacedemoni nelle guerre, credo, Messeniache, e ridottane tutta la popolazione in ischiavitù, sì essa come i suoi discendenti in perpetuo.
V.
l'Encyclopéd.
Antiquités, art.
Ilotes, e il Cellario 1.973.
Tale la schiavitù presso i Romani, della quale v.
fra gli altri il Montesquieu, [916]Grandeur etc.
ch.17.
innanzi alla metà.
Floro 3.19.
Terra frugum ferax, (Sicilia) et quodammodo suburbana provincia, latifundiis civium Romanorum tenebatur.
Hic AD CULTUM AGRI frequentia ergastula, CATENATIQUE CULTORES, materiam bello praebuere.
E quanta fosse la moltitudine degli schiavi presso ai Romani si può congetturare dalla guerra servile, e dal pericolo che ne risultò.
Ne avevano i Romani, cred'io, d'ogni genere di nazioni; e Floro l.c.
nomina un servo Siro cagione e capo della guerra servile; Frontone nell'ultima epist.
greca, una serva Sira ec.
ec.
cose che si possono vedere in tutti gli scrittori delle antichità Romane.
V.
il Pignorio De Servis, e, se vuoi, l'articolo originale del Cav.
Hager nello Spettatore di Milano 1.
Aprile 1818.
Quaderno 97.
p.244.
fine-245.
principio, dove si tocca questo argomento della gran moltitudine de' servi romani, e se ne adducono alcuni esempi e prove, e si cita il detto Pignorio che dovrebbe trovarsi nel Grevio ec.
Cibale schiava Affricana è nominata nel Moretum.
E qual fosse l'idea morale che gli antichi avevano degli schiavi, si può dedurre da cento altri scrittori e luoghi, e fatti, e costumi degli antichi, ma segnatamente da questo luogo di Floro 3.20.
Enimvero servilium armorum dedecus feras.
Nam et ipsi per fortunam IN OMNIA OBNOXII (scil.
nobis) tamen QUASI SECUNDUM HOMINUM GENUS SUNT, et in bona libertatis nostrae adoptantur.
Questa seconda razza di uomini serviva dunque alla uguaglianza e libertà de' popoli antichi, in proporzione di essa libertà ed uguaglianza, e delle forze rispettive di questo o quel popolo, guerriere o pecunarie ec.
per [917]fare o comperare degli schiavi.
E l'antica uguaglianza e libertà, si manteneva effettivamente coll'aiuto e l'appoggio della schiavitù, ma della schiavitù di persone, che non avevano nulla di comune col corpo e la repubblica e la società di quelli che formavano la nazione libera ed uguale.
Così che la libertà ed uguaglianza di una nazione, aveva bisogno, e supponeva la disuguaglianza delle nazioni, e l'una non era indipendente neppure al di dentro, se non per la soggezione di altre, o parti di altre ec.
E la verità di tutte queste cose, e come l'uso o la necessità della schiavitù in un popolo libero abbia la sua ragione immediata non nella libertà, ma precisamente nella uguaglianza interna di esso popolo, si può vedere manifestamente per questa osservazione, la quale dà molta luce a questo discorso.
Arriano (Histor.
Indica, cap.10.
sect.8-9.
edit.
Wetsten.
cum Expedit.
Alexand.
Amstelaed.
1757.
cura Georg.
Raphelii, p.571.) dice fra le cose che si raccontavano degl'Indiani: ???????? (???????) ??? ???? ???? ?? ?? ? I???? ??, ?????? ? I????? ????? ??????????, ???? ???? ?????? ????? ? I????? ????? ??? ???????????????? ?? ????? ????????? ??? ?????????? (qua quidem in re Indis cum Lacedaemoniis convenit.
Interpres.) ?????????????? ??? ?? ?? ??????? ?????? ?????, ??? ?? ?????? ??????????? ?I?????? ??, ???? ????? ?????? ????, ??????? ? I???? ???.
(??????? nedum.
Index vocum.) [918]Osservate subito che questa cosa pare ad Arriano maravigliosa e singolare.
Poi osservate, che gl'indiani erano liberi, cioè parte avevano monarchie, ma somiglianti a quella primitiva di Roma ch'era una specie di Repubblica e alle antichissime monarchie greche; parte erano ?????? ????????? città libere e indipendenti assolutamente.
(Id.
ibid.
c.12.
sect.6.
et 5.
p.574.) Qual era dunque la cagione di questa singolarità? Sebbene Arriano non l'osserva, ella si trova però in quello ch'egli soggiunge immediatamente.
Ed è questo: ????????????? ?? ?????? ? I???? ?? ???? ??????? ?????? Distinguuntur autem Indi omnes in septem potissimum genera hominum (interpres.), ossia, caste.
(Id.
ib.
c.11.
sect.1.
p.571.) La prima de' sofisti (????????), la seconda degli agricoltori (???????), la terza de' pastori e bifolchi (??????, ?? ???????? ?? ??? ????????), la 4ta opificum et negotiatorum (???????????? ?? ??? ????????? ?????), la quinta dei militari (?? ??????????) i quali non avevano che a far la guerra quando bisognava, pensando gli altri a fornirli di armi, mantenerli, pagarli (tanto in tempo di guerra che di pace) e prestar loro tutti quanti gli uffizi castrensi, come custodire i cavalli, condurre gli elefanti, nettare le armi, fornire e guidare i cocchi, sicchè non restava loro che le pure funzioni guerriere; la sesta episcoporum sive inquisitorum (?? ????????? ??????????), specie d'ispettori di polizia, i quali non potevano [919]riferir niente di falso, e nessun indiano fu incolpato mai di menzogna ???? ??? ?????? ?????? ???? ????????? (c.12.
sect.5.
p.574.
fine); la settima finalmente ?? ???? ??? ?????? ???????????? ???? ?? ???????, ? ???? ?????? ???? ?????????, (liberae.
interpres) ??? ????? ???????: casta per sapienza e giustizia (?????? ??? ??????????) sopra tutti prestante, dalla quale si sceglievano i magistrati, i regionum praesides (????????), i prefetti (???????), i quaestores (??????????????), i ????????????? (copiarum duces), ???????? ??, ??? ??????, ??? ??? ???? ???????? ????? ?????????.
(ib.
c.12.
sect.6-7.) Ecco dunque la ragione perchè gl'indiani non usavano schiavitù.
Perchè sebben liberi, non avevano l'uguaglianza.
Ma come dunque senza l'uguaglianza conservavano la libertà? Neppur questo l'osserva Arriano, ma la cagione si deduce da quello ch'egli immediatamente soggiunge: (ib.
sect.8-9) ??????? ?? ?? ?????? ??????, ?? ?????? ???? ????? ?????????? ?? ??? ????????????, ? ???????? ???? ??? ?????? ??????????? ??? ?????, ???? ????? ?????? ???? ???????? ?? ?????? ?????? ??? ??????? ???? ????????? ?? ?????? ???????? ? ????? ?? ???????????.
?????? ?????? ???????, ???????? ?? ?????? ?????? ????????? ??? ?? ??????? ????? ?????????? ???? ?? ????????, ???? ?????? ????????????? (non mollis vita sed omnium laboriosissima.
interpres.)
Questa costituzione, che si vede ancora sussistere fra [920]gl'indiani quanto alla distinzione in caste, e al divieto di passare dall'una all'altra o per matrimonii, o comunque; a questa costituzione che sussiste, credo, in parte anche nella Cina, dove il figlio è obbligato ad esercitare la professione del padre, e dove i ranghi sono con molta precisione distinti; questa costituzione, di cui, se ben ricordo, si trova qualche traccia fra gli antichi Persiani nel primo o ne' primi libri della Ciropedia; questa costituzione, di cui si trova pure qualche indizio nel popolo Ebreo, dove una sola tribù era destinata esclusivamente al Sacerdozio; questa costituzione che pare che in tutto o in parte, fosse comune, fino dagli antichissimi tempi, ai popoli dell'Asia, e si vede, se non erro, anche oggidì, in alcune nazioni delle coste dell'Affrica; questa costituzione di cui forse si potrebbero trovare molte somiglianze anche nelle altre conosciute, e massime nelle più antiche, come nell'antica costituzione di Roma ec.; questa costituzione, dico, è forse la migliore, forse l'unica capace di conservare, quanto è possibile, la libertà senza l'uguaglianza.
Perocchè, ponendo un freno e un limite all'ambizione, e alla cupidigia degl'individui, e togliendo [921]loro la facoltà di cangiare, e di avanzare più che tanto la loro condizione, viene a togliere in gran parte la collisione dei poteri, e le discordie interne; viene a conservare l'equilibrio, a mantenere lo stato primitivo della repubblica (che dev'essere il principale scopo degl'istituti politici), a perpetuare l'ordine stabilito ec.
ec.
Vero è però, anzi troppo vero, che in questa costituzione io dubito che si possano trovare i grandi vantaggi della libertà.
Si troverà la quiete, e la detta costituzione sarà adattata ad un popolo, che per qualunque cagione, sia capace di contentarsi di questo vantaggio, e contenere i suoi desideri dentro i limiti del tranquillo e libero ben essere, e ben vivere, senza curarsi del meglio che in verità è sempre nemico del bene.
Ma l'entusiasmo, la vita, le virtù splendide dei popoli liberi, non pare che si possano compatire con questa costituzione.
Tolte le due molle dell'ambizione e della cupidigia, vale a dire dell'interesse proprio; tolta quasi la molla della speranza, almeno della grande speranza; deve seguirne l'inattività, e il poco valore in tutto il significato di questa parola, la poca forza nazionale ec.
L'interesse proprio non essendo legato con quello della patria, o per lo meno, con quello del di lei avanzamento, giacchè questo avanzamento non sarebbe [922]legato, o certo poco legato, coll'avanzamento individuale, e di quello stesso che avesse procurato l'avanzamento della patria; di più non partecipando, se non pochissimi al governo, e quindi la moltitudine, non sentendo intimamente di far parte della patria, e d'esser compatriota de' suoi capi; l'amor patrio in questo tal popolo, o non deve formalmente e sensibilmente esistere, o certo non dev'esser molto forte, nè cagione di grandi effetti, nè capace di spingere l'individuo a grandi sacrifizi.
Il fatto dimostra queste mie osservazioni.
Perchè una conseguenza immancabile di questa costituzione, dev'essere, secondo il mio discorso, che un tal popolo, ancorchè libero, e quanto all'interno, durevole nella sua libertà, e nel suo stato pubblico, tuttavia non possa essere conquistatore.
Ora ecco appunto che Arriano ci dice, come gl'indiani non solo non furono mai conquistatori, ma per una parte, da Bacco e da Ercole in poi era opinione ??????????????? ?? ??? ??? ?????? ??? ?????? fino ad Alessandro (l.c.
c.9.
sect.10.
p.569); ed ecco la cagione per cui anche senza troppa forza nazionale, ed interna, il loro stato potè durare lungamente: per l'altra parte era pure opinione (sect.12.
p.
cit.) ?? ??? ?? ???? ?????? ???? ??? ??? ??????? ???????? ??? ??????, ??? ?????????? (ad bellum missum [923]esse.
interpres).
E altrove più brevemente: (c.5.
sect.4.
p.558.) ???? ?? ? ?????????? ?????, ???? ??????? ????????????? ?????????? ???????????, ???? ????????? ?????? ?????????.
Cioè fino ad Alessandro.
Conseguenza naturale della detta costituzione, sebbene Arriano lo riferisce staccatamente, e come indipendente, e non vede la relazione che hanno queste cose tra loro.
V.
p.943.
capoverso 2.
Il fatto sta che siccome nessuna nazione è così atta alla qualità di conquistatrice, come una nazione libera, il che apparisce dal fatto, e da quello che ho ragionato nel pensiero antecedente ec.; così anche è pur troppo vero che il maggior pericolo della libertà di un popolo nasce dalle sue conquiste e da' suoi qualunque ingrandimenti, che distruggono appoco [appoco] l'uguaglianza, senza cui non c'è vera libertà, e cangiano i costumi, lo stato primitivo, l'ordine della repubblica; sicchè finalmente la precipitano nella obbedienza.
Cosa anche questa dimostrata dal fatto.
(4-6.
Aprile 1821.)
Siccome l'amor patrio o nazionale non è altro che una illusione, ma facilmente derivante dalla natura, posta la società, com'è naturale l'amor proprio nell'individuo, e posta la famiglia, l'amor di famiglia, che si vede anche ne' bruti; così esso non si mantiene, e non produce buon frutto senza le illusioni e i pregiudizi che naturalmente ne derivano, o che anche ne sono il fondamento.
L'uomo non è sempre ragionevole, ma sempre conseguente in un modo o nell'altro.
Come dunque amerà [924]la sua patria sopra tutte, e come sarà disposto nei fatti, a tutte le conseguenze che derivano da questo amore di preferenza, se effettivamente egli non la crederà degna di essere amata sopra tutte, e perciò la migliore di tutte; e molto più s'egli crederà le altre, o qualcun'altra, migliore di lei? Come sarà intollerante del giogo straniero, e geloso della nazionalità per tutti i versi, e disposto a dar la vita e la roba per sottrarsi al dominio forestiero, se egli crederà lo straniero uguale al compatriota, e peggio, se lo crederà migliore? Cosa indubitata: da che il nazionale ha potuto o voluto ragionare sulle nazioni, e giudicarle; da che tutti gli uomini sono stati uguali nella sua mente; da che il merito presso lui non ha dipenduto dalla comunanza della patria ec.
ec.; da che egli ha cessato di persuadersi che la sua nazione fosse il fiore delle nazioni, la sua razza, la cima delle razze umane; dopo, dico, che questo ha avuto luogo, le nazioni sono finite, e come nella opinione, così nel fatto, si sono confuse insieme; passando inevitabilmente la indifferenza dello spirito e del giudizio e del concetto, alla indifferenza del sentimento, della inclinazione, e dell'azione.
E questi pregiudizi che si rimproverano alla Francia, perchè offendono l'amor proprio degli stranieri, sono la somma salvaguardia della sua nazionale indipendenza, come lo furono presso gli antichi; [925]la causa di quello spirito nazionale che in lei sussiste, di quei sacrifizi che i francesi son pronti a fare ed hanno sempre fatto, per conservarsi nazione, e per non dipendere dallo straniero; e il motivo per cui quella nazione, sebbene così colta ed istruita (cose contrarissime all'amor patrio), tuttavia serba ancora, forse più che qualunque altra, la sembianza di nazione.
E non è dubbio che dalla forza di questi pregiudizi, come presso gli antichi, così nella Francia, doveva seguire quella preponderanza sulle altre nazioni d'Europa, ch'ella ebbe finora, e che riacquisterà verisimilmente.
(6.
Aprile 1821.)
Si considera come sola cosa necessaria la vita, la quale anzi è la cosa meno necessaria di tutte le altre.
Perchè tutte le necessità o desiderabilità hanno la loro ragione nella vita, la quale, massime priva delle cose o necessarie o desiderabili, non ha la ragione della sua necessità o desiderabilità in nessuna cosa.
(6.
Aprile 1821.)
La superiorità della natura sopra tutte le opere umane, o gli effetti delle azioni dell'uomo, si può vedere anche da questo, che tutti i filosofi del secolo passato, e tutti coloro che oggi portano questo nome, e in genere tutte le persone istruite di questo secolo, che è indubitatamente [926]il più istruito che mai fosse, non hanno altro scopo rispetto alla politica (parte principale del sapere umano), e non sanno trovar di meglio che quello che la natura aveva già trovato da se nella società primitiva, cioè rendere all'uomo sociale quella giusta libertà ch'era il cardine di tutte le antiche politiche presso tutte le nazioni non corrotte, e così oggi presso tutte le popolazioni non incivilite, e allo stesso tempo non barbarizzate, cioè tutte quelle che si chiamano barbare, di quella barbarie primitiva, e non di corruzione.
(6.
Aprile 1821.)
Alla p.872.
E non per altra cagione sono odiose e riputate contrarie alla buona creanza le lodi di se medesimo, se non perchè offendono l'amor proprio di chi le ascolta.
E perciò la superbia è vizio nella società, e perciò l'umiltà è cara, e stimata virtù.
(7 Aprile 1821.)
In qualunque nazione o antica o moderna s'incontrano grandi errori contrari alla natura, come dovunque grandi cognizioni contrarie alla natura; quivi non s'incontra niente o ben poco di grande di bello di buono.
E questo è l'uno de' principali motivi per cui le nazioni orientali, ancorchè grandi, ancorchè la loro storia rimonti a tempi antichissimi, tempi ordinariamente compagni del grande e del bello; ancorchè ignorantissime in ultima analisi, e quindi prive dei grandi ostacoli della ragione e del vero, e questo anche oggidì; tuttavia non offrano quasi niente di vero grande nè di vero bello, e ciò tanto [927]riguardo alle azioni, ai costumi, all'entusiasmo e virtù della vita, quanto alle produzioni dell'ingegno e della immaginazione.
E la causa per la quale i Greci e i Romani soprastanno a tutti i popoli antichi, è in gran parte questa, che i loro errori e illusioni furono nella massima parte conformissime alla natura, sicchè si trovarono egualmente lontani dalla corruzione dell'ignoranza, e dal difetto di questa.
Al contrario de' popoli orientali le cui superstizioni ed errori, che sebbene moderni e presenti, si trovano per lo più di antichissima data, furono e sono in gran parte contrarie alla natura, e quindi con verità si possono chiamar barbare.
E si può dire che nessun popolo antico, nell'ordine del grande e del bello, può venire in paragone de' greci e de' Romani.
Il che può derivare anche da questo, che forse i secoli d'oro degli altri popoli, come degli Egiziani, degl'Indiani, de' Cinesi, de' Persiani ec.
ec.
essendo venuti più per tempo, giacchè questi popoli sono molto più antichi, la memoria loro non è passata fino a noi, ma rimasta nel buio dell'antichità, col quale viene a coincidere la epoca dei detti secoli; e per lo contrario ci è pervenuta la memoria sola della loro corruzione e barbarie, succeduta naturalmente alla civiltà, e abbattutasi ad esser contemporanea della grandezza e del fiore dei popoli greco e Romano, la qual grandezza occupa [928]e signoreggia le storie nostre, alle quali per la maggior vicinanza de' tempi ha potuto pervenire, e perch'ella signoreggiò effettivamente in tempi più vicini a noi.
Anzi si può dire che quanto ci ha di grande e di bello rispetto all'antichità nelle storie, e generalmente in qualunque memoria nostra, tutto appartiene all'ultima epoca dell'antichità, della quale i greci e i Romani furono effettivamente gli ultimi popoli.
??????????????????????????????.
Platone in persona di quel sacerdote Egiziano.
(10.
Aprile 1821.).
V.
p.2331.
Spegnere parola tutta propria oggi degl'italiani, non pare che possa derivare da altro che da ????????? mutato, oltre la desinenza, il ? in p, mutazione ordinaria per esser due lettere dello stesso organo, cioè labiali, e il doppio ? in gn, questo pure ordinario, e ordinarissimo presso gli spagnuoli che da annus fanno año ec.
ec.
Se dunque spegnere deriva dalla detta parola greca, è necessario supporre ch'ella fosse usitata nell'antico latino, (sia che le dette mutazioni, o vogliamo, diversità di lettere esistessero già nello stesso latino, sia che vi fossero introdotte, nel passare questa parola dal latino in italiano) tanto più che l'uso del detto verbo spegnere è limitato, (cred'io) alla sola Italia.
Il Forcellini non ha niente di simile nelle parole comincianti per exb, exp, exsb, exsp, sb, sp.
Parimente il Ducange, che ho ricercato accuratamente.
(10.
Aprile 1821.)
La lingua Sascrita, quell'antichissima lingua indiana, che quantunque diversamente alterata e corrotta, e distinta in moltissimi dialetti, vive ancora e si parla in tutto l'Indostan, [929](Annali di Scienze e Lettere Milano.
1811.
Gennaio.
vol.5.
n.13.
Vilkins, Gramatica della lingua Sanskrita: articolo tradotto da quello di un cospicuo letterato nell'Edinburgh Review.
p.28-29-31.
fine-32.
principio.
e 32.
mezzo.
35.
fine-36.
principio) e altre parti dell'India, (ivi 28.
fine) e segnatamente sotto nome di lingua Pali in tutte le nazioni poste all'oriente della medesima India (ivi 36.); quella lingua che Sir William (Guglielmo) Jones famosissimo per la cognizione sì delle cose orientali, sì delle lingue orientali e occidentali (ivi 37.
princip.
e fine), non dubitò di dichiarare essere più perfetta della greca, più copiosa della Latina, e dell'una e dell'altra più sapientemente raffinata (ivi 52.); quella lingua dalla quale è opinione di alcuni dotti inglesi del nostro secolo, non senza appoggio di notabili argomenti e confronti, che sieno derivate, o abbiano avuto origine comune con lei, le lingue Greca, Latina, Gotica, e l'antica Egiziana o Etiopica (come pure i culti popolari primitivi di tutte queste nazioni) (ivi.
37.38.
princip.
e fine); questa lingua, dico, antichissima, ricchissima, perfettissima, avendo otto casi, non si serve delle preposizioni coi nomi (i suoi otto casi rendono superfluo l'uso delle preposizioni.
ivi 52.
fine), ma le adopera esclusivamente da prefiggersi ai verbi, come si fa in greco, laddove, sole, rimangonsi prive affatto d'ogni significato.
(ivi.) Così che tutte le sue preposizioni sono destinate espressamente ed unicamente alla composizione, e a variare e moltiplicare col mezzo di questa, i significati [930]dei verbi.
(Altre particolarità di quella lingua, analoghe affatto alle particolarità e pregi delle nostre lingue antiche, come formalmente l'osserva l'Estensore dell'articolo, puoi vederle, se ti piacesse, nel fine d'esso articolo, cioè dalla metà della p.52.
a tutta la p.53.).
(11.
Aprile 1821.)
Oggi l'uomo è nella società quello ch'è una colonna d'aria rispetto a tutte le altre e a ciascuna di loro.
S'ella cede, o per rarefazione, o per qualunque conto, le colonne lontane premendo le vicine, e queste premendo nè più nè meno in tutti i lati, tutte accorrono ad occupare e riempiere il suo posto.
Così l'uomo nella società egoista.
L'uno premendo l'altro, quell'individuo che cede in qualunque maniera, o per mancanza di abilità, o di forza, o per virtù, e perchè lasci un vuoto di egoismo, dev'esser sicuro di esser subito calpestato dall'egoismo che ha dintorno per tutti i lati: e di essere stritolato come una macchina pneumatica dalla quale, senza le debite precauzioni, si fosse sottratta l'aria.
(11.
Aprile 1821.)
A quello che ho detto delle guerre antiche paragonate colle moderne, aggiungete che una nazione intera potrà muover guerra per qualche causa ingiusta, (e ciò ancora più difficilmente che il principe), ma non mai per un assoluto capriccio.
Al contrario il principe.
Perchè molti non possono avere uno stesso capriccio, essendo il capriccio una cosa relativa, e variabile, secondo le [931]teste, e senza una causa uniforme di esistere.
Così che la nazione non si può accordare tutta intiera in un capriccio.
Ma s'ella non ha bisogno di convenirci, dipendendo già tutta intera da un solo, e questo solo avendo capricci come gli altri perchè uomo, e più degli altri perchè padrone, e potendo il suo capriccio disporre della guerra e della pace, e di tutto quello che spetta a' suoi sudditi; vedete quali sono le conseguenze; osservate se combinino coi fatti, e poi anche ditemi se dalla possibilità del capriccio nel mover guerra, segua che queste debbano esser più rare o più frequenti delle antiche.
(11.
Aprile 1821.)
Non è cosa più dispiacevole e dispettosa all'uomo afflitto, e oppresso dalla malinconia, dalla sventura presente, o dal presente sentimento di lei, quanto il tuono della frivolezza e della dissipazione in coloro che lo circondano, e l'aspetto comunque della gioia insulsa.
Molto più se questo è usato con lui, e soprattutto s'egli è obbligato per creanza, o per qualunque ragione a prendervi parte.
(12.
Aprile 1821.)
La stessa proporzionata disparità ch'è fra gli antichi e i moderni, in ordine al bello, alla immaginazione, alla letizia, alla felicità per l'una parte, e al vero, alla ragione, alla malinconia, alla infelicità per l'altra parte; la stessa, dico, si trova proporzionatamente in ciascheduna età antica o moderna, fra i popoli meridionali e i settentrionali.
Sebbene l'antichità era il tempo del bello, [932]e della immaginazione, tuttavia anche allora la Grecia e l'Italia ne erano la patria, e il luogo.
E quantunque non fossero quei tempi adattati alla profondità dell'intelletto, al vero, alla malinconia, contuttociò ne' Settentrionali si vede l'inclinazione loro naturale a queste qualità, e negl'inni, nei canti, nelle sentenze staccate dei Bardi, si nota, oltre alla famosa malinconia, una certa profondità di pensiero, e la osservazione di certe verità che anche oggi in tanto progresso della filosofia, non sono le più triviali.
Insomma vi si nota un carattere di pensiero diversissimo nella profondità, da quello de' meridionali degli stessi tempi.
(V.
se vuoi, gli Annali di Scienze e Lettere, Milano.
vol.6.
n.18.
Giugno 1811.
Memoria intorno ai Druidi e ai Bardi Britanni, p.376-378.
e 383 fine - 385.
dove si riportano parecchi aforismi e documenti de' Bardi.) Così per lo contrario, sebbene l'età moderna è il tempo del pensiero, nondimeno il settentrione ne è la patria, e l'Italia conserva tuttavia qualche poco della sua naturale immaginazione, del suo bello, della sua naturale disposizione alla letizia ed alla felicità.
In quello dunque che ho detto de' miei diversi stati, rispetto alla immaginazione e alla filosofia, paragonandomi col successo de' tempi moderni agli antichi, si può anche aggiungere il paragone coi popoli meridionali e settentrionali.
(12.
Aprile 1821.)
L'estensione reale e strettamente considerata, della quale è capace una lingua, in quanto lingua [933]usuale, quotidiana, propria, e materna, è piccolissima; e molto minore che non si crede.
Una stretta conformità di linguaggio, e per conseguenza una medesima lingua strettamente considerata, non è comune se non ad un numero ben piccolo di persone, e non occupa se non un piccolo tratto geografico.
1.
Ognuno sa e vede in quante lingue riconosciute, e scritte, e distinte con precisione, sia divisa l'Europa, e il mondo, e come ciascuna nazione usi una lingua differente precisamente dalle altre, e propria sua, sebbene possa aver qualche maggiore o minore affinità colle forestiere.
2.
Diffondendosi una nazione, ed occupando un troppo largo tratto di paese, e crescendo a un soverchio numero d'individui, l'esperienza continua dei secoli, e la fede di tutte le storie, dimostra che la lingua di quella nazione si divide, la conformità del linguaggio si perde, e per quanto quella nazione sia veramente ed originariamente la stessissima, la sua lingua non è più una.
Così è accaduto alla lingua de' Celti, diffusi per la Gallia, la Spagna, la Bretagna, e l'Italia ec.
con che la lingua celtica s'è divisa in tante lingue, quanti paesi ha occupato la nazione.
Così alla teutonica, alla slava ec.
e fra le orientali all'arabica, colla diffusione de' maomettani.
3.
Sebbene un popolo conquistatore trasporti e pianti la sua lingua nel paese conquistato, e distrugga anche del tutto la lingua paesana, la sua lingua in quel tal paese appoco appoco si altera, finattanto che torna a diventare una lingua diversa dalla introdottaci.
Testimoni i Romani, [934]la cui lingua piantata colla conquista nella Francia e nella Spagna, (per non estenderci ora ad altro) e distrutta intieramente la lingua indigena (giacchè quei minimi avanzi che ne potessero ancora restare, non fanno caso), non fece altro che alterandosi a poco a poco, finalmente emettere dal suo seno due lingue da lei formalmente diverse, la francese, e la spagnuola.
Lo stesso si potrebbe dire d'infinite altre famiglie di lingue Europee, e non Europee, che uscite ciascuna da una lingua sola, colla diffusione dei loro parlatori, si sono moltiplicate e divise in tante lingue quante compongono quella tal famiglia.
4.
Anche dalle osservazioni precedenti si può dedurre, che questa impossibilità naturale e positiva dello estendersi una lingua più che tanto, in paese, e in numero di parlatori (o provenga dal clima che diversifichi naturalmente le lingue, o da qualunque cagione), non è solamente dipendente dalla mescolanza di altre lingue che guastino quella tal lingua che si estende, a misura che trova occupato il posto da altre, e ne le caccia: ma che è un'impossibilità materiale, innata, assoluta, per cui, quando anche tutto il resto del mondo fosse vuoto, o muto, quella tal lingua, dilatandosi più che tanto, si dividerebbe appoco appoco in più lingue.
E ciò intendo di confermare anche colle osservazioni seguenti.
5.
Le colonie che trasportano di pianta una lingua in diversi luoghi, portandovi i di lei stessi parlatori [935]naturali, sono soggette alla stessa condizione.
Testimoni i tre famosi e principali dialetti delle colonie greche, Jonico, Dorico, Eolico, per tacere d'infiniti altri esempi.
6.
Ciò non basta.
Solamente che una nazione, senza occupare paesi discosti, e forestieri, senza trasportarsi in altri luoghi, si dilati, e formi un corpo più che tanto grande, la sua lingua, dentro la stessa nazione, e nelle sue proprie viscere, si divide, e si diversifica più o meno dalla sua primitiva, in proporzione della distanza dal primo e limitato seggio della nazione, dalla prima fonte della nazione e della lingua, la quale non si conserva pura se non in quel preciso e ristretto luogo dov'ella fu primieramente parlata.
Testimoni i moltissimi dialetti minori ne' quali era divisa la lingua greca dentro la stessa Grecia, paese di sì poca estensione geografica, il Beotico, il Laconico, il Macedonico, lo Spartano, il Tessalico: e parimente suddivisi i di lei dialetti principali negli altri minori, Cretese, Sciotto, Cipriotto, Cirenese, Delfico, Efesio, Lidio, Licio, Megarese, Panfilio, Fenicio, Regino, Siciliano, Siracusano, Tarentino ec.
(V.
Sisti, Introduz.
alla lingua greca §.211.) Testimoni i dialetti della lingua italiana, della francese, della spagnuola, della tedesca, e di tutte le lingue antiche o moderne, purchè i loro parlatori siano più che tanto estesi di numero e di paese.
Che la lingua Ebraica fosse distinta in dialetti nelle stesse tribù Ebraiche, dentro la stessa Cananea.
v.
Iudic.
c.12.
vers.5-6.
e quivi i comentatori.
La lingua Caldaica ec.
non è che un Dialetto dell'Ebraica.
La samaritana parimente; o l'ebraica è un dial.
della Samarit.
o figlia o corruzione di essa.
ec.
De' tre dialetti egiziani-coptici tutti tre scritti, v.
il Giorgi.
7.
Neppur questo è tutto.
Ma dentro i confini di un medesimo ed unico dialetto, non v'è città, il cui linguaggio non differisca più o meno, da quello medesimo della città più immediatamente vicina.
Non differisca dico, nel tuono e inflessione e modulazione della pronunzia, nella inflessione e modificazione diversa delle [936]parole, e in alcune parole, frasi, maniere, intieramente sue proprie e particolari.
Questo si vede nelle città di Toscana (tanto che il Varchi vuole perciò che la lingua scritta italiana, non solo non si chiami italiana, ma neppur toscana, bensì fiorentina), si vede nelle altre città di qualunque provincia italiana, e dappertutto.
Di più in ciascuna città, il linguaggio cittadinesco è diverso dal campestre.
Di più senza uscire dalla città medesima, è noto che nella stessa Firenze si parla più di un dialetto, secondo la diversità delle contrade: (e di ciò pure il Varchi).
Così che una lingua non arriva ad essere strettamente conforme e comune, neppure ad una stessa città, s'ella è più che tanto estesa, e popolata.
E così credo che avverrà pure in Parigi ec.
V.
p.1301.
fine.
Da questi dati caviamo alcune conseguenze più alte ed importanti.
1.
Che la diversità de' linguaggi è naturale e inevitabile fra gli uomini, e che la propagazione del genere umano portò con se la moltiplicità delle lingue, e la divisione e suddivisione dell'idioma primitivo, e finalmente il non potersi intendere, nè per conseguenza comunicare scambievolmente più che tanto numero di uomini.
La confusione de' linguaggi che dice la Scrittura essere stato un gastigo dato da Dio agli uomini, è dunque effettivamente radicata nella natura, e inevitabile nella generazione umana, e fatta proprietà essenziale delle nazioni ec.
2.
Che il progetto di una lingua universale, (seppure per questa s'è mai voluta intendere una lingua propria e nativa e materna e quotidiana di tutte le nazioni) è una chimera non solo materialmente, e relativamente, e per le circostanze e le difficoltà che risultano dalle cose quali ora sono, [937]ossia dalla loro condizione attuale, ma anche in ordine all'assoluta natura degli uomini; vale a dire non solamente in pratica, ma anche in ragione.
3.
Considerando per l'una parte la naturale e inevitabile ristrettezza, che ho detto, de' confini di una lingua assolutamente uniforme; per l'altra parte, che la lingua è il principalissimo istrumento della società, e che per distintivo principale delle nazioni si suole assegnare la uniformità della lingua; ne inferiremo
I.
Una prova di quello che ho detto p.873.
fine-877.
intorno alla ristrettezza delle società primitive quanto all'estensione; cioè si conoscerà come la natura avesse effettivamente provveduto anche per questa parte alla detta ristrettezza.
II.
Una nuova considerazione intorno agli ostacoli che la natura avea posto all'incivilimento.
Giacchè l'incivilimento essendo opera della società, e andando i suoi progressi in proporzione della estensione di essa società e del commercio scambievole ec.; e per l'altra parte, l'istrumento principale della società essendo la lingua, e questa avendo fatto la natura che non potesse essere uniforme se non fra pochissimi; si viene a conoscere come anche per questa parte la natura si sia opposta alla soverchia dilatazione e progresso della società, ed all'alterazione [938]degli uomini che ne aveva a seguire.
Opposizione che non si è vinta, se non con infinite difficoltà, con gli studi, e con cento mezzi niente naturali, facendo forza alla natura, come si sono superate tutte le altre barriere che la natura avea poste all'incivilimento e alla scienza.
III.
Come la società, così anche la lingua fa progressi coll'estensione: e la lingua di un piccolo popolo, è sempre rozza, povera, e bambina balbettante, se non in quanto ella può essere influita dal commercio coi forestieri, che è fuori anzi contro il caso.
Si vede dunque che la natura coll'impedire l'estensione di una lingua uniforme, ne ha voluto anche impedire il perfezionamento, anzi anche la semplice maturità o giovanezza.
Da ciò segue che la lingua destinata dalla natura primitivamente e sostanzialmente agli uomini, era una lingua di ristrettissime facoltà, e quindi di ristrettissima influenza.
Dunque segue che essendo la lingua l'istrumento principale della società, la società destinata agli uomini dalla natura, era una società di pochissima influenza, una società lassa, e non capace di corromperli, una società poco maggiore di quella ch'esiste fra i bruti, come ho detto in altri pensieri.
IV.
Colla debolezza della lingua destinataci, la natura avea provveduto alla conservazione del nostro stato primitivo, non solo in ordine alla generazione contemporanea, [939]ma anche alle passate e future.
Mediante una lingua impotente, è impotente la tradizione; e le esperienze, cognizioni ec.
degli antenati arrivano ai successori, oscurissime incertissime debolissime e più ristrette assai di quelle ristrettissime che con una tal lingua e una tal società avrebbero potuto acquistare i loro antenati; cioè quasi nulle.
Perchè i bruti non avendo lingua, non hanno tradizione, cioè comunicazione di generazioni, perciò il bruto d'oggidì è freschissimo e naturalissimo come il primo della sua specie uscito dalle mani del Creatore.
Tali dunque saremmo noi appresso a poco, con una lingua limitatissima nelle sue facoltà.
Il fatto lo conferma.
Tutti i popoli che non hanno una lingua perfetta, sono proporzionatamente lontani dall'incivilimento.
V.
p.942.
capoverso 1.
E finchè il mondo non l'ebbe, conservò proporzionatamente lo stato primitivo.
Così pure in proporzione, dopo l'uso della scrittura dipinta, e della geroglifica.
L'incivilimento, ossia l'alterazione dell'uomo, fece grandi progressi dopo l'invenzione della scrittura per cifre, ma però sino a un certo segno, fino all'invenzione della stampa, ch'essendo la perfezione della tradizione, ha portato al colmo l'incivilimento.
Invenzioni tutte difficilissime, e soprattutto la scrittura per cifre; onde si vede quanto la natura fosse lontana dal supporle, e quindi dal volere e ordinare i loro effetti.
E questo si può riferire a quello che ho detto [940]in altri pensieri contro coloro che considerano l'incivilimento come perfezionamento, e quindi sostengono la perfettibilità dell'uomo.
Il quale incivilimento apparisce e dalla ragione e dal fatto che non si poteva conseguire, e molto meno perfezionare senza l'invenzione della scrittura per cifre; invenzione astrusissma, e mirabile a chi un momento la consideri, e della quale gli uomini hanno dovuto mancare, non già casualmente, ma necessariamente per lunghissima serie di secoli, com'è accaduto.
Torno dunque a domandare se è verisimile che la natura alla perfezione di un essere privilegiato fra tutti, abbia supposto e ordinato un tal mezzo ec.
ec.
Lo stesso dico del perfezionamento di una lingua, cosa anch'essa difficilissima e tardissima a conseguirsi, e intendo ora, non quello che riguarda la bellezza, ma la semplice utilità di una lingua.
Lo stesso altresì della stampa inventata 4 soli secoli fa, non intieri.
ec.
ec.
V.
p.955.
capoverso 1.
e il mio pensiero circa la diversità degli alfabeti naturali.
Altro è la perfettibilità della società, altro quella dell'uomo ec.
ec.
ec.
(12-13.
Aprile 1821.)
Quello che ho detto in parecchi pensieri della compassione che eccita la debolezza, si deve considerare massimamente in quelli che sono forti, e che sentono in quel momento la loro forza, e ne' quali questo sentimento contrasta coll'aspetto della debolezza o impotenza di quel tale oggetto amabile o compassionevole: amabilità che in [941]questo caso deriva dalla sorgente della compassione, quantunque quel tale oggetto in quel punto non soffra, o non abbia mai sofferto, nè provato il danno della sua debolezza.
Al qual proposito si ha una sentenza o documento de' Bardi Britanni rinchiusa in certi versi che suonano così: Il soffrire con pazienza e magnanimità, è indizio sicuro di coraggio e d'anima sublime; e l'abusare della propria forza è segno di codarda ferocia.
(Annali di Scienze e Lettere l.
cit.
di sopra (p.932.) p.378.) L'uomo forte ma nel tempo stesso magnanimo, deriva senza sforzo e naturalmente dal sentimento della sua forza un sentimento di compassione per l'altrui debolezza, e quindi anche una certa inclinazione ad amare, e una certa facoltà di sentire l'amabilità, trovare amabile un oggetto, maggiore che gli altri.
Ed egli suol sempre soffrire con pazienza dai deboli, piuttosto che soverchiarli, ancorchè giustamente.
(13.
Aprile 1821.)
A quello che ho detto altrove della derivazione del verbo tornare, si aggiunga, che questo verbo è lo stesso che il tourner dei francesi, il quale significa la stessa cosa che in latino volvere.
Giacchè appunto nello stesso modo, da volvere, gli spagnuoli hanno fatto bolver che significa tornare.
(13.
Aprile 1821.)
[942]Alla p.939.
La maravigliosa e strana immobilità ed immutabilità (così la chiama l'Edinburgh Review negli Annali di Scien.
e Lettere vol.8.
Dicembre 1811.
n.24 Staunton, Traduz.
del Ta-Tsing-Leu-Lee.
p.300.) della nazione Chinese, dev'esser derivata certo in grandissima parte, e derivare dal non aver essi alfabeto nè lettere, (l.
cit.
Rémusat, Saggio sulla lingua e letteratura Chinese, dal Magasin Encyclopédique, p.324.
fine) ma caratteri esprimenti le cose e le idee cioè un dato numero di caratteri elementari e principali rappresentanti le principali idee, i quali si chiamano chiavi, e sono nel sistema di alcuni dotti Chinesi 214, (ivi p.313.319) in altri sistemi molto più, in altri molto meno, (ivi p.319.) ma il sistema delle 214 è il più comune e il più seguito da' letterati chinesi nella compilazione de' loro dizionarii.
I quali caratteri elementari o chiavi diversamente combinati fra loro (come ponendo sopra la chiave che rappresenta i campi, l'abbreviatura di quella che rappresenta le piante, si fa il segno o carattere che significa o rappresenta primizia dell'erbe e delle messi; e ponendo questo medesimo carattere sotto la chiave che rappresenta gli edifizi, si fa il carattere che significa tempio, cioè luogo dove si offrono le primizie (l.
cit.
p.314.)) servono ad esprimere o rappresentare le altre idee: essendo però le dette combinazioni convenute, e gramaticali, come lo sono le chiavi elementari; altrimenti non s'intenderebbero.
(p.319.
fine.)
Nel qual modo e senso un buon dizionario chinese, secondo Abel-Rémusat (Essai sur la langue et la littérature chinoise.
Paris 1811.
l.
cit.
p.320.) dovrebbe contenere 35,000 [943]caratteri come ne contiene il Tching-tseu-toung, uno de' migliori Dizionari che hanno i chinesi; secondo il Dott.
Hager, (Panthéon Chinois.
Paris 1806.
in-fol.
Préface.) basterebbero 10,000 (ivi, e p.311.
nota.) La quale scrittura in somma appresso a poco è la stessa che la ieroglifica.
Paragonate gli Annali ec.
sopracitati, vol.5.
num.14.
Hammer, Alfabeti antichi e caratteri ieroglifici spiegati, artic.
del Crit.
Rew.
p.144.-147.
col vol.8.
n.24.
p.297.-298.
e p.313.
320.
Questo paragone l'ho già fatto, e trovatolo giusto.
(14.
Aprile 1821.).
V.
p.944.
capoverso 2.
La lingua chinese è tutta architettata e fabbricata sopra un sistema di composti, non solo quanto ai caratteri, de' quali v.
il pensiero precedente ma parimente alla pronunzia, ossia a' vocaboli.
Giacchè i loro vocaboli radicali esprimenti i caratteri non sono più di 352.
secondo il Bayer, e 383.
secondo il Fourmont.
Ed eccetto che il valore di alcuni di questi vocaboli si diversifica talvolta per via di quattro toni, dell'uno dei quali si appone loro il segno (Annali ec.
p.317.-318.
e 320.
lin.7.), tutti gli altri vocaboli Chinesi sono composti; come si vede anche nella maniera in cui si scrivono quando si trasportano originalmente nelle nostre lingue.
Annali ec.
l.
cit.
nel pensiero anteced.
Rémusat p.319.
mezzo-320.
mezzo.
(14.
Aprile 1821.).
V.
p.944.
capoverso 1.
Alla p.923.
marg.
Un tal popolo dev'essere insomma necessariamente stazionario.
E qual popolo infatti è più maravigliosamente stazionario del Chinese, (v.
qui dietro p.942.
princip.) nel quale abbiamo osservato una somigliante costituzione? Sir George (Giorgio) Staunton, Segretario d'Ambasciata nella missione di Lord Macartney presso l'Imperatore della China, nella introduzione alla sua versione inglese del Codice penale dei Chinesi, nota in questa nazione, come [944]fra le cause di certi ragguardevoli vantaggi morali e politici posseduti, secondo lui, da essa nazione, vantaggi che non possono, secondo lui, essere agguagliati con esattezza in alcuna società Europea, nota, dico, la quasi totale mancanza di dritti e privilegi feudali; la equabile distribuzione della proprietà fondiaria; e LA NATURALE INCAPACITÀ ED AVVERSIONE E DEL POPOLO E DEL GOVERNO AD ESSERE SEDOTTI DA MIRE D'AMBIZIONE, E DA DESIO D'ESTERE CONQUISTE.
Edinburgh Review loco citato qui dietro (p.942.
principio.) p.295.
Lo stesso Edinburgh Review nella continuazione dello stesso articolo (Annali di Sc.
e Lettere.
Milano.
Gennaio 1812.
vol.
IX.
n.25.
p.42.
mezzo) nomina (ad altro proposito) la istituzione delle caste dell'India, dove io l'ho già notata nel pensiero a cui questo si riferisce, e di più nell'antico Egitto.
Questo lo fa incidentemente, sicchè non ha verun'altra parola su questo punto.
(14.
Aprile 1821.)
Alla p.943.
Così che la lingua Chinese quanto supera le altre lingue nella moltiplicità, complicazione, e confusione degli elementi e della costruttura della scrittura, tanto le avanza nella semplicità e piccolo numero degli elementi dell'idioma.
(14.
Aprile 1821.)
Alla p.943.
In somma la scrittura Chinese non rappresenta veramente le parole (che le nostre son quelle che le rappresentano, e ciò per via delle lettere, che sono ordinate e dipendenti in tutto dalla parola) ma le cose; e perciò tutti osservano [945]che il loro sistema di scrittura è quasi indipendente dalla parola: (Annali ec.
p.316.
p.297.) così che si potrebbe trovare qualcuno che intendesse pienamente il senso della scrittura chinese, senza sapere una sillaba della lingua, e leggendo i libri chinesi nella lingua propria, o in qual più gli piacesse, cioè applicando ai caratteri cinesi quei vocaboli che volesse, senza detrimento nessuno della perfetta intelligenza della scrittura, e neanche del suo gusto, giacchè le opere chinesi non hanno nè possono avere nè versificazione, nè ritmo, nè stile, e conviene prescindere affatto dalle parole nel giudicarle; le loro poesie non sono composte di versi, nè le prose oratorie di periodi; (p.297.) il genio della lingua non ammette il soccorso delle comuni particelle di connessione, e presenta meramente una fila d'immagini sconnesse, i cui rapporti debbono essere indovinati dal lettore, secondo le intrinseche loro qualità.
([p.] 298.) E così viceversa bene spesso taluni, dopo avere soggiornato venti anni alla China, non sono tampoco in grado di leggere il libro più facile, benchè sappiano essi parlar bene il chinese, e farsi comprendere.
(p.316.).
(14.
Aprile 1821.)
Si condanna, e con gran ragione, l'amor de' sistemi, siccome dannosissimo al vero, e questo danno tanto più si conosce, e più intimamente se ne resta convinti, quanto più si conoscono e si esaminano le opere dei pensatori.
Frattanto però io dico che qualunque uomo ha forza di pensare da se, qualunque s'interna colle sue proprie facoltà e, dirò così, co' suoi propri passi, nella considerazione delle cose, in somma qualunque vero pensatore, non può assolutamente a meno di non formarsi, o di non seguire, o generalmente di non avere un sistema.
[946]1.
Questo è chiaro dal fatto.
Qualunque pensatore, e i più grandi massimamente, hanno avuto ciascuno il loro sistema, e sono stati o formatori o sostenitori di qualche sistema, più o meno ardenti e impegnati.
Lasciando gli antichi filosofi, considerate i moderni più grandi.
Cartesio, Malebranche, Newton, Leibnizio, Locke, Rousseau, Cabanis, Tracy, De Vico, Kant, in somma tutti quanti.
Non v'è un solo gran pensatore che non entri in questa lista.
E intendo pensatori di tutti i generi: quelli che sono stati pensatori nella morale, nella politica, nella scienza dell'uomo, e in qualunque delle sue parti, nella fisica, nella filosofia d'ogni genere, nella filologia, nell'antiquaria, nell'erudizione critica e filosofica, nella storia filosoficamente considerata ec.
ec.
2.
Come dal fatto così è chiaro anche dalla ragione.
Chi non pensa da se, chi non cerca il vero co' suoi propri lumi, potrà forse credere in una cosa a questo, in un'altra a quello, e non curandosi di rapportare le cose insieme, e di considerare come possano esser vere relativamente fra loro, restare affatto senza sistema, e contentarsi delle verità particolari, e staccate, e indipendenti l'una dall'altra.
E questo ancora è difficilissimo, perchè il fatto e la ragione dimostra, che anche questi tali si formano sempre un sistema comunque, sebbene possano forse talvolta esser pronti a cangiarlo, secondo le nuove cognizioni, o nuove opinioni che loro sopraggiungano.
Ma il pensatore non è così.
Egli cerca naturalmente e necessariamente un filo nella considerazione delle cose.
È impossibile [947]ch'egli si contenti delle nozioni e delle verità del tutto isolate.
E se se ne contentasse, la sua filosofia sarebbe trivialissima, e meschinissima, e non otterrebbe nessun risultato.
Lo scopo della filosofia (in tutta l'estensione di questa parola) è il trovar le ragioni delle verità.
Queste ragioni non si trovano se non se nelle relazioni di esse verità, e col mezzo del generalizzare.
Non è ella, cosa notissima che la facoltà di generalizzare costituisce il pensatore? Non è confessato che la filosofia consiste nella speculazione de' rapporti? Ora chiunque dai particolari cerca di passare ai generali, chiunque cerca il legame delle verità (cosa inseparabile dalla facoltà del pensiero) e i rapporti delle cose; cerca un sistema; e chiunque è passato ai generali, ed ha trovato o creduto di trovare i detti rapporti, ha trovato o creduto di trovare un sistema, o la conferma e la prova, o la persuasione di un sistema già prima trovato o proposto: un sistema più o meno esteso, più o meno completo, più o meno legato, armonico, e consentaneo nelle sue parti.
3.
Il male è quando dai generali si passa ai particolari, cioè dal sistema alla considerazione delle verità che lo debbono formare.
Ovvero quando da pochi ed incerti, e mal connessi, ed infermi particolari, da pochi ed oscuri rapporti, si passa al sistema, ed ai generali.
Questi sono i vizi de' piccoli spiriti, parte per la loro stessa piccolezza, e la facilità che hanno di persuadersi; parte per la pestifera smania di formare sistemi, inventar paradossi, creare ipotesi in qualunque maniera, affine [948]d'imporre alla moltitudine, e parer d'assai.
Allora l'amor di sistema, o finto, o vero e derivante da persuasione, è dannosissimo al vero; perchè i particolari si tirano per forza ad accomodarsi al sistema formato prima della considerazione di essi particolari, dalla quale il sistema dovea derivare, ed a cui doveva esso accomodarsi.
Allora le cose si travisano, i rapporti si sognano, si considerano i particolari in quell'aspetto solo che favorisce il sistema, in somma le cose servono al sistema, e non il sistema alle cose, come dovrebb'essere.
Ma che le cose servano ad un sistema, e che la considerazione di esse conduca il filosofo e il pensatore ad un sistema (sia proprio, sia d'altri), è non solamente ragionevole e comune, ma indispensabile, naturale all'uomo, necessario; è inseparabile dalla filosofia; costituisce la sua natura ed il suo scopo: e concludo che non solamente non ci fu, ma non ci può esser filosofo nè pensatore per grande, e spregiudicato, ed amico del puro vero, ch'ei possa essere, il quale non si formi o non segua un sistema (più o meno vasto secondo la materia, e secondo che l'ingegno del filosofo è sublime, e secondo ch'è acuto e penetrante nella investigazione speculazione e ritrovamento de' rapporti) e ch'egli non sarebbe filosofo nè pensatore, se questo non gli accadesse, ma si confonderebbe con chi non pensa, e si contenta di non avere idea nè concetto chiaro e stabile intorno a veruna cosa.
(I quali pure hanno sempre un sistema, più o meno chiaro, anzi più esteso, e per loro più persuasivo e più chiaro e certo, che non l'hanno i pensatori.) Sia [949]pure un sistema il quale consista nell'esclusione di tutti i sistemi, come quello di Pirrone, e quello che fa quasi il carattere del nostro secolo.
(16.
Aprile 1821.).
V.
p.950.
capoverso 2.
Dalla sciocca idea che si ha del bello assoluto deriva quella sciocchissima opinione che le cose utili non debbano esser belle, o possano non esser belle.
Poniamo per esempio un'opera scientifica.
Se non è bella, la scusano perciò ch'è utile, anzi dicono che la bellezza non le conviene.
Ed io dico che se non è bella, e quindi è brutta, è dunque cattiva per questo verso, quando anche pregevolissima in tutto il resto.
Per qual ragione è bello il Trattato di Celso, ch'è un trattato di Medicina? Forse perchè ha ornamenti poetici o rettorici? Anzi prima di tutto perchè ne manca onninamente, e perchè ha quel nudo candore e semplicità che conviene a siffatte opere.
Poi perchè è chiaro, preciso, perchè ha una lingua ed uno stile puro.
Questi pregi o bellezze convengono a qualunque libro.
Ogni libro ha obbligo di esser bello in tutto il rigore di questo termine: cioè di essere intieramente buono.
Se non è bello, per questo lato è cattivo, e non v'è cosa di mezzo tra il non esser bello, e il non essere perfettamente buono, e l'esser quindi per questa parte cattivo.
E ciò che dico dei libri, si deve estendere a tutti [950]gli altri generi di cose chiamate utili, e generalmente a tutto.
(16.
Aprile 1821.)
Rassegnato e sommesso, perchè l'indole degli abitatori determinata dall'influenza del clima, è composta a un tempo di bontà e di trascuratezza, l'Indiano, dice l'Autore (Collin di Bar, Storia dell'India antica e moderna, ossia l'Indostan considerato relativamente alle sue antichità ec.
Parigi 1815.), è capace de' più magnanimi sforzi.
I popoli del nord della penisola, meno ammolliti dalle voluttà e dal clima, sono da lungo tempo il terrore della compagnia inglese, e saranno forse col tempo i liberatori delle regioni gangetiche.
(Fra questi deve intender certo i Maratti.) Spettatore di Milano, Quaderno 43.
p.113.
Parte Straniera.
30.
Dicemb.
1815.
Dello stato e genio pacifico degli antichi Indiani v.
p.922.
De' Cinesi parimente meridionali v.
p.943.
capoverso ultimo.
(16.
Aprile 1821.)
Alla p.949.
Mancare assolutamente di sistema (qualunque esso sia), è lo stesso che mancare di un ordine di una connessione d'idee, e quindi senza sistema, non vi può esser discorso sopra veruna cosa.
Perciò quelli appunto che non discorrono, quelli mancano di sistema, o non ne hanno alcuno preciso.
Ma il sistema, cioè la connessione e dipendenza delle idee, de' pensieri, delle riflessioni, delle opinioni, è il distintivo certo, e nel tempo stesso indispensabile del filosofo.
(17.
Aprile 1821.)
Lo Spettatore di Milano 15.
Febbraio 1816.
Quaderno 46.
p.244.
Parte Straniera, in un articolo estratto dal Leipziger Litter.
Zeitung, rendendo brevissimo conto di un opuscolo [951]tedesco di Pietro Enrico Holthaus, intitolato Anche nella nostra lingua possiamo e dobbiamo essere Tedeschi, pubblicato a Schwelm, presso Scherz, 1814.
in 8° grande, dice che, fra le altre cose, l'autore intende provare Che il miscuglio di parole straniere reca nocumento alla chiarezza delle idee.
(L'opuscolo è diretto principalmente contro il francesismo introdotto e trionfante nella lingua tedesca, come nell'italiana.) Questo sentimento combina con quello che ho svolto in altri pensieri, dove ho detto che le parole greche nelle nostre lingue sono sempre termini, e così si deve dire delle altre parole straniere affatto alla nostra lingua; e spiegato che cosa sieno termini e come si distinguano dalle parole.
E infatti i termini, e le parole prese da una lingua straniera del tutto, potranno essere precise, ma non chiare, e così l'idea che risvegliano sarà precisa ed esatta, senza esser chiara, perchè quelle parole non esprimono la natura della cosa per noi, non sono cavate dalle qualità della cosa, come le parole originali di qualunque lingua, così che l'oggetto che esprimono, sebbene ci si possa per mezzo loro affacciare alla mente con precisione e determinazione, non lo potranno però con chiarezza: perchè le parole non derivanti immediatamente dalle qualità della cosa, o che almeno per l'assuefazione non ci paiano tali, non hanno forza di suscitare nella nostra mente un'idea sensibile della cosa, non hanno [952]forza di farci sentire la cosa in qualunque modo, ma solamente di darcela precisamente ad intendere, come si fa di quelle cose che non si possono formalmente esprimere.
Che tale appunto è il caso degli oggetti significatici con parole del tutto straniere.
Dal che è manifesto quanto danno riceva sì la chiarezza delle idee, come la bellezza e la forza del discorso, che consistono massimamente nella sua vita, e questa vita del discorso, consiste nella efficacia, vivacità, e sensibilità, con cui esso ci fa concepire le cose di cui tratta.
(17.
Aprile 1821.)
Lo stesso autore nel medesimo opuscolo, come si vede nel luogo citato, alla fine della detta pag.244.
critica Herder che tante parole ha introdotto tolte dal latino e dal greco.
Questa critica è forse giusta anche rispetto al latino, nella lingua tedesca, la quale non si trova nella circostanza della italiana, non essendo figlia, come questa, della latina; come neanche rispetto alla francese, non essendole sorella, come la nostra.
E quanto alla latina, le deve bastare quello che per le circostanze de' tempi antichi ec.
ella ne ha tolto, colle comunicazioni avute coi romani ec.
ma questa fonte si deve ora ben ragionevolmente stimar chiusa per lei, come quella che non ne deriva originariamente, e vi ha solo attinto per cause accidentali.
La lingua inglese sarebbe la più atta a comunicare le sue fonti colla tedesca, e viceversa.
V.
p.1011.
capoverso 2.
Ma rispetto alla lingua italiana, la cosa sta diversamente, perchè derivando ella dalla latina, non si dee stimare che la fonte sia chiusa, mentre il fiume corre e non istagna.
Anzi non volendo che stagni e impaludi, bisogna riguardare soprattutto di non chiudergli la sorgente; che questo è il mezzo più sicuro e più breve di farlo corrompere e inaridire.
Quella lingua che ha prodotta, e non solo prodotta, ma formata e cresciuta sì largamente la nostra.
come si [953]dovrà stimare che non possa nutrirla ed accrescerla, che non abbia più niente che le convenga di ricavarne? Quel terreno che ha prodotto una pianta della sua propria sostanza, e del proprio succo, e di più l'ha allevata, e condotta a perfettissima maturità e robustezza e vigore ec.
come si dovrà credere e affermare che non sia adattato a nutrirla e crescerla mentre ella non è spiantata? che il di lui succo non sia conveniente nè vitale nè nutritivo nè sano a quella pianta, mentre il terreno abbia ancora succo, e in abbondanza? Perchè poi vorremmo spiantare la nostra lingua? Forse perch'ella non possa più nutrirsi, e le sue radici non le servano più, e così venga ad inaridire? O forse per trapiantarla? E dove? in qual terreno migliore, e più appropriato di quello che l'ha prodotta e cresciuta a tanta grandezza, prosperità, floridezza ec.?
Osservo ancora che l'italiano è derivato dalla corruzione del latino, così che le parole e i modi della bassa latinità, se sono barbare rispetto al latino, nol sono all'italiano; e la bassa latinità è una fonte ricchissima e adattatissima anch'essa alla nostra lingua, ed io posso dirlo con fondamento per osservazione ed esperienza particolare che ne ho fatto, e cura che ci ho posto.
Quante parole infatti dell'ottima lingua italiana, appartengono precisamente alla bassa latinità! Nè bisogna discorrere pregiudicatamente e considerar come barbaro assoluto quello ch'è solo barbaro relativo.
Per esempio [954]l'antica lingua persiana, cioè prima che fosse inondata da parole arabe per effetto della conquista della Persia fatta dai Califi e dagl'immediati successori di Maometto7, fu lingua purissima, fu scritta purissimamente ebbe gran cura della purità nella scrittura, ed ebbe autori Classici non meno stimati in Oriente una volta per la purità della lingua, di quello che il fosse Menandro fra i greci.
(ma de' cui scritti la più gran parte è perita.) E Firdosi nel suo Shahnamah, e molti de' suoi contemporanei, si vantano di usare il pretto Persiano, e di esser mondi da ogni parola araba o forestiera (così che nel Dizionario di Richardson mancano nove decimi delle parole da essi usate, per esser questo Dizionario fatto per la lingua e i dialetti persiani moderni.) Ora qualunque purissima parola persiana, o di qualunque purissima lingua d'oriente, antica o moderna, parrebbe a noi, non solo impura, o barbara, ma intollerabile, suonerebbe peggio che barbaramente, e ci saprebbe più che barbara nelle lingue nostre.
Così dunque se le parole della bassa latinità riescono barbare nel latino, non si debbono stimare nè barbare nè impure in italiano, il quale deriva dalla bassa latinità più immediatamente che dalla alta.
Altrimenti si dovranno stimar barbare tante parole purissime e italianissime che derivano dalla bassa latinità (e così dico francesi ec.), e come tali sono registrate ne' Glossari latinobarbari.
Bensì bisogna distinguere i diversi generi che ci sono di bassa latinità.
Giacchè la bassa latinità germanica per esempio, in quanto è piena di voci germaniche ec.
sarà adattata a somministrar materia ad altre lingue, ma non alla nostra.
E perciò bisogna considerare che l'indole [955]delle parole e frasi ec.
del medio evo, sia conforme all'indole di quel linguaggio dal quale è derivata la lingua italiana precisamente.
(17.
Aprile 1821.)
Alla p.940.
Quello che ho detto delle lingue rispetto ai luoghi, si deve applicare proporzionatamente anche ai tempi, essendo certo ed evidente che le lingue vanno sempre variando, non già leggermente, ma in modo che alla fine muoiono, e loro ne sottentrano altre, secondo la variazione dei costumi, usi, opinioni ec.
e delle circostanze fisiche, politiche, morali, ec.
proprie dei diversi secoli della società.
In maniera che si può dire che come nessuna lingua è stata, così neanche nessun'altra sarà perpetua.
(18.
Aprile 1821.)
L'antichità e l'eccellenza della lingua sacra degl'indiani (sascrita), hanno naturalmente chiamato a se l'attenzione e destato la curiosità degli Europei.
I ragguardevoli suoi titoli ad essere considerata come la più antica lingua che l'uman genere conosca, muovono in noi quell'interesse da cui le vetustissime età del mondo sono circondate.
Costruita secondo il disegno più perfetto forse che dall'ingegno umano sia stato immaginato giammai, essa c'invita a ricercare se la sua perfezione si restringa ne' limiti della sua struttura, o se i pregi delle composizioni indiane partecipino della bellezza del linguaggio in cui sono dettate.
Spettatore di Milano 15.
Luglio 1817.
Quaderno 80.
parte straniera.
p.273.
articolo di D.
Bertolotti sopra la traduzione inglese del Megha [956]Duta, poema sascrittico di Calidasa, Calcutta 1814.
estratto però senza fallo da un giornale forestiero, e non dalla stessa traduzione, come apparisce in parecchi luoghi, e fra l'altro da' puntini che il Bertolotti pone dopo alcuni paragrafi di esso articolo, come p.274.275.
ec.
(18.
Aprile 1821.)
La lingua greca va considerata rispetto all'italiana nell'ordine di lingua madre, (o nonna) quanto ai modi, ma non quanto alle parole.
Dico quanto ai modi, massimamente per la sua conformità naturale o somiglianza in questa parte colla lingua latina sua sorella, e madre della nostra, e di più perchè gli scrittori latini, dal nascimento della loro letteratura, modellarono sulla greca le forme della loro lingua, e così hanno tramandata a noi una lingua formata in grandissima parte sui modi della greca.
Del che vedi un ell'articolo del Barone Winspear (Bibliot.
Ital.
t.8.
p.163.) nello Spettatore di Milano, 1.
Settembre 1817.
Parte italiana, Quaderno 83.
p.442.
dal mezzo al fine della pagina.
E così pure, parte per lo studio immediato de' greci esemplari, (del che vedi ivi p.443.
dal principio al mezzo) parte per lo studio de' latini, e la derivazione della lingua italiana dalla latina, parte e massimamente per una naturale conformità, che forse per accidente, ha la struttura e costruzione della lingua nostra colla greca (come dice espressamente la Staël nella B.
Italiana [957]vol.1.
p.15.
la costruzione gramaticale di quella lingua è capace di una perfetta imitazione de' concetti greci, a differenza della tedesca della quale ha detto il contrario), per tutte queste ragioni si trova una evidentissima e somma affinità fra l'andamento greco e l'italiano, massime nel più puro italiano, e più nativo e vero, cioè in quello del trecento.
Da tutto ciò segue che la lingua greca, come madre della nostra rispetto ai modi, sia e per ragione e per fatto adattatissima ad arricchire e rifiorire la lingua italiana d'infinite e variatissime forme e frasi e costrutti (Cesari) e idiotismi ec.
Non così quanto alle parole, che non possiamo derivare dalla lingua greca che non è madre della nostra rispetto ad esse; fuorchè in ordine a quelle che gli scrittori o l'uso latino ne derivarono, e divenute precisamente latine, passarono all'idioma nostro come latine e con sapore latino, non come greche.
Le quali però ancora, sebbene incontrastabili all'uso dell'italiano, tuttavia soggiacciono in parte, malgrado la lunga assuefazione che ci abbiamo, ai difetti notati da me p.951-952.
Che p.e.
chi dice filosofia eccita un'idea meno sensibile di chi dice sapienza, non vedendosi in quella parola e non sentendosi come in questa seconda, l'etimologia, cioè la derivazione della parola dalla cosa, il qual sentimento è quello che produce la vivezza ed efficacia, [958]e limpida evidenza dell'idea, quando si ascolta una parola.
(19.
Aprile 1821.)
Una delle principali cagioni per cui l'infelicità rende l'uomo inetto al fare, e lo debilita e snerva, onde l'infelicità toglie la forza, non è altra se non che l'infelicità debilita l'amor di se stesso.
E intendo massimamente della infelicità grave e lunga.
La quale col continuo contrasto che oppone all'amor di se stesso che era nel paziente, colla battaglia ostinatissima e fortissima che gli fa, e coll'obbligarlo ad uno stato contrario del tutto a quello ch'è scopo, oggetto e desiderio di questo amore, finalmente illanguidisce questo amore, rende l'uomo meno tenero di se stesso, siccome avvezzo a sentirsi infelice malgrado gli sforzi che ci opponeva.
Anzi una tale infelicità, se non riduce l'uomo alla disperazion viva, e al suicidio o all'odio di se stesso ch'è il sommo grado, e la somma intensità dell'amor proprio in tali circostanze, lo deve ridurre per necessità ad uno stato opposto, cioè alla freddezza e indifferenza verso se stesso; giacchè s'egli continuasse ad essere così infiammato verso se medesimo, com'era da principio, in che modo potrebbe sopportare la vita, o contentarsi di sopravvivere, vedendo e sentendo sempre infelice questo oggetto del suo sommo amore, e di tutta la sua vita sotto tutti i rispetti?
Ma l'amor di se stesso è l'unica possibile molla delle azioni e dei sentimenti umani, secondo ch'è applicato a questo o quello scopo virtuoso o vizioso, grande o basso ec.
[959]Diminuita dunque, e depressa, e ridotta a pochissimo (cioè a quanto meno è possibile mentre l'uomo vive) l'elasticità e la forza di molla, l'uomo non è più capace nè di azioni, nè di sentimenti vivi e forti ec.
nè verso se stesso, nè verso gli altri, giacchè anche verso gli altri, anche ai sacrifizi ec.
non lo può spingere altra forza che l'amor proprio, in quella tal guisa applicato e diretto.
E così l'uomo ch'è divenuto per forza indifferente verso se stesso, è indifferente verso tutto, è ridotto all'inazione fisica e morale.
E l'indebolimento dell'amor proprio, in quanto amor proprio e radicalmente, (non in quanto è diretto a questa o quella parte) cioè il vero indebolimento di questo amore, è cagione dell'indebolimento della virtù, dell'entusiasmo, dell'eroismo, della magnanimità, di tutto quello che sembra a prima vista il più nemico dell'amor proprio, il più bisognoso del suo abbassamento per trionfare e manifestarsi, il più contrariato e danneggiato dalla forza dell'amore individuale.
Così il detto indebolimento secca la vena della poesia, e dell'immaginazione, e l'uomo non amando, se non poco, se stesso, non ama più la natura; non sentendo il proprio affetto, non sente più la natura, nè l'efficacia della bellezza ec.
Una nebbia grevissima d'indifferenza sorgente immediata d'inazione e insensibilità, si spande su tutto l'animo suo, e su tutte le sue facoltà, da che [960]egli è divenuto indifferente, o poco sensibile verso quell'oggetto ch'è il solo capace d'interessarlo e di muoverlo moralmente o fisicamente verso tutti gli altri oggetti in qualunque modo, dico se stesso.
Altra cagione dello snervamento prodotto nell'uomo dall'infelicità, è la diffidenza di se stesso o delle cose, affezione mortifera, com'è vivifica e principalissima nel mondo e nei viventi la confidenza, e massime in se stesso: e questa è una qualità primitiva e naturale nell'uomo e nel vivente, innanzi all'esperienza.
ec.
ec.
Così pure l'uomo che ha perduto, o per viltà e vizio, o per forza delle avversità e delle contraddizioni e avvilimenti e disprezzi sofferti, la stima di se stesso, non è più buono a niente di grande nè di magnanimo.
E dicendo la stima, distinguo questa qualità dalla confidenza, ch'è cosa ben diversa considerandola bene.
(19.
Aprile 1821.)
Le sopraddette considerazioni possono portare ad una gran generalità, e semplicizzare l'idea che abbiamo del sistema delle cose umane, o la teoria dell'uomo, facendo conoscere come sotto tutti i riguardi, ed in tutte le circostanze possibili della vita, agisca quell'unico principio ch'è l'amor proprio, e come tutti gli effetti della vita umana sieno proporzionati alla maggiore o minor forza, maggiore o minor debolezza, e diversa direzione di quel solo movente: per quanto i detti effetti si presentino a prima vista, come derivati da diverse cagioni.
(19.
Aprile 1821.)
[961]Alla p.786.
E prima della potenza Ateniese e degl'incrementi di quella repubblica, essendo il dialetto ionico il più copioso, come pare, di tutti gli altri nello stato d'allora, per lo molto commercio della nazione o nazioni e repubbliche che l'usavano, prevalse il dialetto ionico nella letteratura greca, usato da Omero, da Ecateo Milesio istorico antichissimo, ed anteriore ad Erodoto che molto prese da lui, da Erodoto, da Ippocrate, da Democrito e da molti altri di gran fama.
Così che Giordani crede (B.
Ital.
vol.
2.
p.20.) che Empedocle (il quale parimente scrisse in quel dialetto) lasciasse di adoperare il dialetto (dorico) della sua patria e della sua scuola (Pitagorica) non perchè fosse o più difficile o meno gradito ai greci, ma perchè vedesse più frequentato fuori della Grecia l'ionico, al quale Omero, Erodoto e Ippocrate avevano acquistata più universale celebrità.
Di maniera che ancor dopo prevaluto l'attico si seguitò da alcuni a scrivere ionico, non come dialetto proprio, ma come vezzo, e quasi in memoria della sua antica fama.
Come fece Arriano, il quale continuò i 7 libri della Impresa di Alessandro scritti in puro attico, colla storia indiana, o libro delle cose indiane scritto in dialetto ionico, per puro capriccio.
Ora questo dialetto ionico tutti sanno qual sia presso Omero, cioè una mescolanza di tutti i dialetti, e di voci estere, solamente prevalendo lo ionico, ed Ermogene ???? ????? lib.
II.
p.513.
notat Hecataeum Milesium a quo plurima accepit Herodotus (notante etiam Porphyr.
ap.
Eus.
l.10.
praep.
c.2.
p.466.) usum ?????? ?????, Herodotum ?????????.
(Fabric.
B.
G.
II.
c.20.
§.2.
t.
I.
697.
nota K.) cioè l'uno del dialetto ionico puro, l'altro del dialetto ionico variato o misto.
E contuttociò Erodoto è chiamato [962]dal suo concittadino Dionigi d'Alicarnasso (Epist.
ad Cneium Pompeium p.130.
Fabric.) ??????????????????(?.
(20.
Aprile.
Venerdì Santo.
1821.)
Sono perciò rare tra' francesi le buone traduzioni poetiche; eccetto le Georgiche volgarizzate dall'abate De-Lille.
I nostri traduttori imitan bene; tramutano in francese ciò che altronde pigliano, cosicchè nol sapresti discernere, ma non trovo opera di poesia che faccia riconoscere la sua origine, e serbi le sue sembianze forestiere: credo anzi che tale opera non possa mai farsi.
E se degnamente ammiriamo la georgica dell'abate De-Lille, n'è cagione quella maggior somiglianza che la nostra lingua tiene colla romana onde nacque, di cui mantiene la maestà e la pompa.
Ma le moderne lingue sono tanto disformi dalla francese, che se questa volesse conformarsi a quelle, ne perderebbe ogni decoro.
Staël, B.
Ital.
vol.1.
p.12.
Esaminiamo.
Che la traduzione del Delille sia migliore d'ogni altra traduzione francese qualunque (in quanto traduzione), di questo ne possono e debbono giudicare i francesi meglio che gli stranieri.
Se poi fatto il paragone tra la detta traduzione e l'originale, vi si trovi tutta quella conformità ed equivalenza che i francesi stimano di ravvisarvi (quantunque concederò che se ne trovi tanta, quanta mai si possa trovare in versione francese) questo giudizio spetta piuttosto agli stranieri che a' francesi, e noi italiani massimamente siamo meglio [963]a portata, che qualsivoglia altra nazione, di giudicarne.
Siccome ciascuno pensa nella sua lingua, o in quella che gli è più familiare, così ciascuno gusta e sente nella stessa lingua le qualità delle scritture fatte in qualunque lingua.
Come il pensiero, così il sentimento delle qualità spettanti alla favella, sempre si concepisce, e inevitabilmente, nella lingua a noi usuale.
I modi, le forme, le parole, le grazie, le eleganze, gli ardimenti felici, i traslati, le inversioni, tutto quello mai che può spettare alla lingua in qualsivoglia scrittura o discorso straniero, (sia in bene, sia in male) non si sente mai nè si gusta se non in relazione colla lingua familiare, e paragonando più o meno distintamente quella frase straniera a una frase nostrale, trasportando quell'ardimento, quella eleganza ec.
in nostra lingua.
Di maniera che l'effetto di una scrittura in lingua straniera sull'animo nostro, è come l'effetto delle prospettive ripetute e vedute nella camera oscura, le quali tanto possono essere distinte e corrispondere veramente agli oggetti e prospettive reali, quanto la camera oscura è adattata a renderle con esattezza; sicchè tutto l'effetto dipende dalla camera oscura piuttosto che dall'oggetto reale.
Così dunque accadendo rispetto alle lingue (eccetto in coloro che sono già arrivati o a rendersi familiare un'altra lingua invece della propria, o a rendersene familiare e quasi propria più d'una, con grandissimo uso [964]di parlarla, o scriverla, o leggerla, cosa che accade a pochissimi, e rispetto alle lingue morte, forse a nessuno) tanto adequatamente si potranno sentire le qualità delle lingue altrui, quanta sia nella propria, la facoltà di esprimerle.
E l'effetto delle lingue altrui sarà sempre in proporzione di questa facoltà nella propria.
Ora la facoltà di adattarsi alle forme straniere essendo tenuissima e minima nella lingua francese, pochissimo si può stendere la facoltà di sentire e gustare le lingue straniere, in coloro che adoprano la francese.
Notate ch'io dico, gustare e sentire, non intendere nè conoscere.
Questo è opera dell'intelletto il quale si serve di altri mezzi.
E quindi i francesi potranno intendere e conoscer benissimo le altre lingue, senza però gustarle nè sentirle più che tanto.
Ho detto che gl'italiani in questo caso possono dar giudizio meglio che qualunque altro.
1.
La lingua italiana, come ho detto altrove, è piuttosto un aggregato di lingue che una lingua, laddove la francese è unica.
Quindi nell'italiana è forse maggiore che in qualunque altra la facoltà di adattarsi alle forme straniere, non già sempre ricevendole identicamente, ma trovando la corrispondente, e servendo come di colore allo studioso della lingua straniera, per poterla dipingere, rappresentare, ritrarre nella propria [965]comprensione e immaginazione.
E per lo contrario nella lingua francese questa facoltà è certo minore che in qualunque altra.
2.
Queste considerazioni rispetto alla detta facoltà della nostra lingua, si accrescono quando si tratta della lingua latina, o della greca.
Perchè alle forme di queste lingue, la nostra si adatta anche identicamente, più che qualunque altra lingua del mondo: e non è maraviglia, avendo lo stesso genio, ed essendosi sempre conservata figlia vera di dette lingue, non solo per ragione di genealogia e di fatto, ma per vera e reale somiglianza e affinità di natura e di carattere.
Laddove la lingua francese sebbene nata dalla latina, se n'è allontanata più che qualunque altra sorella o affine.
E il genio della lingua francese è tanto diverso da quello della latina, quanta differenza mai si possa trovare fra le lingue di popoli che appartengono ad uno stesso clima, ad una stessa famiglia, ed hanno una storia comune ec.
La somiglianza delle parole, cioè l'essere grandissima parte delle parole francesi derivata dal latino, non fa nessun caso, essendo una somiglianza materialissima, e di suono, non di struttura: anzi neppur di suono, per la somma differenza della pronunzia.
Ma in ogni caso il suono e la struttura sono cose indipendenti, così che ci potrebbero esser due lingue, tutte le cui parole avessero un'etimologia comune, [966]e nondimeno esser lingue diversissime.
In conseguenza se ai francesi pare di ravvisare il gusto, l'andamento, il carattere di Virgilio nel Delille, e a noi italiani pare tutto l'opposto, io dico che in ciò siamo più degni di credenza noi, che col mezzo della lingua propria (solo mezzo di sentire le altre) possiamo meglio di tutti sentire le qualità della francese e (più ancora) della latina; di quello che i francesi che col mezzo della loro renitentissima ed unica lingua, non hanno se non ristretta facoltà di sentire veramente Virgilio e gustarlo in tutto ciò che spetta alla lingua.
Passo anche più avanti, e dico esser più difficile ai francesi che a qualunque altra nazione Europea, non solo il gustare e il sentire, ma anche il formarsi un'idea precisa e limpida, il familiarizzarsi, e finalmente anche l'imparare le lingue altrui.
Dice ottimamente Giordani (B.
Italiana vol.3.
p.173.) che Niuna lingua, nè viva nè morta, si può imparare se non per mezzo d'un'altra lingua già ben saputa.
Questo è certissimo.
S'impara la lingua che non sappiamo, barattando parola per parola e frase per frase con quella che già possediamo.
Ora se questa lingua che già possediamo, non si presta se non pochissimo e di pessima voglia e difficilissimamente a questi baratti, è manifesto che la difficoltà d'imparare le altre lingue, dovrà essere in proporzione.
E siccome questa lingua già posseduta è [967]l'unico strumento che abbiamo a formare il concetto della natura forza e valore delle frasi e delle parole straniere, se lo strumento è insufficiente o scarso, scarso e insufficiente sarà anche l'effetto.
Ciò è manifesto 1.
dal fatto.
La gran difficoltà di certe lingue affatto diverse dal carattere delle nostrali, consiste in ciò, che cercando nella propria lingua parole o frasi corrispondenti, non le troviamo, e non trovandole non intendiamo, o stentiamo a intendere, o certo a concepire con distinzione ed esattezza la forza e la natura di quelle voci o frasi straniere.
2.
da una ragione anche più intimamente filosofica e psicologica delle accennate.
Le idee, i pensieri per se stessi non si fanno vedere nè conoscere, non si potrebbero vedere nè conoscere per se stessi.
A far ciò non c'è altro mezzo che i segni di convenzione.
Ma se i segni di convenzione son diversi, è lo stesso che non ci fosse convenzione, e che quelli non fossero segni, e così in una lingua non conosciuta, le idee e pensieri che esprime non s'intendono.
Per intendere dunque questi segni come vorreste fare? a che cosa riportarli? alle idee e pensieri vostri immediatamente? come? se non sapete quali idee e quali pensieri significhino.
Bisogna che lo intendiate per mezzo di altri segni, della cui convenzione siete partecipe, cioè per mezzo di un'altra lingua da voi conosciuta; e quindi riportiate quei segni sconosciuti, ai segni [968]conosciuti, i quali sapendo voi bene a quali idee si riportino, venite a riportare i segni sconosciuti alle idee, e per conseguenza a capirli.
Ma se il numero dei segni da voi conosciuti è limitato, come farete a intendere quei segni sconosciuti che non avranno gli equivalenti fra i noti a voi? Non vale che quei segni sconosciuti corrispondano a delle idee, e che voi siate capacissimo di queste idee.
Bisogna che sappiate quali sono e che lo sappiate precisamente, e non lo potete sapere se non per via di segni noti.
Bisogna che se p.e.
(e questo è il principale in questo argomento) quei segni sconosciuti esprimono un accidente, una gradazione, una menoma differenza, una nuance di qualche idea che voi già conoscete e tenete, e sapete esprimere con segni noti, voi intendiate perfettamente, e vi formiate un concetto chiaro e limpido di quella tale ancorchè menoma gradazione; e se questa non si può esprimere con verun segno a voi noto, come giungerete al detto effetto? Solamente a forza di conghietture, o spiegandovisi la cosa a forza di circollocuzioni.
Con che non è possibile, o certo è difficilissimo che voi giungiate a formarvi un'idea chiara, distinta ec.
di quella precisa idea, o mezza idea ec.
espressa da quel tal segno.
E perciò dico che i francesi non sono ordinariamente capaci di concepire le proprietà delle altre lingue, se non in maniera più o meno oscura, ma che [969]sempre conservi qualche cosa di confuso e di non perfetto.
Ciascuna lingua (lasciando ora le parole, delle quali la francese, sebbene inferiore anche in ciò ad altre lingue, tuttavia non è povera, e in certi generi è ricca) ha certe forme, certi modi particolari e propri che per l'una parte sono difficilissimi a trovare perfetta corrispondenza in altra lingua; per l'altra parte costituiscono il principal gusto di quell'idioma, sono le sue più native proprietà, i distintivi più caratteristici del suo genio, le grazie più intime, recondite, e più sostanziali di quella favella.
Nessuna lingua dunque è uno strumento così perfetto che possa servire bastantemente per concepire con perfezione le proprietà tutte e ciascuna di ciascun'altra lingua.
Ma la cosa va in proporzione, e quella lingua ch'è più povera d'inversioni (Staël l.c.
p.11.
fine) chiusa in giro più angusto (ib.), più monotona, (ib.
p.12.
principio), più timida, più scarsa di ardiri, più legata, più serva di se stessa, meno arrendevole, meno libera, meno varia, più strettamente conforme in ogni parte a se stessa; questa lingua dico è lo strumento meno atto, meno valido, più insufficiente, più grossolano, per elevarci alla cognizione delle altre lingue, e delle loro particolarità.
Che se ciò vale quanto al perfetto intendere, [970]molto più quanto al perfetto gustare, che risulta dal senso intero e preciso e completo di qualità tanto più numerose, e tanto più menome e sfuggevoli, e tanto più proprie ed intime e arcane e riposte e peculiari di quella tal lingua.
Una lingua, che come confessa un francese (Thomas, il cui luogo ho riportato altrove) se refuse peut-être (à la grâce), parce quelle ne peut nous donner ni cette sensibilité tendre et pure qui la fait naître, ni cet instrument facile et souple qui la peut rendre; una tal lingua dico, che è la francese, come potrà essere perfetto istrumento per concepire e sentire come conviene, le grazie ec.
delle altre lingue? trattandosi poi, come ho dimostrato, che a questo effetto, gli uomini non hanno altro istrumento che la loro propria lingua, come potranno il più de' francesi, ancorchè dotti e dilicati, sentire profondamente e perfettamente, e formarsi idea netta di queste tali grazie, e vestirsi in somma intieramente, com'è necessario, delle altre lingue, e del genio loro?
Il fatto conferma queste mie obbiezioni.
Ciascun popolo ama di preferenza, e gusta e sente la propria letteratura meglio di ogni altra.
Questo è naturale.
Ma ciò accade sommamente ne' francesi, i quali generalmente non conoscono in verità altra letteratura che la loro (dico letteratura, e non scienze, filosofia ec.).
[971]Le altre non le conoscono, se non per mezzo di quelle traduzioni, che essendo fatte come ognun sa, e come comportano i limiti, il genio, la nessuna adattabilità della loro lingua, trasportano le opere straniere non solo nella lingua, ma nella letteratura loro, e le fanno parte di letteratura francese.
Così che questa resta sempre l'unica che si conosca in Francia universalmente, anche dalla universalità degli studiosi.
Ed è anche vero generalmente, che non solo non conoscono, ma noncurano, e disprezzano, o certo sono inclinatissimi a disprezzare le letterature straniere.
Che se non disprezzano la latina e la greca, viene che non sempre gli uomini sono conseguenti, viene ch'essi parlano come parla tutto il mondo che esalta quelle letterature, viene ch'essi stimano quelle letterature come compagne o madri della loro, e nel mentre che stimano la loro come la più perfetta possibile, anzi la sola vera e perfetta, non vedono, o non vogliono vedere ch'è diversissima, e in molte parti contraria a quelle due, le quali non isdegnano di proporsi per modello e norma, e citare al loro tribunale e confronto ec.
ec.; viene ch'essi credono di gustarle pienamente, e di giudicarne perfettamente ec.
Ciascuno straniero è soggetto a cadere in errore giudicando dei pregi o difetti di una lingua altrui, morta o viva, massime de' più intimi e reconditi e particolari.
E così giudicando di quei pregi o difetti [972]di un'opera di letteratura straniera, che appartengono alla lingua, e di tutta quella parte dello stile (ed è grandissima e rilevantissima parte) che spetta alla lingua, o ci ha qualche relazione per qualunque verso.
Ma i giudizi de' francesi sopra questi soggetti, e de' francesi anche più grandi e acuti e stimabili, sono quasi sempre falsi: in maniera che per lo più la falsità loro, va in ragione diretta della temerità ed assurance con cui sono ordinariamente pronunziati; vale a dire ch'è somma.
E ordinariamente i francesi, quando parlano di certe intimità delle letterature straniere, appartenenti a lingua, fanno un arrosto di granciporri.
Questo quanto al gustare.
Quanto all'intendere, il fatto non è meno conforme alle mie osservazioni.
Perchè la francese insieme coll'italiana, è senza contrasto, la nazione meno letterata in materia di lingue, sia lingue antiche classiche, cioè greca e latina, (nelle quali la Francia non può in nessun modo paragonarsi all'Inghilterra, Germania, Olanda ec.) sia lingue vive, delle quali la maggior parte dei francesi si contenta di essere ignorantissima, o di saperne quanto basta per usurpare il diritto di sparlarne, e giudicarne a sproposito e al rovescio.
Nell'Italia (dove però l'ignoranza non è tanto compagna della temerità) [973]il poco studio delle lingue morte o vive, nasce dalla misera costituzione del paese, e dalla generale inerzia che non senza troppo naturali e necessarie cagioni, vi regna.
Ed ella non è più al di sotto in genere, di quello che in ogni altro, o di studi, o di qualsivoglia disciplina, e professione della vita.
Ma nella Francia le circostanze sono opposte: in luogo che vi regni l'inerzia, vi regna l'attività e le ragioni di lei; in luogo che vi regni l'ignoranza, vi regnano tutte le altre maniere di coltura; tutti gli altri studi, e tutte le buone discipline e professioni fioriscono in Francia da lungo tempo; la sua posizione geografica, e tutte le altre sue circostanze la pongono in continua e viva ed orale relazione co' forestieri, tanto nell'interno della Francia stessa, quanto fuori.
Perchè dunque ella si distingue assolutamente dalle altre nazioni nella poca e poco generale coltura delle lingue altrui, vive o morte? Fra le altre cagioni che si potrebbero addurre, io stimo una delle principali quella che ho detto, cioè la difficoltà che oppone la loro stessa lingua all'intelligenza e sentimento delle altre, e l'insufficienza dello strumento che hanno per procacciarsi e la cognizione, e il gusto delle lingue altrui.
[974]Una celebre Dama Irlandese morta pochi anni fa (Lady Morgan) riferisce come cosa notabile che di tanti emigrati francesi che soggiornarono sì lungo tempo in Inghilterra, nessuno o quasi nessuno, quando tornarono in Francia coi Borboni, aveva imparato veramente l'inglese, nè poteva portar giudizio se non incompleto, inesatto, anzi spesso stravagantissimo e ridicolo, sopra la lingua e letteratura inglese; sebbene tutte erano persone ottimamente allevate, e ornate, qual più qual meno, di buoni studi.
Io non intendo con ciò di detrarre, anzi di aggiungere alla gloria di quei dottissimi e sommi letterati francesi che malgrado tutte le dette difficoltà, facendosi scala da una ad altra lingua, mediante lunghi, assidui, profondi studi delle altrui lingue e letterature, mediante i viaggi, le conversazioni ec.
sono divenuti così padroni delle lingue e letterature straniere che hanno coltivate, ne hanno penetrato così bene il gusto ec.
quanto mai possa fare uno straniero, e forse anche talvolta quanto possa fare un nazionale.
(Cosa per altro rara, che, eccetto il Ginguené, non credo che si trovi autore francese, massime oggidì, che abbia saputo o sappia giudicare con verità della lingua e letteratura italiana: e così discorrete delle altre).
E non ignoro quanto debbano massimamente le lingue e letterature orientali ai [975]dotti francesi di questo e del passato secolo.
Ma questi tali dotti presenti o passati hanno parlato o parlano e più modestamente della lingua e letteratura loro, e più cautamente e con più riguardo delle altrui, siccome è costume naturale di chiunque meglio e maturamente ed intimamente conosce ed intende.
(20-22.
Aprile.
Giorno di Pasqua.
1821.).
V.
p.978.
capoverso 3.
Tra i libri diversi si annunziano le Lettere sull'India di Maria Graham, autrice di un Giornale del suo soggiorno nell'India, nelle quali campeggia un curioso paragone del Sanscritto col latino, col persiano, col tedesco, coll'inglese, col francese e coll'italiano, e si parla pure a lungo delle principali opere composte in Sanscritto.
Bibl.
Italiana vol.4.
p.358.
Novembre 1816.
n.11.
Appendice.
Parte italiana.
rendendo conto del Giornale Enciclopedico di Napoli n.
V.
(22.
Aprile 1821.)
Il sistema di Copernico insegnò ai filosofi l'uguaglianza dei globi che compongono il sistema solare (uguaglianza non insegnata dalla natura, anzi all'opposto), nel modo che la ragione e la natura insegnavano agli uomini ed a qualunque vivente l'uguaglianza naturale degl'individui di una medesima specie.
(22.
Aprile 1821.)
La scrittura dev'essere scrittura e non algebra; [976]deve rappresentar le parole coi segni convenuti, e l'esprimere e il suscitare le idee e i sentimenti, ovvero i pensieri e gli affetti dell'animo, è ufficio delle parole così rappresentate.
Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io? Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare le cose colle parole, le vorremo dipingere o significare con segni, come fanno i cinesi la cui scrittura non rappresenta le parole, ma le cose e le idee.
Che altro è questo se non ritornare l'arte dello scrivere all'infanzia? Imparate imparate l'arte dello stile, quell'arte che possedevano così bene i nostri antichi, quell'arte che oggi è nella massima parte perduta, quell'arte che è necessario possedere in tutta la sua profondità, in tutta la sua varietà, in tutta la sua perfezione, chi vuole scrivere.
E così obbligherete il lettore alla sospensione, all'attenzione, alla meditazione, alla posatezza nel leggere, agli affetti che occorreranno, ve l'obbligherete, dico, con le parole, e non coi segnetti, nè collo spendere due pagine in quella scrittura che si potrebbe contenere in una sola pagina, togliendo le lineette, e le divisioni ec.
Che maraviglia risulta da questa sorta d'imitazioni? Non consiste nella maraviglia uno de' principalissimi pregi dell'imitazione, una [977]delle somme cause del diletto ch'ella produce? Or dunque non è meglio che lo scrittore volendo scrivere in questa maniera, si metta a fare il pittore? Non ha sbagliato mestiere? non produrrebbe egli molto meglio quegli effetti che vuol produrre scrivendo così? Non c'è maraviglia, dove non c'è difficoltà.
E che difficoltà nell'imitare in questo modo? Che difficoltà nell'esprimere il calpestio dei cavalli col trap trap trap, e il suono de' campanelli col tin tin tin, come fanno i romantici? (Bürger nell'Eleonora.
B.
Ital.
tomo 8.
p.365.) Questa è l'imitazione delle balie, e de' saltimbanchi, ed è tutt'una con quella che si fa nella detta maniera di scrivere, e coi detti segni, sconosciutissimi, e con ragione a tutti gli antichi e sommi.
(22.
Aprile.
Giorno di Pasqua 1821.)
Quanto più qualsivoglia imitazione trapassa i limiti dello strumento che l'è destinato, e che la caratterizza e qualifica, tanto più esce della sua natura e proprietà, e tanto più si scema la maraviglia, come se nella scultura che imita col marmo s'introducessero gli occhi di vetro, o le parrucche invece delle chiome scolpite.
E così appunto si deve dire in ordine alla scrittura, la quale imita colle parole, e non deve uscire del suo strumento.
Massime se questi nuovi strumenti son troppo facili e ovvi, [978]cosa contraria alla dignità e alla maraviglia dell'imitazione, e che confonde la imitazione del poeta o dell'artefice colla misera imitazione delle balie, de' mimi, de' ciarlatani, delle scimie, e con quella imitazione che si fa tutto giorno o con parole, o con gesti, o con lavori triviali di mano, senza che alcuno si avvisi di maravigliarsene, o di crederla opera del genio, e divina.
(23.
Aprile.
1821.)
Oggi non può scegliere il cammino della virtù se non il pazzo, o il timido e vile, o il debole e misero.
(23.
Aprile.
1821.)
Per l'invenzione della polvere l'energia che prima avevano gli uomini si trasportò alle macchine, e si trasformarono in macchine gli uomini, cosicchè ella ha cangiato essenzialmente il modo di guerreggiare.
B.
Italiana t.5.
p.31.
Prospetto Storico-filosofico ec.
del Conte Emanuele Bava di S.
Paolo, 2° ed ult.
estratto.
(23.
Aprile 1821.)
Alla p.975.
Una lingua timidissima non è buono nè perfetto strumento a gustare una lingua coraggiosa ed ardita, a gustare gli ardimenti e il coraggio; nè una lingua tutta regola, e matematica, ed esattezza e ragione, a gustare una lingua naturalmente e felicemente irregolare, (come sono tutte le antiche, orientali come occidentali), una lingua regolata dalla immaginazione ec.; nè una lingua che non ha, si può dire, nessuna proprietà quanto ai modi ec.
(????? ?? ?????) a gustare le proprietà [979]delle altre lingue.
(24.
Aprile.
1821.)
Passa rapidamente sulla ricerca del linguaggio de' primi abitatori dell'Italia, e sembra persuaso che la lingua di quelle genti, siccome pure la greca e la latina, derivassero dall'indiana, giacchè i popoli indiani dalle spiagge dell'Oriente, passarono in turme alle Occidentali, e posero sede nella Grecia ed in Italia.
Formata, ossia ridotta ad eleganza la lingua latina (cioè quella derivata, secondo il Ciampi, dall'indiana), non perciò perirono l'etrusca, l'osca, la volsca, la latina antica più rozza; ma benchè queste non formassero la lingua della capitale e del governo, continuarono forse a parlarsi dal volgo, in quella maniera medesima che il volgo delle diverse provincie d'Italia è tuttora tenace dei propri dialetti.
Infatti alcune voci toscane sono ancora probabilmente di origine etrusca.
Biblioteca Italiana tomo 7.
pag.215.
rendendo conto dell'opera del Ciampi intitolata De usu linguae italicae saltem a saeculo quinto R.
S.
Acroasis.
Accedit etc.
Pisis.
Prosperi.
1817.
(24.
Aprile 1821.)
Trae perfino un argomento a suo favore dalla lingua valacca, la quale derivata dai soldati romani che vi si lasciarono stazionarii da Traiano, conviene in molte parole ed in molte frasi colla italiana, e ne [980]mette fuori di dubbio la rimota antichità.
Bibl.
Ital.
l.
cit.
nel pensiero antecedente, rendendo conto della stessa opera.
p.217.
fine.
(24.
Aprile 1821.)
La lingua del Lazio adunque si dovette propagare nel contiguo Illirico e all'Oriente, non meno che si propagò in amendue le Gallie all'Occidente; e il nome Romania, che fino a' nostri dì si è conservato; e la lingua chiamata dai Valacchi: ROMANESKI, che tanto somiglia alla latina (come un viaggiatore recente ce lo conferma) (vedi Caronni in Dacia.
Milano, 1812.
pag.32.) non che il gran numero di antichità romane disotterrate in quelle parti, ne sono una prova convincente.
Articolo originale del Cav.
Hager nello Spettatore di Milano.
1.
Aprile 1818.
Quaderno 97.
p.245.
fine.
(25.
Aprile 1821.).
Basta che la voce OCO che significa anch'essa OCCHIO in russo, (cioè oltre la voce Glass che significa lo stesso) sia tanto simile all'OCULUS de' latini, onde dimostrare che questa voce non è meno affine alla voce latina, che la parola OCCHIO in italiano, non essendo OCULUS che il diminutivo della parola OCCUS o OCCOS che significava un OCCHIO in greco antico, come lo attestano Esichio ed Isidoro.
Luogo citato qui sopra, p.244.
principio.
Sì dunque la voce russa Oco derivata dal latino mediante la propagazione [981]della lingua latina nell'Illirico, avvenuta in bassi tempi, (Hager, ivi, p.244.
verso il mezzo ec.
e Bibl.
Italiana vol.
8.
p.208.
rendendo conto dell'opera dello stesso Hager: Observations sur la ressemblance frappante que l'on découvre entre la langue des Russes et celle des Romains.
Milan.
1817.
chez Stella, en 4°.
gr.
dove l'autore dimostra questa propagazione.) essendo la lingua russa figlia dell'illirica (ivi); sì ancora la voce ojo spagnuola (che si pronunzia oco, aspirando il c all'uso spagnuolo) dimostrano che quell'antichissima voce occus, benchè sparita dalle scritture latine, si conservò nel latino volgare.
(25.
Aprile 1821.).
Occhio però viene da oculus come da somniCULosus, sonnaCCHIoso, e l'antico sonnoCCHIoso, da auricula, orecchia, da geniculum o genuculum, ginocchio (v.
pag.1181.
marg.), da foeniculum, finocchio, da macula, macchia, da apicula o apecula, pecchia, da stipula, stoppia, (bisogna notare che anche gli spagnuoli dicono ojo da oculus, come oreja, oveja da auricula, ovicula ec.) da ungula, unghia ec.
V.
p.2375.
(e la p.2281.
e segg.).
Alla p.740.
La lingua greca si era conservata sempre pura, in gran parte per la grande ignoranza in cui erano i greci del latino.
La quale si fa chiara sì da altri esempi che ho allegati in altro pensiero (cioè quelli di Longino nel giudizio timidissimo che dà di Cicerone, e di Plutarco nella prefazione alla Vita di Demostene, della quale vedi il Toup ad Longin.
p.134.) sì ancora da questo, che laddove i latini citavano ad ogni momento parole e passi greci, colle lettere greche, gli scrittori greci non mai citavano o usavano parole latine se non con elementi greci, e con maraviglia, e come cosa unica notò il Mingarelli in un'opera di Didimo Alessandrino, Teologo del quarto secolo, da lui per la prima volta pubblicata, due o tre parole latine barbaramente scritte in caratteri latini.
(Didym.
Alexandr.
De Trinitate Lib.1.
cap.15.
Bonon.
typis Laelii a Vulpe 1769.
fol.
p.18.
gr.
et lat.
cura Johannis Aloysii Mingarellii.
Vide ib.
eius not.3.
e la Lettera a Mons.
Giovanni Archinto Sopra un'opera inedita di un antico teologo stampata già in Venezia nella Nuova Raccolta del Calogerà 1763.
tomo XI.
e ristampata nell'Appendice alla detta opera: Cap.3.
pag.465.
fine-466.
principio.
del che non si troverà [982]così facilmente altro esempio in altro scrittore greco.) Il che dimostra sì che gli stessi scrittori sì che i lettori greci erano ignorantissimi del latino, da che gli scrittori non giudicavano di poter citare parole latine, com'elle erano scritte; e di rado anche le usavano in lettere greche, al contrario de' latini rispetto alle voci greche e passi greci in caratteri latini ec.
Quanto poi i greci dovessero lottare colle circostanze per mantenersi in questa verginità anche prima di Costantino, e dopo la conquista della Grecia fatta dai Romani si può raccogliere da queste parole del Cav.
Hager, nel luogo cit.
qui dietro (p.980.) p.245.
Basta consultare la celebre opera di S.
Agostino, DE CIVITATE DEI, onde vedere quanto i Romani al medesimo tempo erano solleciti d'imporre non solo il loro giogo, ma anche la loro lingua a' popoli da loro sottomessi: Opera data est, ut imperiosa civitas, non solum iugum, verum etiam linguam suam, domitis gentibus per pacem societatis, imponeret (Lib.
XIX, cap.7.) Ai Greci medesimi, dice Valerio Massimo, non davano giammai risposta che in lingua latina: illud quoque magna perseverantia custodiebant, ne Graecis unquam nisi latine responsa darent, (Lib.
II., c.2.
n.2.) e ciò quantunque la lingua greca fosse tanto famigliare a' Romani; nulla dimeno per diffondere la lingua latina obbligavano perfino que' Greci, che non la sapevano, a spiegarsi per mezzo di un interprete in latino: Quin etiam...
per interpretem loqui cogebant...
quo scilicet latinae vocis honos per omnes gentes venerabilior diffunderetur.
(ibid.) [983]E tuttavia la Grecia resistè.
Ma dopo Costantino, alla Corte Bizantina, segue lo stesso autore l.c.
come si osserva da S.
Crisostomo (adv.
oppugnatores vitae monasticae.
Lib.
III.
tom.
I., p.34.
Paris.
1718, edit Montfaucon.) era un mezzo di far fortuna il sapere il latino; e fino a' tempi di Giustiniano, le leggi degli imperatori greci si pubblicavano nella Grecia medesima in latino.
E soggiunge subito in una nota: Le PANDETTE furono pubblicate a Costantinopoli in latino.
(25.
Aprile 1821.)
Nelle Mémoires de l'Acad.
des Inscriptions, Tom.24.
si trova: Bonamy, Réflexions sur la langue latine vulgaire.
(25.
Aprile 1821.).
E son pur da vedere in questo proposito le memorie di Trévoux, anno 1711.
p.914.
Un nostro missionario (cioè italiano) il P.
Paolino da S.
Bartolomeo, mostrò l'affinità della lingua tedesca con una lingua indiana non solo, ma che da una lunga serie di secoli ha cessato di essere vernacola, con la samscrdamica (cioè sascrita: così la nomina anche p.208.
samscrdamica) che è la madre di tutte le lingue delle Indie.
Bibliot.
Ital.
vol.8.
p.206.
(25.
Aprile 1821.)
Che il verbo latino serpo sia lo stesso che il greco ????, è cosa evidente, come pure i derivati, serpyllum etc.
Ma che gli antichi latini, e successivamente il volgo latino, usassero ancora, almeno in composizione, lo stesso verbo senza la [984]s, come in greco, lo raccolgo dal verbo neutro italiano inerpicare o innerpicare che significa appunto lo stesso che il greco ??????, composto di ????, cioè sursum repo, come anche ???????.
(Del verbo ?????? non ha esempio lo Scapula, ma lo spiega sursum repo.
Ve n'è però esempio in Arriano, Expedit.
lib.6.
c.10.
sect.6.
e nell'indice è spiegato sursum serpo.) Il qual verbo siccome non ha radice veruna nella nostra lingua, nè nella latina conosciuta, così l'ha evidentissima nel detto verbo ????, dal quale non può esser derivato, se non mediante il latino, cioè mediante l'uso del volgo romano, differente in questo dagli scrittori.
(25 Aprile 1821.)
Delle qualità e pregi della lingua Sascrita, v.
alcune cose estratte da un articolo di Jones nelle Notizie letterarie di Cesena 1791.
24.
Nov.
p.365.
colonna 1.
Dell'abuso ch'ella fa talvolta de' composti v.
ib.
p.363.
colonna 2.
fine.
Abuso simile a quello che ne facevano talvolta gli antichi scrittori, e massime poeti, latini, ma assai maggiore, secondo la natura de' popoli orientali che sogliono sempre e in ogni genere spingersi fino all'ultimo e intollerabile eccesso delle cose.
(25.
Aprile 1821.)
La scoperta e l'uso delle armi da fuoco oltre agli effetti da me notati negli altri pensieri, ha scemato ancora notabilissimamente il coraggio ne' soldati, e generalmente negli uomini.
La victoire...
s'obtient aujourd'hui par la regularité et la précision des manoeuvres, souvent sans en venir aux mains.
Nos guerres ne se décident plus guère que de loin, à coups de canon et de fusil; et nos timides fantassins, sans armes défensives, effrayés par le bruit et l'effet de [985]nos armes à feu, n'osent plus s'aborder: les combats à l'armes blanches sont devenus fort rares.
Così il Barone Rogniat, Considérations sur l'Art de la guerre, Paris, de l'imprimerie de Firmin Didot, 1817.
Introduction, p.1.
E come i soldati, così gli altri uomini che si servono delle armi da fuoco invece delle bianche, riducendosi ora ogni battaglia o pubblica o privata, a tradimenti, e a fatti di lontano, senza mai venire corpo a corpo: oltre l'influenza che ha l'educazione militare, e la natura delle guerre sopra l'intero delle nazioni.
Sarà bene ch'io legga tutta intera l'opera citata, dove l'arte della guerra è chiarissimamente esposta, congiunta a molta filosofia, paragonati continuamente gli antichi coi moderni, e i diversi popoli fra loro, applicata alla detta arte la scienza dell'uomo ec.
E certo la guerra appartiene al filosofo, tanto come cagione di sommi e principalissimi avvenimenti, quanto come connessa con infiniti rami della teoria della società, e dell'uomo e dei viventi.
(25.
Aprile 1821.)
La soverchia ristrettezza e superstizione e tirannia in ordine alla purità della lingua, ne produce dirittamente la barbarie e licenza, come la eccessiva servitù produce la soverchia e smoderata libertà dei popoli.
I quali ora perciò non divengono liberi, perchè [986]non sono eccessivamente servi, e perchè la tirannia è perfetta, e peggiore che mai fosse, essendo più moderata che fosse mai.
(25.
Aprile 1821.)
Come non si dà mai l'atto nè il possesso del diletto, così neanche dell'utilità, giacchè utile non è se non quello che conduce alla felicità, la quale non è riposta in altro che nel piacere, con qualunque nome ei venga chiamato.
(25.
Aprile 1821.)
Dal confronto delle poesie di Ossian, vere naturali e indigene dell'Inghilterra, colle poesie orientali, si può dedurre (ironico) quanto sia naturale all'Inghilterra la sua presente poesia (come quella di Lord Byron) derivata in gran parte dall'oriente, come dice il riputatissimo giornale dell'Edinburgh Review in proposito del Lalla Roca di Tommaso Moore (Londra 1817.) intitolato Romanzo orientale.
(Spettatore di Milano.
1.
Giugno 1818.
Parte Straniera.
Quaderno 101.
p.233.
e puoi vederlo.)
Infatti le poesie d'Ossian sebben sublimi e calde, hanno però quella sublimità malinconica, e quel carattere triste e grave, e nel tempo stesso, semplice e bello, e quegli spiriti marziali ed eroici, che derivano naturalmente dal clima settentrionale.
Non già quella sublimità eccessiva, quelle esagerazioni, quelle spaccamontate delle pazze fantasie orientali; nè quel sapore aromatico; nè quello splendore abbagliante, come dice il citato giornale, nè quel fasto, nè quella voluttà, nè quei profumi (sono espressioni dello stesso); nè quel colore vivo e sfacciato, ed ardente; nè quella estrema raffinatezza, e squisitezza strabocchevole in ogni genere e parte di letteratura e poesia; nè quella mollezza, quella effeminatezza, quel languore, quella delicatezza (per noi) eccessiva e nauseosa e vile e sibaritica, che deriva dai climi meridionali.
Ed è veramente maraviglioso, come il paese de' più settentrionali d'Europa, stimi naturale e propria e [987]adattata alla sua indole la poesia de' paesi più meridionali e ardenti del mondo.
Un paese poi come l'Inghilterra, così pieno di filosofia, e cognizioni dell'uomo, e de' caratteri nazionali e fisici ec.
ec.
Meno male se l'orientalismo fa progressi in Francia, (come negli scritti di Chateaubriand) paese più meridionale che settentrionale.
Ma non c'era popolo colto, a cui l'orientalismo convenisse meno che all'Inghilterra, dove però trionfa, e donde io credo che sia passato in Francia sulla fine del secolo passato, e donde si va diramando per l'Europa la detta scuola.
Il fatto sta che tutto il mondo è paese, e da per tutto si crede naturale e nazionale quello che fa effetto per la cagione appunto contraria, cioè per la novità, pel forestiero, pel contrasto col carattere e l'indole propria e nazionale; e come la poesia [in] Italia ha corso rischio, (e non ne è forse fuori) di una nuova corruzione mediante il settentrionalismo, l'Ossianismo ec.
così viceversa l'inglese, mediante il meridionale e l'orientale.
E certo se la poesia settentrionale pecca in qualche cosa al gusto nostro, egli è nell'eccesso del sombre, del buio, del tetro; e la orientale al contrario, nell'eccesso del vivo, del chiaro, del ridente, del lucido anzi abbarbagliante ec.
Vedete quanta conformità di carattere fra queste due poesie!
(25.
Aprile 1821.)
Il diletto è sempre il fine, e di tutte le cose, l'utile non è che il mezzo.
Quindi il piacevole, è vicinissimo al fine delle cose umane, o quasi lo stesso con lui; l'utile che si suole stimar più del piacevole, non ha altro pregio che d'esser più lontano da esso fine, o di condurlo non immediatamente ma mediatamente.
[988]
(26.
Aprile 1821.)
I latini erano veramente ????????? rispetto alla lingua loro e alla greca 1.
perchè parlavano l'una come l'altra, ma non così i greci generalmente, anzi ordinariamente: 2.
perchè scrivendo citavano del continuo parole e passi greci, in lingua e caratteri greci, ovvero usavano parole o frasi greche nella stessa maniera; ma non i greci viceversa, del che vedi p.981.
e p.1052.
capoverso 3.
e p.2165.
3.
Resta memoria di parecchie traduzioni fatte dal greco in latino anche ne' buoni tempi, e fino dagli ottimi scrittori latini, come Cicerone.
Ed anche restano di queste traduzioni, o intere o in frammenti, come quelle di Arato fatte da Cicerone e da Germanico, quella del Timeo di Cicerone, quelle di Menandro fatte da Terenzio, quelle fatte da Apuleio o attribuite a lui, quelle dell'Odissea fatta da Livio Andronico, dell'Iliade da Accio Labeone, da Cneo Mattio o Mazzio, da Ninnio Crasso (Fabric.
B.
Gr.
1.297.) ec.
tutte anteriori a Costantino.
V.
Andrès Stor.
della letteratura, ediz.
di Venezia, Vitto.
t.9.
p.328 329.
cioè Parte 2.
lib.4.
c.3.
principio.
Non così nessuna traduzione, che sappia io, si rammenta dal latino in greco, se non dopo Costantino, e quasi tutte di opere teologiche o ecclesiastiche o sacre, cioè scientifiche e appartenenti a quella scienza che allora prevaleva.
Non mai letterarie.
(V.
Andrès, t.9.
p.330.
fine.) La traslazione di Eutropio fatta da Peanio che ci rimane, e l'altra perduta di un Capitone Licio, non pare che si possano riferire a letteratura, trattandosi di un compendio ristrettissimo di storia, fatto a solo uso, possiamo dire, elementare.
[989]E si può dire con verità quanto alla letteratura, che la comunicazione che v'ebbe fra la greca e la romana, non fu mai per nessunissimo conto reciproca, neppur dopo che la letteratura Romana era già grandissima e nobilissima, anzi superiore assai alla letteratura greca contemporanea.
4°, I latini scrivevano bene spesso in greco del loro.
Così fa molte volte Cicerone nelle epistole ad Attico (forse anche nelle altre); dove forse per non essere inteso dal portalettere, la qual gente, com'egli dice, soleva alleviare la fatica e la noia del viaggio leggendo le lettere che portava; ovvero per evitare gli altri pericoli di lettere vertenti sopra negozi pubblici, politici ec.
dal contesto latino passa bene spesso a lunghi squarci scritti in greco, e tramezzati al latino, e scritti anche in maniera enigmatica e difficile.
Restano parecchie lettere greche di Frontone.
Resta l'opera greca di Marcaurelio, il quale imperatore scriveva parimente, com'è naturale, in latino, e così bene, come si può vedere nelle sue lettere ultimamente scoperte8.
Eliano, conosciuto solamente come scrittor greco, fu di Preneste, e quindi cittadino Romano, ed appena si mosse mai d'Italia.
Nondimeno dice di lui Filostrato: ????????? ??? ??, ???????? ?? ????? ?? ?? ?? ???????? ??????????(Fabric.
3.696.
not.).
Intorno a Marcaurelio puoi vedere la p.
2166.
Non così i greci sapevano mai scrivere in latino.
Anzi Appiano in Roma scrivendo a Frontone, uomo latino, sebbene di origine affricana, scriveva in greco, e Frontone rispondeva parimente in greco, non in latino.
E così molti libri di autori greci si trovano, scritti in greco, sebbene indirizzati a personaggi [990]romani o latini.
Le stesse cose appresso a poco si possono notare avvenute a noi riguardo al francese.
Giacchè fino a tanto che la nostra letteratura prevalse o per merito reale, o per continuazione di fama e di opinione generale, e la nostra lingua era per tutti i versi più studiata, più conosciuta, più dilatata fra i francesi ed altrove, e la nostra letteratura parimente, sì nella nazione, che fra' suoi letterati e scrittori; e si trovarono di quei francesi che scrivevano in ambedue le lingue francese e italiana.
Ora accade tutto l'opposto: e si trovano degl'italiani, come anche non pochi d'altre nazioni, che scrivono e stampano così nella lingua francese, come nella loro: libri, parole, testi francesi si allegano continuamente in tutti i paesi di Europa: non così viceversa in Francia, dove difficilmente si troverà un francese che sappia scrivere altra lingua che la sua, e scrivendo a' forestieri scriveranno in francese, e riceveranno risposta nella stessa lingua; e dove è più necessario che in qualunque altro paese colto, che i passi o parole che si citano di libri forestieri, (e massime italiani) si citino in francese, o se n'aggiunga la traduzione.
Osservo ancor questo.
Ridotti in provincie romane i diversi paesi dell'impero, tutti gli scrittori che uscirono di queste provincie, qualunque lingua fosse in esse originaria o propria, scrissero in latino.
I Seneca, Quintiliano, Marziale, [991]Lucano, Columella, Prudenzio, Draconzio, Giovenco, ed altri Spagnuoli; Ausonio, Sidonio Apollinare, S.
Prospero, S.
Ilario, Latino Pacato, Eumenio, Sulpizio Severo ed altri Galli; Terenzio, Marziano Capella, Frontone, Apuleio, Nemesiano, Tertulliano, Arnobio, S.
Ottato, Mario Vittorino, S.
Agostino, S.
Cipriano, Lattanzio ed altri Affricani; Sedulio Scozzese.
V.
p.1014.
Parecchi de' quali arrivarono ancora all'eccellenza nella lingua latina.
Non così i greci.
E dico tanto i greci Europei, quanto quelli nativi delle colonie greche nell'Asia Minore, o delle altre parti dell'Asia divenute greche di lingua e di costumi dopo la conquista di Alessandro, e così dell'Egitto, o di qualunque luogo dove la lingua greca prevalesse nell'uso quotidiano, ovvero anche solamente come lingua degli scrittori e della letteratura.
Nessuno di questi scrisse in latino, ma tutti in greco, eccetto pochissimi (come Claudiano, e Igino Alessandrini, Petronio Marsigliese ec.); che son quasi nulla rispetto al numero ed estensione delle dette provincie greche, massime paragonandoli alla gran copia degli altri scrittori latini forestieri di ciascuna provincia, ancorchè minore.
E di questi pochissimi nessuno arrivò, non dico all'eccellenza, ma appena alla mediocrità nella lingua latina.
V.
p.1029.
E Macrobio, che si stima uno di questi pochissimi, si scusa se ec.
(v.
il Fabricio, B.
Latina t.2.
p.113.
l.3.
c.12.
§.9.
nota (a.)) e di lui dice Erasmo (in Ciceroniano) Graeculum latine balbutire credas.
(Fabric.
ivi) Cosa applicabilissima agli odierni francesi per lo più balbettanti nelle altrui lingue, e massime nella nostra.
E di Ammiano Marcellino, altro di questi pochissimi, e più antico di Macrobio, dice il Salmasio (Praef.
de Hellenistica p.39.) ec.
V.
il Fabricio l.c.
p.99.nota(b) l.3.
c.12
[992]Ma del resto i greci di qualunque parte, ancorchè sudditi romani, ancorchè cittadini romani, ancorchè vissuti lungo tempo in Roma o in Italia, ancorchè scrivendo precisamente in Italia o in Roma, e in mezzo ai latini, ancorchè scrivendo ai romani tanto gelosi del predominio del loro linguaggio, come sì è veduto p.982-983.
ancorchè nel tempo dell'assoluta padronanza, ed intiera estensione del dominio della nazione latina, ancorchè impiegati in cariche, in onori ec.
al servizio de' Romani, e nella stessa Roma, ancorchè finalmente nominati con nomi e prenomi latini, scrissero sempre in greco, e non mai altrimenti che in greco.
Così Polibio, familiare, compagno, e commilitone del minore Scipione; così Dionigi d'Alicarnasso, vissuto 22 anni in Roma; così Arriano prenominato Flavio (Fabric.
B.
G.
3.269.
not.
b.) fatto cittadino Romano, senatore, Console, caro all'imperatore Adriano, e mandato prefetto di provincia armata in Cappadocia; così Dione Grisostomo, cognominato Cocceiano dall'Imperatore Cocceio Nerva, vissuto gran tempo in Roma, e familiare del detto Imperatore e di Traiano; così l'altro Dione prenominato Cassio e cognominato parimente Cocceiano ec.; così Plutarco ec.; così Appiano ec.
così Flegone, ec.; così Galeno prenominato Claudio ec.; così Erode Attico prenominato Tiberio Claudio, ec.; così Plotino ec.; (v.
per ciascuno di questi il Fabricio) così quell'Archia poeta ec.
(v.
Cic.
pro Archia).
Da tutto ciò si deduce in primo luogo, quanto, e con quanta differenza dalle altre nazioni, i greci [993]di qualunque paese fossero tenaci della lingua e letteratura loro, e noncuranti della latina, anche durante e dopo il suo massimo splendore.
Considerando ancora che generalmente gli scrittori greci di qualunque età, e nominatamente i sopraddetti e loro simili, che per le loro circostanze, parrebbono non solo a portata ma in necessità di aver conosciuto la letteratura latina, non danno si può dir mai segno veruno di conoscerla, nè la nominano ec.
e se citano talvolta qualche autore latino, li citano e se ne servono per usi di storia, di notizie, di scienze, di teologia ec.
non mai di letteratura.
Questa è cosa universale negli scrittori greci.
In secondo luogo risulta dalle sopraddette cose, che i mezzi usati dai romani per far prevalere la loro lingua, come nelle altre nazioni, così in Grecia, e ne' moltissimi paesi dove il greco era usato, (v.
p.982-83.) laddove riuscirono in tutti gli altri luoghi, non riuscirono e furon vani in questi.
Ed osservo che la lingua latina non prevalse mai alla greca in nessun paese dov'ella fosse stabilita, sia come lingua parlata, sia come lingua scritta: laddove la greca avea prevaluto a tutte le altre in questi tali (vastissimi e numerosissimi) paesi, e in quasi mezzo mondo; e quello che [994]non potè mai la lingua nè la potenza nè la letteratura latina, lo potè, a quel che pare, in poco spazio, l'arabo, e le altre lingue o dialetti maomettani, (come il turco ec.) e così perfettamente, come vediamo anche oggidì.
Ma la lingua latina, (eccetto nella Magna Grecia e in Sicilia) non solo non estirpò, ma non prevalse mai in nessun modo e in nessun luogo alla lingua e letteratura greca, se non come pura lingua della diplomazia: quella lingua latina, dico, la quale nelle Gallie aveva, se non distrutta, certo superata quell'antichissima lingua Celtica così varia, così dolce, così armoniosa, così maestosa, così pieghevole, (Annali 1811.
n.18.
p.386.
Notiz.
letterar.
di Cesena 1792.
p.142.) e che al Cav.
Angiolini che se la fece parlare da alcuni montanari Scozzesi, parve somigliante ne' suoni alla greca: (Lettere sopra l'Inghilterra, Scozia, ed Olanda.
vol.2do.
Firenze 1790.
Allegrini.
8vo anonime, ma del Cav.
Angiolini) (Notizie ec.
l.c.) lingua della cui purità erano depositarii e custodi gelosissimi quei famosi Bardi che avevano e conservarono per sì lungo tempo, ancor dopo la conquista fatta da' Romani, tanta influenza sulla nazione, e massime poi la letteratura: (Annali ec.
l.c.
p.385.386.
principio.) quella lingua così ricca, e ogni giorno più ricca di tanti poemi, parte de' quali anche [995]oggi si ammirano.
Questa lingua e letteratura cedette alla romana; v.
p.1012.
capoverso 1.
la greca non mai; neppur quando Roma e l'Italia spiantata dalle sue sedi, si trasportò nella stessa Grecia.
Perocchè sebbene allora la lingua greca fu corrotta finalmente di latinismi, ed altre barbarie, (scolastiche ec.) imbarbarì è vero, ma non si cangiò; e in ultimo, piuttosto i latini vincitori e signori si ridussero a parlare quotidianamente e scrivere il greco, e divenir greci, di quello che la Grecia vinta e suddita a divenir latina e parlare o scrivere altra lingua che la sua.
Ed ora la lingua latina non si parla in veruna parte del mondo, la greca, sebbene svisata, pur vive ancora in quell'antica e prima sua patria.
Tanta è l'influenza di una letteratura estesissima in ispazio di tempo, e in quantità di cultori e di monumenti; sebbene ella già fosse cadente a' tempi romani, e a' tempi di Costantino, possiamo dire, spenta.
Ma i greci se ne ricordavano sempre, e non da altri imparavano a scrivere che da' loro sommi e numerosissimi scrittori passati, siccome non da altri a parlare, che dalle loro madri.
V.
p.996.
capoverso 1.
Certo è che la letteratura influisce sommamente sulla lingua.
(V.
p.766.
segg.) Una lingua senza letteratura, o poca, non difficilmente si spegne, o si travisa in maniera non riconoscibile, non potendo ella esser formata, nè per conseguenza troppo radicata e confermata, siccome immatura e imperfetta.
E questo accadde alla lingua Celtica, forse perch'ella scarseggiava sommamente di scritture, sebbene abbondasse di componimenti, che per lo più passavano solo di bocca in bocca.
Non così una lingua abbondante di scritti.
Testimonio ne sia la Sascrita, [996]la quale essendo ricca di scritture d'ogni genere, e di molto pregio secondo il gusto orientale, e della nazione, vive ancora (comunque corrotta) dopo lunghissima serie di secoli, in vastissimi tratti dell'India, malgrado le tante e diversissime vicende di quelle contrade, in sì lungo spazio di tempo.
E sebbene anche i latini ebbero una letteratura, e grande, e che sommamente contribuì a formare la loro lingua, tuttavia si vede ch'essa letteratura, venuta, per così dire, a lotta colla greca, in questo particolare, dovè cedere, giacchè non solamente non potè snidare la lingua e letteratura greca, da nessun paese ch'ella avesse occupato, ma neanche introdursi nè essa nè la sua lingua in veruno di questi tanti paesi.
(29.
Aprile.
1821.).
V.
p.999.
capoverso 1.
Alla p.995.
Infatti i greci anche nel tempo della barbarie, conservarono sempre la memoria, l'uso, la cognizione delle loro ricchezze letterarie, e la venerazione e la stima de' loro sommi antichi scrittori.
E questo a differenza de' latini, dove ne' secoli barbari, non si sapeva più, possiamo dir, nulla, di Virgilio, di Cicerone ec.
L'erudizione e la filologia non si spensero mai nella Grecia, mente erano ignotissime in Italia; anzi nella Grecia essendo subentrate alle altre buone e grandi discipline, durarono tanto che la loro letteratura sebbene spenta già molto innanzi, quanto al fare, non si spense mai quanto alla memoria, alla cognizione e [997]allo studio, fino alla caduta totale dell'impero greco.
Ciò si vede primieramente da' loro scrittori de' bassi tempi, in molti de' quali anzi in quasi tutti (mentre in Italia il latino scritto non era più riconoscibile, e nessuno sognava d'imitare i loro antichi) la lingua greca, sebbene imbarbarita, conserva però visibilissime le sue proprie sembianze: ed in parecchi è scritta con bastante purità, e si riconosce evidentemente in alcuni di loro l'imitazione e lo studio de' loro classici e quanto alla lingua e quanto allo stile; sebbene degenerante l'una e l'altro nel sofistico, il che non toglie la purità quanto alla lingua.
Arrivo a dire che in taluni di loro, e ciò fino agli ultimissimi anni dell'impero greco, si trova perfino una certa notabile eleganza e di lingua e di stile.
In Gemisto è maravigliosa l'una e l'altra.
Tolti alcuni piccoli erroruzzi di lingua (non tali che sieno manifesti se non ai dottissimi) le sue opere o molte di loro si possono sicuramente paragonare e mettere con quanto ha di più bello la più classica letteratura greca e il suo miglior secolo.
Oltre a ciò l'erudizione e la dottrina filologica, e lo studio de' classici è manifesto negli scrittori greci più recenti, a differenza de' latini.
Gli antichi classici, e singolarmente Omero, benchè il più antico di tutti, non lasciarono mai di esser citati negli scritti greci, finchè la Grecia ebbe chi scrivesse.
E vi si alludeva spessissimo ec.
Non domanderò ora qual uomo latino nel terzo secolo si possa paragonare a un Longino o a un Porfirio.
Non chiederò che mi si mostri nel nono secolo, anzi in tutto lo spazio che corse dopo il 2do secolo fino al 14mo, un latino, non dico uguale, ma somigliante [998]di lontano a Fozio, uomo nei pregi della lingua e dello stile non dissimile dagli antichi, e superiore agli stessi antichi nell'erudizione e nel giudizio e critica letteraria, doti proprie di tempi più moderni.
Tenendomi però a' tempi bassissimi, e potendo recare infiniti esempi, mi contenterò degli scritti di quel Giovanni Tzetze, che fu nel 12mo secolo, e di Teodoro Metochita che viveva nel 14mo; scritti pieni di indigesta ma immensa erudizione classica.
Secondariamente la mia proposizione apparisce da quei greci che vennero in Italia nel trecento, e dopo la caduta dell'impero greco, nel quattrocento.
E mentre in Italia si risuscitavano gli antichi scrittori latini che giacevano sepolti e dimenticati da tanto tempo nella loro medesima patria, i greci portavano qua il loro Omero, il loro Platone e gli altri antichi, non come risorti o disseppelliti fra loro, ma come sempre vissuti.
Della erudizione e dottrina di quei greci, delle cose che fecero in Italia, delle cognizioni che introdussero, delle opere che scrissero, parte in greco, ed alcune proprio eleganti; parte in latino, riducendosi allora finalmente per la prima volta ad usare il linguaggio de' loro antichi e già distrutti vincitori; essendo cose notissime, non accade se non accennarle.
(29.
Aprile.
1821.)
[999]Alla p.996.
E la letteratura latina non potè impedire che la sua lingua non si spegnesse, laddove la greca ancor vive, benchè corrotta, perchè sapendo il greco antico, si arriva anche senza preciso studio a capire il greco moderno.
Non così sapendo il latino, a capir l'italiano ec.
Onde la presente lingua greca non si può distinguere dall'antica, come l'italiano ec.
dal latino, che son lingue precisamente diverse, benchè parenti.
E neppure si capisce l'italiano sapendo il francese, nè ec.
(29.
Aprile.
1821.).
V.
p.1013.
capoverso 1.
In prova di quanto la lingua greca, fosse universale, e giudicata per tale, ancor dopo il pieno stabilimento, e durante la maggiore estensione del dominio romano e de' romani pel mondo; si potrebbe addurre il Nuovo Testamento, Codice della nuova religione sotto i primi imperatori, scritto tutto in greco, quantunque da scrittori Giudei (così tutti chiamano gli Ebrei di que' tempi), quantunque l'Evangelio di S.
Marco si creda scritto in Roma e ad uso degl'italiani, giacchè è rigettata da tutti i buoni critici l'opinione che quell'Evangelio fosse scritto originariamente in latino; (Fabric.
B.
G.
3.
131.) quantunque v'abbia un'Epistola di S.
Paolo cittadino Romano, diretta a' Romani, un'altra agli Ebrei; quantunque v'abbiano le Epistole dette Cattoliche, cioè universali, di S.
Giacomo, e di S.
Giuda Taddeo.
Ma senza entrare nelle quistioni intorno alla lingua originale del nuovo testamento, o delle diverse sue parti, osserverò quello che dice il Fabric.
B.
G.
edit.
vet.
t.3.
p.153.
lib.4.
c.5 §.9 parlando dell'Epistola di S.
Paolo a' Romani: graece scripta est, non latine, etsi Scholiastes Syrus notat scriptam esse ROMANE t}amwr, quo vocabulo Graecam [1000]linguam significari, Romae tunc et in omni fere Romano imperio vulgatissimam, Seldenus ad Eutychium observavit.
E p.131.
nota (d) §.3.
parlando delle testimonianze Orientalium recentiorum che dicono essere stato scritto il Vangelo di S.
Marco in lingua romana, dice che furono o ingannati, o male intesi dagli altri, nam per Romanam linguam etiam ab illis Graecam quandoque intelligi observavit Seldenus.
Intendi l'opera di Giovanni Selden intitolata: Eutychii Aegyptii Patriarchae Orthodoxorum Alexandrini Ecclesiae suae Origines ex eiusdem Arabico nunc primum edidit ac Versione et Commentario auxit Joannes Seldenus.
Per lo contrario Giuseppe Ebreo nel proem.
dell'Archeol.
§.2.
principio e fine, chiama Greci tutti coloro che non erano Giudei, o sia gli Etnici, compresi per conseguenza anche i romani.
E così nella Scrittura ???????? passim opponuntur Iudaeis, et vocantur ethnici, a Christo alieni (Scapula).
Così ne' Padri antichi.
Il che pure ridonda a provare la mia proposizione.
E Gioseffo avendo detto di scrivere per tutti i Greci (cioè i non ebrei), scrive in greco.
V.
anche il Forcell.
v.
Graecus in fine.
Osservo ancora che Giuseppe Ebreo avendo scritto primieramente i suoi libri della Guerra Giudaica nella lingua sua patria, qualunque fosse questa lingua, o l'Ebraica, come crede l'Ittigio, (nel Giosef.
dell'Havercamp, t.2.
appendice p.80.
colonna 2.) o la Sirocaldaica, come altri, (v.
Basnag.
Exercit.
ed.
Baron.
p.388.
Fabric.
3.
230.
not.
p), in uso, com'egli dice, de' barbari dell'Asia superiore, cioè, com'egli stesso spiega (de Bello Iud.
Proem.
art.2.
edit.
Haverc.
t.2.
p.48.) de' Parti, de' Babilonesi, degli Arabi più lontani dal mare, de' Giudei di là dall'Eufrate, e degli Adiabeni; (Fabric.
l.c.
Gioseffo l.c.
p.47.
not.
h.) volendo poi, com'egli dice, accomodarla all'uso de' sudditi dell'imperio [1001]Romano, ???? ???????? ???????? ?????????, e scrivendo in Roma, giudicò, come pur dice, (Fabric.
3.
229.
fine e 230.
principio.) e come fece, di traslatarla (non in latino) in greco, ???????? ??????? ??????????.
(Idem, l.c.
art.1.
p.47.) E così traslatata la presentò a Vespasiano e a Tito, Impp.
Romani.
(Ittigio l.c.
Fabric.
3.231.
lin.8.
Tillemont, Empereurs t.1.
p.582.).
(30.
Aprile.
1821.)
La lingua greca, benchè a noi sembri a prima vista il contrario, e ciò in gran parte a cagione delle circostanze in cui siamo tutti noi Europei ec.
rispetto alla latina, è più facile della latina; dico quella lingua greca antica quale si trova ne' classici ottimi, e quella lingua latina quale si trova ne' classici del miglior tempo; e l'una e l'altra comparativamente, qual'è presso gli scrittori dell'ottima età dell'una e dell'altra lingua.
E ciò malgrado la maggiore ricchezza grammaticale ed elementare della lingua greca.
Questa dunque è la cagione perch'ella fosse più atta della latina ad essere universale: e n'è la cagione sì per se stessa e immediatamente, sì per la somiglianza che produce fra la lingua volgare e quella della letteratura, fra la parlata e la scritta.
(1.
Maggio 1821.)
Quello che ho detto della difficoltà naturale che hanno e debbono avere i francesi a conoscere e molto più a gustare le altrui lingue, cresce se si applica alle lingue antiche, e fra le moderne Europee e colte, alla lingua nostra.
Giacchè la lingua [1002]francese è per eccellenza, lingua moderna; vale a dire che occupa l'ultimo degli estremi fra le lingue nella cui indole ec.
signoreggia l'immaginazione, e quelle dove la ragione.
(Intendo la lingua francese qual è ne' suoi classici, qual è oggi, qual è stata sempre da che ha preso una forma stabile, e quale fu ridotta dall'Accademia).
Si giudichi dunque quanto ella sia propria a servire d'istrumento per conoscere e gustare le lingue antiche, e molto più a tradurle: e si veda quanto male Mad.
di Staël (vedi p.962.) la creda più atta ad esprimere la lingua romana che le altre, perciocch'è nata da lei.
Anzi tutto all'opposto, se c'è lingua difficilissima a gustare ai francesi, e impossibile a rendere in francese, è la latina, la quale occupa forse l'altra estremità o grado nella detta scala delle lingue, ristringendoci alle lingue Europee.
Giacchè la lingua latina è quella fra le dette lingue (almeno fra le ben note, e colte, per non parlare adesso della Celtica poco nota ec.) dove meno signoreggia la ragione.
Generalmente poi le lingue antiche sono tutte suddite della immaginazione, e però estremamente separate dalla lingua francese.
Ed è ben naturale che le lingue antiche fossero signoreggiate dall'immaginazione più che qualunque moderna, e quindi siano senza contrasto, le meno adattabili alla lingua francese, all'indole sua, ed alla conoscenza e molto più al gusto de' francesi.
[1003]Nella scala poi e proporzione delle lingue moderne, la lingua italiana, (alla quale tien subito dietro la Spagnuola) occupa senza contrasto l'estremità della immaginazione, ed è la più simile alle antiche, ed al carattere antico.
Parlo delle lingue moderne colte, se non altro delle Europee: giacchè non voglio entrare nelle Orientali, e nelle incolte regna sempre l'immaginazione più che in qualunque colta, e la ragione vi ha meno parte che in qualunque lingua formata.
Proporzionatamente dunque dovremo dire della lingua francese rispetto all'italiana, quello stesso che diciamo rispetto alle antiche.
E il fatto lo conferma, giacchè nessuna lingua moderna colta, è tanto o ignorata, o malissimo e assurdamente gustata dai francesi, quanto l'italiana: di nessuna essi conoscono meno lo spirito e il genio, che dell'italiana; di nessuna discorrono con tanti spropositi non solo di teorica, ma anche di fatto e di pratica; non ostante che la lingua italiana sia sorella della loro, e similissima ad essa nella più gran parte delle sue radici, e nel materiale delle lettere componenti il radicale delle parole (siano radici, o derivati, o composti); e non ostante che p.e.
la lingua inglese e la tedesca, nelle quali essi riescono molto meglio, (anche nel tradurre ec.
mentre una traduzione francese dall'italiano dal latino o dal greco non è riconoscibile) appartengano a tutt'altra famiglia di lingue.
(1 Maggio 1821.).
V.
p.1007.
capoverso 1.
[1004]Uno dei principali dogmi del Cristianesimo è la degenerazione dell'uomo da uno stato primitivo più perfetto e felice: e con questo dogma è legato quello della Redenzione, e si può dir, tutta quanta la Religion Cristiana.
Il principale insegnamento del mio sistema, è appunto la detta degenerazione.
Tutte, per tanto, le infinite osservazioni e prove generali o particolari, ch'io adduco per dimostrare come l'uomo fosse fatto primitivamente alla felicità, come il suo stato perfettamente naturale (che non si trova mai nel fatto) fosse per lui il solo perfetto, come quanto più ci allontaniamo dalla natura, tanto più diveniamo infelici ec.
ec.: tutte queste, dico, sono altrettante prove dirette di uno dei dogmi principali del Cristianesimo, e possiamo dire, della verità dello stesso Cristianesimo.
(1.
Maggio 1821.)
Tanto era l'odio degli antichi (quanti aveano una patria e una società) verso gli stranieri, e verso le altre patrie e società qualunque; che una potenza minima, o anche una città solo assalita da una nazione intera (come Numanzia da' Romani), non veniva mica a patti, ma resisteva con tutte le sue forze, e la resistenza si misurava dalle dette forze, non già da quelle del nemico; e la deliberazione di resistere era immancabile, e immediata, e senza consultazione vervna; e dipendeva dall'essere assaliti, non [1005]già dalla considerazione delle forze degli assalitori e delle proprie, dei mezzi di resistenza, delle speranze che potevano essere nella difesa ec.
E questa era, come ho detto, una conseguenza naturale dell'odio scambievole delle diverse società, dell'odio che esisteva nell'assalitore, e che obbligava l'assalito a disperare de' patti; dell'odio che esisteva nell'assalito, e che gl'impediva di consentire a soggettarsi in qualunque modo, malgrado qualunque utilità nel farlo, e qualunque danno nel ricusarlo, ed anche la intera distruzione di se stessi e della propria patria, come si vede nel fatto presso gli antichi, e fra gli altri, nel citato esempio di Numanzia.
Oggi per lo contrario, la resistenza dipende dal calcolo, delle forze, dei mezzi, delle speranze, dei danni, e dei vantaggi, nel cedere o nel resistere.
E se questo calcolo decide pel cedere, non solamente una città ad una nazione, ma una potenza si sottomette ad un'altra potenza, ancorchè non eccessivamente più forte; ancorchè una resistenza vera ed intera potesse avere qualche fondata speranza.
Anzi oramai si può dire che le guerre o i piati politici, si decidono a tavolino col semplice calcolo delle forze e de' mezzi: io posso impiegar tanti uomini, tanti danari ec.
il nemico tanti: resta dalla parte mia tanta inferiorità, o superiorità: dunque assaliamo o no, cediamo ovvero non cediamo.
[1006]E senza venire alle mani, nè far prova effettiva di nulla, le provincie, i regni, le nazioni, pigliano quella forma, quelle leggi, quel governo ec.
che comanda il più forte: e in computisteria si decidono le sorti del mondo.
Così discorretela proporzionatamente anche riguardo alle potenze di un ordine uguale.
In questo modo oggi il forte, non è forte in atto, ma in potenza: le truppe, gli esercizi militari ec.
non servono perchè si faccia esperienza di chi deve ubbidire o comandare ec.
ec.
ma solamente perchè si possa sapere e conoscere e calcolare, a che bisogni determinarsi: e se non servissero al calcolo sarebbero inutili, giacchè in ultima analisi il risultato delle cose politiche, e i grandi effetti, sono come se quelle truppe ec.
non avessero esistito.
Ed è questa una naturale conseguenza della misera spiritualizzazione delle cose umane, derivata dall'esperienza, dalla cognizione sì propagata e cresciuta, dalla ragione, e dall'esilio della natura, sola madre della vita, e del fare.
Conseguenza che si può estendere a cose molto più generali, e trovarla egualmente vera, sì nella teorica, come nella pratica.
Dalla quale spiritualizzazione che è quasi lo stesso coll'annullamento, risulta che oggi in luogo di fare, si debba computare; e laddove gli antichi facevano le cose, i moderni le contino; e i risultati una volta delle azioni, oggi sieno [1007]risultati dei calcoli; e così senza far niente, si viva calcolando e supputando quello che si debba fare, o che debba succedere; aspettando di fare effettivamente, e per conseguenza di vivere, quando saremo morti.
Giacchè ora una tal vita non si può distinguere dalla morte, e dev'essere necessariamente tutt'uno con questa.
(1.
Maggio 1821.)
Alla p.1003.
fine.
Oltre le dette considerazioni la lingua francese, è anche estremamente distinta dall'Italiana, perciò ch'ella è fra le moderne colte (e per conseguenza fra tutte le lingue) senza contrasto la più serva, e meno libera; naturale conseguenza dell'essere sopra tutte le altre, modellata sulla ragione.
Al contrario l'italiana è forse e senza forse, fra le dette lingue la più libera, cosa la quale mi consentiranno tutti quelli che conoscono a fondo la vera indole della lingua italiana, conosciuta per verità da pochissimi, e ignorata dalla massima parte degl'italiani, e degli stessi linguisti.
Nella quale libertà la lingua italiana somiglia sommamente alla greca; ed è questa una delle principali e più caratteristiche somiglianze che si trovano fra la nostra lingua e la greca.
A differenza della latina, la quale, secondo che fu ridotta da' suoi ottimi scrittori, e da' suoi formatori e costitutori, è sommamente ardita, e sommamente varia, non perciò sommamente [1008]libera, anzi forse meno di qualunque altra lingua antica, uno de' primi distintivi delle quali è la libertà.
Ma la lingua latina sebbene non suddita in nessun modo della ragione, è però suddita, dirò così, di se stessa, e del suo proprio costume, più di qualunque antica: il qual costume fisso e determinato per tutti i versi, ancorchè ardito, ella non può però trasgredirlo, nè alterarlo, nè oltrepassarlo ec.
in verun modo; così che sebbene ella è ricchissima di forme in se stessa, non è però punto adattabile a verunissima altra forma, nè pieghevole se non ai modi determinati dalla sua propria usanza.
E perciò appunto, come ho detto altrove, ella non era punto adattata alla universalità, perchè l'ardire non era accompagnato dalla libertà.
E la perfetta attitudine alla universalità consiste nel non essere nè ardita nè varia nè libera, come la francese.
Un'altra attitudine meno perfetta nell'essere e ardita e varia, e nel tempo stesso libera, come la greca.
L'ardire e la varietà, sebbene per lo più sono compagne della libertà, non però sempre; nè sono la stessa cosa colla libertà, come si vede nell'esempio della lingua latina, e bisogna perciò distinguere queste qualità.
Del resto la servilità e timidezza della lingua francese, la distingue dunque più che da qualunque altra, dalle antiche, e fra le moderne dall'italiana.
[1009]E queste sono le ragioni per cui la lingua italiana, benchè tanto affine alla francese, come ho detto p.1003.
tuttavia n'è tanto lontana e dissimile, massimamente nell'indole; e per cui la lingua italiana perde tutta la sua naturalezza, e la sua proprietà, o forma propria e nativa, adattandosi alla francese, che l'è pur sorella: e per cui i francesi sono meno adattati che verun altro a conoscere e gustar l'italiano, cosa che apparisce dal fatto; e finalmente per cui la lingua francese è meno adattabile alle lingue antiche, e alle stesse lingue madri sue e della sua letteratura, come il latino e il greco, di quello che alle lingue moderne da lei divise di cognazione, di parentela, di famiglia, di sangue, di origine, di stirpe.
Quello che ho detto qui sopra dell'ardire, della varietà, della libertà, si deve estendere a tutte le altre qualità caratteristiche delle lingue antiche, e dell'italiana, e conseguenti dall'esser esse modellate sull'immaginazione e sulla natura, come dire la forza, l'efficacia, l'evidenza ec.
ec.
qualità che in parte derivano pure dalle altre sopraddette, e scambievolmente l'una dall'altra, e perciò mancano essenzialmente alla lingua francese.
Nè queste qualità, che dico proprie delle lingue [1010]antiche, si deve credere ch'io lo dica solamente in vista della greca e della latina, ma di tutte; ed alcune (come la varietà, ricchezza ec.) delle colte massimamente.
Esse qualità infatti sono state notate nella lingua Celtica, (v.
p.994.) nella Sascrita, (v.
Annali di scienze e lettere.
Milano.
Gennaio 1811.
n.13.
p.54.
fine-55.) (lingue coltissime) benchè sieno diversissime dalle nostrali; e così in tante altre.
Nè bisognano esempi e prove di fatto, a chi sa che le dette e simili qualità derivano immancabilmente dalla natura, maestra e norma e signora e governatrice degli antichi e delle cose loro.
(2.
Maggio 1821.)
Della lingua volgare latina antica v.
Andrès, Dell'Orig.
d'ogni letteratura ec.
Parte 1.
c.11.
Ediz.
Veneta del Vitto.
t.2.
p.256-257.
nota.
La qual nota è del Loschi.
Che però egli s'inganni, lo mostrano le mie osservazioni sopra la lingua di Celso, scrittore non dell'antica e mal formata, ma della perfetta ed aurea latinità.
(4.
Maggio 1821.)
Se i tedeschi oggidì hanno tanto a cuore, e stimano così utile l'investigare e il conoscere fondatamente le origini della loro lingua, e se il Morofio (Polyhist.
lib.4.
cap.4.) si lagnava che al suo tempo i suoi tedeschi fossero trascurati nello studiare le dette origini; Dolendum ec.
v.
Andrès luogo cit.
qui sopra, p.249.
quanto più dobbiamo noi italiani studiare e mettere a profitto la lingua latina (che sono le nostre origini); lingua così suscettibile di perfetta [1011]cognizione; lingua così ricca, così colta, così letterata ec.
ec.; lingua così copiosa di monumenti d'ogni genere e di tanto pregio: laddove per lo contrario la lingua teutonica originaria della tedesca (Andrès, ivi, p.249.251.253.
lin.6.14.18.
paragonando anche questi ult.
tre luoghi colla p.266.
lin.9) è difficilissima a conoscere con certezza, e impossibile a conoscere se non in piccola parte, è lingua illetterata ed incolta, e scarsissima di monumenti, e quelli che ne restano sono per se stessi di nessun pregio.
(Andrès, 249-254.) Aggiungete che l'esser la lingua latina universalmente conosciuta, e stata in uso nel mondo, ed ancora in uso in parecchie parti della vita civile, non solo giova alla ricchezza della fonte ec.
ma anche al poterne noi attingere con assai più franchezza.
Se la lingua teutonica fosse pure stata altrettanto grande e ricca, ed a forza di studio si potesse pur tutta conoscere ec.
che cosa si potrebbe attingere da una lingua dimenticata, e nota ai soli dotti ec.
ec.? chi potrebbe intendere a prima giunta le parole che se ne prendessero? ec.
V.
p.3196.
(4.
Maggio 1821.)
Il sentimento moderno è un misto di sensuale e di spirituale, di carne e di spirito; è la santificazione della carne (laddove la religion Cristiana è la santificazione dello spirito); e perciò siccome il senso non si può mai escludere dal vivente, questa sensibilità che lo santifica e purifica, è riconosciuto pel più valevole rimedio e preservativo contro di lui, e contro delle sue bassezze.
(4.
Maggio 1821.)
Alla p.952.
Meno straniera è la lingua francese all'inglese (e perciò meno inetta ad esserle fonte di vocaboli ec.) a cagione dell'affinità che questa seconda lingua prese colla prima, dopo l'introduzione della lingua francese in Inghilterra, mediante la conquista fattane dai Normanni (Andrès, luogo cit.
poco sopra, p.252.
fine, 255.
fine-256.
principio.
Annali di Scienze e lettere.
Milano.
Gennaio 1811.
n.
13.
p.30.
fine.) [1012]Laddove la lingua tedesca, secondo che il Tercier ha ben ragione di asserire, (Ac.
des Inscr.
tome 41.) fra tutte le lingue che attualmente parlansi in Europa, più d'ogni altra conserva i vestigi della sua anzianità (Andrès, ivi p.251-252); e più tenace e costante di tutte le altre, ha saputo conservare dell'antica sua madre maggior numero di vocaboli, maggior somiglianza nell'andamento, e maggiore affinità nella costruzione.
(ivi p.253.
principio.).
(4.
Maggio 1821.)
Alla p.995.
principio.
Cedette alla romana in modo che nella moderna lingua francese, per confessione del Bonamy (Discours sur l'introduction de la langue latine dans les Gaules: dans les Mémoires de l'Ac.
des inscr.
tome 41.), pochissime parole celtiche sono rimase; e nella provenzale, al dire dell'Astruc.
(Ac.
des Inscr.
tome 41.), appena trovasi una trentesima parte di voci gallesi; siccome la lingua spagnuola tutta figlia della latina, non più conserva alcun vestigio dell'antico parlare di quelle genti.
(Andrès, luogo cit.
di sopra, p.252.).
(4.
Maggio 1821.)
Che la lingua latina a' suoi buoni tempi, e quando ella era formata, si distinguesse in due lingue, l'una [1013]volgare, e l'altra nobile, usata da' patrizi, e dagli scrittori (i quali neppur credo che scrivessero come parlavano i patrizi) (Andrès, l.c.
p.256.
nota), che Roma al tempo della sua grandezza avesse una lingua rustica, plebeia, vulgaris, un sermo barbarus, pedestris, militaris, (Spettatore di Milano, Quaderno 97.
p.242.) è noto e certo, senza entrare in altre quistioni, per la espressa testimonianza di Cicerone.
(Andrès, l.c.) Del quale antico volgare latino parlerò forse quando che sia, di proposito.
Ora si veda quanto fosse impossibile che la lingua latina divenisse universale, mentre i soldati, i negozianti, i viaggiatori, i governanti, le colonie ec.
diffondevano una lingua diversa dalla letterata, che sola avendo consistenza e forma, sola è capace di universalità; e mentre l'unicità di una lingua, come ho detto altrove, è la prima condizione per poter essere universale.
Laddove la latina, non solo non era unica nella sua costituzione e nella sua indole, dirò così, interiore, come lo è la francese; ma era divisa perfino esteriormente in lingue diverse, e, si può dir, doppia ec.
(4.
Maggio 1821.).
V.
p.1020.
capoverso 1.
Alla p.999.
Così chi sapesse l'antica lingua teutonica, non intenderebbe perciò la tedesca, senza espresso e fondato studio.
(Andrès, loco cit.
di sopra, p.1010; non ostante che la tedesca, secondo il Tercier, ec.
v.
p.
[1014]1012.
principio.
(5.
Maggio 1821.)
La vantata duttilità della lingua francese (Spettatore di Milano.
Quaderno 93.
p.115.
lin.14) oltre alle qualità notate in altro pensiero, ha questa ancora, che non è punto compagna della varietà: e la lingua francese benchè duttilissima, è sempre e in qualunque scrittore paragonato cogli altri, uniforme e monotona.
Cosa che a prima vista non par compatibile colla duttilità, ma in vero questa è una qualità diversissima dalla ricchezza, dall'ardire, e dalla varietà.
(5.
Maggio 1821.)
Alla p.991.
Così Beda inglese, nonostante che la sua lingua nazionale (cioè l'anglo-sassone: (Andrès, loc.
cit., p.1010, p.255.
fine) diversa dalla Celtica, stabilita nella Scozia e nel paese di Galles) fosse adoperata anche in usi letterarii, come si rileva da quello ch'egli stesso riferisce di un Cedmone monaco Benedettino, illustre poeta improvvisatore nella sua lingua.
(Andrès, p.254.) Cosa la quale, se non altro, dimostra ch'ella era una lingua già ridotta a una certa forma (lo riferirà forse il Beda nella Storia Ecclesiastica degli Angli.).
(5.
Maggio 1821.)
L'u francese, del quale ho discorso in altro pensiero, potè essere introdotto in Francia mediante le Colonie greche, come Marsiglia ec.
[1015]Mediante le quali colonie ec.
la lingua e letteratura greca si stabilì, com'è noto, in varie parti delle Gallie.
V.
il Cellar.
dove parla di Marsiglia.
E le Gallie ebbero scrittori greci, come Favorino Arelatense, S.
Ireneo (sebben forse nato greco) ec.
ec.
V.
anche il Fabric.
dove parla di Luciano, B.
Gr.
lib.4.
c.16.
§.1 t.3.
p.486.
edit.
vet.
Dalle quali osservazioni si potrebbe anche dedurre che le parole francesi derivate dal greco, e che non si trovano negli scrittori latini, e che io in parecchi pensieri, ho supposto che fossero nel volgare latino, come planer ec.
fossero venute nella lingua francese immediatamente dalle antiche communicazioni avute colla lingua e letteratura greca.
Questo però non mi par molto probabile, trattandosi che la lingua greca fu spenta nelle Gallie lunghissimo tempo innanzi la nascita della francese: che la latina vi prevalse interamente; e che della celtica ch'era pur la nazionale, appena si trova vestigio nella francese (v.
p.1012.
capoverso 1.).
Quanto meno dunque si dovrebbero trovar della greca! Laddove se ne trovano tanti che han fatto un dizionario apposta, delle parole francesi derivate dal greco.
Inoltre questo argomento non può valer di più di quello che vaglia [1016]per le parole italiane dello stesso genere, le quali si potrebbero suppor derivate dalla magnagrecia, e dalla Sicilia, piuttosto che dal latino: mentre però la lingua greca si spense in quei paesi tanto innanzi al sorgere della lingua italiana, e vi si stabilì la latina: che per conseguenza vi è tanto più vicina alla nostra, in ordine di tempo: anzi immediatamente vicina.
V.
p.1040.
fine.
Del resto anche in Sicilia durò la letteratura greca (se non anche la lingua) lungo tempo dopo il dominio romano.
Diodoro fu siciliano, e così altri scrittori greci.
E vedi Porfir.
Vit.
Plotin.
cap.11.
donde par che apparisca che in Sicilia a quel tempo vi fossero cattedre o scuole greche di sofisti, come si può dire, in tutte le parti dell'imperio romano, in Roma, nelle Gallie a tempo di Luciano ec.
Cecilio Siculo, benchè romano di nome, e vissuto in Roma ec.
scrisse in greco.
V.
Costantino Lascaris nel Fabricio, B.
Gr.
t.14.
p.22-35.
edit.
vet.
(6.
Maggio 1821.).
Ma nel terzo secolo T.
Giulio Calpurnio Siciliano, poeta Bucolico, contemporaneo di Nemesiano, scrisse in latino.
E così altri Siciliani ec.
Un effetto dell'antico sistema di odio nazionale, era in Roma il costume del trionfo, costume che nel presente sistema dell'uguaglianza delle nazioni, anche delle vinte colle vincitrici, sarebbe intollerabile; costume, fra tanto, che dava sì gran vita alla nazione, che produceva sì grandi effetti, e sì utili per lei, e che forse fu la cagione di molte sue vittorie, e felicità militari e politiche.
(6.
Maggio 1821.)
[1017]Dalla mia teoria del piacere seguita che l'uomo, desiderando sempre un piacere infinito e che lo soddisfi intieramente, desideri sempre e speri una cosa ch'egli non può concepire.
E così è infatti.
Tutti i desiderii e le speranze umane, anche dei beni ossia piaceri i più determinati, ed anche già sperimentati altre volte, non sono mai assolutamente chiari e distinti e precisi, ma contengono sempre un'idea confusa, si riferiscono sempre ad un oggetto che si concepisce confusamente.
E perciò e non per altro, la speranza è meglio del piacere, contenendo quell'indefinito, che la realtà non può contenere.
E ciò può vedersi massimamente nell'amore, dove la passione e la vita e l'azione dell'anima essendo più viva che mai, il desiderio e la speranza sono altresì più vive e sensibili, e risaltano più che nelle altre circostanze.
Ora osservate che per l'una parte il desiderio e la speranza del vero amante è più confusa, vaga, indefinita che quella di chi è animato da qualunque altra passione: ed è carattere (già da molti notato) dell'amore, il presentare all'uomo un'idea infinita (cioè più sensibilmente indefinita di quella che presentano le altre passioni), e ch'egli può concepir meno di qualunque [1018]altra idea ec.
Per l'altra parte notate, che appunto a cagione di questo infinito, inseparabile dal vero amore, questa passione in mezzo alle sue tempeste, è la sorgente de' maggiori piaceri che l'uomo possa provare.
(6.
Maggio 1821.)
I filosofi moderni, anche i più veri ed effettivi, e quelli che più mettono in pratica la loro filosofia, sono persuasi che il mondo non potendo mai esser filosofo, bisogna che chi lo è, dissimuli questa sua qualità, e nel commercio sociale si diporti per lo più nello stesso modo, come se non fosse filosofo.
All'opposto i filosofi antichi.
All'opposto Socrate, il quale si mostrò nel teatro al popolo che rideva di lui; i Cinici, gli Stoici e tutti gli altri.
Così che i filosofi antichi formavano una classe e una professione formalmente distinta dalle altre, ed anche dalle altre sette di filosofi: a differenza de' moderni, che eccetto nel proprio interiore, si confondono appresso a poco intieramente colla moltitudine e colla universalità.
Conseguenza necessaria del predominio della natura fra gli antichi, e della sua nessuna influenza sui moderni.
Dalla qual natura deriva il fare: e il dare una vita, una realtà, un corpo visibile, una forma sensibile, un'azione allo [1019]stesso pensiero, alla stessa ragione.
Laddove i moderni pensatori e ragionevoli, si contentano dello stesso pensiero, il quale resta nell'interno, e non ha veruna o poca influenza sul loro esterno; e non produce quasi nulla nell'esteriore.
E generalmente, e per la detta ragione della naturalezza, l'apparenza e la sostanza erano assai meno discordi fra gli antichi i più istruiti, e per conseguenza allontanati dalla natura; di quello che sia fra i moderni i più ignoranti e inesperti, o più naturali.
(6.
Maggio 1821.)
La lingua cinese può perire senza che periscano i suoi caratteri: può perire la lingua, e conservarsi la letteratura che non ha quasi niente che far colla lingua; bensì è strettissimamente legata coi caratteri.
Dal che si vede che la letteratura cinese poco può avere influito sulla lingua, e che questa non ostante la ricchezza della sua letteratura, può tuttavia e potrà forse sempre considerarsi come lingua non colta, o poco colta.
(7.
Maggio 1821.)
Dalle osservazioni fatte da me sulla poca attitudine dei francesi a conoscere e gustare le altre lingue, risulta che per lo contrario gl'italiani sono forse i più atti del mondo al detto oggetto.
E ciò stante la moltitudine, dirò così, delle lingue che la loro lingua contiene (laddove la francese [1020]è unica); stante la sua copia, la sua ricchezza, la sua varietà; stante la sua libertà singolare fra tutte le lingue colte, come ho detto altrove, e inerente al suo carattere; stante la sua arrendevolezza, la quale produce l'arrendevolezza del gusto e della facoltà conoscitiva rispetto a quanto appartiene alle altre lingue; mentre l'arrendevolezza della propria lingua, viene ad essere l'arrendevolezza e adattabilità dell'istrumento che serve a conoscere e gustare le altre lingue.
E ciò tanto più si deve dire degl'italiani rispetto alle lingue antiche, massime la latina e la greca, sì per la conformità d'indole ec.
che hanno colla nostra; sì ancora perchè precisamente le dette qualità sono comuni a queste lingue (e generalmente alle antiche colte) colla nostra.
(7.
Maggio 1821.)
Alla p.1013.
fine.
Si potrebbe dire che anche la lingua greca pativa lo stesso inconveniente, e ancor peggio, stante la moltiplicità de' suoi dialetti.
Ma ne' dialetti era divisa anche la lingua latina, come tutte le lingue, massimamente molto estese e divulgate, e molto più, diffuse, come la latina, fra tanta diversità di nazioni e di lingue.
Il che apparisce non tanto dalla Patavinità rimproverata a Livio, (dalla quale sebbene altri lo difendono, pure apparisce che questa differenza di linguaggio, o dialetto, se non in lui, certo però esisteva); non tanto dalle diverse maniere e idiotismi degli scrittori latini di diverse nazioni e parti, (v.
Fabric.
[1021]B.
G.
l.5.
c.1.
§.17.
t.5.
p.67.
edit.
vet.
e il S.
Ireneo del Massuet); le quali si possono anche inferire dalle diverse lingue nate dalla latina ne' diversi paesi, ed ancora viventi (che dimostrano una differenza d'inflessioni, di costrutti, di locuzioni ec.
che se anticamente non fu tanta quanta oggidì, certo però è verisimile che fosse qualche cosa, e che appoco appoco sia cresciuta, derivando dalla differenza antica) quanto da questo, che è nella natura degli uomini che una perfetta conformità di favella non sussista mai se non fra piccolissimo numero di persone.
(V.
p.932.
fine.) Così che io non dubito che la lingua latina non fosse realmente distinta in più e più dialetti, come la greca, sebbene meno noti, e meno legittimati, e riconosciuti dagli scrittori, e applicati alla letteratura.
V.
qui sotto.
Del resto la lingua italiana patisce ora (serbata la proporzione) l'inconveniente della lingua latina, forse più che qualunque altra moderna colta.
Ond'ella è per questa parte meno adattata di tutte alla universalità, distinguendosi sommamente, non solo il suo volgare, ma il suo parlato dal suo scritto.
Non era così anticamente, ed allora l'italiano era più acconcio alla universalità, come lo prova anche il fatto.
Nel trecento lo scritto e il parlato quasi si confondevano.
In Toscana, accadeva questo anche nel cinquecento appresso a poco: e forse potrebbero ancora confondersi, se i toscani scrivessero l'italiano o il toscano, siccome lo parlano; laddove nel resto d'Italia, l'italiano non si parla.
(7.
Maggio 1821.).
V.
p.1024.
capoverso ult.
Al capoverso superiore.
E perciò appunto meno noti oggidì, a differenza dei greci.
Nel modo che i dialetti d'Italia o di Francia, posto il caso che la lingua italiana o francese uscisse dell'uso, come la latina, non sarebbero conosciuti dai posteri, se non confusissimamente; per non [1022]essere stati ridotti a forma, nè applicati (eccetto il Toscano) alla letteratura, salvo qualche poco in Italia.
Ma così poco e insufficientemente, che si può credere che gli scritti italiani vernacoli, non passerebbero, e onninamente non passeranno (se non forse pochissimi, come quelli del Goldoni e del Meli) alla posterità.
(8.
Maggio 1821.)
Quanto la natura abbia proccurata la varietà, e l'uomo e l'arte l'uniformità, si può dedurre anche da quello che ho detto della naturale, necessaria e infinita varietà delle lingue, p.952.
segg.
Varietà maggiore di quella che paia a prima vista, giacchè non solo produce p.e.
al viaggiatore, una continua novità rispetto alla sola lingua, ma anche rispetto agli uomini, parendo diversissimi quelli che si esprimono diversamente; cosa favorevolissima alla immaginazione, considerandosi quasi come esseri di diversa specie quelli che non sono intesi da noi, nè c'intendono: perchè la lingua è una cosa somma, principalissima, caratteristica degli uomini, sotto tutti i rapporti della vita sociale.
Per lo contrario, lasciando le altre cure degli uomini per uniformare, stabilire, regolare ed estendere le diverse lingue; oggi, in tanto e così vivo commercio di tutte, si può dir, le nazioni insieme, si è introdotta, ed è divenuta necessaria, una lingua comune, cioè la francese; la quale [1023]stante il detto commercio, e l'andamento presente della società, si può predire che non perderà più la sua universalità, nemmeno cessando l'influenza o politica, o letteraria, o civile, o morale ec.
della sua nazione.
E certo, se la stessa natura non lo impedisse, si otterrebbe appoco appoco che tutto il mondo parlasse quotidianamente il francese, e l'imparasse il fanciullo come lingua materna; e si verificherebbe il sogno di una lingua strettamente universale.
(8.
Maggio 1821.)
In proposito di quello che ho detto altrove, che la lingua italiana non si è mai spogliata della facoltà di usare la sua ricchezza antica, e la francese all'opposto, v.
Andrès, Stor.
d'ogni letteratura.
Venez.
Vitto.
t.3.
p.95.
fine-99.
principio, cioè Parte 1.
c.3.
e t.4.
p.17.
cioè Parte II.
introduzione.
(8.
Maggio 1821.)
Alcuni scrittori greci degli ultimissimi tempi dell'impero greco, furono anche superiori in eleganza a molti de' tempi più antichi ma corrotti, come gli scrittori latini del cinquecento in Italia superarono bene spesso gli antichi latini posteriori a Cicerone e a Virgilio.
Dopo il secolo d'Augusto non è stato mai tempo in cui sì generalmente (come nel 500.) si scrivesse con coltura e con pulitezza la lingua de' romani.
Andrès, l.
cit.
qui sopra, p.96.
(8.
Maggio 1821.)
[1024]Sebbene la lingua Celtica fosse così bella ed atta alla letteratura, e per conseguenza, formata, e stabilita e ferma (espressioni del Buommattei in simil senso), come si vede oggidì ne' monumenti che ne avanzano, e come ho detto p.994.
fine; sebben fosse così antica e radicata ec.
nondimeno laddove i greci ancorchè sudditi romani, e vivendo in Roma o in Italia, scrivevano sempre in greco e non mai in latino, nessuno scrittor gallo, nelle medesime circostanze, scrisse mai che si sappia in lingua celtica, ma in latino.
(9.
Maggio 1821.)
Da Demostene in poi la Grecia non ebbe altro scrittore che in ordine alla lingua e allo stile, somigliasse, anzi uguagliasse gli ottimi antichi, se non Arriano (e questo senza la menoma affettazione, o sembianza d'imitazione, o di lingua o stile antiquato, come i nostri moderni imitatori del trecento o del cinquecento).
Nè Polibio, nè Dionigi Alicarnasseo (sebben questi più degli altri, e gli può venir dopo), nè Plutarco, nè lo stesso Luciano atticissimo ed elegantissimo (di eleganza però ben diversa dalla nativa eleganza degli antichi, e della perfetta e propria lingua e stile greco) non possono essergli paragonati per questo capo.
(9.
Maggio 1821.)
Alla p.1021.
Così che la presente corruzione della lingua italiana e parlata e scritta, aggiunge un nuovo e fortissimo ostacolo alla sua universalità.
Giacchè gli stranieri non conoscono, si può dire, altra letteratura nè lingua italiana scritta, se non l'antica, non passando [1025]e non meritando di passare le Alpi i nostri libri moderni, e non avendo noi propriamente letteratura (non dico scienze) moderna, e neppur lingua moderna stabilita, formata, riconosciuta e propria.
D'altra parte non conoscono nè possono conoscere altra lingua italiana parlata, se non quella che oggi si parla, tanto diversa dall'antica e parlata e scritta, e dalla buona e vera e propria favella italiana.
Lo stesso appresso a poco si può dire dello spagnuolo.
(9.
Maggio 1821.)
La cognizione stessa che i greci di qualunque tempo, ebbero de' padri e teologi latini ec.
soli scrittori latini ch'essi conoscessero, non fu (se non forse ne' più barbari secoli di mezzo) paragonabile a quella che ebbero i latini dei padri, ed autori ecclesiastici greci, massime nei primi secoli del cristianesimo, e negli ultimi anni dell'impero greco (Andrès, loc.
cit.
da me p.1023.
t.3.
p.55.), quando la dimostrarono principalmente in occasione del concilio di Firenze.
(ivi).
(9.
Maggio 1821.)
Sebben l'uomo desidera sempre un piacere infinito, egli desidera però un piacer materiale e sensibile, quantunque quella infinità, o indefinizione ci faccia velo per credere che si tratti di qualche cosa spirituale.
Quello spirituale che noi concepiamo confusamente nei nostri desiderii, o nelle nostre sensazioni [1026]più vaghe, indefinite, vaste, sublimi, non è altro, si può dire, che l'infinità, o l'indefinito del materiale.
Così che i nostri desiderii e le nostre sensazioni, anche le più spirituali, non si estendono mai fuori della materia, più o meno definitamente concepita, e la più spirituale e pura e immaginaria e indeterminata felicità che noi possiamo o assaggiare o desiderare, non è mai nè può esser altro che materiale: perchè ogni qualunque facoltà dell'animo nostro finisce assolutamente sull'ultimo confine della materia, ed è confinata intieramente dentro i termini della materia.
(9.
Maggio 1821.)
Se i principi risuscitassero le illusioni, dessero vita e spirito ai popoli, e sentimento di se stessi; rianimassero con qualche sostanza, con qualche realtà gli errori e le immaginazioni costitutrici e fondamentali delle nazioni e delle società; se ci restituissero una patria; se il trionfo, se i concorsi pubblici, i giuochi, le feste patriotiche, gli onori renduti al merito, ed ai servigi prestati alla patria tornassero in usanza; tutte le nazioni certamente acquisterebbero, o piuttosto risorgerebbero a vita, e diverrebbero grandi e forti e formidabili.
Ma le nazioni meridionali massimamente, e fra queste singolarmente l'Italia e la Grecia (purchè tornassero ad esser nazioni) diverrebbero un'altra volta invincibili.
Ed allora [1027]si tornerebbe a conoscere la vera ed innata eminenza della natura meridionale sopra la settentrionale, eminenza che le nostre nazioni ebbero sempre, mentre non mancarono di forti, grandi, e generali illusioni, e de' motivi e dell'alimento di esse; eminenza che da gran tempo, ma specialmente oggi, sembra per lo contrario, con vergogna, dirò così, della natura, appartenere (e non solo nella guerra, ma in ogni genere di azione, di energia, e di vita) agli abitatori dei ghiacci e delle nebbie, alle regioni meno favorite, anzi quasi odiate dalla natura:
Quod latus mundi nebulae malusque
Juppiter urget.
Notabile che come gli antichi si rassomigliano al carattere meridionionale e i moderni al settentrionale, così la civiltà ec.
antica fu principalmente meridionale, la moderna settentrionale.
È già notato che la civiltà progredisce da gran tempo (sin da' tempi indiani) dal sud al nord, lasciando via via i paesi del sud.
Le capitali del mondo antico furono Babilonia, Menfi, Atene, Roma; del moderno, Parigi, Londra, Pietroburgo! che climi! Conseguenza naturale dell'esser tolta ai popoli meridionali l'attività e l'uso della molla principale della loro vita, cioè della immaginazione; molla che quando è capace di azione (e non può esserlo senza le circostanze corrispondenti) vince la forza di tutte le altre molle che possono fare agire i popoli settentrionali, e qualunque popolo.
Anzi veramente i popoli settentrionali, massime i più bellicosi e terribili, non agiscono per nessuna molla, per nessuna forza propria del loro meccanismo, ed interna; ma per mero impulso altrui, per mera influenza di coloro, ai quali essi ubbidiscono, se anche sono comandati di mangiar della paglia.
(10.
Maggio 1821.)
[1028]La cosa più durevolmente e veramente piacevole è la varietà delle cose, non per altro se non perchè nessuna cosa è durevolmente e veramente piacevole.
(10.
Maggio 1821.
Delle prime grammatiche italiane v.
Andrès, Stor.
della letteratura, ediz.
di Venezia del Vitto.
t.9.
p.316.
fine.
cioè Parte 2.
lib.4.
c.2.
(10.
Maggio 1821.)
Del sogno d'istituire una lingua universale v.
Andrès, loc.
cit.
qui sopra, p.320.
e il Locke del Soave t.2.
p.62-76.
ediz.
terza di Venezia 1794.
(10 Maggio 1821.)
La Bibbia ed Omero sono i due gran fonti dello scrivere, dice l'Alfieri nella sua Vita.
Così Dante nell'italiano, ec.
Non per altro se non perch'essendo i più antichi libri, sono i più vicini alla natura, sola fonte del bello, del grande, della vita, della varietà.
Introdotta la ragione nel mondo tutto a poco a poco, e in proporzione de' suoi progressi, divien brutto, piccolo, morto, monotono.
(11.
Maggio 1821.)
Se la universalità di una lingua dipendesse dalla diffusione di coloro a' quali essa è naturale, nessuna lingua avrebbe oggi questa proprietà più dell'inglese, giacchè gli stabilimenti inglesi occupano più gran parte del mondo, e sono più numerosi di quelli d'ogni altra nazione europea; e la nazione inglese è la più viaggiatrice del mondo.
(11.
Maggio 1821.)
[1029]La lingua latina superò per esempio la lingua antica Spagnuola, la Celtica ec.
mediante la semplice introduzione nella Spagna, nelle Gallie ec.
del governo, leggi, costumi Romani.
Ma a superar la greca non le bastò neppure il trasportar nella Grecia la stessa Roma, e quasi la stessa Italia.
(11.
Maggio 1821.)
Alla p.991.
Eccetto il solo Fedro, o ch'egli fosse Trace, come è creduto comunemente, (la lingua della letteratura in Tracia era la greca, come mostrano Lino, Orfeo Traci, e il più recente Dionigi famoso gramatico detto il Trace) o Macedone come vuole il Desbillons.
(Disputat.
1.
de Vita Phaedri, praemissa Phaedri fabulis, Manhemii 1786.
p.
v.
seq.) La cui latinità, sebbene a molti non pare eccellente e perfettissima certo però è superiore al mediocre.
(11.
Maggio 1821.)
Alla p.245.
La lingua francese si mantiene e si manterrà lungo tempo universale, a cagione della sua struttura ed indole.
E certo però che l'introduzione di questa lingua nell'uso comune, e il principio materiale della sua universalità, si deve ripetere e dalla somma influenza politica della Francia nel tempo passato; e dalla sua influenza morale come la più civilizzata nazione del mondo, e per conseguenza dalle sue mode, ec.
o vogliamo dire dalla moda di esser francese, [1030]dal regno e dittatura della moda, che la Francia ha tenuto e tiene ec.; e principalissimamente ancora dalla sua letteratura, dalla estensione di lei, e dalla superiorità ed influenza che ella ha acquistata sopra le altre letterature, non per altro, se [non] per essere esclusivamente e propriamente moderna, e perchè la letteratura precisamente moderna è nata (a causa delle circostanze politiche, morali, civili ec.) prima che in qualunque altra nazione, in Francia, e quivi è stata coltivata più che in qualunque altro luogo, e più modernamente o alla moderna che in qualunque altro paese.
Ma la durata di questa universalità, quando anche cessino le dette ragioni, (come in parte sono cessate) essa la dovrà alla sua propria indole; laddove quella tal quale universalità acquistata già dalle lingue spagnuola, italiana ec.
sono finite insieme colle ragioni estrinseche che la producevano, non avendo esse lingue disposizione intrinseca alla universalità.
Con queste osservazioni rettifica quello che ho detto p.240-245.
E in quanto alla letteratura, ed alla influenza morale ec.
ec.
è certo che queste furono le ragioni estrinseche della universalità della lingua greca, la quale però ne aveva anche le sue ragioni intrinseche, mancanti affatto alla latina, che perciò non fu mai veramente universale, [1031]nè durò, come la greca ancor dura, non ostante che abbondasse delle ragioni estrinseche di universalità.
(11.
Maggio 1821.).
V.
p.1039.
fine.
Che la lingua italiana massimamente e proporzionatamente la spagnuola ancora e la francese, come spiegherò poi, sieno derivate dall'antico volgare latino, si dimostra non solo coi fatti oscuri, e coll'erudizione recondita, ma col semplice ragionamento sopra i fatti notissimi e certi, e sopra la natura delle cose.
La lingua italiana è derivata dall'antica latina, e questo è palpabile.
La lingua italiana è una lingua volgare.
Ma nessuna lingua volgare deriva da una lingua scritta e propria della letteratura, se non in quanto questa lingua scritta partecipa della medesima lingua parlata, e parlata volgarmente.
La lingua latina scritta differiva moltissimo dalla parlata, e ciò si rileva sì dall'indole del latino scritto che non poteva mai esser volgare, sì dalla testimonianza espressa di Cicerone.
Dunque se la lingua italiana è derivata dalla latina, e la italiana non è semplicemente scritta o letterata, ma volgare e parlata, non può esser derivata dal latino scritto, ma è derivata dal latino volgare.
Da che ci era un latino volgare assai differente dallo scritto, è costante che l'italiano volgare derivato dal latino, non può esser derivato dallo scritto, ma da quello volgare e parlato.
[1032]Questo ragionamento serve per tutte le lingue derivate dal latino, e per tutte quelle derivate da qualunque altra lingua antica, dove lo scritto differisse notabilmente dal parlato.
Ma serve specialmente per l'italiano, ch'è la lingua volgare di quello stesso paese a cui fu naturale il latino.
Qual lingua avrà parlato l'Italia ne' secoli bassi? forse il latino scritto? Chi può credere quest'assurdità che i secoli barbari parlassero meglio de' civili? Forse le lingue de' popoli settentrionali, suoi conquistatori? 1.
È noto e costante da testimonianze e osservazioni di fatto che questi popoli in luogo d'introdurre la loro lingua fra i conquistati, imparavano anzi e adoperavano quella di costoro.
V.
Andrès, t.2.
p.330.
2.
Di parole settentrionali ognuno sa quanto poche ne rimangano nell'italiano, e così pure nel francese e nello spagnuolo, e come il corpo, la sostanza, il grosso, il fondo principale e capitale di queste lingue, e massime dell'italiano, derivi dal latino, e sia latino.
Dunque l'Italia ne' secoli bassi parlò certamente il latino.
Latino corrotto, ma latino.
Qual latino dunque? Lo scritto no: dunque il volgare, cioè la sua lingua di prima, il suo volgare di prima.
Giacchè la sua lingua, il suo volgare di prima, non era il latino [1033]scritto, nè poteva essere, ma il latino volgare.
Anche questo volgare si sarà parlato corrottamente, ma la sostanza, il grosso ec.
della lingua allora parlata, doveva esser quello di detto volgare, da che oggi il grosso dell'italiano è derivato dal latino, ed è latino.
Comunemente pare che si supponga che s'interrompesse o affatto o quasi affatto l'uso volgare del latino in Italia, restandone solo l'uso civile, religioso e letterario, e che da quest'uso, e dal latino scritto ec.
rinascesse poi di nuovo l'uso di una lingua volgare latina, o derivata dal latino, cioè dell'italiana; e così questa venga ad essere derivata dal latino scritto, sia per mezzo del provenzale che nascesse prima dell'italiano, o per qualunque altro mezzo.
Queste sono favole assurdissime e (oltre che non hanno alcun fondamento) contrarie alla natura delle cose.
Dovunque il latino non è stato in uso se non come lingua civile, religiosa, scritta, letteraria ec.
le lingue nazionali e volgari sono rimaste; e in luogo che dal latino scritto ec.
derivasse e nascesse in questi luoghi una lingua figlia della latina, la lingua volgare ha per lo contrario scacciata la latina anche dalla scrittura, e dall'uso letterario e civile.
In Germania, [1034]in Inghilterra, in Polonia dove ne' secoli bassi si usava il latino (ed in Polonia anche dopo), ma non mai come lingua parlata, e solo come civile, religiosa, letteraria; non vi è nata dal latino nessuna lingua; restano le antiche lingue nazionali, restano le lingue volgari; o vogliamo dire, restano le lingue derivate dalle dette naturali e volgari, e la latina è sparita dall'uso civile e dal letterario.
Lo stesso dirò della Grecia, dove il latino fu introdotto solamente come lingua del governo ec.
v.
p.982.983.
Lo stesso pure dell'italiano, dello Spagnuolo, del Francese, i quali parimente scacciarono la stessa lingua lor madre, dall'uso civile, politico, letterario.
E questo si può vedere pure nell'esempio della lingua francese introdotta come civile ec.
in Inghilterra per la conquista de' Normanni (v.
p.1011.
fine); dell'arabica introdotta già nello stesso modo in parte della Spagna (Andrès 2.
263.-273.), e poi similmente scacciate dalla letteratura e da ogni luogo.
V.
pure gli Ann.
di Sc.
e lett.
num.11.
p.29.32.
E così porta la natura delle cose, che non la lingua degli scrittori cambi quella del popolo, e s'introduca nel popolo, ma quella del popolo vinca quella degli scrittori, i quali scrivono pure pel popolo e per la moltitudine; non la scritta scacci la parlata, ma la parlata superi presto o tardi, ed uniformi più o meno la scritta a se medesima.
V.
p.1062.
Se la lingua gotica o qualunque altra lingua settentrionale o no, si fosse stabilita veramente in Italia come lingua volgare e parlata, restando ancora la latina come scritta ec.; oggi noi parleremmo e scriveremmo quella o quelle tali lingue, e non una lingua derivata dalla latina.
Ma accadendo il contrario è manifesto che la lingua volgare d'Italia, fu senza interruzione latina; e se fu tale senza interruzione fino a noi, dunque fu senza interruzione quel latino volgare più o meno alterato, che si parlava anticamente, e non già lo [1035]scritto; dunque noi oggi parliamo una lingua derivata da esso volgare, e il cui fondo capitale appartiene, anzi è lo stesso che quello dell'antico volgare latino.
Discorro allo stesso modo dello Spagnuolo e del francese.
Se queste lingue sono volgari, e derivano dal latino, dunque dal latino parlato, e non dallo scritto; dunque dal latino volgare; dunque la lingua latina si stabilì nella Spagna e nella Francia come lingua parlata, e non solamente come lingua civile, governativa, letteraria (e così è infatti, e nella lingua francese restano pochissime parole Celtiche, nella spagnuola nessun vestigio dell'antica lingua di Spagna: Andrès, 2.
252.); dunque il volgare latino più o meno alterato da mescolanza straniera, si mantenne senza interruzione in Ispagna e in Francia (siccome in Valacchia) dalla sua prima introduzione, sino al nascimento della lingua spagnuola e francese, e per mezzo di queste sino al dì d'oggi.
Dell'antica origine della presente lingua spagnuola, e come i più vecchi monumenti che ne restano, siano, come quelli della lingua provenzale, francese ec.
conformissimi al latino, v.
un esempio recato in quella lingua dall'Andrès 2.286.fine.
Conchiudo.
Se la lingua italiana, ch'è volgare, è derivata dal latino, ella dunque non può essere [1036]derivata dal latino scritto sì diverso dal parlato, ma dirittamente viene dall'antico volgare latino, ed è nella sostanza e nel suo fondo principale, lo stesso che il detto volgare.
E lo è per la circostanza della località (lasciando ora le prove di fatto e di erudizione) più di quello che lo siano lo spagnuolo e il francese.
Questo ragionamento però vale per qualunque lingua derivata sì dal latino, sì da qualunque altra lingua antica: e ciascuna lingua moderna derivata da qualunque lingua antica, è derivata dal volgare di essa lingua, e non dallo scritto.
Che se la lingua tedesca, a detta del Tercier, è fra tutte ec.
v.
p.1012.
principio, questo accade perchè la lingua antica teutonica scritta, come lingua incolta, o non bene determinata e formata alla scrittura, come lingua illetterata ancorchè scritta, pochissimo o nulla differiva dalla parlata e volgare.
Ma altrettanta e forse maggiore uniformità si vedrebbe fra l'italiano e l'antico volgare latino, se di questo si avesse maggior notizia.
E dico maggiore uniformità non senza ragione di fatto, considerando la molta differenza che passa poi realmente fra l'odierno tedesco e il teutonico (Andrès, 2.
249-254.); e la somma rassomiglianza che io in molti luoghi ho cercato di provare, fra l'italiano, [1037]e il latino volgare antico.
Così che la lingua italiana in vece di essere la più moderna di tutte le viventi Europee, come pretendono, (Andrès, 2.256.
e passim) si verrebbe a conoscere o la più antica, o delle più antiche, perdendosi l'origine di essa, e del suo uso, (non mai nel seguito interrotto, sebbene alterato) nella oscurità delle origini dell'antichissimo e primo latino.
A differenza dello spagnuolo e del francese, perchè in queste nazioni l'uso del volgare latino, fu certo molti e molti secoli più tardo che in Italia.
(12.
Maggio 1821.)
Basta vedere il principio dell'Orazione ?????????? attribuita a Demostene, dove discorre della nobiltà del popolo Ateniese, per conoscere come fosse fermo fra gli antichi il dogma della disuguaglianza delle nazioni, e come si aiutassero delle favole, delle tradizioni ec.
per persuadersi, e tener come cosa non arbitraria, ma ragionata e fondata, che la propria nazione fosse di genere e di natura, e quindi di diritti ec.
ec.
diversa dalle altre.
Persuasione utilissima e necessaria, come altrove ho dimostrato.
(12.
Maggio 1821.)
Una lingua non si forma nè stabilisce mai, se non applicandola alla letteratura.
Questo è chiaro dall'esempio di tutte.
Nessuna lingua non applicata alla letteratura è stata mai formata nè stabilita, [1038]e molto meno perfetta.
Come dunque la perfezione dell'italiana starà nel 300? Altro è scrivere una lingua (come si scriveva l'antica teutonica, non mai ben formata nè perfetta) altro è applicarla alla letteratura.
Alla quale l'italiano non fu applicato che nel 500.
Nel 300.
veramente e propriamente da tre soli (lasciando le barbare traduzioni di quel secolo), il che ognun vede se si possa chiamare, perfetta applicazione alla letteratura.
Se lo scrivere una lingua fosse lo stesso che l'applicarla alla letteratura, l'epoca della perfezione della latina si dovrebbe porre non nel secolo di Cicerone ec.
ma nel tempo dei primi scrittorelli latini; ovvero con molto più ragione in quello d'Ennio ec.
e degli scrittori anteriori a Lucrezio, a Catullo, a Cicerone (contemporanei) giacchè allora il latino fu applicato generalmente a lavori molto più letterarii, che nella universalità del 300.
E così dico pure delle altre lingue o morte, o viventi.
(12.
Maggio 1821.).
V.
p.1056.
Nei tempi bassi furono veramente ????????? i tedeschi e gl'inglesi, ossia la parte colta di queste nazioni, che scrivevano il latino, se ne servivano per le corrispondenze, lettere ec.
e parlavano le lingue nazionali.
E così pure gl'italiani, i francesi, gli spagnuoli, che parlavano già un volgare assai diverso dal latino scritto.
Ma questa:
1.E una ??????????che appartenendo allo scritto e non al parlato, non entra nel mio discorso.
E la [1039]universalità del latino, ch'era allora universale in occidente, era universalità che appartenendo alla sola scrittura, non ha che fare con quella che rende gli uomini parlatori di due lingue, cioè veramente ?????????, della quale sola io discorro.
2.
La lingua latina era allora veramente morta, appresso a poco come oggi, non essendo parlata, ma solo scritta.
E una lingua solamente scritta è lingua morta.
Ora, quantunque l'uso di una tal lingua morta fosse allora più comune che oggidì, e così anche fosse dopo il risorgimento delle lettere; la universalità delle lingue morte che si studiavano e si studiano o per usi letterarii, o per vecchia costumanza, non entra nel mio discorso, il quale tratta solo della universalità delle lingue vive.
Così anche oggi si potrebbe chiamare presso a poco universale la lingua greca in Europa, e ne' paesi colti, ma come lingua morta.
(12.
Maggio 1821.)
Alla p.1031.
principio.
Come la letteratura, così la lingua francese è precisamente moderna, sì per l'influenza somma nella lingua della letteratura che la forma (e nel nostro caso l'ha singolarmente formata e determinata, mutandola assai da quella ch'era da principio, e dalla sua stessa indole primitiva); sì per l'influenza immediata sulla lingua francese delle stesse cagioni che hanno influito sulla letteratura francese, e formatala.
[1040]Or come la lingua francese è strettamente moderna, e quindi strettamente propria all'odierna universalità, per esser modellata sulla ragione, e oggi (secondo il vero andamento del secolo) quasi sulla matematica; così la lingua greca era propria alla universalità de' tempi suoi, massime fra' popoli del meriggio orientali e occidentali, che sono e furono sempre più immaginosi; e ciò per essere strettamente antica, e questo per essere strettamente modellata (nel perfetto) sulla natura.
A differenza della latina modellata piuttosto sull'arte.
E si può dire che la perfezione della lingua greca era conforme, ed aveva il suo fondamento nella natura, non essendo perciò meno perfetta, nè artificiata; e la perfezione della latina era conforme, ed aveva il suo modello, il suo tipo, il suo fondamento, la sua norma nell'arte.
(12.
Maggio 1821.)
Alla p.1016.
In ogni modo le parole greche che si trovano nell'uso familiare e popolare, italiano o francese, (massime se non si trovano presso gli scrittori latini) non possono esser derivate se non dall'antico volgare latino, da qualunque parte esso le abbia ricevute, o dalla Grecia direttamente, e ab antico, per qualunque mezzo; o da un'origine comune con quella della lingua greca, ovvero dalle colonie greche d'Italia o delle Gallie, o da qualunque [1041]comunicazione avuta colla lingua greca.
Come infatti le dette parole avrebbero potuto pervenire a noi, senza passare pel volgare latino? Quando la lingua greca si spense nelle Gallie assai per tempo, e così pure in Italia (sebben forse più tardi p.e.
in Sicilia, che nelle Gallie); ed all'incontro il volgare latino stabilitosi in detti luoghi, ha durato con maggiore o minore alterazione, e dura dal suo stabilimento fino ad oggidì? In qualunque maniera dunque, le parole greche che oggi sono volgari (non dico le scientifiche, o proprie de' soli scrittori) nell'italiano o nel francese, (e così nello spagnuolo); quelle che appartengono propriamente a queste lingue, e possono considerarsi come loro primitive; dovettero essere necessariamente nell'antico volgare latino, che sta di mezzo fra l'uso del greco in alcuni paesi d'Italia o di Francia, e l'uso dell'italiano o del francese: in maniera che le dette parole hanno dovuto passare necessariamente pel detto canale, e quindi appartenere all'antico volgare latino.
Nè dopo la grande e principale alterazione di questo volgare, e il nascimento de' volgari moderni che ne derivano, l'Italia o la Francia hanno avuto colla lingua greca, (e massime coll'antica, o anche antichissima, alla quale appartengono parecchie delle dette parole o modi) [1042]comunicazione veruna sufficiente a introdurre nel nostro uso quotidiano, e comune parole e modi greci, e spesso di prima necessità, o di frequentissimo uso; qualità osservatissima dagli etimologisti filosofi, e di gran rilievo presso loro.
Resta dunque inconcusso il mio discorso, e la mia proposizione, che le parole o modi italiani o francesi o spagnuoli, che derivano dal greco, che spettano all'uso volgare, al capitale antico, primitivo, proprio di dette lingue, che non si trovano presso gli scrittori latini, debbono essere stati indispensabilmente ed esserci venuti dal volgare antico latino, derivando le dette lingue dal latino, anzi da esso volgare, e non potendo aver preso nessuna parola o modo volgare, o primitivo loro, immediatamente dalla lingua greca.
Il qual discorso, se si tratta di parole o modi italiani, ha la sua piena forza, e dimostra l'esistenza di dette parole o modi nell'antico volgare latino proprio, cioè in quello che si parlava anticamente in Italia.
Trattandosi di parole francesi, lo può solamente dimostrare, rispetto all'antico volgare latino che si parlava nelle Gallie, il quale poteva differire alquanto (e certo differiva, come dialetto) da quello parlato in Roma o in Italia.
Vale a dire che in quel volgare, vi poteva essere qualche parola o modo greco, derivato dalle colonie greco-galliche, il quale non [1043]si trovasse nel volgare latino di Roma, o d'Italia.
Massimamente se le dette parole non si trovano oggi se non se nella lingua francese, e se mancano all'italiana.
E così anche viceversa, se qualche parola greca passò in quest'ultimo volgare dalle Colonie greco-italiane, o da altra comunicazione coi greci viaggiatori ec.
ec.
dopo l'introduzione del volgare latino nelle Gallie.
(13.
Maggio 1821.).
Giacchè le altre parole greche introdotte già nel latino prima di quel tempo, ancorchè venute dalle colonie greche d'Italia, non fa maraviglia se passarono col latino anche in Francia ed altrove.
L'Inghilterra in dispetto del suo clima, della sua posizione geografica, credo anche dell'origine de' suoi abitanti, appartiene oggi piuttosto al sistema meridionale che al settentrionale.
Essa ha del settentrionale tutto il buono (l'attività, il coraggio, la profondità del pensiero e dell'immaginazione, l'indipendenza, ec.
ec.) senz'averne il cattivo.
E così del meridionale ha la vivacità, la politezza, la sottigliezza (attribuita già a' Greci: v.
Montesquieu Grandeur etc.
ch.22.
p.264.) raffinatezza di civilizzazione e di carattere (a cui non si trova simile se non in Francia o in Italia), ed anche bastante amenità e fecondità d'immaginazione, e simili buone qualità, senz'averne il torpore, la inclinazione all'ozio o alla inerte voluttà, la mollezza, l'effeminatezza, la corruzione debole, sibaritica, vile, francese; il genio pacifico ec.
ec.
Basta paragonare un soldato inglese a un soldato tedesco o russo ec.
per conoscere l'enorme differenza che passa fra il carattere inglese e il settentrionale.
E siccome l'Italia non ha milizia, e la Spagna non la sa più adoperare, ec.
non v'è milizia in Europa più somigliante alla francese dell'inglese, più competente colla francese, per l'ardore e la vita individuale, la forza morale [1044]la suscettibilità ec.
del soldato, e non la semplice forza materiale, come quella de' tedeschi, de' russi ec.
V.
p.1046.
Tutto ciò verrà forse da altre cagioni, ma forse anche dal loro governo e costituzione politica, stata sempre più simile alle antiche di qualunque altra Europea, fino al dì d'oggi ch'è stata appresso a poco adottata da' francesi, dov'è troppo presto per vederne gli effetti.
Ora egli è certo che l'antico è sempre superiore al moderno in quanto spetta alla immaginazione, e che in questa, anche gli antichi settentrionali che cedevano ai meridionali antichi, erano però ben superiori ai meridionali moderni.
(13.
Maggio 1821.)
La rimembranza del piacere, si può paragonare alla speranza, e produce appresso a poco gli stessi effetti.
Come la speranza, ella piace più del piacere; è assai più dolce il ricordarsi del bene (non mai provato, ma che in lontananza sembra di aver provato) che il goderne, come è più dolce lo sperarlo, perchè in lontananza sembra di poterlo gustare.
La lontananza giova egualmente all'uomo nell'una e nell'altra situazione; e si può conchiudere che il peggior tempo della vita è quello del piacere, o del godimento.
(13.
Maggio 1821.)
[1045]Chi vuol vedere quanto abbia la natura provveduto alla varietà, consideri quanto l'immaginazione sia più varia della ragione, e come tutti si accordino in ciò che spetta o è fondato su questa, e viceversa.
Per esempio osservi come fossero varie le lingue antiche architettate sul modello della immaginazione, e quanto monotone quelle moderne che più sono architettate sulla ragione.
Osservi come una lingua universale debba esser modellata e regolata in tutto e perfettamente dalla ragione, appunto perchè questa è comune a tutti, ed uguale e uniforme in tutti.
(13.
Maggio 1821.)
La Francia è per geografia la più settentrionale delle regioni Europee che si comprendono sotto la categoria delle meridionali.
Così dunque la sua lingua partecipa di quella esattezza, di quella, per così dire, pazienza, di quella monotonia, di quella regolarità, di quella rigorosa ragionevolezza che forma parte del carattere settentrionale.
E così pure la sua letteratura in gran parte filosofica, e generalmente il suo gusto letterario, sebben ciò derivi in gran parte dall'epoca della sua lingua e letteratura; epoca moderna, e per conseguenza epoca di ragione.
Come per lo contrario l'Inghilterra ch'è per carattere la regione meno settentrionale di tutte le settentrionali, (v.
p.1043.) ha una lingua delle [1046]più libere d'Europa colta per indole; e per fatto la più libera di tutte (Andrès, t.9.
290 291.
315-316.); e parimente la letteratura forse più libera d'Europa, e il gusto letterario ec.
Parlo della sua letteratura propria, cioè della moderna, e dell'antica di Shakespeare ec.
e non di quella intermedia presa da lei in prestito dalla Francia.
E parlo ancora delle letterature formate e stabilite ed adulte; e non delle informi o nascenti.
(13.
Maggio 1821.)
Alla p.1044.
Ciò è manifesto anche dal fatto, dalla continua e famosa gara della nazione inglese colla francese, dalle molte vittorie, e talvolta formidabili, degl'inglesi sopra i francesi, riportate massime anticamente ec.
ec.
e dall'essere stata forse l'Inghilterra (fino agli ultimi tempi) quasi l'unica potenza che si sia battuta a solo a solo colla francese, con costante competenza, ancorchè tanto inferiore di popolazione, e considerando specialmente le altre potenze di forze uguali all'Inghilterra, fra le quali essa si troverà l'unica capace di far fronte per lo passato alla Francia.
(14.
Maggio 1821.)
Principalissime cagioni dell'essersi la lingua greca per sì lungo tempo mantenuta incorrotta (v.
Giordani nel fine della lettera sul Dionigi) furono indubitatamente la sua ricchezza, e la sua libertà d'indole e di fatto.
La qual libertà produce in buona parte la ricchezza; la qual libertà è la più [1047]certa, anzi necessaria, anzi unica salvaguardia della purità di qualunque lingua.
La quale se non è libera primitivamente e per indole, stante l'inevitabile mutazione e novità delle cose, deve infallibilmente declinare dalla sua indole primitiva, e per conseguenza alterarsi, perdere la sua naturalezza e corrompersi: laddove ella conserva l'indole sua primitiva, se fra le proprietà di questa è compresa la libertà.
E quindi si veda quanto bene provveggano alla conservazione della purità del nostro idioma, coloro che vogliono togliergli la libertà, che per buona fortuna, non solo è nella sua indole, ma ne costituisce una delle principali parti, e uno de' caratteri distintivi.
E ciò è naturale ad una lingua che ricevè buona parte di formazione nel trecento, tempo liberissimo, perchè antichissimo, e quindi naturale, e l'antichità e la natura non furono mai soggette alle regole minuziose e scrupolose della ragione, e molto meno della matematica.
Dico antichissimo, rispetto alle lingue moderne, nessuna delle quali data da sì lontano tempo il principio vero di una formazione molto inoltrata, e di una notabilissima coltura, ed applicazione alla scrittura: nè può di gran lunga mostrare in un secolo così remoto sì grande universalità e numero di scrittori e di parlatori ec.
che le servano anche oggi di modello.
E questa antichità [1048]di formazione e di coltura, antichità unica fra le lingue moderne, è forse la cagione per cui l'indole primitiva della lingua italiana formata, è più libera forse di quella d'ogni altra lingua moderna colta (siccome pure dell'esser più naturale, più immaginosa, più varia, più lontana dal geometrico ec.).
Tutte le lingue non formate sono libere per indole, e per fatto.
Tutte le lingue nella loro formazione primitiva, sono parimente libere, qual più qual meno, e per indole e per fatto.
La quale libertà vengono poi perdendo appoco appoco secondo le circostanze della loro formazione.
Tutte ne perdono alquanto (e giustamente) coll'essere ridotte a forma stabile, ma qual più qual meno, e ciò dipende dal carattere sì dei tempi come delle nazioni e degli scrittori che le formano.
Parlando dunque delle lingue dopo che sono perfettamente formate, io trovo rispetto alla libertà, tre generi di lingue.
Altre libere per natura e per fatto, come l'inglese.
Altre libere per natura, ma non in fatto, come si vuole oggi ridurre la nostra lingua da' pedanti, non per altro se non perchè i pedanti non possono mai conoscere fuorchè la superficie delle cose, e susseguentemente non hanno mai conosciuto nè conosceranno l'indole della lingua italiana.
Una [1049]tal lingua, malgrado la libertà primitiva e propria della sua formazione, e del suo carattere formato, è soggetta niente meno a corrompersi, non usando nel fatto, di questa libertà, secondo il genio proprio suo; ed a perdere la prima e nativa libertà, per usurparne poi necessariamente una spuria ed impropria ed aliena dal suo carattere, come oggi ci accade.
E già nel 500.
si era cominciata a dimenticare da alcuni (come dal Castelvetro ec.) questa qualità della nostra lingua, dico la libertà, cosa veramente accaduta a quasi tutte le lingue, e spesso ne' loro migliori secoli, appena vi s'è cominciata a introdurre, la sterile e nuda arte gramaticale, in luogo del gusto, del tatto, del giudizio, del sentimento naturale e dell'orecchio ec.
Il terzo genere è delle lingue non libere nè per natura nè in fatto, come la francese.
Lingue che vanno necessariamente a corrompersi.
La lingua latina, la cui formazione non le diede un'indole libera (v.
p.1007.
fine-1008.), si corruppe con maravigliosa prestezza.
Ed osservo nella poetica d'Orazio che a' suoi tempi la novità delle parole era contrastata agli scrittori latini, come oggi agli italiani da' pedanti, cosa che io non mi ricordo [1050]mai di aver notato in nessun scrittor greco in ordine alla lingua greca (e lo stesso dico d'ogni altra lingua antica).
Al più i gramatici e filologi greci non molto antichi nè degli ottimi tempi della favella, faranno gli smorfiosi intorno alla purità dell'Atticismo, e all'escludere questa o quella parola o frase da questo o quel dialetto, riconoscendola però per greca, e non escludendola dalla scrittura greca, come fanno i toscani rispetto all'italiana.
Diranno che la lingua francese, la più timida, serva, legata di tutte quante le lingue antiche e moderne, colte o incolte, si mantiene tuttavia pura.
Rispondo
1.
La lingua francese schiava rispetto ai modi è liberissima (sia per legge o per fatto) nelle parole.
2.
La servilità di una lingua è incompatibile colla durata della sua purità, a causa della inevitabile mutazione e novità delle cose.
Ma la lingua francese formata com'è oggi, è ancor nuova.
Le circostanze hanno voluto che ella ricevesse una forma stabile in un tempo moderno, e da questa forma fosse ridotta ad esser lingua precisamente di carattere moderno.
Non è dunque maraviglia se le cose moderne non la corrompono.
La quale modernità [1051]di formazione, fu anche la causa della sua servilità.
Se fosse stato possibile che la lingua francese ricevesse una forma di genere simile a quella che ha presentemente, e divenisse così servile, al tempo in cui fu formata p.e.
la lingua italiana; ella sarebbe oggi così barbara, e sformata; avrebbe talmente perduta quella tal forma ed indole, che non si potrebbe più riconoscere.
Come infatti la lingua francese così formata come fu dall'Accademia, non si riconosce dall'antica; e gli Accademici (o l'età e il genio d'allora) per ridurla così doverono trasformarla affatto dall'antica sua natura (v.
Algarotti Saggio sulla lingua francese); il che sarebbe stato insomma lo stesso che guastarla, e la lingua francese si chiamerebbe oggi corrotta, se prima di quel tempo ella avesse mai ricevuta una forma stabile.
E quantunque non l'avesse ricevuta, e gli scritti anteriori non sieno per lo più di gran pregio, nondimeno il solo Amyot, tenuto anche oggi per classico, mostra che differenza passi tra l'antica e primitiva e propria indole della lingua francese e la moderna; mostra che se quella lingua fosse stata mai classica, (il che non mancò se non dalla copia di tali scrittori) la presente sarebbe barbara; mostra quanto quella lingua fosse libera nelle forme e nei modi ec.
mostra la differenza delle nature de' tempi anche in Francia ec.
E notate che anche Amiot, come pure Montagne, Charron ec.
furono nel secolo del 500.
epoca della vera formazione delle lingue italiana e spagnuola, e della letteratura di queste nazioni.
E ben credo che lo stile d'Amyot formi la disperazione de' moderni francesi [1052]che si studino d'imitarlo (v.
Andrès, t.3.
p.97.
nota del Loschi), giacchè la loro lingua ne ha perduta interamente la facoltà, e v.
il luogo di Thomas che ho citato altrove.
3.
Ho già detto in altri luoghi come la lingua francese vada effettivamente degenerando dagli stessi scrittori classici del tempo di Luigi 14.
in proporzione della diversità de' tempi, naturalmente assai minore di quella che corre fra il tempo presente, e quello della formazione p.e.
della lingua italiana, e qual sia il pericolo che corre massimamente l'odierna lingua francese, pericolo veramente non di lei sola, ma di tutte le lingue; e non delle lingue sole, ma delle letterature ugualmente; e non solo di queste, ma degli uomini e delle nazioni e della vita del nostro tempo; cioè il pericolo di divenir matematici di filosofici e ragionevoli che sono stati da qualche tempo fino ad ora, e di naturali che furono anticamente.
(14.
Maggio 1821.).
Dell'ignoranza del latino presso i greci v.
Luciano, Come vada scritta la storia.
(14.
Maggio 1821.)
Alla p.988.
Citavano ancora non rare volte i latini (come Cicerone nel libro de Senectute) passi anche lunghi di scrittori greci recati da essi in latino.
Non così i greci viceversa, se non talvolta (e in tempi assai posteriori anche ai principii della Chiesa greca) qualche passo di Padri o scrittori ecclesiastici latini rivolto in greco; ma ben di rado, massime in proporzione delle molte autorità di padri greci ec.
che recavano i latini, [1053]voltandoli nel loro linguaggio.
E generalmente l'uso de' padri ec.
latini nella Chiesa e scrittori greci, fu sempre senza paragone minore di quello delle autorità greche nella Chiesa e Scrittori ecclesiastici latini, non ostante la riconosciuta supremazia della Chiesa Romana.
(15.
Maggio 1821.)
Considerando per una parte quello che ho detto p.937.
seguenti, intorno alla naturale ristrettezza e povertà delle lingue, e come la natura avesse fortemente provveduto che l'uomo non facesse fuorchè picciolissimi progressi nel linguaggio, e che il linguaggio umano fosse limitato a pochissimi segni per servire alle sole necessità estrinseche e corporali della vita; e per l'altra parte considerando le verissime osservazioni del Soave (Appendice 1.
al capo 11.
Lib.3.
del Saggio di Locke) e del Sulzer (Osservaz.
intorno all'influenza reciproca della ragione sul linguaggio, e del linguaggio sulla ragione, nelle Memorie della R.
Accadem.
di Prussia, e nella Scelta di Opusc.
interessanti, Milano 1775.
vol.4.
p.42-102.) intorno alla quasi impossibilità delle cognizioni senza il linguaggio, e proporzionatamente della estensione e perfezione ec.
delle cognizioni, senza la perfezione, ricchezza ec.
del linguaggio; considerando, dico, tutto ciò, si ottiene una nuova e principalissima prova, di quanto il nostro presente [1054]stato e le nostre cognizioni sieno direttamente e violentemente contrarie alla natura, e di quanti ostacoli la natura vi avesse posti.
(15.
Maggio 1821.)
Come senza una lingua sono quasi impossibili le cognizioni e nozioni, massime non corporee, o immateriali, e senza una lingua ricca e perfetta, la moltitudine e perfezione delle dette cognizioni ed idee, e il perfezionamento o il semplice incremento delle lingue conferisce assolutamente a quello delle idee, conforme ha evidentemente dimostrato, oltre a tanti altri e più antichi da Locke in poi, (Sulzer, l.
cit.
qui dietro, p.101.
nota del Soave) e massime più moderni, il Sulzer nelle Osservazioni citate nella pag.
qui dietro; così proporzionatamente senza una lingua (propria) arrendevole, varia, libera ec.
è difficilissima la perfetta cognizione, e il perfetto sentimento e gusto dei segni proprii delle altre lingue, mancando o scarseggiando l'istrumento della concezione dei segni, come nell'altro caso sopraddetto, l'istrumento della concezione chiara e fissa, determinata e formata delle cose e delle idee, e della memoria di dette concezioni.
(15.
Maggio 1821.)
Non solo la greca parola ???, come dissi altrove, deriva da spirare ec.
ma anche la latina animus e quindi anima da ?????? vento.
V.
Sulzer, luogo cit.
alla pag.
qui dietro, p.62.
E l'antico significato di vento nella parola anima fu spesso usato da' latini.
(Credo massime i più antichi, o loro imitatori.) V.
il Forcellini, e il Saggio sugli Errori popol.
degli antichi.
(15.
Maggio 1821.)
[1055]Couper dee venire da ???????.
(16.
Maggio 1821.)
Quanto sia vero che la scrittura Chinese si possa quasi perfettamente intendere, senza saper punto la lingua, v.
se vuoi, Soave, Append.
2.
al Capo 11.
Lib.3.
del Compendio di Locke, Venez.
3a ediz.
t.2.
p.63.
principio.
(16.
Maggio 1821.).
L'incredulità in qualunque genere è spesso propria di chi poco sa, e poco ha pensato, per lo stesso motivo per cui questi tali non conoscono o si trovano imbrogliati nel trovar la cagione o il modo come possano esser vere tante cose che non possono negare.
Conoscendo poche cose conoscono un piccol numero di cagioni, un piccol numero di possibilità, un piccol numero di maniere di essere, o di accadere ec.
un piccol numero di verisimiglianze.
Chi oltre il sapere e il pensar poco, non ragiona, facilmente crede, perchè non si cura di cercare come quella cosa possa essere.
Ma chi, quantunque sapendo e pensando poco, tuttavia ragiona, o si picca di ragionare, non vedendo come una cosa possa essere, e sapendo che quello che non può essere, non è, non la crede; e questo non in sola apparenza, o per orgoglio, affettazione di spirito ec.
ma bene spesso in buona coscienza, e naturalmente.
(17.
Maggio 1821.)
[1056]Alla p.1038.
La lingua latina prima del detto tempo, ebbe anzi alcuni scrittori veramente insigni, e come scrittori di letteratura, e come scrittori di lingua; alcuni eziandio che nel loro genere furono così perfetti che la letteratura romana non ebbe poi nessun altro da vincerli.
Lasciando gli Oratori nominati da Cicerone e principalmente i Gracchi (o C.
Gracco), lasciando tanti altri scrittori perduti, come alcuni comici elegantissimi, basterà nominar Plauto e Terenzio che ancora ammiriamo, l'uno non mai superato in seguito da nessun latino nella forza comica, l'altro parimente non mai agguagliato nella più pura e perfetta e nativa eleganza.
E certo (se non erro) la Comedia latina dopo Cicerone e al suo stesso tempo, andò piuttosto indietro, di quello che oltrepassasse il grado di perfezione a cui era stata portata da' suoi antenati.
E pure chi mette la perfezione della lingua latina, o la sua formazione ec.
piuttosto nel secolo di Terenzio, che in quello di Cicerone e di Virgilio? E Lucrezio un secolo dopo Terenzio, si lagnava, com'è noto, della povertà della lingua latina.
Quanto più dunque dovrà valere il mio argomento per gli scrittori del 300.
De' quali eccetto 3.
soli, nessuno appartiene alla letteratura.
Ma non ostante la vastissima letteratura del 500.
non però la lingua italiana si potè ancora nè si può dire perfetta.
Non basta l'applicazione di una lingua [1057]alla letteratura per perfezionarla, ed interamente formarla.
Bisogna ancora che sia applicata ad una letteratura perfetta, e perfetta non in questo o quel genere, ma in tutti.
Altrimenti ripeto che il secolo principale della lingua latina, non sarà quello di Cicerone, ma di Plauto o di Terenzio, come secolo più antico e primitivo, e meno influito da commercio straniero.
Ora lascerò stare che in quelle medesime parti di letteratura che più soprastanno, e più furono coltivate in Italia; in quelle medesime dove noi primeggiamo su tutti i forestieri, la nostra letteratura è ben lungi ancora dalla perfezione e raffinatezza della greca e latina, che in queste tali parti sono, e furon prese effettivamente a modelli, da' nostri scrittori: e per conseguenza propriamente parlando, sono ancora imperfette.
Ma la nostra eloquenza, e più la nostra filosofia (e nella filosofia trovava povera la lingua latina Lucrezio) non sono solamente imperfette, ma neppure incominciate.
Quanti altri generi di letteratura, (prendendo questa parola nel più largo senso), e di poesia come di prosa, o ci mancano affatto, o sono in culla, o sono difettosissimi! Lasciando gl'infiniti altri, la lirica italiana, quella parte in cui l'Italia, a parere del Verri (Pref.
al Senof.
del Giacomelli), [1058]e della universalità degl'italiani, è senza emola, eccetto il Petrarca che spetta piuttosto all'elegia, chi può mostrare all'Europa senza vergogna? Gli sforzi del Parini (veri sforzi e stenti, secondo me) mostrano e quanto ci mancasse, e quanto poco si sia guadagnato.
Oltracciò supponendo che i generi coltivati da noi nel 500.
o anche nel 300.
fossero tutti perfetti, chi non sa che uno stesso genere cambiando forma ed abito, e quasi genio e natura, col cambiamento inevitabile degli uomini e de' secoli, la perfezione antica non basta ad una lingua nè ad una letteratura, s'ella non ha pure una perfezione moderna in quello stesso genere? Se Lisia fu perfetto oratore al tempo de' 30.
tiranni, Demostene ed Eschine non meno perfetti oratori a' tempi di Filippo e di Alessandro, appartengono ad una specie del genere oratorio sì diversa da quella di Lisia, che si può dire opposta (??????, e il ??????); e certo assolutamente parlando, lo vincono di molto in pregio ed in fama.
E potremmo recare infiniti esempi di tali rinnuovate e rimodernate perfezioni di uno stesso genere, nelle medesime letterature antiche, e nella stessa italiana dal 300 al 500, e forse anche dentro i limiti dello stesso 500.
Ora se la letteratura italiana non ha perfezione [1059]moderna in nessun genere, anzi se l'Italia non ha letteratura che si possa chiamar moderna, se ec.
(ricapitolate il sopraddetto) come dunque la lingua italiana si dovrà stimare perfetta, e così perfetta che non le si possa niente aggiungere di perfezione nè di ricchezza (cosa che non accade a nessuna cosa umana che pur si possa chiamare degnamente perfetta); quando è costantissimo che nessuna lingua si perfeziona se non per mezzo della letteratura? e che la perfezione delle lingue dipende capitalmente dalla letteratura?
(17.
Maggio 1821.)
La scrittura chinese non è veramente lingua scritta, giacchè quello che non ha che fare (si può dir nulla) colle parole, non è lingua, ma un altro genere di segni; come non è lingua la pittura, sebbene esprime e significa le cose, e i pensieri del pittore.
Sicchè la letteratura chinese poco o nulla può influir sulla lingua, e quindi la lingua chinese non può fare grandi progressi.
(18.
Maggio 1821.)
Non è egli un paradosso che la Religion Cristiana in gran parte sia stata la fonte dell'ateismo, o generalmente, della incredulità religiosa? Eppure io così la penso.
L'uomo naturalmente non è incredulo, perchè non ragiona molto, e non cura gran fatto delle [1060]cagioni delle cose.
(V.
p.1055.
ed altro pensiero simile, in altro luogo.) L'uomo naturalmente per lo più immagina, concepisce e crede una religione, cosa dimostrata dall'esperienza, nello stesso modo che immagina, concepisce e crede tante illusioni, ed alcune di queste, uniformi in tutti; laddove la religione è immaginata da' diversi uomini naturali in diversissime forme.
La metafisica che va dietro alle ragioni occulte delle cose, che esamina la natura, le nostre immaginazioni, ed idee ec.; lo spirito profondo e filosofico, e ragionatore, sono i fonti della incredulità.
Ora queste cose furono massimamente propagate dalla religione Giudaica e Cristiana, che insegnarono ed avvezzarono gli uomini a guardar più alto del campanile, a mirar più giù del pavimento, insomma alla riflessione, alla ricerca delle cause occulte, all'esame e spesso alla condanna ed abbandono delle credenze naturali, delle immaginazioni spontanee e malfondate ec.
V.
p.1065.
capoverso 2.
E sebben tutte le religioni sono una specie di metafisica, e quindi tutte le religioni un poco formate si possono considerare come cause dell'irreligione, ossia del loro contrario, (mirabile congegnazione del sistema dell'uomo, il quale non sarebbe irreligioso se non fosse stato religioso); contuttociò questa qualità principalmente, come ognun vede, appartiene alla Religione giudaica [1061]e Cristiana.
Ed è veramente curioso il considerare in questa medesima Religione, ed in questo medesimo nostro tempo, le fasi, le epoche, e le gradazioni dello spirito umano, tutte ancor sussistenti, ed accumulate in un medesimo secolo; e quasi una serie di generazioni, delle quali nessuna è peranche estinta, e tutte seguitano a vivere, senza lasciar di produrne delle nuove, che vivono insieme colle primitive.
Eccone quasi un albero genealogico.
RELIGIONE MAOMETTANA
RELIGIONE GIUDAICA
conservantesi ancora presso gli Ebrei, che rigettano la modificazione fattane da Gesù Cristo, e si attengono e conservano appresso a poco la sua forma primitiva
RELIGION CATTOLICA,
che conserva la forma primitiva della detta modificazione fatta da Gesù Cristo alla Religione Giudaica.
RELIGIONI LUTERANA, CALVINISTA,
ed altre sussistenti, e chiamate ereticali, che sono nuove modificazioni della detta modificazione, oltre le molte altre già estinte nello spazio di tempo intermedio fra questa e quelle, e che si sono rifuse, o perdute, parte nella primitiva Religion Cristiana, ossia nella [1062]Cattolica, parte in qualcuna delle dette ereticali.
NUOVE MODIFICAZIONI, ALTERAZIONI, SUDDIVISIONI
ancora esistenti, del Luteranismo, del Calvinismo, e d'altre simili sette.
INCREDULITÀ RELIGIOSA
che deriva primitivamente dalla Religione Giudaica (e questa ancora esistente), ma via via per mezzo delle dette successive modificazioni e quasi generazioni di essa Religione.
(18.
Maggio 1821.).
v.
p.1065.
capoverso 1.
Alla p.1034.
Altro è che la letteratura influisca sulla lingua del popolo, la modifichi, la formi, la perfezioni, quando questa lingua è sostanzialmente la stessa che la scritta; altro è che possa cambiare affatto la lingua del popolo, e fargli parlare una lingua sostanzialmente o grandemente diversa da quella che parlava; (quantunque ella possa alterare e corrompere la lingua popolare introducendoci parole e frasi appoco appoco) e ciò in tempi ne' quali la letteratura ed era debolissima, scarsissima e barbara per se stessa, e non aveva quasi alcuna influenza sulla moltitudine, e i letterati, anzi pure gli studiosi, e sopratutto gli scrittori erano rarissimi e pochissimi.
(18.
Maggio 1821.)
Quanto giovi la riflessione alla vita; quanto il sistema di profondità, di ragione, di esame, sia conforme alla natura; quanto sia favorevole, anzi compatibile [1063]coll'azione vediamolo anche da questo.
Considerando un poco, troveremo che l'abito di franchezza, disinvoltura, ec.
che tanto si raccomanda nella società, che è indispensabile pel maneggio degli affari d'ogni genere, e che costituisce una gran parte dell'abilità degli individui a questo maneggio, non è altro che l'abito di non riflettere.
Abito che il giovane alterato dall'educazione, non riesce a ricuperare se non appoco appoco, e spesso mai, specialmente s'egli ha grande ingegno, e di genere profondo e riflessivo (come quello di Goethe, il cui primo abordo dice Mad.
di Staël, ch'è sempre un peu roide finch'egli non si mette à son aise.)
Il fanciullo è sempre franco e disinvolto, e perciò pronto ed attissimo all'azione, quanto portano le forze naturali dell'età.
Le quali egli adopera in tutta la loro estensione.
Se però non è alterato dall'educazione, il che può succedere più presto o più tardi.
E tutti notano che la timidità, la diffidenza di se stesso, la vergogna, la difficoltà insomma di operare, è segno di riflessione in un fanciullo.
Ecco il bello effetto della riflessione: impedir l'azione; la confidenza; l'uso di se stesso, e delle sue forze; tanta parte di vita.
Il giovanetto alterato [1064]dall'educazione è timido, legato, irresoluto, diffidentissimo di se stesso.
Bisogna che col frequente e lungo uso del mondo, egli ricuperi quella stessa qualità che aveva già di natura, ed ebbe da fanciullo, cioè l'abito di non riflettere, senza il quale è impossibile la franchezza, e la facoltà di usar di se stesso, secondo tutta la misura del suo valore.
E ciò si vede in tutti i casi della vita, e non già nelle sole occasioni che abbisognano di coraggio, e che spettano a pericoli corporali.
Ma chi non ha ricuperato fino a un certo punto l'abito di non riflettere, non val nulla nelle conversazioni, non può nulla colle donne, nulla negli affari, e massime in quelle circostanze che portano, dirò così, un certo pericolo, non fisico, ma morale, e che abbisognano di franchezza e disinvoltura, e di una, dirò così, intrepidezza sociale.
Qualità impossibile a chi per abito riflette, e non può deporre al bisogno la riflessione, e non può abbandonarsi, e lasciar fare a se stesso, che sono le cose e più ricercate e pregiate, e più necessarie a chi vive nella società, e generalmente in quasi ogni sorta e parte di vita.
E v.
gli altri miei pensieri sulla impossibilità delle stesse azioni fisiche senza l'abito di non riflettere, [1065]abito che rispetto a queste azioni, avendolo tutti da natura, pochi lo perdono, ma perduto, rende impossibili le operazioni più materiali, e giornaliere, e naturali.
(19.
Maggio 1821.)
Alla p.1062.
La Religion Cristiana, quando anche si voglia considerare come parto della ragione umana posta nelle circostanze di quei tempi, di quei luoghi ec.
è innegabile che ha vicendevolmente influito assaissimo sopra la stessa ragione, rivoltala al profondo, all'astruso, al metafisico; propagatala forse più di quello che abbia fatto qualunque altro mezzo; e cagionato grandissima e principalissima parte de' suoi progressi.
Ora è manifesto che l'incredulità religiosa deriva dai progressi della ragione, e che quando o l'uomo, o le nazioni non ragionavano, credevano, ed erano religiose.
(19.
Maggio 1821.)
Alla p.1060.
Le religioni sono il principio, e nel tempo stesso la parte principale e più rilevante della metafisica, ed oltracciò la parte la più intensamente metafisica della medesima metafisica; appartenendo alla natura, all'ordine, alle cagioni più remote, più nascoste, e più generali delle cose.
(19.
Maggio 1821.)
Dalle mie osservazioni sulla necessaria varietà delle lingue, risulta che non solo le lingue furono naturalmente molte e diverse anche da principio, per le [1066]impressioni che le medesime cose fanno ne' diversi uomini; le diverse facoltà imitative, o le diverse maniere d'imitazione usate da' primi creatori e inventori della favella; le diverse parti, forme, generi, accidenti di una medesima cosa, presi ad imitare e ad esprimere da' diversi uomini colla parola significante quella tal cosa; (v.
Scelta di Opuscoli interessanti, Milano.
Vol.4.
p.56-57.
e p.44.
nota) ma eziandio che introdotta e stabilita una medesima favella, cioè un medesimo sistema di suoni significativi, uniformi e comuni in una medesima società; questa favella ancora, inevitabilmente si diversifica e divide appoco appoco in differenti favelle.
(19.
Maggio 1821.)
Lampa, lampo, lampare, lampante, come pure lampeggio, lampeggiare, lampeggiamento derivano manifestamente dal greco ??????? ec.
co' suoi derivati ec.
del quale, e de' quali non resta nel latino scritto altro vestigio (ch'io sappia), fuorchè la voce lampas, gr.
??????, ital.
lampada, lampade, lampana, co' suoi derivati, lampada ae, lampadion, lampadias, lampadarius.
V.
il Forcellini, e il Du Cange.
(20.
Maggio 1821.)
Quanta sia la superiorità degl'italiani nell'attitudine a conoscere e gustare la lingua latina, si può argomentare proporzionatamente dalla superiorità riconosciuta in loro, nel bello scriver latino, ossia nella imitazione [1067]degli scrittori latini, quanto alla vera e propria ed ottima lingua latina.
E certo chi è superiore nell'imitare, chi è superiore nel maneggiare e adoperare, è necessario che lo sia pure nel conoscere e nel gustare, e quella prima superiorità, suppone questa seconda.
Ora di questa superiorità degl'italiani nello scriver latino, dal Petrarca fino a oggidì, v.
Andrès t.3.
p.247-248.
e quivi le note del Loschi, p.89-92.
p.99-102.
t.4.
p.16.
e le Epist.
del Vannetti al Giorgi.
(20.
Maggio 1821.)
Le parole di qualunque genere, (cioè particelle, come re, preposizioni, come ad ec., nomi ec.) che si prepongono ai verbi nella composizione, li chiama Varrone, e dietro lui Gellio, praeverbia.
V.
Forcellini.
(20.
Maggio 1821.)
Le cause per cui la lingua greca formata fu liberissima d'indole e di fatto, a differenza della latina, sono
1.
Che la sua formazione accadde in tempi antichissimi, o si vogliano considerare quelli di Omero, o quelli di Pindaro, di Erodoto ec.
o anche quelli di Platone ec.
tempi che sebbene assai colti e civili (dico questi ultimi) anzi il fiore della civiltà greca, nondimeno conservavano ancora assai di natura.
A differenza della lingua latina formata in un tempo di piena [1068]adulta e matura, anzi corrotta civiltà, universale nella nazione; negli ultimi tempi di Roma, nella sua decadenza morale, nel tempo ch'era già cominciata la servitù degli animi romani; nell'ultima epoca dell'antichità.
2.
Anche la lingua latina si andò formando appoco appoco, ed ebbe buoni ed insigni scrittori prima del suo secolo d'oro.
Ma la lingua greca non ebbe propriamente secolo d'oro.
I suoi scrittori antichissimi non furono inferiori ai moderni, nè i moderni agli antichi.
Da Omero a Demostene non v'è differenza di autorità o di fama rispetto alla letteratura greca in genere, ed alla lingua.
Questo fece che nessun secolo della Grecia (finch'ella fu qualche cosa) dipendesse da un altro secolo passato in fatto di letteratura.
Non vi fu secol d'oro, tutti i secoli letterati e non corrotti della Grecia competerono fra loro, e nel fatto e nell'opinione.
Quindi la perpetua conservazione, la radicazione profonda della libertà della loro letteratura, e della loro lingua.
Dico della libertà sì d'indole che di fatto.
Non così è accaduto alla lingua italiana, sebben libera per indole della sua formazione.
Ma ella ebbe i suoi secoli d'oro come la latina.
Laddove la lingua e letteratura greca, si andò [1069]via via perfezionando e formando e crescendo insensibilmente, e quasi con egual misura in ciascun tempo, così che nessun secolo potè vantarsi di averla formata, come succede all'italiano, al francese ec.
e come successe al latino.
In maniera che non si stimò mai che i suoi progressi dovessero esser finiti, perchè non s'erano veduti tutti raccolti con soverchio splendore e superiorità in una sola epoca.
3.
È già noto che le regole nascono quando manca chi faccia.
Ma in Grecia non mancò fino agli ultimi tempi della sua esistenza politica.
E sebbene allora nacquero (o almeno si propagarono e crebbero) anche fra' greci le regole, e le arti gramatiche, ec.
ec.
nondimeno il lungo uso e consolidamento della sua libertà rispetto alla lingua, impedì che le regole le nuocessero, sebbene non così accadde alla letteratura.
Laddove la letteratura latina quasi spirata con Virgilio, e col di lei secolo d'oro, e parimente l'italiana, lasciarono largo e libero campo alle regole, ed a tutti i beatissimi effetti loro.
Giacchè sebbene il 500.
non mancava di regole (ne mancò però del tutto il 300.), quelle non aveano che fare coll'esattezza e finezza ec.
[1070]e servilità delle posteriori, e si possono paragonare (massime in fatto di lingua) a quelle che in fatto di rettorica o di poetica ec.
ebbero anche i greci ne' migliori tempi.
Che se i latini n'ebbero di molte e precise, perchè le riceverono dai greci già fatti gramatici e rettorici, questa è pure una delle ragioni della poca libertà della loro lingua formata ec.
ec.
e resta compresa nella soverchia civiltà di quel tempo, che ho già addotta da principio, come cagione di detta poca libertà.
(20.
Maggio 1821.).
V.
p.743-746.
principio.
Quello che ho detto intorno alla novità delle parole cavate dalla propria lingua, si deve anche applicare alla novità de' sensi e significati d'una parola già usitata, alla novità delle metafore ec.
V.
Scelta di opuscoli interessanti.
Milano.
vol.4.
p.54.58-61.
I quali nuovi e diversi significati d'una stessa parola, non denno però esser tanti che dimostrino povertà, e producano confusione, ed ambiguità, come nell'Ebraico.
(20.
Maggio 1821.)
Alla p.807.
marg.
Dice Varrone che gli uomini (in sermones non solum latinos, sed omnium hominum necessaria de causa) Imposita nomina esse voluerunt quam paucissima, quo citius ediscere possent, intendendo per nomi imposti, le parole radicali (Varro, De ling.
lat.
lib.7.) (p.2.
del I.
libro de Analogia nella ediz.
che ho del 400).
[1071]
(21.
Maggio 1821.)
Un antichissimo significato della parola inter che ordinariamente è preposizione, e in questo caso sembra essere stata usata avverbialmente, significato non osservato dai Gramatici nè da' Lessicografi (il Forcellini non ne fa parola alla v.
Inter, benchè citi molti gramatici), fu quello di quasi, mezzo, e simili.
Del qual significato resta un evidente vestigio nelle parole intermorior, intermortuus, mezzo morto, che anche noi diciamo tramortire, tamortito, e quindi tramortigione, tramortimento.
Ora questo antichissimo significato, dimenticato fino dai gramatici latini, e di cui negli scrittori latini non si trova, ch'io sappia, altra ricordanza che la sopraddetta, si conservò alla voce inter, nel latino volgare, sino a passar nella lingua francese, che nello stessissimo senso l'adopra nella composizione di alcuni verbi come entr'ouvrir, entrevoir ec.
Ell'signifie aussi dans la composition de quelques verbes une action diminutive, dice l'Alberti della preposizione entre, che è lo stesso che inter.
Nè si creda che questo significato sia rimasto in francese alla detta parola, solamente in alcuni verbi che questa lingua abbia presi dal latino, già così composti e formati, e colla detta significazione.
[1072]Giacchè 1.
i detti verbi così composti, e col detto senso non si trovano nel latino, se non ci volessimo tirare il verbo interviso, che ha veramente un altro significato da quello di voir imparfaitement ec.
dell'entrevoir (v.
l'Alberti.).
Sicchè in ogni modo questi verbi non trovandosi negli scrittori latini, si verrebbero a dimostrar derivati dall'uso latino volgare.
2.
La parola entre nel detto senso si trova anche, nella composizione, unita a parole non latine affatto, come in entre-baillé, mezzo chiuso, o socchiuso.
Laonde è manifesto che il detto significato passò dall'antichissimo latino al francese, (certo non per altro mezzo che del volgare latino) come propriamente aderente alla parola entre, quantunque nella sola composizione.
Si potrebbono anche riferir qua le nostre parole traudire, e travedere, (co' derivati) che vagliono ingannarsi nell'udire o nel vedere, cioè vedere a mezzo, vedere imperfettamente, come entrevoir, sebbene fissate ad un senso derivativo da questo primo.
(21.
Maggio 1821.).
V.
il Du Cange, se ha nulla al proposito.
Alla p.362.
Immaginiamoci un pastore primitivo o selvaggio, privo di favella, o di nomi numerali che volesse, com'è naturale, rassegnare la sera il suo gregge.
Non potrebbe assolutamente farlo se non in maniera materialissima; come porre la mattina tutte le pecore in [1073]fila, e misurato o segnato lo spazio che occupano, riordinarle la sera nello stesso luogo, e così ragguagliarle.
Ovvero, che è più verisimile, raccorre, poniamo caso, tanti sassi quante sono le pecore: il che fatto, non potrebbe mica ragguagliarle esattamente coi sassi mediante veruna idea di quantità.
Perchè non potendo contare nè quelle nè questi, molto meno potrebbe formare nessun concetto della relazione scambievole o del ragguaglio di due quantità numeriche determinate: anzi non conoscerebbe quantità numerica determinata.
Converrebbe che si servisse di un'altra maniera materialissima, come porre da parte prima una pecora ed un sasso, indi un'altra pecora e un altro sasso, e così di mano sino all'ultima pecora, e sino all'ultimo sasso.
V.
p.2186.
principio.
Certo è che l'invenzione dei nomi numerali fu delle più difficili, e l'una delle ultime invenzioni de' primi trovatori del linguaggio.
L'idea di quantità, non solo assoluta e indeterminata (anzi questa è meno difficile, essendo materiale e sensibile l'idea del più e del meno, e quindi della quantità indeterminata), ma anche determinata, anche relativa a cose materialissime, considerandola bene, è quasi totalmente astratta e metafisica.
Quando noi vediamo le cinque dita della mano, ne concepiamo subito il numero, [1074]perchè l'idea del numero è collegata nella mente nostra mediante l'abito, e l'uso della favella, coll'idea che ci suscita il vedere una quantità d'individui facili a contare, o di cui già sappiamo il numero.
E l'idea di contare vien dietro alla detta vista, per la detta ragione.
Non così l'uomo privo de' nomi numerali.
Egli vede quelle cinque dita come tante unità, che non hanno fra loro alcuna relazione o attinenza numerica (come in fatti non l'hanno per se stesse), componenti una quantità indefinita (della quale non concepisce se non se un'idea confusa, com'è naturale trattandosi d'indefinito) e non gli si affaccia neppure al pensiero l'idea di poterla determinare, o di contare quelle dita.
Meno metafisica è l'idea dell'ordine.
Giacchè (seguitando a servirci dell'esempio della mano) che il pollice, ossia il primo dito, stia nel principio della serie, che l'indice, cioè il secondo dito, venga dopo quello che è nel principio della mano, cioè il pollice, e che il medio cioè il terzo succeda a questo dito, e sia distante dal pollice un dito d'intervallo; sono cose che cadono sotto i sensi, e che destano facilmente l'idea di primo di secondo e di terzo e via discorrendo.
Lo stesso potremmo dire di un filare d'alberi ec.
Così che io non credo che le denominazioni de' numeri ordinativi non abbiano preceduto nelle lingue primitive quelle de' cardinali (contro ciò che pare a prima vista, e che forse è seguito nelle lingue colte ec.); e che in dette lingue [1075]la parola secondo si sia pronunziata prima che la parola due.
Perchè la parola secondo esprime un'idea materiale, e derivata da' sensi, e naturale, cioè quella cosa che sta dopo ciò che è nel principio, laonde la forma di quest'idea sussiste fuori dell'intelletto.
Infatti nel latino, posterior vuol dire secundus ordine, loco, tempore (Forcellini), e così propriamente il greco ???????: ????????? ?? ?????? ????????? ??? ?????????? ??? ??????.
Plutarco, Convival.
Disputat.
l.8.
(Scapula) quantunque possa venir dopo, o dietro, anche quello che non è secondo.
Così pure nell'italiano posteriore ec.
Ma la parola due significa un'idea la cui forma non sussiste se non che nel nostro intelletto, quando anche sussistano fuori di esso le cose che compongono questa quantità, colla quale tuttavia non hanno alcuna relazione sensibile, materiale, intrinseca o propria loro, ed estrinseca alla concezione umana.
V.
l'Encyclopédie méthodique.
Métaphisique.
art.
nombres, preso, io credo, da Locke.
Quella cosa che è nel principio, ha una ragione propria per esser chiamata prima, e quella che gli sta dopo, per esser chiamata seconda, cioè posteriore: così che questi nomi ordinali sono relativi alle cose.
Ma quella non ha ragione propria perchè l'uomo nel contare la chiami uno, e quest'altra due; e questi nomi cardinali non sono relativi alle cose reali, ma alla quantità, che è solamente idea, ed è separata dalle cose, nè sussiste fuori dell'intelletto.
(22.
Maggio 1821.).
V.
p.1101.
fine.
Quelli che non sogliono mai far nulla, e che per conseguenza hanno più tempo libero, e da potere impiegare, sono ordinariamente i più difficili a trovare il tempo per una [1076]occupazione, ancorchè di loro premura, a ricordarsi di una cosa che bisogni fare, di una commissione che loro sia stata data, e che anche prema loro di eseguire.
Al contrario quelli che hanno la giornata piena, e quindi meno tempo libero, e più cose da ricordarsi.
La cagione è chiara, cioè l'abito di negligenza nei primi, e di diligenza nei secondi (22.
Maggio 1821.).
E lo stesso differente effetto si vede anche in una stessa persona, secondo i diversi abiti e metodi temporanei di attività e diligenza, o inattività e negligenza.
Alla p.761.
Anzi questa facoltà de' composti di due o più voci, è proprissima anche oggidì del linguaggio italiano familiare (e credo anzi del linguaggio familiare di tutte le nazioni, massime popolare): e specialmente del toscano lo è stato sempre, e lo è.
Il qual dialetto vi ha molta e facilità e grazia; e il discorso ne riceve una elegante e pura novità, ed una singolare efficacia; come tagliacantoni, ammazzasette, pascibietola, (del Passavanti) frustamattoni, perdigiorno, pappalardo e simili voci burlesche o familiari antiche e moderne.
Sicchè non si può dire che questa medesima facoltà sia neppur oggi perduta: (giacchè sarebbe ridicolo l'impedire di fare altri composti simili ec.) nè che la nostra lingua non ci abbia attitudine; e neppure che non si possano estendere oltre al burlesco o familiare, giacchè il burlesco o familiare di questi composti deriva non tanto dalla composizione, quanto dalla natura delle voci che li formano.
Ma altre voci, purchè fosse fatto con giudizio, e senza eccesso [1077]di lunghezza, nè forzatura delle parti componenti, si potrebbero benissimo comporre allo stesso modo, senza toglier nulla alla gravità, nè indurre nessuna apparenza di buffonesco o di plebeo.
E così fece giudiziosamente il Cesarotti nell'Iliade, e credo anche nell'Ossian.
Omero, Dante, e tutti i grandi formano nomi dalle cose.
Quintiliano, e tutti i Gramatici l'approvano: quando calzino appunto, come qui, dove Tiberio schernisce la cinquannaggine, che Gallo voleva, de' magistrati.
Davanzati (Annali di Tacito Lib.2.
c.36.
postilla 3.) in proposito del verbo incinquare da lui formato per rendere il latino quinquiplicare di Tacito.
(23.
Maggio 1821.).
Era però già stato usato da Dante.
Il tempo di Luigi decimoquarto e tutto il secolo passato, fu veramente l'epoca della corruzione barbarica delle parti più civili d'Europa, di quella corruzione e barbarie, che succede inevitabilmente alla civiltà, di quella che si vide ne' Persiani e ne' Romani, ne' Sibariti, ne' Greci ec.
E tuttavia la detta epoca si stimava allora, e per esser freschissima, si stima anche oggi, civilissima, e tutt'altro che barbara.
Quantunque il tempo [1078]presente, che si stima l'apice della civiltà, differisca non poco dal sopraddetto, e si possa considerare come l'epoca di un risorgimento dalla barbarie.
Risorgimento incominciato in Europa dalla rivoluzione francese, risorgimento debole, imperfettissimo, perchè derivato non dalla natura, ma dalla ragione, anzi dalla filosofia, ch'è debolissimo, tristo, falso, non durevole principio di civiltà.
Ma pure è una specie di risorgimento; ed osservate che malgrado la insufficienza de' mezzi per l'una parte, e per l'altra la contrarietà ch'essi hanno colla natura; tuttavia la rivoluzione francese (com'è stato spesso notato), ed il tempo presente hanno ravvicinato gli uomini alla natura, sola fonte di civiltà, hanno messo in moto le passioni grandi e forti, hanno restituito alle nazioni già morte, non dico una vita, ma un certo palpito, una certa lontana apparenza vitale.
Quantunque ciò sia stato mediante la mezza filosofia, strumento di civiltà incerta, insufficiente, debole, e passeggera per natura sua, perchè la mezza filosofia, tende naturalmente a crescere, e divenire perfetta filosofia, ch'è fonte di barbarie.
Applicate a questa osservazione le barbare e ridicolissime e mostruose mode (monarchiche e feudali), come guardinfanti, pettinature d'uomini e donne ec.
ec.
che regnarono, almeno in Italia, fino agli ultimissimi anni del secolo passato, e furono distrutte in un colpo dalla rivoluzione (V.
la lettera di Giordani a Monti §.4.) E vedrete che il secolo presente è l'epoca di un vero risorgimento da una vera barbarie, anche nel gusto; e qui può anche notarsi quel tale raddrizzamento della letteratura in Italia oggidì.
(23.
Maggio 1821.).
V.
p.1084.
Altro esempio e conseguenza dell'odio nazionale presso gli antichi.
Ai tempi antichissimi, quando il mondo non era sì popolato, che non si trovasse [1079]facilmente da cambiar sede, le nazioni vinte, non solo perdevano libertà, proprietà ec.
ma anche quel suolo che calpestavano.
E se non erano portate schiave; o tutte intere, o quella parte che avanzava alla guerra, alla strage susseguente, e alla schiavitù, se n'andava in esilio.
E ciò tanto per volontà loro, non sopportando in nessun modo di obbedire al vincitore, e volendo piuttosto mancar di tutto, e rinunziare ad ogni menoma proprietà passata, che dipendere dallo straniero: parte per forza, giacchè il vincitore occupava le terre e i paesi vinti non solo col governo e colle leggi, non solo colla proprietà o de' campi o de' tributi ec.
ma interamente e pienamente col venirci ad abitare, colle colonie ec.
col mutare insomma nome e natura al paese conquistato, spiantandone affatto la nazione vinta, e trapiantandovi parte della vincitrice.
Così accadde alla Frigia, ad Enea ec.
o se non vogliamo credere quello che se ne racconta, questo però dimostra qual fosse il costume di que' tempi.
(23.
Maggio 1821.)
Alla p.366.
In una macchina vastissima e composta d'infinite parti, per quanto sia bene e studiosamente fabbricata e congegnata, non possono non accadere dei disordini, massime in lungo spazio di tempo; disordini [1080]che non si possono imputare all'artefice, nè all'artifizio; e ch'egli non poteva nè prevedere distintamente nè impedire.
V.
p.1087.
fine.
Di questo genere sono quelli che noi chiamiamo inconvenienti accidentali nell'immenso e complicatissimo sistema della natura, e nella sua lunghissima durata.
Che sebben questi non ci paiano sempre minimi, bisogna considerarli in proporzione della detta immensità, e complicazione, e della gran durata del tempo.
Per iscusarne da una parte la natura, e dall'altra parte, per conoscere se sieno veramente accidentali e contrari al sistema e non derivati da esso, basta vedere se si oppongono all'andamento prescritto e ordinato primitivamente dalla natura alle cose, e se ella vi ha opposti tutti gli ostacoli compatibili, che spesso possono riuscire insufficienti come nella macchina la meglio immaginata e lavorata.
Quando noi dunque nella infelicità dell'uomo troviamo una opposizione diretta col sistema primitivo, e scopriamo che la natura vi aveva opposti infiniti e studiatissimi ostacoli, e che ci è bisognato far somma forza alla natura, all'ordine primitivo ec.
e lunghissima serie di secoli per ridurci a questa infelicità; allora essa infelicità per grande, e universale, e durevole, ed anche irrimediabile ch'ella sia, non si può considerare [1081]come inerente al sistema, nè come naturale.
Nè dobbiamo lambiccarci il cervello per metterla in concordia col sistema delle cose (il che è impossibile), nè immaginare un sistema sopra questi inconvenienti, un sistema fondato sopra gli accidenti, un sistema che abbia per base e forma le alterazioni accidentalmente fatteci, un sistema diretto a considerare come necessarie e primitive, delle cose accidentali e contrarie all'ordine primordiale: ma dobbiamo riconoscere formalmente l'opposizione che ha la nostra infelicità col sistema della natura; e la differenza che corre fra esso, fra gli effetti suoi, e gli effetti della sua alterazione e depravazione parziale e accidentale.
Lasciando che molti inconvenienti che son tali per alcuni esseri, non lo sono per altri; e molti che lo sono per alcuni sotto un aspetto, non lo sono per li medesimi sotto un altro aspetto ec.
ec.
Dimostrando dunque i diversissimi e gagliardissimi ostacoli opposti dalla natura al nostro stato presente, io vengo a dimostrare che questo (e l'infelicità dell'uomo che ne deriva) è accidentale, e indipendente dal sistema della natura, e contrario all'ordine delle cose, e non essenziale ec.
(23.
Maggio 1821.).
V.
p.1082.
[1082]Se fosse veramente utile, anzi necessario alla felicità e perfezione dell'uomo il liberarsi dai pregiudizi naturali (dico i naturali, e non quelli figli di una corrotta ignoranza), perchè mai la natura gli avrebbe tanto radicati nella mente dell'uomo, opposti tanti ostacoli alla loro estirpazione, resa necessaria sì lunga serie di secoli ad estirparli, anzi solamente a indebolirli; resa anche impossibile l'estirpazione assoluta di tutti, anche negli uomini più istruiti, e in quelli stessi che meglio li conoscono; e finalmente ordinato in guisa che anche oggi (lasciando i popoli incolti) in una grandissima, anzi massima parte degli stessi popoli coltissimi, dura grandissima parte di tali pregiudizi che si stimano direttamente contrari al ben essere ed alla perfezione dell'uomo? Anzi perchè mai gli avrebbe solamente posti nella mente dell'uomo da principio?
(24.
Maggio 1821.).
Alla p.1081.
fine.
Per lo contrario, dimostrando come le illusioni ec.
ec.
ec.
sieno state direttamente favorite dalla natura, come risultino dall'ordine delle cose ec.
ec.
vengo a dimostrare ch'elle appartengono sostanzialmente al sistema naturale, e all'ordine delle cose, e sono essenziali e necessarie alla felicità e perfezione dell'uomo.
(24.
Maggio 1821.)
[1083]Alla considerazione della grazia derivante dallo straordinario, spetta in parte il vedere che uno de' mezzi più frequenti e sicuri di piacere alle donne, è quello di trattarle con dispregio e motteggiarle ec.
Il che anche deriva da un certo contrasto ec.
che forma il piccante.
E ancora dall'amor proprio messo in movimento, e renduto desideroso dell'amore e della stima di chi ti dispregia, perch'ella ti pare più difficile, e quindi la brami di più ec.
E così accade anche agli uomini verso le donne o ritrose, o motteggianti ec.
(24.
Maggio 1821.)
Stante l'antico sistema di odio nazionale, non esistevano, massime ne' tempi antichissimi, le virtù verso il nemico, e la crudeltà verso il nemico vinto, l'abuso della vittoria ec.
erano virtù, cioè forza di amor patrio.
Da ciò si vede quanto profondi filosofi e conoscitori della storia dell'uomo, sieno quelli che riprendono Omero d'aver fatto i suoi Eroi troppo spietati e accaniti col nemico vinto.
Egli gli ha fatti grandissimi e virtuosissimi nel senso di quei tempi, dove il nemico della nazione era lo stesso, che oggi è per li Cristiani il Demonio, il peccato ec.
Nondimeno Omero che pel suo gran genio ed anima sublime e poetica, concepiva anche in que' suoi tempi antichissimi la bellezza della misericordia verso il nemico, della generosità verso il vinto ec.
considerava però questo bello come figlio della sua immaginazione, e fece che Achille con grandissima difficoltà si piegasse ad usar misericordia a Priamo supplichevole nella sua tenda, e al corpo di Ettore.
Difficoltà che a noi pare assurda.
(E quindi incidentemente inferite l'autenticità [1084]di quell'Episodio, tanto controverso ec.) Ma a lui, ed a' suoi tempi pareva nobile, naturale e necessaria.
E notate in questo proposito la differenza fra Omero e Virgilio.
(24.
Maggio 1821.)
Alla p.1078.
Riferite a questo (per altro effimero e debole e falso) risorgimento della civiltà, la mitigazione del dispotismo, e la intolleranza del medesimo più propagata: il perfezionamento di quello che si chiama sentimentale, perfezionamento che data dalla rivoluzione: il risorgimento di certe idee cavalleresche, che come tali si mettevano in pieno ridicolo nel 700, e in parte del 600 (come nei romanzi di Marivaux ec.); al qual proposito è noto che il Mariana attribuisce al Don Chisciotte (che è quanto dire al ridicolo sparso sulle forti e vivaci e dolci illusioni) l'indebolimento del valore (e quindi della vita nazionale, e gli orribili progressi del dispotismo) fra gli spagnuoli.
Ho detto il Mariana, e così mi pare.
Trovo però lo stesso pensiero nel P.
d'Orléans Rivoluz.
di Spagna lib.9.
Ma il Mariana mi par citato a questo proposito dalla march.
Lambert, Réflex.
nouvelles sur les femmes.
e così di tante altre opinioni e pregiudizi sociali, ma nobili, dolci e felici ec.
che ora non si ardisce di porre in ridicolo, com'era moda in quei tempi: un certo maggiore rispetto alla religione de' nostri avi ec.
ec.
Cose tutte che dimostrano un certo ravvicinamento del mondo alla natura, ed alle opinioni e sentimenti naturali, ed alcuni passi fatti indietro, sebbene languidamente, e per miseri e non vitali, anzi mortiferi principii, cioè il progresso della ragione, della filosofia, de' lumi.
(24.
Maggio 1821.)
Una delle prove evidenti e giornaliere che il bello non sia assoluto, ma relativo, è l'essere da tutti riconosciuto che la bellezza non si può dimostrare [1085]a chi non la vede o sente da se: e che nel giudicare della bellezza differiscono non solo i tempi da' tempi, e le nazioni dalle nazioni, ma gli stessi contemporanei e concittadini, gli stessi compagni differiscono sovente da' compagni, giudicando bello quello che a' compagni par brutto, e viceversa.
E convenendo tutti che non si può convincere alcuno in materia di bellezza, vengono in somma a convenire che nessuno de' due che discordano nell'opinione, può pretendere di aver più ragione dell'altro, quando anche dall'una parte stieno cento o mille, e dall'altra un solo.
Tutto ciò avviene sì nelle cose che cadono sotto i sensi, e queste o naturali, o, massimamente, artificiali, sì nella letteratura ec.
ec.
V.
a questo proposito il P.
Cesari, Discorso ai lettori premesso al libro De ratione regendae provinciae, Epistola M.
T.
Cic.
ad Q.
Fratrem, cum adnott.
et italica interpretat.
Jacobi Facciolati; accedit nupera eiusdem interpretatio A.
C..
Verona, Ramanzini.
Ovvero lo Spettatore di Milano, Quaderno 75.
p.177.
dove è riportato il passo di detto discorso che fa al mio proposito.
(25.
Maggio 1821.)
Parecchi filosofi hanno acquistato l'abito [1086]di guardare come dall'alto il mondo, e le cose altrui, ma pochissimi quello di guardare effettivamente e perpetuamente dall'alto le cose proprie.
Nel che si può dire che sia riposta la sommità pratica, e l'ultimo frutto della sapienza.
(25.
Maggio 1821.)
Della difficilissima invenzione di una lingua che avesse pure qualche forma sufficiente al discorso, e come questa debbe essere stata opera quasi interamente del caso, v.
le Osservazioni ec.
del Sulzer nella Scelta di Opusc.
interessanti.
Milano.
1775.
Vol.4.
p.90-100.
(25.
Maggio 1821.)
Siccome la perfezione gramaticale di una lingua dipende dalla ragione e dal GENIO (la lingua francese è perfetta dalla parte della ragione, ma non da quella del genio), così ella può servire di scala per misurare il grado della ragione e del GENIO ne' vari popoli.
(Con questa scala il genio francese sarà trovato così scarso e in così basso grado, come in alto grado la ragione di quel popolo.) Se per esempio non avessimo altri monumenti che attestassero il GENIO FELICE de' Greci, la loro lingua pur basterebbe.
(Lo stesso potremo dire degl'italiani avuto riguardo alla proporzione de' tempi moderni, che [1087]non sono quelli del genio, coi tempi antichi.) Quando una lingua, generalmente parlando, (cioè non di una o più frasi, di questa o quella finezza in particolare, ma di tutte in grosso) è insufficiente a rendere in una traduzione le finezze di un'altra lingua, egli è una prova sicura che il popolo per cui si traduce ha lo spirito men coltivato che l'altro.
(Che diremo dunque dello spirito de' francesi dalla parte del genio? La cui lingua è insufficiente a rendere le finezze non di una sola, ma di tutte le altre lingue? Che la Francia non abbia avuto mai, v.
p.1091.
nè sia disposta per sua natura ad avere geni veri ed onnipotenti, e grandemente sovrastanti al resto degli uomini, non è cosa dubbia per me, e lo viene a confessare implicitamente il Raynal.
Dico geni sviluppati, perchè nascerne potrà certo anche in Francia, ma svilupparsi non già, stante le circostanze sociali di quella nazione.) Sulzer ec.
l.
cit.
qui dietro.
p.97.
(25.
Maggio 1821.)
Alla p.1080.
marg.
Lo stesso diremo delle costituzioni, de' regolamenti, delle legislazioni, de' governi, degli statuti (o pubblici o particolari di qualche corpo o società ec.); i quali per ottimamente e minutamente formati che possano essere, e dagli uomini i più esperti e previdenti, non può mai fare che nella pratica non soggiacciano a più o meno inconvenienti; [1088]che non s'incontrino dei casi dalle dette legislazioni ec.
non preveduti, o non provveduti, o non potuti prevedere o provvedere; e che anche supposto che il tutto fosse provveduto, e preveduto tutto il possibile, la pratica non corrisponda perfettamente all'intenzione, allo spirito e alla stessa disposizione dei detti stabilimenti.
Insomma non v'è ordine nè disposizione nè sistema al mondo, così perfetto, che nella sua pratica non accadano molti inconvenienti, e disordini, cioè contrarietà con esso ordine.
Ed uno degli errori più facili e comuni, e al tempo stesso principali, è di credere che le cose, come vanno, così debbano andare, e così sieno ordinate perchè così vanno; e dedurre interamente l'idea di quel tal ordine o sistema, da quanto spetta ed apparisce nel suo uso, andamento, esecuzione ec.
Nella quale non possono mancare moltissimi accidenti e sconvenienze, non per questo imputabili al sistema.
Accidenti e sconvenienze che sono molto maggiori, e più gravi e sostanziali, e più numerose nei sistemi, ordini, macchine ec.
che son opera dell'uomo (per ottima che possa essere), artefice tanto inferiore alla natura e per arte e per potenza.
Maggiori però e più numerosi proporzionatamente, cioè rispetto alla piccolezza e poca importanza, [1089]durata ec.
di detti sistemi umani, paragonati colla immensità ec.
del sistema della natura.
Nel quale, assolutamente parlando, possono occorrere e occorrono inconvenienti accidentali molto maggiori e numerosi che in qualunque sistema umano, sebbene assai minori relativamente.
(26.
Maggio 1821.)
A quello che ho detto altrove della ragionevolezza, anzi necessità di un sistema a chiunque pensi, e consideri le cose; si può aggiungere, che infatti poi le cose hanno certo un sistema, sono ordinate secondo un sistema, un disegno, un piano.
Sia che si voglia supporre tutta la natura ordinata secondo un sistema, tutto legato ed armonico, e corrispondente in ciascuna sua parte; ovvero divisa in tanti particolari sistemi, indipendenti l'uno dall'altro, ma però ben armonici e collegati e corrispondenti nelle loro parti rispettive; certo è che l'idea del sistema, cioè di armonia, di convenienza, di corrispondenza, di relazioni, di rapporti, è idea reale, ed ha il suo fondamento, e il suo soggetto nella sostanza, e in ciò ch'esiste.
Così che gli speculatori della natura, e delle cose, se vogliono arrivare al vero, bisogna che trovino sistemi, giacchè le cose e la natura sono infatti sistemate, e ordinate armonicamente.
Potranno errare, prendendo per sistema reale e naturale, un sistema immaginario, o anche [1090]arbitrario, ma non già nel cercare un sistema.
Sarà falso quel tal sistema, non però l'idea ch'esso include, che la natura e le cose sieno regolate e ordinate in sistema.
Chi sbandisce affatto l'idea del sistema, si oppone all'evidenza del modo di esistere delle cose.
Chi dispera di trovare il sistema o i sistemi veri della natura, e però si contenta di considerare le cose staccatamente (se pur v'ha nessun pensatore che, non dico si contenga, ma si possa contenere in questo modo), sarà compatibile, ed anche lodevole.
Ma oltre ch'egli ponendo per base la disperazione di conoscere il vero sistema, ha posto per base la disperazione di conoscere la somma della natura, e il più rilevante delle cose, si ponga mente al pensiero seguente, che farà vedere un altro capitalissimo inconveniente del rinunziare alla ricerca del sistema naturale e vero delle cose.
(26.
Maggio 1821.)
Non si conoscono mai perfettamente le ragioni, nè tutte le ragioni di nessuna verità, anzi nessuna verità si conosce mai perfettamente, se non si conoscono perfettamente tutti i rapporti che ha essa verità colle altre.
E siccome tutte le verità e tutte le cose esistenti, sono legate fra loro assai più strettamente ed intimamente ed essenzialmente, di quello che creda o possa credere [1091]e concepire il comune degli stessi filosofi; così possiamo dire che non si può conoscere perfettamente nessuna verità, per piccola, isolata, particolare che paia, se non si conoscono perfettamente tutti i suoi rapporti con tutte le verità sussistenti.
Che è come dire, che nessuna (ancorchè menoma, ancorchè evidentissima e chiarissima e facilissima) verità, è stata mai nè sarà mai perfettamente ed interamente e da ogni parte conosciuta.
(26.
Maggio 1821.)
Così, senza la condizione detta qui sopra, non si conoscono mai, nè tutte le premesse che conducono a una conseguenza, cioè alla cognizione di una tal verità, nè tutta la relazione e connessione, o tutte le relazioni e connessioni che hanno le premesse anche conosciute, colla detta conseguenza.
(26.
Maggio 1821.)
Alla p.1087.
Eccetto alcuni ben pochi, come Descartes, Pascal ec.
ed altri tali, nessuno de' quali appartiene propriamente alla provincia del genio, anzi a quelle cose che lo distruggono, cioè alle scienze, ed al vero, tanto più nemico del genio, quanto più profondo e riposto, benchè non iscavato nè scoperto, se non dal genio.
(26.
Maggio 1821.)
[1092]Alla p.894.
marg.
Riferite pure agli stessi principii il danno, le stragi, la miseria, l'impotenza p.e.
dell'Italia ne' bassi tempi, di quell'Italia ch'era per altro animata di sì vivo, sì attivo, e spesso sì eroico amor di patria.
Ma di patria oscura, debole, piccola, cioè le repubblichette, e le città, e le terre nelle quali era divisa allora la nazione, formando tante nazioni, tutte, com'è naturale, nemiche scambievoli.
Dal che nasceva l'oscurità, la debolezza, la piccolezza delle virtù patrie, e il poco splendore dello stesso eroismo esistente.
Riferite agli stessi principii, cioè alla soverchia divisione e piccolezza, e alla conseguente moltiplicità delle nimicizie, il famosissimo danno, e l'estrema miseria del sistema feudale.
Riferitevi parimente il danno riconosciuto da tutti i savi oggidì nel soverchio amore delle patrie private, cioè delle città, ovvero anche delle provincie natali.
Danno pur troppo ed evidente e gravissimo oggi in Italia, per naturale conseguenza della sua divisione non solo statistica o territoriale, (come ogni regno ec.) ma politica.
Ed è osservabile che l'amor patrio (intendo delle patrie private) regna oggi in Italia tanto più fortemente e radicatamente, quanto è maggiore o l'ignoranza, o il poco commercio, o la piccolezza di ciascuna città, o terra, o provincia (come la Toscana); insomma in proporzione [1093]del rispettivo grado di civiltà e di coltura.
E in alcune delle più piccole città d'Italia l'amor patrio, e l'odio de' forestieri è veramente accanito.
E così proporzionatamente in Toscana, paese pur troppo rimaso indietro nella coltura artificiale, non si sa come.
E lo stesso dico degl'individui più ignoranti ec.
(26.
Maggio 1821.)
La letteratura di una nazione, la quale ne forma la lingua, e le dà la sua impronta, e le comunica il suo genio, corrompendosi, corrompe conseguentemente anche la lingua, che le va sempre a fianco e a seconda.
E la corruzione della letteratura non è mai scompagnata dalla corruzione della lingua, influendo vicendevolmente anche questa sulla corruzione di quella, come senza fallo, anche lo spirito della lingua contribuisce a determinare e formare lo spirito della letteratura.
Così è accaduto alla lingua latina, così all'italiana nel 400, nel 600, e negli ultimi tempi, così pure nel 600, e negli ultimi tempi alla spagnuola: tutte corrotte al corrompersi della rispettiva letteratura.
Eppure la lingua greca, con esempio forse unico, corrotta, anzi, dirò, imputridita la letteratura, si mantenne incorrotta [1094]più secoli, e molto altro spazio poco alterata, come si può vedere in Libanio, in Imerio, in S.
Gregorio Nazianzeno, e altri tali sofisti più antichi o più moderni di questi, che sono corrottissimi nel gusto, e non corrotti o leggermente corrotti nella lingua.
Tanta era per una parte la libertà, la pieghevolezza, e dirò così la capacità della lingua greca formata, che poteva anche essere applicata a pessimi stili, senza allontanarsi dall'indole della sua formazione, e senza perdere le sue forme proprie, e il suo naturale; ed essere adoperata da una letteratura guasta senza guastarsi essa stessa, adattandosi tanto al buono come al cattivo, e ricevendo nella immensa capacità delle sue forme, e nella sua varietà, copia e ricchezza, sì l'uno come l'altro.
Simile in ciò all'italiana, dove si può scrivere purissimamente cose di pessimo gusto, ed usare un pessimo stile, in ottima o non corrotta lingua, come ho detto altrove.
Dal che nasce la difficoltà di scriver bene in italiano, a differenza del francese, che avendo una sola lingua, ha anche un solo stile, e chiunque scrive in francese, non può non iscrivere in istile appresso a poco, buono.
E però non dobbiamo farci maraviglia di quello che dicono, che tutti i francesi più o meno scrivono bene.
[1095]Tanta per l'altra parte (ritornando al proposito) era l'alienazione della letteratura greca da ogni cosa straniera.
Giacchè anche la corruzione della lingua italiana che accadde nel 400.
e poi nel 500.
siccom'era corruzione italiana, non mutò le forme sostanziali, e il genio proprio della lingua; com'è accaduto per lo contrario in questi ultimi tempi, dove la corruzione è derivata da influsso straniero.
E se vogliamo vedere l'influenza straniera sulla lingua greca, e come subito la corruppe, per incorruttibile che paia, come abbiamo dimostrato; sebbene è difficile trovar cosa straniera in detta letteratura, consideriamo l'unico (si può dir) libro straniero che introdotto in Grecia (o ne' paesi greci) abbia influito sopra i suoi scrittori, e che sia stato ai greci oggetto di studio.
Lasciamo l'influenza del latino nel greco dopo Costantino, influenza che tardò molto a propagarsi e a guastare definitamente la lingua, perchè si esercitò piuttosto sul parlato che sullo scritto, e dal parlato arrivò solo dentro lungo spazio, alla letteratura.
Io voglio parlare della Bibbia.
Esaminiamo i padri greci da' primi fino agli ultimi, e vi troveremo immediatamente una visibilissima e sostanziale corruzione di lingua e di stile, derivata dagli ebraismi, dall'uso dello stile profetico, salmistico, apostolico, dalla brutta e barbara [1096]e spesso continua imitazione della scrittura, dal misticismo della Religion Cristiana.
Corruttela che è comune anche agli scrittori cristiani che non avevano punto che fare colla Palestina, o con altri paesi, dove la lingua greca volgare fosse guasta da mescolanza di ebraico, o d'altro dialetto propagato fra' giudei ec.; non erano giudei di stirpe, ec.
ec.
Ma erano stranieri di setta, e quindi anche barbari di gusto.
Lascio la traduzione dei Settanta, e il Nuovo Testamento.
Le stesse cause di corruzione influirono pure sulla lingua e sullo stile de' padri latini.
Ma da queste, com'è naturale, si preservarono gli scrittori profani contemporanei, sì greci che latini, e non pochi degli stessi scrittori cristiani, o trattando materie profane, o anche più volte nelle stesse materie ecclesiastiche, secondo la coltura, gli studi e l'eleganza degli scrittori.
(27.
Maggio 1821.)
Non si stimino esagerazioni le lodi ch'io fo dello stato antico, e delle antiche repubbliche.
So bene ancor io, com'erano soggette a molte calamità, molti dolori, molti mali.
Inconvenienti inevitabili nello stesso sistema magistrale della natura; quanto più negli ordini che finalmente sono, più o meno, opera umana! Ma il mio argomento consiste nella proporzione e nel paragone della felicità, o se vogliamo, [1097]infelicità degli uomini antichi, con quella de' moderni, nel bilancio e nell'analisi della massa de' beni e de' mali presso gli uni e presso gli altri.
Converrò che l'uomo, specialmente uscito dei limiti della natura primitiva, non sia stato mai capace di piena felicità, sia anche stato sempre infelice.
Ma l'opinione comune e quella della indefinita perfettibilità dell'uomo, e che quindi egli sia tanto più felice o meno infelice, quanto più s'allontana dalla natura; per conseguenza, che l'infelicità moderna sia minore dell'antica.
Io dimostro che l'uomo essendo perfetto in natura, quanto più s'allontana da lei, più cresce l'infelicità sua: dimostro che la perfettibilità dello stato sociale è definitissima, e benchè nessuno stato sociale possa farci felici, tanto più ci fa miseri, quanto più colla pretesa sua perfezione ci allontana dalla natura; dimostro che l'antico stato sociale aveva toccato i limiti della sua perfettibilità, limiti tanto poco distanti dalla natura, quanto è compatibile coll'essenza di stato sociale, e coll'alterazione inevitabile che l'uomo ne riceve da quello ch'era primitivamente: dimostro infine con prove teoriche, e con prove storiche e di fatto, [1098]che l'antico stato sociale, stimato dagli altri imperfettissimo, e da me perfetto, era meno infelice del moderno.
(27.
Maggio 1821.)
Altra prova che il bello è sempre relativo.
Dice il Monti (Proposta ec.
vol.1.
par.2.
p.8.
fine) che l'orecchio è unico e superbissimo giudice della bellezza esterna delle parole.
Ora per quest'orecchio, parlando di parole italiane, non possiamo intendere se non l'orecchio italiano, e il giudizio di detta bellezza esterna, varia secondo le nazioni, e le lingue.
(28.
Maggio 1821.)
La formazione intera e principale della lingua latina, accade in un tempo similissimo (serbata la proporzione de' tempi) a quello della francese, cioè nel secolo più civile ed artifiziato di Roma, e (dentro i limiti della civiltà) più corrotto: dico nel secolo tra Cicerone e Ovidio.
Ecco la cagione per cui la lingua latina, come la francese, perdè nella formazione la sua libertà, ed ecco la cagione di tutti gli effetti di questa mancanza, simili nelle dette due lingue ec.
(28.
Maggio 1821.)
Odio gli arcaismi, e quelle parole antiche, ancorchè chiarissime, ancorchè espressivissime, bellissime, [1099]utilissime, riescono sempre affettate, ricercate, stentate, massime nella prosa.
Ma i nostri scrittori antichi, ed antichissimi, abbondano di parole e modi oggi disusati, che oltre all'essere di significato apertissimo a chicchessia, cadono così naturalmente, mollemente, facilmente nel discorso, sono così lontani da ogni senso di affettazione o di studio ad usarli, e in somma così freschi, (e al tempo stesso bellissimi ec.) che il lettore il quale non sa da che parte vengano, non si può accorgere che sieno antichi, ma deve stimarli modernissimi e di zecca.
Parole e modi, dove l'antichità si può conoscere, ma per nessun conto sentire.
E laddove quegli altri si possono paragonare alle cose stantivite, rancidite, ammuffite col tempo; questi rassomigliano a quelle frutta che intonacate di cera si conservano per mangiarle fuor di stagione, e allora si cavano dall'intonacatura vivide e fresche e belle e colorite, come si cogliessero dalla pianta.
E sebbene dismessi e ciò da lunghissimo tempo, o nello scrivere, o nel parlare, o in ambedue, non paiono dimenticati, ma come riposti in disparte, e custoditi, per poi ripigliarli.
(28.
Maggio 1821.)
[1100]L'uomo non si può muovere neanche alla virtù, se non per solo e puro amor proprio, modificato in diverse guise.
Ma oggi quasi nessuna modificazione dell'amor proprio può condurre alla virtù.
E così l'uomo non può esser virtuoso per natura.
Ecco come l'egoismo universale, rendendo per ogni parte inutile anzi dannoso ogni genere di virtù all'individuo, e la mancanza delle illusioni e di cose che le destino, le mantengano, le realizzino, producono inevitabilmente l'egoismo individuale, anche nell'uomo per indole più fortemente e veramente e vivamente virtuoso.
Perchè l'uomo non può assolutamente scegliere quello che si oppone evidentemente e per ogni parte all'amor proprio suo.
E perciò gli resta solo l'egoismo, cioè la più brutta modificazione dell'amor proprio, e la più esclusiva d'ogni genere di virtù.
(28.
Maggio 1821.)
Chiamano moderne le massime liberali, e si scandalezzano, e ridono che il mondo creda di essere oggi solo arrivato al vero.
Ma elle sono antiche quanto Adamo, e di più hanno sempre durato e dominato, più o meno, e sotto differenti aspetti sino a circa un secolo e mezzo fa, epoca vera e sola della perfezione del dispotismo, consistente in gran parte in una certa moderazione che lo rende universale, [1101]intero, e durevole.
Dunque tutta l'antichità delle massime dispotiche, cioè del loro vero ed universale dominio nei popoli (generalmente e non individualmente parlando), non rimonta più in là della metà del seicento.
Ed ecco come quel tempo che corse da quest'epoca sino alla rivoluzione, fu veramente il tempo più barbaro dell'Europa civile, dalla restaurazione della civiltà in poi.
Barbarie dove inevitabilmente vanno a cadere i tempi civili: barbarie che prende diversi aspetti, secondo la natura di quella civiltà da cui deriva, e a cui sottentra, e secondo la natura de' tempi e delle nazioni.
Per esempio la barbarie di Roma sottentrata alla sua civiltà e libertà, fu più feroce e più viva: quella dei Persiani fu simile nella mollezza e nella inazione e torpore, alla nostra.
Ed ecco come il tempo presente si può considerare come epoca di un nuovo (benchè debole) risorgimento della civiltà.
E così le massime liberali si potranno chiamare risorte (almeno la loro universalità e dominio); ma non mica inventate nè moderne.
Anzi elle sono essenzialmente e caratteristicamente antiche, ed è forse l'unica parte in cui l'età presente somiglia all'antichità.
Puoi vedere in tal proposito la lettera di Giordani a Monti nella Proposta ec.
vol.1.
part.2.
alla voce Effemeride, dove Giordani discorre delle barbarie antiche rinnovate oggi.
(28.
Maggio 1821.)
Alla p.1075.
Da queste osservazioni risulta che l'uomo senza favella è altresì incapace di concepire definitamente e chiaramente una quantità misurata [1102]in questo modo: p.e.
una lunghezza di cento passi.
Giacch'egli non può concepire questo numero definito di cento passi.
Così discorrete di tutte le altre cose o idee (e sono infinite) che l'uomo concepisce chiaramente mediante l'idea de' numeri.
E da ciò solo potrete argomentare l'immensa necessità ed influenza del linguaggio, e di un linguaggio distinto e preciso ne' segni, sulle idee e le cognizioni dell'uomo.
(28.
Maggio 1821.).
V.
p.1394.
capoverso 1.
Dal pensiero precedente e dagli altri miei sulla influenza somma del linguaggio nella ragione e nelle cognizioni, deducete che una delle cause principalissime e generalissime, e contuttociò puramente fisiche, della inferiorità delle bestie rispetto all'uomo, e della immutabilità del loro stato, è la mancanza degli organi necessari ad un linguaggio perfetto, o ad un sistema perfetto di segni di qualunque genere.
E mancando degli organi mancano anche della inclinazione naturale ad esprimersi per via di segni, e nominatamente per via della voce, e de' suoni.
Inclinazione materiale e innata nell'uomo, e che tuttavia fu la prima origine del linguaggio.
Essendo certo per esperienza che l'uomo, ancorchè privo di linguaggio, tende ad esprimersi con suoni inarticolati ec.
(28.
Maggio 1821.)
[1103]La poca memoria de' bambini e de' fanciulli, che si conosce anche dalla dimenticanza in cui tutti siamo de' primi avvenimenti della nostra vita, e giù giù proporzionatamente e gradatamente, non potrebbe attribuirsi (almeno in gran parte) alla mancanza di linguaggio ne' bambini, e alla imperfezione e scarsezza di esso ne' fanciulli? Essendo certo che la memoria dell'uomo è impotentissima (come il pensiero e l'intelletto) senza l'aiuto de' segni che fissino le sue idee, e reminiscenze.
(V.
Sulzer ec.
nella Scelta di Opusc.
interessanti.
Milano 1775.
p.65.
fine, e segg.) Ed osservate che questa poca memoria non può derivare da debolezza di organi, mentre tutti sanno che l'uomo si ricorda perpetuamente, e più vivamente che mai, delle impressioni della infanzia, ancorchè abbia perduto la memoria per le cose vicinissime e presenti.
E le più antiche reminiscenze sono in noi le più vive e durevoli.
Ma elle cominciano giusto da quel punto dove il fanciullo ha già acquistato un linguaggio sufficiente, ovvero da quelle prime idee, che noi concepimmo unitamente ai loro segni, e che noi potemmo fissare colle parole.
Come la prima mia ricordanza è di alcune pere moscadelle che io vedeva, e sentiva nominare al tempo stesso.
(28.
Maggio 1821.)
[1104]Il verbo spagnuolo traher o traer che è manifestamente il trahere latino, si adopra alcune volte in significati somigliantissimi a quelli del latino tractare, e de' suoi composti attrectare, contrectare ec.
Come traer con la mano, traer entre las manos e simili.
Significati ed usi che non hanno niente che fare coi significati o usi noti del latino trahere, nè con quelli dell'italiano trarre o tirare (ch'è tutt'uno), nè del francese tirer.
Traher vale alle volte dimenare e muovere dice il Franciosini in traher.
Ora per dimenare appunto o in senso simile si adopra spesso il verbo tractare, o l'italiano trattare, come in Dante ec.
V.
la Crusca in Trattare e specialmente §.5.
Ora io penso che questi significati gli avesse antichissimamente il verbo trahere, perduti poi nell'uso dello scrivere, e conservati però nel volgare, sino a passare ad una lingua vivente, figlia d'esso volgare.
Ecco com'io la discorro.
Io dico che il verbo tractare al quale sono effettivamente rimasti i detti significati, deriva da trahere, e per conseguenza gli aveva da principio ancor questo verbo; e ne deriva così.
I latini dal participio in tus (o dal supino) di molti e molti verbi, soleano, troncando la desinenza in us, e ponendo quella in are (o in ari se deponente) formare un nuovo verbo, che avea forza di esprimere una continuazione, una maggior durata di quell'azione ch'era espressa dal verbo primitivo.
E in questo modo io dico che tractare deriva da tractus, participio di trahere, e significando fra le altre cose manu [1105]versare, significa (almeno nell'uso suo primitivo) un'azione più continuata di quella che significava, secondo me, il verbo trahere preso in questo medesimo senso.
Veniamo alle prove.
Prima di tutto, che tractare venga da trahere è indubitato, perchè, massime ne' più antichi scrittori, quel verbo ha la significazione nota di trahere, cioè trarre, tirare, strascinare.
Così anche quella di distrahere, dilaniare.
(V.
il Forcellini.) Dunque derivando da trahere, ed avendo le sue significazioni note, io dico che quelle altre che ha, e che non paiono appartenere al verbo trahere, furono significazioni primitive, ed oggi ignote, di questo verbo.
Colla differenza che tractare propriamente significa sempre un'azione più continuata di quelle significate da trahere, come si può, volendo, osservare anche nei detti significati ch'esso ebbe di tirare ec.
In secondo luogo che i latini avessero questo costume di formare nuovi verbi dai participi in tus di altri verbi primitivi, e questi nuovi verbi significassero la medesima azione che i primitivi, ma più continuata e durevole, lo farò chiaro con esempi.
Da adspicere (verbo composto), participio, [1106]adspectus, i latini fecero adspectare.
Ognuno può sentire la maggior durata dell'azione espressa da adspectare rispetto a quella di adspicere.
Cunctaeque profundum
Pontum adspectabant flentes.
dice Virgilio (Aen.
5-614.
seq.) delle donne Troiane solitarie sul lido Siciliano.
Non avrebbe già in questo senso potuto dire adspiciebant.
Così dal semplice di adspicere (cioè specere o spicere, verbo antico), participio spectus, fecero spectare.
Azione evidentemente continuatissima perchè spectantur quelle cose che domandano lungo tempo ad essere o vedute o esaminate, come gli spettacoli ec., che non videntur, nè adspiciuntur (propriamente), ma spectantur (e notate che adspicere, e specere o spicere negli antichi, significano azione più lunga di intueri ec.
ma adspectare e spectare anche più lunga di loro; e così respectare dal quale abbiamo rispettare che non è atto, ma abito, o azione abituale ec.
e così gli altri composti di spectare).
V.
p.2275.
ed Aen.
6.186.
adspectans, e osservane la forza, e nota che poteva egualmente dire adspiciens.
Così dico dei derivati e composti di spectare, come appunto spectaculum, come exspectare azione continuata per sua natura, e che deriva da spectare, ed esprime quasi il guardare lungamente e da lontano, che fa talvolta quegli che aspetta, nello stessissimo modo che lo spagnuolo aguardar, aspettare.
(V.
se vuoi la p.1388.
fine.)
Da raptus participio di rapere viene raptare cioè strascinare, azione come ognuno vede, ben più continuata e lunga di rapere.
Così da captus participio di capere, si fa [1107]captare, che non importa continuazione di capere o prendere, perchè l'azione del prendere non si può continuare, ma vale cercar di prendere, cioè in somma cercare, accattare e simili; azione continuata.
V.
il Forcellini.
E da acceptus di accipere, acceptare, il cui significato continuativo si può vedere nel secondo e 3° esempio del Forcellini, che significano, non il semplice ricevere, ma il costume continuato di ricevere, e dico continuato, e ben diverso dal frequente.
V.
p.1148.
V.
Exceptare in Virg.
Georg.
3.274.
e p.2348.
Da saltus antico participio di salire9 (o dal supino saltum ch'è tutt'uno) viene saltare.
E qui la forza (dirò così) continuativa di questa formazione di verbi, è manifestissima.
Perchè salire propriamente vale saltum edere, e saltare, vale ballare ch'è una continuazione del salire, una serie di salti.
Così da cantus antico participio di canere, abbiamo cantare, verbo che significava primitivamente un'azione ben più continuata che il canere.
Da adventus antico participio di advenire procede adventare, che significa l'azione continuata di avvicinarsi, o stare per arrivare, laddove advenire significa l'atto del giungere o del sopravvenire.
[1108]Del verbo tentare dice il Forcellini che deriva a sup.
TENTUM verbi TENEO.
Est enim (notate) diu et multum tenere ac tractare, ut solent quippiam exploraturi.
V.
p.2344.
e p.1992.
principio.
Così rictare da rictus di ringi, dictare da dictus participio del verbo dicere, e ductare da ductus del verbo ducere, e nuptare da nuptus di nubere, e flexare del vecchio Catone da flexus ec.
adfectare da adfectus participio di adficere, e adflictare da adflictus di adfligere; e volutare da volutus di volvere; e consultare da consultus di consulere; commentari e commentare da commentus di comminisci e comminiscere; natare dall'antico natus o natum di nare; e reptare (di cui v.
se vuoi, Forcellini) da reptus o reptum di repere; e offensare da offensus di offendere; e argutare ed argutari (v.
Forcell.) da argutus di arguere; e occultare da occultus di occulere; e pressare da pressus di premere (gl'ital.
i franc.
ec.
e il glossar.
hanno anche oppressare da oppressus); v.
p.2052.
2349.
e vectare da vectus di vehere.
V.
nel Forcellini gli es.
i quali dimostrano che subvectare e convectare denotano propriamente il costume e il mestiere di subvehere ec.
Sectari che importa (chi ben l'osserva) un'azione più continuata e durevole che il verbo sequi, deriva senza fallo da secutus, participio di questo verbo, contratto in sectus.
O piuttosto da principio dissero secutari, e poi per contrazione sectari.
E acciò che questa sincope non si stimi un mio supposto (un ritrovato, un'immaginazione), ecco il verbo francese exécuter, e lo spagnuolo executar, vale a dire in latino executari, composto di secutari.
Anzi io credo che questa prima forma del verbo sectari abbia durato nel volgare latino fino all'ultimo; e lo credo tanto a cagione dei detti verbi francese e spagnuolo, quanto perchè il nostro seguitare non par che derivi da altro che da secutari o sequutari, come seguire da sequi.
Giacchè da sectari non avremmo fatto seguitare, ma settare, come affettare da adfectare, [1109]e così altre infinite parole.
Del resto anche seguitare presso noi ha propriamente un senso più continuato che seguire.
V.
p.2117.
fine.
Sia poi che l'antico volgare latino, o che quello de' tempi bassi, o quelli finalmente che ne derivarono, li ponessero in uso; certo è che le nostre lingue figlie della latina abbondano di verbi formati dal participio di altri verbi simili latini antichi, laddove questi nuovi verbi non si trovano nella buona latinità; come usare (Glossar.) abusare ec.
da usus di uti, ec., inventare da inventus participio d'invenio, infettare da infectus participio d'inficio, traslatare da translatus di transferre, benchè da questo verbo gl'italiani abbiano anche trasferire; (translatare è nel Glossario.) fissare e ficcare (fixer, fixar) da fixus ec.
(Glossar.
fixare oculos.); disertare, déserter ec.; despertar da experrectus di expergiscere; v.
p.2194; votare da votus di vovere; (Glossar.) da junctus di jungere lo spagnuolo juntar, (non è nel Glossar.
bensì Juncta per Giunta, voce presa da scrittori spagnuoli latinobarbarici); invasare da invasus di invadere; (il Gloss.
ha invasatus, cioè obsessus a daemone) confessare (Glossar.) da confessus di confiteri; e così mille altri.
V.
p.1527.
e 2023.
(I due primi verbi non si trovano nel Du Fresne).
V.
p.1142.
Parecchi de' quali stanno nelle lingue nostre in cambio de' loro primitivi latini, usciti d'uso, e pare che nel formarli non si avesse più riguardo alla natura de' verbi continuativi.
A questo proposito tornerà bene di avvertire una svista del Monti (Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocab.
della Crusca.
vol.1.
par.2.
Milano 1818.
alla v.
allettare.
p.42.
seg.), il quale dice e sostiene che il nostro ALLETTARE (e per conseguenza il latino adlectare ch'è lo stesso che il nostro, come afferma lo stesso Monti p.43.) viene da LETTO, come da LATTE ALLATTARE, da ESCA ADESCARE, da LENA ALLENARE ed altri a man piena; che significa Dar letto, e Perchè poi il letto è riposo, e il riposarsi è soavissima e giocondissima cosa, [1110]ne seguì che ALLETTARE, ossia APPRESTARE IL LETTO, divenne subito per metafora INVITAR CON LUSINGHE; e a poco a poco la prepotente forza dell'uso fe' sì che il senso traslato si mise in luogo del proprio e ne usurpò le funzioni.
Questa etimologia, se per avventura non è tortamente dedotta, potrebbe di leggieri aprire la strada a trovare anche l'altra di DILETTARE e DILETTO con tutti i lor derivati, per conseguenza(dico io) del latino delectare, illectare, oblectare e simili.
E nega che questi verbi abbiano niente che fare con allicere al quale dà tutt'altra etimologia.
(p.44.)
Lascio stare che quel significato metaforico, e la successiva metamorfosi del significato di allettare, se a lui par naturale, a me pare del solito conio delle etimologie famosissime, e che tutto il filo de' suoi ragionamenti si romperebbe e troncherebbe facilmente per esser troppo sottile e debole in questo punto.
Ma egli non ha veduto che adlectare (e quindi allettare) fu formato da adlectus participio di adlicio nello stessissimo modo che i tanti verbi soprammentovati, e i tanti altri che si potrebbero mentovare.
Ora allettare è azione continuata, e così oblectare che significa trastullare ec.
e così dilettare ec.
Laddove adlicere è propriamente l'atto del tirare, prendere, [1111]indurre colle lusinghe.
E il suo semplice lacio che significa ingannare, indurre in fraude è parimente significativo di azione non continuata.
Laddove lactare formato da lacere (diverso da quello formato da lac) significa propriamente un'azione continuata, appresso a poco la stessa che adlectare o allettare.
V.
p.2078.
Giacchè anche nell'etimologia del verbo adlicere s'inganna il Monti (p.44.) facendolo derivare dal licium o liccio degl'incantamenti amorosi.
La sua etimologia, dic'egli, di cui non trovo chi sappia darmi un sol cenno, a tutto mio credere è questa.
Ma avrebbe trovata la vera etimologia nel Forcellini v.
allicio, e v.
lacio.
Adlicio dunque (come inlicio ec.
ec.) è composto di ad e lacio (che deriva da lax, fraus) mutata per la composizione la a in i, come in adficio da facio, in adjicio da jacio ec.
ec.
Del resto sebben diciamo volgarmente e comunemente allettare per porre a letto, e allettarsi per mettersi a letto, questo è un verbo tanto differente dall'adlectare, sebbene uniforme nel suono, quanto è differente nel significato e nell'origine, e uniforme nel suono, letto participio di leggere, da letto nome sostantivo.
V.
il passo di Cicerone addotto dal Monti, e provati di sostituirvi adlicere ad adlectare, se il puoi.
In luogo che adlectare venga da lectus, (Festo) dubito che lectus (sustantivo) venga da adlicere.
Forcell.
in Lectus i.
Non bisogna confondere questo genere di verbi che io chiamo continuativi, e che significano continuazione o maggior durata dell'azione espressa da' loro verbi originari, con quello de' verbi frequentativi, [1112]che importano frequenza della medesima azione, e hanno al tempo stesso una certa forza diminutiva.
Questi (lasciando i frequentativi coll'infinito in essere che non possono esser confusi co' nostri continuativi) si formano essi pure dal participio in us o dal supino in um, di altri verbi, troncandone la desinenza, ma sostituendo in sua vece non la semplice terminazione infinita are, o ari, bensì quella d'itare, o itari se il verbo da cui si formano è deponente (o passivo.) Così da lectus participio di legere, lectitare; così da victus o victum di vivere, victitare; da missus di mittere, missitare; da scriptus di scribere, scriptitare; da esus di edere, esitare; da sessus o sessum di sedere, sessitare; da emptus di emere, emptitare; da factus di facio, factitare; da territus di terreo, territare; da ventus di venio, (o dal sup.
ventum), ventitare; da lusus di ludere, lusitare; da haesus o haesum di haerere, haesitare; da sumptus di sumere, sumptitare; da risus di ridere, risitare di Nevio.
Eccetto però il caso che il participio o supino di quel verbo dal quale si doveva formare il frequentativo, cadesse in itus o itum, che allora sarebbe stato assai duro aggiungendo la terminazione itare, o itari, fare ititare, o ititari.
In questo caso dunque troncata la desinenza us o um del participioo del supino aggiungevano la semplice desinenza are o ari, con che però il frequentativo veniva nè più nè meno a cadere in itare o itari.
Così da venditus di vendere facevano venditare (non vendititare); da meritus di merere, meritare; (il quale par continuativo e talora denotante costume), da pavitus antico part.
di pavere, pavitare; da solitus ec.
solitare; da latitus, antico participio, o da latitum antico sup.
di latere, fecero latitare; [1113]da monitus di monere, monitare; da domitus di domare, domitare; da dormitus o dormitum di dormire, dormitare; da licitus di liceri, licitari; da vomitus di vomere, vomitare; da territus, territare; da itus o itum del verbo ire, itare; da pollicitus di polliceri, pollicitari; da exercitus part.
di exercere, exercitare; da citus part.
di cieo, citare, e i suoi composti; da strepitus o strepitum antico supino o participio di strepere, e da crepitus o crepitum di crepare, strepitare e crepitare; da scitus di sciscere o di scire scitari, sciscitare e sciscitari; da noscitus o noscitum antico sup.
o part.
di noscere, noscitare; da agitus antico particip.
di agere, contratto poscia in agtus, e finalmente mutato in actus, agitare.
La quale eccezione merita d'esser notata, giacchè in questi casi la formazione de' frequentativi non differisce da quella de' continuativi, e si potrebbero confonder tra loro.
Ed anche qualche verbo terminato in itare o itari, ma formato da un participio o sup.
in itus o itum, apparterrà o sempre o talvolta ai continuativi, (come p.e.
agitare, domitare ec.
e v.
Forcellini in tinnito) vale a dire non cadrà in detta desinenza, se non per esser derivato da un tal participio o supino.
V.
p.1338.
principio.
Minitari e minitare formati da minatus di minari e minare, sono così fatti o per contrazione, e troncamento non solo dell'us ma dell'atus del participio, affine di sfuggire il cattivo suono atitare; o per mutazione dell'a del participio in i, fatta allo stesso effetto.
Similmente rogitare da rogatus di rogare, coenitare da coenatus di coenare.
V.
p.1154.
V.
p.1656.
capoverso 1.
Mi sono allungato in questo discorso, ed ho voluto spiegare distintamente tutte queste cose, perchè non mi paiono osservate dai Gramatici nè da' vocabolaristi.
Il Forcellini chiama indifferentemente frequentativi, tanto i verbi in itare o itari, come quelli che io chiamo continuativi.
E s'inganna, perchè [1114]la differenza sì della formazione sì del significato, fa chiara la differenza di queste due sorte di verbi.
P.e.
raptare, ch'egli chiama frequentativo di rapere e che significa strascinare, ognun vede che quest'azione non è frequente ma continuata.
E se i latini avessero voluto fare un frequentativo di rapere, dal participio raptus avrebbero fatto raptitare e non raptare, anzi Gellio fa menzione effettivamente di tal verbo raptitare, 9.6.
nel qual luogo puoi vedere molti esempi di tali frequentativi in itare formati (com'egli pur nota) da' participii de' verbi originarii.
E i verbi augere, salire, jacere, prehendere o prendere, currere, mergere, defendere, capere, dicere, ducere, facere, vehere, venire, pendere, gerere e altri tali che hanno i loro continuativi, auctare, saltare, iactare, prehensare o prensare, cursare, mersare, defensare, captare, dictare, ductare (che i gramatici chiamano contrazione di ductitare e sbagliano), v.
p.2340.
factare, vectare, ventare, pensare, gestare, formati tutti dal loro participio o supino, secondo le leggi da noi osservate; hanno pure i frequentativi auctitare, saltitare, iactitare, prensitare, cursitare, mersitare, defensitare, captitare, dictitare, ductitare, factitare, vectitare, ventitare, pensitare, gestitare, distinti per forma e per significato proprio dai detti continuativi, e non derivati (certo ordinariamente) da questi, (come va dicendo qua e là il Forcellini) ma immediatamente da' verbi originarii.
V.
p.1201.
Il verbo videre, da cui nasce il verbo continuativo anomalo visere (in luogo di visare), ha pure il suo frequentativo visitare, dal participio [1115]visus comune a videre col suo continuativo visere, e ciò per anomalia.
Legere e scribere, che hanno i loro frequentativi ec.
si crede ancora che abbiano i continuativi lectare e scriptare de' quali v.
il Forcellini v.
Lecto, che non sono frequentativi, nè lo stesso che lectitare e scriptitare, come dice esso Forcellini ib.
e v.
Scripto.
Così pure del verbo vivere che ha il frequentativo victitare, credono alcuni di trovare in Plauto victare (Captiv.
1.1.V.15.) Da prandere che ha il frequentativo pransitare, noi abbiamo pransare che oggi si dice pranzare, ma pranso agg.
o partic.
e sost.
si trova nel Caro e in Dante.
(Alberti) V.
i Diz.
spagnuoli.
V.
p.2194.
V.
p.1140.
e 2021.
Da mansus di manere si ha mantare (per mansare), e mansitare.
V.
p.2149.
fine.
Anzi non solo i gramatici non distinguono ch'io sappia il frequentativo dal continuativo, ma neppur conoscono, per quello ch'io sappia, questo genere di verbi, che è pur così numeroso, e importante, e che io chiamo continuativo con voce nuova, perchè nuova è l'osservazione.
Ben è tanto vero, quanto naturale e inevitabile che le significazioni e proprietà primitive de' verbi continuativi, frequentativi, originarii, furono molte volte confuse nell'uso, non solo della barbara latinità, o delle lingue figlie, ma degli stessi buoni ed ottimi scrittori, massime da' non antichissimi.
E si adoperò p.e.
il continuativo nel significato del suo primo verbo; o perduto il primo verbo restò solo il continuativo, e s'adoprò in vece di quello (come noi italiani, francesi ec.
diciamo saltare ec.
per quello che i buoni latini dicevano salire, verbo oggi perduto in questa significazione, e trasferito ad un'altra ec.
ec.
v.
p.1162.
e per lo latino saltare, diciamo ballare, danzare ec.); o forse anche il continuativo talvolta prese la forza del [1116]frequentativo, o qualche volta viceversa; o finalmente il verbo positivo si adoprò in vece del continuativo disusato o no.
Differenze menome, e quasi metafisiche, difficilissime o impossibili a conservarsi nelle lingue anche coltissime, e studiatissime; e gelosissime, anzi severissime della proprietà, come la latina; e che dileguandosi appoco appoco, danno luogo alla nascita de' sinonimi, de' quali v.
p.1477.
segg.
E il Forcellini nota molte volte che il tale e tale frequentativo è spesso ed anche sempre usato nel senso medio del suo positivo, nè perciò veruno dubita o dell'esistenza di questo genere di verbi, o che quei tali non sieno frequentativi propriamente e originariamente.
I verbi formati nuovamente da' participi nelle lingue figlie della latina, non hanno ordinariamente se non la forza del positivo latino.
V.
p.2022.
Questa facoltà de' continuativi, è una delle bellissime facoltà, non ancora osservata, con cui la lingua latina diversificando regolarmente i suoi verbi e le sue parole, le adattava ad esprimere con precisione le minute differenze delle cose, e traeva dal suo fondo tutto il possibile partito, applicandolo con diverse e stabilite inflessioni e modificazioni a tutti i bisogni del linguaggio; e si serviva delle sue radici per cavarne molte e diverse significazioni, distintissime, chiare, certe, e senza confusione; e moltiplicava con sommo artifizio e poca spesa la sua ricchezza, e accresceva la sua potenza.
Questa facoltà manca alla lingua italiana, la qual pure si è fatti i suoi nuovi verbi frequentativi e diminutivi, formandoli da' verbi originarii con modificazioni di desinenza.
Verbi derivati, che ora hanno la sola forza frequentativa, come appunto spesseggiare e pazzeggiare, passeggiare ec.
punteggiare, da punto o da pungere ec.
ora la sola diminutiva, come tagliuzzare, sminuzzolare, albeggiare [1117](formato però non da altro verbo, ma da nome, come altri pure de' precedenti; che così pure usa felicemente l'italiano),10 arsicciare (siccome in lat.
ustulare, che anche i latini hanno i loro verbi puramente diminutivi); ora l'una e l'altra insieme al modo de' verbi latini in itare, come canticchiare, canterellare, formicolare ec.
(v.
il Monti a questa voce, e alla v.
frequentativo).
E di altre tali formazioni di verbi e d'altre voci; formazioni arditissime, utilissime a significare le differenze delle cose, e moltiplicare l'uso delle radici, senza confondere i significati, abbonda la lingua italiana in modo singolare, e più (credo io) che la latina, e la stessa greca.
Ma de' continuativi manca affatto, se alle volte non dà (come mi pare) questo o simile significato a qualche frequentativo, o vogliamo spesseggiativo.
V.
p.1155.
Manca pure, cred'io, la detta facoltà alla lingua greca, sì gran maestra nel diversificare e modificare le sue radici, e moltiplicare le significazioni; ma per affermarlo mi bisognerebbe più lunga considerazione.
E nella stessa lingua latina, ch'ebbe questa bella facoltà da principio, sembra che poi andasse in disuso, e in dimenticanza, continuando forse talvolta ad usarsi, con formare nuovi verbi di tal fatta, ma con una nozione confusa e non precisa del valore di tal formazione, e con significato non ben distinto dagli altri verbi; come fecero pure de' continuativi già formati e introdotti.
[1118]Giacchè negli stessi antichi gramatici o filologi latini de' migliori secoli, non trovo notizia nè osservazione positiva di questa proprietà della loro lingua.
V.
p.1160.
Vo anche più avanti e dico che, secondo me, quasi tutti i verbi latini terminati nell'infinito in tare o tari (dico tare, non itare) non sono altro che continuativi di un verbo positivo o noto o ignoto oggidì, e spesso andato anticamente in disuso, restando solo i suoi derivati, o il suo continuativo, adoperato quindi bene spesso in vece sua.
E credo che l'infinito di detti verbi in tare o tari, indichino il participio del verbo positivo, o il supino, troncando la desinenza in are o ari, e ponendo quella in us o in um.
Come optare, secondo me, dinota un participio optus di un verbo primitivo e sconosciuto, di cui optare sia il continuativo.
E mi conferma in questa opinione il vedere in alcuni di questi verbi conservato per anomalia come abbiamo notato in visere, un participio che non pare appartenente se non ad un altro verbo primitivo, e dal qual participio medesimo io credo formato quel verbo che rimane.
Per esempio il verbo potare, che, oltre potatus, ha il participio potus.
Io credo che questo participio anomalo in detto [1119]verbo, non sia contrazione di potatus, come dicono i gramatici, ma participio regolare di un verbo che avesse il perfetto povi, come motus ha il perfetto movi, fotus ha fovi, votus vovi, notus novi da nosco, di cui notare è continuativo, e fa nel participio non già notus ma notatus.
E la prima voce indicativa di detto verbo originario di potare, sarebbe stata poo, chè appunto da ??? verbo greco antico e disusato in questa e nella più parte delle sue voci, stimano i gramatici che derivi potare.
(Forcellini.) Ed osservo che la propria significazione di potare è infatti continuativa, e denota azione più lunga che il verbo bibere, come può sentire ogni orecchio avvezzo alla buona e vera latinità.
Saepe est largius vino indulgere, poculis deditum esse, dice il Forcellini di esso verbo.
Onde potatio non è propriamente il bere ma beveria ec.
cioè un bere continuato, come si può vedere ne' due primi esempi del Forcellini, che sono di Plauto e Cicerone laddove nel terzo ch'è di Seneca, vale lo stesso che potio, cioè bevuta, per la improprietà di quello scrittore più moderno, e meno accurato.
E vedete appunto che potio parola derivata da potus participio del verbo perduto ch'io dico, significa azione poco continuata, cioè una semplice bevuta: Cum ipse poculum dedisset, [1120]subito illa in media potione exclamavit, (Cic.) cioè nell'atto di bere.
Laddove potatio formata da potatus di potare, significa beveria, come ho detto, e non si potrebbe propriamente e convenientemente esprimere con una voce formata dal verbo bibere.
Osservazione, secondo me, assai forte, e che serve a dimostrare e confermare sì l'esistenza del detto verbo originario di potare, ed avente il participio potus, sì tutta la mia teoria de' verbi continuativi.
Rechiamo un altro esempio di tali participi anomali dinotanti l'esistenza di un verbo primitivo, di cui quel verbo che resta ed ha detto participio, è, al mio credere, il continuativo.
Auctare, come vedemmo p.1114.
è continuativo di augere dal suo participio auctus, ed ha il participio auctatus.
Mactare è lo stesso che magis auctare, ma oltre mactatus, ha il participio mactus.
E siccome mactatus è magis auctatus, così mactus (e lo dice espressamente Festo) è magis auctus.
Ecco dunque evidente un antico e disusato verbo magere o maugere cioè magis augere, di cui mactus è il participio, e mactare il continuativo formato dal participio mactus che impropriamente se gli attribuisce.
V.
p.1938.
capoverso 1.
e p.2136.
e 2341.
Il verbo stare, secondo me, indubitatamente è continuativo del verbo esse formato da un antico participio o supino di questo verbo, come stus o stum, [1121]piuttosto da situs o situm, contratto in stus o stum.
O forse da prima si disse sitare, come secutari, e solutare da cui soltar per solvere, come ho detto p.1527.
e voltare per volutare ec.
L'analogia fra il verbo essere e stare si vede nel nostro particolare stato di essere, e nel franc.
été, sebbene i francesi non hanno il verbo stare.
Del qual participio situs abbiamo un indizio manifesto nel sido spagnuolo, ch'è participio appunto di ser essere.
E forse sussiste ancora il detto participio nel situs dei latini che significa collocato, ma che spesso è usurpato dagli scrittori in significato somigliantissimo a quello di un participio del verbo essere, e che il Vossio con pessima grazia fa derivare da sinere.
È noto che presso Plauto (Curcul.
1.1.89.) alcuni leggono site in significato di este, dal che verrebbe situs, così naturalmente come auditus da audite; e che l'antica congiugazione del presente indicativo di esse, era, secondo Varrone, (de L.
L.
l.8.
c.57.) esum, esis, esit; esumus, esitis, esunt.
Del rimanente lo stesso Forcellini avvertendo che il verbo stare si trova adoperato più volte in luogo di esse, soggiunge, cum aliqua significatione diuturnitatis (v.
sto), (e ne reca gli esempi), cioè, dico io, secondo la primitiva proprietà di esso verbo che è continuativo di esse.
Adsentari che il Forcell.
dice esser lo stesso che adsentiri, forse non è altro che un suo continuativo o frequentativo anomalo o contratto da adsentitari o per adsensari.
Nel Glossario Isidoriano (op.
Isid.
t.
ult.
p.487.) si trova: SENTITARE, in animo sensim diiudicare.
V.
p.2200.
V.
p.1155.
e p.2145.
fine e p.2324.
fine.
A me par di poter asserire, 1.
che tutti o quasi tutti i verbi latini radicali (intendo non composti, non derivati, non formati da nomi, come populo da [1122]populus, o da altre voci), e regolari, cioè non soggetti ad anomalie, constano sempre di una sola sillaba radicale e perpetua, e la più parte di tre sole lettere radicali (al modo appunto de' verbi ebraici); come parare, docere, legere, facere, dicere, dove le lettere radicali e costanti sono par, doc, leg, fac, dic.
Talvolta di più lettere radicali, ma pure di una sola sillaba, come scribere (che anticamente facea scribsi e scribtum ec.
e così gli altri verbi simili, mutato il b in p o viceversa ec.
come puoi vedere nel Frontone), dove le lettere radicali sono cinque: scrib, e la sillaba è nondimeno una sola.
Talvolta di una sillaba parimente, e di sole due lettere come amare le cui lettere radicali sono am, e così anche ponere, cedere e simili, dove le lettere perpetue sono solamente po e ce, facendo posui, positum, positus; cessi, cessum, cessus: ma questi tali anderebbero piuttosto fra' verbi anomali.
Potranno dire che il g di legere non si conserva nel supino lectum e nel participio; che l'a di facere si perde nel perfetto feci, e il c di dicere in dixi.
Ma dixi contiene evidentemente il c, essendo lo stesso che dicsi; e il g di legere si muta nel supino e participio in c per più dolcezza; non però si perde nè si trascura come l'o di lego, e come le altre lettere e sillabe che servono alla sola inflessione de' verbi.
E così [1123]dite dell'a di facere, mutata nel perfetto in e, o per dolcezza, o per arbitrio, o per innovazioni introdotte dal tempo, e non primitive; ma in ogni modo, mutata e non omessa.
Così texi e tectum di tegere, sono lo stesso che tegsi e tegtum.
V.
p.1153.
2.
Dico che tutti i suddetti verbi radicali e regolari, avendo una sola sillaba radicale, hanno due sole sillabe nella prima persona presente singolare indicativa, due parimente nella terza persona, (come i verbi ebraici nella terza persona del perfetto ch'è la loro radice) e tre nell'infinito.
3.
Dico che tutti, o almeno quasi tutti i verbi latini regolari che hanno più di una sillaba radicale, più di due sillabe nella prima e terza persona presente singolare indicativa, più di tre sillabe nell'infinito; non sono radicali, ancorchè paiano, ma derivati, ancorchè non si trovi da che fonte.
Bisogna eccettuare da queste regole i verbi regolari della quarta congiugazione che hanno due sillabe radicali e perpetue, come audi in audire.
Bisogna, dico, eccettuarli quanto alla regola di una sola sillaba radicale, non quanto a quella di due sole [1124]sillabe nella prima e terza persona indicativa, e di tre sole nell'infinito.
Nell'infinito, audire, sentire ec.
è chiaro che hanno tre sole sillabe.
Così nella terza persona indicativa è chiaro che ne hanno due sole, audit, sentit.
Nella prima persona audio, sentio pare che n'abbiano tre.
Ma io non dubito che anticamente non si contassero queste e siffatte voci per composte di due sole sillabe, considerando e pronunziando per esempio l'io di audio, come dittongo.
Al modo stesso che queste vocali così congiunte sono effettivi dittonghi nella lingua italiana, tanto più somigliante nelle forme sì del discorso, sì delle parole, sì della pronunzia, alla lingua latina antica, di quello che somigli all'aurea latinità.
Così l'antica pronunzia de' dittonghi greci che si pronunziavano sciolti, non impediva che si considerassero come formanti una sola sillaba.
De' quali dittonghi parlerò poco appresso.
V.
p.1151.
fine.
e 2247.
Queste considerazioni indeboliscono assai anche l'eccezione che abbiamo riconosciuta ne' verbi della 4.
congiugazione e provano che se questi pare che abbiano 2.
sillabe radicali, ella è piuttosto una differenza accidentale d'inflessione, che proprietà essenziale del verbo assolutamente considerato, e non influisce sul numero intiero delle sue sillabe radicali o no: numero che ne' luoghi specificati, è lo stesso in questi che negli altri verbi.
Lo stesso dico de' verbi della seconda congiugazione, dove doceo, secondo la prosodia latina conosciuta, è trisillabo.
Lo stesso di facio, e simili.
Lo stesso de' verbi suadere, suescere e simili, (verbi per altro anomali) i quali senza essere della quarta congiugazione, hanno oggi due sillabe radicali, sua e sue, che anticamente, secondo me, erano una sola sillaba.
Secondo la quale opinione, io penso che si potrebbe anche notare come costante nella lingua latina antichissima, che la prima e terza persona singolare [1125]presente indicativa del perfetto, fossero parimente dissillabe in tutti i verbi radicali e regolari, al modo appunto che in ebraico la terza persona di detto tempo e numero.
V.
p.1231.
capoverso 2.
Dei verbi della terza congiugazione, questo è manifesto, come in legi e legit, feci e fecit, dixi e dixit.
Dei verbi della seconda, non si può disputare, ammessa la suddetta opinione, ch'io credo certissima, (essendo naturale all'orecchio rozzo il considerare due vocali unite come una sillaba sola, e proprio di un certo raffinamento e delicatezza il distinguerla in due sillabe): perchè secondo essa opinione, docui e docuit anticamente furono dissillabi.
Restano la prima e la quarta congiugazione, dove amavi ed amavit, audivi ed audivit sono trisillabi.
Ora della quarta congiugazione io penso che il perfetto primitivo fosse in ii cioè audii e audiit, perfetto che ancora dura, ed è ancora comune a tutti o quasi tutti i verbi regolari d'essa congiugazione, a molti de' quali manca il perfetto in ivi, come a sentire che fa sensi.
Audii ed audiit (che troverete spessissimo scritti all'antica audi ed audit, come altre tali i che ora si scrivono doppi) erano, secondo quello che ho detto, dissillabi.
La lettera v, io penso che fosse frapposta posteriormente alle due i di detto perfetto, per più dolcezza.
E [1126]tanto sono lungi dal credere che la desinenza in ivi di quel perfetto, fosse primitiva, che anzi stimo che anche la desinenza antichissima del perfetto indicativo della prima congiugazione, non fosse avi, ma ai, nè si dicesse amavi, ma amai, dissillabo secondo il sopraddetto.
Nel che mi conferma per una parte l'esempio dell'italiano che dice appunto amai, (e richiamate in questo proposito quello che ho detto p.1124.
mezzo), (come anche udii), e del francese che dice j'aimai; per l'altra parte, e molto più, l'esser nota fra gli eruditi la non grande antichità della lettera v, consonne que l'ancien Orient n'a jamais connue.
(Villefroy, Lettres à ses Elèves pour servir d'introduction à l'intelligence des divines Écritures.
Lettre 6.
à Paris 1751.
t.1.
p.167.) V.
p.2069.
principio.
E lasciando gli argomenti che si adducono a dimostrare la maggiore antichità de' popoli Orientali rispetto agli Occidentali, e la derivazione di questi e delle loro lingue da quelli, osserverò solamente che la detta lettera manca alla lingua greca, colla quale la latina ha certo comune l'origine, o derivi dalla greca, o le sia, come credo, sorella.
E di più dice Prisciano (l.
I.
p.554.
ap.
Putsch.) (così lo cita il Forcell.
init.
litt.
u nella mia ediz.
del 400.
sta p.16.
fine) che anticamente la lettera u multis italiae populis in usu non erat.
E che il v consonante fosse da principio appo i latini una semplice [1127]aspirazione, e questa leggera, si conosce, secondo me dal vedere ch'esso sta nel principio di parecchie parole latine gemelle di altre greche, che in luogo d'essa lettera hanno lo spirito lene o tenue, come ??? ovis, vinum ?????, video ????, viscus o viscum ????.
(Talora anche in luogo di spirito denso come ????, onde gli Eoli ??????, i latini filius.) V.
Encyclop.
Grammaire.
in H.
pag.214.
col.2.
sul principio, e in F.
ec.
E ch'elle sieno parole gemelle, è consenso di tutti i gramatici.
Laddove lo spirito denso dei greci solevano i latini cangiarlo in s (e così per un sigma lo scrivevano i greci anticamente), come in ????? che presso i latini si disse prima sumnus (Gell.) e poi somnus ec.
V.
p.2196.
Anzi di questa cosa non resterà più dubbio nessuno se si leggerà quello che dice il Forcellini (v.
Digamma.
e vedilo), e Prisciano (p.9.
fine-11.
e vedilo).
Da' quali apparisce che il v consonante appresso gli antichi latini fu lo stessissimo che il digamma eolico (giacchè dagli eoli prese assai, com'è noto, la lingua lat.).
Il qual digamma presso gli Eoli era un'aspirazione, o specie di aspirazione che si preponeva alle parole comincianti per vocale, in vece dello spirito, e (nota bene) si frapponeva alle vocali in mezzo alle parole per ischifare l'iato, come in amai, amplia ?it termina ?itque ha un'iscrizione presso il Grutero (V.
Encyclop.
Grammaire, art.
F.
Cellario, Orthograph.
Patav.
Comin.
1739.
p.11-15.).
E v.
il luogo di Servio nel Forcellini circa il perfetto della quarta congiugazione.
Dalle quali osservazioni essendo chiaro che l'antico v latino fu (come oggi fra' tedeschi) lo stesso che una f, non resta dubbio che non fosse aspirazione, giacchè la f non fu da principio lettera, ma aspirazione, e lieve.
E così viceversa gli spagnuoli che da prima dicevano fazer, ferido, afogar, fuso, figo, fuìr, fierro, filo, furto, fumo, fondo, formiga, forno, forca, fender, ora dicono hazer, herido, ahogar, huso, higo, huìr, hierro, hilo, hurto, humo, hondo, hormiga, horno, horca, hender ec.
V.
p.1139.
e 1806.
In somma si vede chiaro che la primitiva e regolare uscita de' perfetti 1.
e 4.
congiug.
era ai ed ii, trasmutata in avi ed [1128]ivi per capriccio, per dolcezza, per forza di dialetto, e pronunzia irregolare, corrotta e popolare, che suole sempre e continuamente cambiar faccia alle parole, col successo del tempo, e introdursi finalmente nelle scritture, e convertirsi in regola, come vediamo nella nostra e in tutte le lingue.
V.
p.1155.
capoverso ult.
e p.2242.
capov.1.
e 2327.
Queste osservazioni ci porterebbero anche più avanti non poco, ed avendo veduto che tutti i verbi radicali e regolari latini hanno una sola sillaba radicale, verremmo a dedurne che la lingua latina da principio fu tutta composta di monosillabi, come è probabile e naturale che fossero tutte le lingue primitive (balbettanti come fanno i fanciulli che da principio non pronunziano mai se non monosillabi; (come pa, ma, ta) poi due sole sillabe per parola, accorciando, e contraendo, o troncando quelle che sono più lunghe; e finalmente, ma solo per gradi, si avvezzano a pronunziar parole d'ogni misura, in forza per altro della imitazione, e dell'esempio che hanno di chi le pronunzia, il che non avevano i primi formatori delle lingue) e come è tuttavia la cinese, meno forse discosta di qualunque altra lingua nota, dal suo primo stato, a causa della maravigliosa immutabilità di quel popolo.
Ecco come bisogna discorrere.
Ho detto che intendeva per verbi radicali, fra le altre cose, quelli non composti e non derivati da nomi.
Ma voleva dire da nomi noti, e da nomi non primitivi, perchè tutti i metafisici moderni s'accordano, che tutte le lingue son cominciate e derivano da' nomi, e il vocabolario primitivo di tutti i popoli, fu sempre una semplice nomenclatura (Sulzer).
È dunque indubitato che anche quei verbi latini che paiono radicali, derivano da nomi sconosciuti, giacchè le radici d'ogni lingua furono i nomi soli, e volendo esprimere azioni, [1129]non s'inventarono certo nuove radici, che non sarebbero state intese (giacchè gran tempo dovè passare prima che si pensasse a formare i verbi, e la lingua, cioè la nomenclatura era già stabilita); ma si derivarono dalle radici esistenti, cioè da' nomi.
Ora vedendo che i verbi latini che chiamiamo radicali, ossia che non hanno veruna derivazione nota, nè composizione ec.
hanno una sola sillaba radicale, si conchiude che le loro radici vere, che certo furono nomi, tutte furono monosillabe, e che il primitivo linguaggio latino, la fonte di tutta la lingua latina, fu tutto monosillabo.
Osserviamo per esempio i verbi pacare, regere, vocare, ducere, lucere, necare.
Questi cadono tutti, e perfettamente sotto le osservazioni che ho stabilite: hanno una sola sillaba e 3.
sole lettere radicali, 3.
sillabe all'infinito ec.
E tuttavia non gli possiamo chiamare radicali perchè resta notizia de' nomi da cui sono formati, e son tutti monosillabi: pax, rex, vox, dux, lux, nex.
E notate che di questi monosillabi, alcuni esprimono delle cose che debbono essere state fra le prime ad esprimersi in ogni linguaggio, come vox, lux, e similmente rex, e dux nella prima società.
Così l'antico precare e lacere, che cadrebbono sotto la stessa categoria, sappiamo che vengono da prex e lax monosillabi.
Così sperare da spes.
Così arcere da arx che significa luogo alto, cima, altezza (idea certo primitiva nelle lingue) e quindi rocca, fortezza.
V.
p.1204.
Così quiescere da quies, partire e partiri da pars, tutte idee primitive.
Lactare da lac.
V.
p.2106.
principio.
[1130]Se così discorressimo intorno agli altri verbi (dico latini propri ed antichi, e non presi poi manifestamente dal greco, o d'altronde) che hanno una sola sillaba radicale, e che non si vede da qual nome sieno derivate, potremmo forse più volte ritrovare di questi nomi perduti o mal noti, e tutti monosillabi.
Legere lo fanno derivare da ????; e lex Cicerone e Varrone a legendo.
Ma la natura delle cose porta che il nome sia prima del verbo.
Oltre ch'è più facile, più conforme al meccanico dell'etimologia, ed al solito progresso delle parole il derivare legere da lex che viceversa.
Io penso che lex sia la radice di legere ed avesse primitivamente un significato perduto, diverso da quello di legge, ed atto a produr quelli di legere.
Fax vale face, e deriva, come pare, dal greco, ed è tutt'altra parola da quella ch'io voglio dire.
Penso cioè che facere derivi da un antichissimo monosillabo fax di significato analogo, e ne trovo un vestigio, anzi lo trovo intero in artifex, pontifex, carnifex ed altri tali composti.
La prima parola è composta di ars e fax, la seconda di pons e fax, la terza di caro e fax, cambiato in fex per forza della composizione, come factus diviene fectus ne' composti, adfectus, effectus, confectus ec.
e facere [1131]nel perfetto ha feci, e così iacere ha ieci, e jactus fa adiectus, deiectus ec.
Similmente che capere derivi da un antico monosillabo caps si può dedurre dai composti particeps, anceps, auceps ec.
Fra' quali anceps, io credo assai più con Festo che sia derivato dall'antica preposizione amphi rispondente alla greca ????, e troncata in am, e quindi in an dalla composizione (nel che tutti convengono), e da caps appartenente a capere, di quello che a caput, come piace ad altri, fra' quali il Forcellini.
Giacchè mi pare che risponda letteralmente al greco ??????????composto appunto di ????? e di ??????? capio, piuttosto che ad ???????????, come lo spiega il Forcellini, sebbene sia stato poi adoperato in significazioni più conformi a questa seconda voce.
Ma io credo poi che questo caps sia la radice tanto di capere quanto di caput (ne' di cui composti parimente si ravvisa, come biceps, triceps, praeceps).
La qual parola Varrone fa derivare da capere (ap.
Lact.
de Opif.
Dei c.5.) ed io per lo contrario capere da caput, o dalla stessa radice; dalla quale però io credo derivato prima caput, e poi capere, o che essa radice, significasse da principio caput.
Giacchè, lasciando che questo è nome, e quello è verbo, è ben più naturale, [1132]che prima sia stata nominata la parte principale del corpo umano, e poi l'azione del prendere.
E non so se possa qui aver niente che fare il nostro cappare (volgarmente capare), che significa pigliare a scelta, e deriva da capo, quasi scegliere capo per capo, cioè cosa per cosa, o scegliere un capo, ossia una cosa, fra altri capi o cose.
E così capere da principio avrebbe voluto dire pigliare pel capo, o pigliare un capo cioè una cosa, nominando la parte principale pel tutto, o prendendo la metafora dall'essere il capo la parte principale dell'uomo: onde i latini, (ed anche oggi gl'italiani testa, e i francesi tant par tête, cioè tant par chaque personne.
Alberti) dicevano caput per uomo, o persona, o individuo umano.
V.
ancora il §.6.7 e 10.
della Crusca, voce Capo, e i vocabolari francese e spagnuolo ec.
V.
chef etc.
e il lat.
caput nelle significazioni di detti §§.
della Crusca, e così anche i Lessici greci.
V.
p.1691.
La radice monosillaba dell'antico specere o spicere si troverebbe similmente ne' composti auspex, haruspex, cioè spex o spax.
Così di iungere in coniux o coniunx, cioè iux o iunx ec.
V.
p.1166.
fine.
2367.
principio.
E così si scoprirebbe come da pochi monosillabi radicali, o tutti nomi, o quasi tutti, che formavano da principio tutto il linguaggio, allungandoli diversamente, e differenziandoli con variazioni di significato, e con innumerabili inflessioni, composizioni, modificazioni di ogni sorta, giungessero i latini a cavare infinite parole, infinite significazioni, esprimerne le minime differenze delle cose che da principio si confondevano e accumulavano [1133]in ciascuna delle dette poche parole radicali, trarne tutto ciò che doveva servire tanto alla necessità quanto all'utilità ed alla bellezza e a tutti i pregi del discorso, e in somma da un piccolo vocabolario monosillabo (anzi nomenclatura) cavare tutta una lingua delle più ricche, varie, belle, e perfette che sieno state.
E così denno essersi formate tutte le lingue colte del mondo ec.
Così la Chinese ec.
E sarebbe utile e curiosa cosa il formare un albero genealogico di tutte le parole latine derivate, composte ec.
da uno di questi monosillabi, come p.e.
dux, che somministrerebbe un'infinita figliuolanza, senza contare le tante inflessioni particolari di ciascuno de' verbi o nomi derivati o composti ec.
ne' loro diversi casi, o persone e numeri e tempi e modi, e voci (attiva e passiva); e si vedrebbe per l'una parte quanto le vere radici sien poche nella latina come in tutte le lingue, per la naturale difficoltà di porle in uso, e di far nascere la convenzione che sola le può fare intendere e servire; per l'altra parte quanta sia l'immensa fecondità di una sola radice, e le diversissime cose, e differenze loro, ch'ella si adatta ad esprimere mediante i suoi figli ec.
in una lingua giudiziosa e ben coltivata.
Raccogliendo il sin qui detto, io penso che se tali osservazioni si facessero in maggior numero e con più diligenza che non si è fatto finora, (della qual diligenza e profondità gl'inglesi e i tedeschi ci hanno già dato l'esempio anche in questi particolari, massime negli [1134]ultimi tempi, come Thiersch ec.) si semplificherebbe infinitamente la classificazione derivativa delle parole, ossia delle famiglie loro; l'analisi delle lingue si spingerebbe quasi sino agli ultimi loro elementi; si giungerebbe forse a conoscere gran parte delle lingue primitive; (v.
Scelta di opusc.
interess.
Milano 1775.
vol.4.
p.61-64.) lo studio dell'etimologie diverrebbe infinitamente più filosofico, utile ec.
e giungerebbe tanto più in là di quello che soglia arrestarsi; facendosi una strada illuminata e sicura per arrivare fin quasi ai primi principii delle parole, e le etimologie stesse particolari, sarebbero meno frivole; si conoscerebbero assai meglio le origini remotissime, le vicende, le gradazioni, i progressi, le formazioni delle lingue e delle parole, e la loro primitiva (e spesso la loro vera) natura e proprietà; e si scoprirebbero moltissime bellissime ed utilissime verità, non solamente sterili e filologiche, ma fecondissime e filosofiche, atteso che la storia delle lingue è poco meno (per consenso di tutti i moderni e veri metafisici) che la storia della mente umana; e se mai fosse perfetta, darebbe anche infinita e vivissima luce alla storia delle nazioni.
V.
p.1263.
capoverso 2.
Osservo che la lingua latina è più atta a queste speculazioni che la greca, contro quello che può parere a prima giunta, per causa della sua minore antichità vera o supposta.
1.
L'infinità e l'immensa varietà delle modificazioni che la lingua greca poteva dare alle sue radici, e continuò sempre nel lunghissimo spazio della sua letteratura, e nel grandissimo numero de' suoi scrittori, a poterlo ed a farlo, (principal causa della sua potenza e ricchezza), reca un grande impedimento a scoprire [1135]i primitivi elementi, e le vere ed ultime radici di essa lingua, in mezzo alla confusione alla selva delle innumerabili e differentissime diversificazioni di significato, di forma ec.
che hanno continuamente ricevuto, e con cui ci rimangono.
Puoi vedere la p.1242.
marg.
fine.
2.
Le diversissime relazioni ch'ebbero i popoli greci con popoli stranieri d'ogni sorta, mediante il commercio, le guerre, le colonie, le spedizioni d'ogni genere ec.
ec.
relazioni antichissime ed anteriori a quei primi tempi che noi possiamo conoscere della lingua greca; relazioni che hanno certo influito assaissimo su detta lingua, e moltiplicate le sue ricchezze per l'una parte, per l'altra mandate molte sue proprie ed antichissime radici in disuso, ed altre svisatene ed alteratene (v.
in questo proposito il luogo di Senofon.
della lingua Attica); recano altro gravissimo impedimento al nostro fine.
Trattandosi massimamente di relazioni con popoli le cui lingue sono quali del tutto sconosciute, quali malissimo note.
I latini ebbero altrettante e forse maggiori relazioni con forse maggior numero di popoli, ma in tempi più moderni.
Il che 1° diminuisce la difficoltà delle ricerche: 2° la lingua latina essendo già formata, anzi sul punto di essere la più colta del mondo dopo la greca, (dico quando incominciarono [1136]le grandi ed estese relazioni de' latini cogli stranieri) era meno soggetta ad esserne alterata, se non altro, nel suo fondo principale: 3° conoscendo noi bastantemente i tempi della lingua latina anteriori a dette relazioni, le alterazioni che poterono poi sopravvenire a essa lingua non pregiudicano alle nostre ricerche, le quali riguardano gli antichissimi elementi di quella lingua che si parlava quando Roma o non era ancor nata, o era fanciulla.
Infatti gli eruditi inglesi che hanno cercato di provare l'affinità del sascrito colle lingue antiche Europee, sebben credono la greca derivata dall'origine stessa che la latina, hanno tuttavia scelto piuttosto questa per le loro osservazioni, dicendo che la penisola d'Italia vorrà probabilmente riputarsi più favorevole (della Grecia) alla pura trasmissione della lingua originale, potendo essa essersi tenuta più lontana dalla mescolanza di nazioni circonvicine, e di linguaggi diversi.
(Edinburgh Review.
Annali di Scienze e lett.
Milano 1811.
Gennaio.
n.13.
p.38.
fine.) E si trova effettivamente maggiore analogia fra certe voci ec.
latine e sascrite, che fra le stesse greche e sascrite, e pare che la lingua lat.
ne abbia meglio conservate le prime forme.
L'H derivata dall'Heth dell'alfabeto fenicio, samaritano ed Ebraico, il quale Heth era un'aspirazione densa o aspra (Encyclop.
planches des caractères) simile all'j spagnuolo (Villefroy), ha conservata nel latino la sua qualità di carattere aspirativo, laddove è passata a dinotare una e lunga nel greco, dove antichissimamente era pur segno d'aspirazione o spirito.
La f e il v mancanti all'alfabeto Fenicio (Encyclop.
l.c.) mancarono pure come vedemmo all'antico alfabeto latino V.
p.2004-2329.
(e la p.2371.
fine)
3.
E questa che son per dire è la ragione principale.
Tutti sanno, e dalle cose ancora che abbiamo dette, si può vedere, quanto le lingue si allontanino [1137]immensamente dalla loro prima e rozza forma mediante la coltura.
Una lingua non colta, e parlata da un popolo poco in relazione cogli altri, può conservarsi lunghissimo tempo o qual era da principio, o poco diversa, tanto che il primitivo facilmente vi si possa ripescare.
La lingua latina fu veramente formata e stabilita e perfezionata solo negli ultimi tempi dell'antichità.
Giacchè l'epoca del suo perfezionamento è quella di Cicerone.
Ed oltre parecchi monumenti rozzi, ed anteriori non poco a questa perfezione, vale a dire, totale trasformazione della lingua latina primitiva, ci restano ancora molti scrittori di lingua assai meno rozza della prima, e meno colta della Ciceroniana.
Mediante le quali cose, come per gradi, possiamo risalire, se non altro, assai vicino ai principii della lingua latina.
Ora per lo contrario la formazione e quasi perfezione della lingua greca appartiene non solo alla più lontana epoca dell'antichità che noi conosciamo distintamente, ma anzi ad un'epoca ancora tenebrosa e favolosa.
E il più antico monumento della scrittura greca che ci rimanga, è forse anche (eccetto i libri sacri) la più antica scrittura [1138]che si conosca: dico Omero.
E questo scrittore non solamente non è rozzo, ma tale che non ha pari di pregio in veruno de' secoli susseguenti.
Nè tale avrebbe potuto essere senza una lingua o perfetta, o quasi.
Bisogna dunque supporre (come tutti fanno) avanti Omero, una lunga serie di tempi e di scrittori ne' quali la lingua di rozza e impotente divenisse appoco appoco quale si vede in Omero.
Ma i Catoni, i Plauti, i Lucrezi che precederono Omero, non ci restano, come quelli che precederono Cicerone e Virgilio, e neppure si ha certa memoria di nessuno di loro.
Anzi da Omero in su ci si spegne ogni lume intorno alla lingua greca.
V.
dunque la gran differenza degli ostacoli allo scoprimento della prima lingua greca, paragonati con quelli per la prima lingua latina.
Possiamo dire che nella lingua latina abbiamo la stessa antichità della greca, e contuttociò un'antichità meno antica e più vicina a noi.
Io credo però che la ricerca di questa, ci farà strada alla ricerca delle origini greche.
Stante che la lingua latina è sorella della greca, ed arrivando alla fonte di quella, si giunge dunque alla fonte di questa.
O se il latino è derivato dal greco, certo n'è derivato in antichissima età, e così verremo ad illuminare mediante le origini latine, quest'antichissima età della lingua greca.
V.
p.1295.
Se è vera l'opinione del Lanzi che la lingua [1139]Etrusca non sia fuori che un misto dell'antichissimo latino e dell'antichissimo greco, detta lingua, e il suo studio potrà molto giovare a queste nostre ricerche.
E vicendevolmente le osservazioni che abbiam fatto, dovranno poter giovare notabilmente alla intelligenza e rischiaramento della lingua Etrusca ancora sì tenebrosa, e per l'altra parte altrettanto interessante.
(29.
Maggio-5.
Giugno 1821.)
Alla p.1127.
E lo pronunziavano così leggermente, che ora sebbene ne resta un vestigio nella scrittura, convertito nel segno dell'aspirazione, è svanito però del tutto dalla pronunzia, anche come semplice aspirazione.
Similmente i francesi, per quello che noi diciamo fuori o fuora e gli spagnuoli fuera dal lat.
foras o foris, dicono hors, aspirando però l'h.
In luogo di voce i Veneziani dicono ose dileguato il v.
Il ? greco, non è, come si sa, che un ? aspirato, come si vede anche nelle mutazioni gramaticali e sostituzioni dell'una di tali lettere all'altra.
Mancava, come si dice, al primitivo alfabeto greco detto Cadmeo o Fenicio, e vi fu aggiunto, come dicono, da Palamede (Plin.
7.56.) insieme col ? e col ? che sono un ? ed un ? aspirati (Servius ad Aen.
2.
vers.81.) V.
Fabric.
B.
G.
I.
23.
§.2.
e il Lessico dell'Hofmanno, v.
Literae.
È anche probabile che mancasse all'Alfabeto ebraico e che il b non fosse che un p.
lettera che oggi manca a detto alfabeto.
V.
p.1168.
L'alfabeto chiamato Devanagari ossia quello della lingua sascrita, (dalla quale alcuni dotti inglesi fanno derivar la latina) sebbene composto di 50 lettere manca, della f, e invece la detta lingua adopera un b, o un p aspirati.
(Annali di Scienze e lettere.
Milano 1811, n.13, p.43.) ec.
ec.
(5.
Giugno 1821.).
Considera ancora il nome greco di Giapeto, da Jafet, ebreo o fenicio ec.
[1140]Alla p.1115.
E perchè meglio si veda la differenza reale tra i frequentativi e i continuativi, ogni volta che questi verbi erano usati dagli scrittori, secondo il loro valor proprio, consideriamo quel passo di Virgilio (Aen.
2.458.
seq.) dove dice Enea che salì alla sommità della reggia di Priamo assediata da' Greci:
Evado ad summi fastigia culminis: unde
Tela manu miseri IACTABANT irrita Teucri.
Per poco che s'abbia l'orecchio avvezzo al latino, facilmente si vede come impropria e debole in questo luogo sarebbe la parola iaciebant invece di iactabant.
Ma quanto male vi starebbe anche iactitabant, cioè il frequentativo di iacere, si vedrà ponendo mente che detta parola avrebbe significato lanciare spesso, ed anche languidamente; laddove iactabant, continuativo, significa lanciavano assiduamente, e a distesa senza veruna intermissione.
E così questo verbo riesce proprissimo, ed ottimamente quadra al bisogno.
E l'azione qui viene ad essere continuativa, e non frequentativa, che è troppo poco ad una resistenza ostinata quale Virgilio voleva esprimere.
V.
dunque la differenza fra il continuativo e il frequentativo, e se iactare sia frequentativo come dicono i gramatici.
Nè mi si dica che Virgilio voleva esprimere una resistenza debole e inutile, e però volle usare una parola che esprimesse certo languore di azione.
Debole e inutile, [1141]rispetto alle forze superiori de' greci, non già debole rispetto alle forze degli assediati, anzi tanta quanta più si poteva.
E Virgilio vuol descrivere una resistenza quanto più vana, tanto più disperata.
E così quel miseri e quell'irrita che esprimono l'inutilità della resistenza fanno un bello e vivo contrapposto collo iactabant che esprime lo sforzo, l'infaticabilità, l'affanno, l'ostinazione, la ferocia, la fermezza, la pienezza della resistenza, e rende questo luogo sommamente espressivo in virtù della proprietà delle parole, al solito di Virgilio.
La qual bellezza, e la piena forza e il vero senso di questo verbo nel detto luogo e in altri simili, come ancora di altri tali verbi in tali usi, e le bellezze d'altri siffatti luoghi, non credo che sieno state mai sentite da nessun moderno, per non essersi mai posto mente alla vera proprietà, alla propria forza, natura, indole di questo genere di verbi che chiamo continuativi.
Servio spiega, IACTABANT: Spargebant, quasi nihil profutura, senso che non ha che far niente con quello che abbiamo osservato, e che deriva dal credere iactare un verbo tra frequentativo e diminutivo, come iactitare o presso a poco; e che tuttavia credo essere il senso nel quale questo e mille altri luoghi simili ed analoghi sono stati e sono intesi da tutti.
(6.
Giugno 1821.).
V.
p.2343.
[1142]Alla p.1109.
Fra' quali da depositus di deponere il verbo depositare o dipositare italiano, e lo spagnuolo depositar e il latinobarbaro depositare, verbo che continua quanto si può l'azione del deporre, significando il deporre una cosa che non si debba ripigliare così tosto, o il deporla raccomandandola, e commettendola alla fede, o ponendo in cura e custodia altrui, che ognun vede essere azione più lunga del deporre, e quanto il deporre sia più semplice.
Il Glossar.
latino barbaro ha similmente assertare ec.
da assertus ec.
usitare frequentativo ec.
da usus ec.
conservato in italiano, come pure il suo participio in francese ec.
V.
il detto Glossar.
Molti di così fatti verbi che si stimano di origine o barbara o recente, e nati ne' tempi della bassa latinità, o ne' principii delle lingue nostre, io credo che sieno antichi continuativi latini o perduti o non ammessi nell'uso de' buoni scrittori, e pervenuti alla lingue nostre mediante il latino volgare.
Portiamone alcune prove.
Versare è continuativo di vertere dal suo participio versus.
Il Forcellini lo chiama frequentativo.
E io domando se in questi esempi ch'egli adduce (v.
gli esempi del primo §.) versare importa frequenza o continuazione.
E così quando Orazio disse
Vos exemplaria graeca
Nocturna versate manu, versate diurna
facilmente si vede che dicendo vertite avrebbe detto assai meno, e significata l'assiduità molto impropriamente.
Così discorrete del passivo versari che [1143]significa un'azione o passione della quale non so qual possa essere di sua natura più continua.
Così di conversari, adversari ec.
Da versare o da transversus, participio di transvertere, deriva transversare, e da questo il traversare, l'attraversare, e l'intraversare italiano, il francese traverser, e lo spagnuolo travessar e atravessar.
Ma il verbo transversare escluso dagli onori del Vocabolario sta relegato ne' Glossari, come in quello del Du Cange che l'interpreta transire, trajicere; e il Forcellini lo rigetta appiè del suo Vocabolario nello spurgo delle voci trovate senza autorità competente ne vecchi Dizionari latini, e lo spiega transverse ponere.
Nè la recente Appendice al Forcellini lo toglie di quel posto o lo ricorda in veruna guisa.
Ora ecco questa parola barbara in un gentilissimo poemetto o idillio del secolo di Augusto o del susseguente, dico in quel poemetto che s'intitola Moretum, (attribuito da alcuni a Virgilio, da altri ad un A.
Settimio Sereno o Severo, poeta Falisco del tempo de' Vespasiani) ad imitazione del quale, (cosa finora, ch'io sappia, non osservata) il nostro Baldi scrisse il famoso Celeo, dove quasi traduce i primi versi del poemetto latino.
Dice dunque l'autore d'esso poemetto
[1144]Contrahit admistos nunc fontes atque farinas:
TRANSVERSAT durata MANU, liquidoque coactos
Interdum grumos spargit sale.
(v.45.
seqq.)
Cioè vi passa e ripassa sopra colla mano, attraversa quella pasta già sodetta colla mano.
Ecco dunque il verbo transversare, e le nostre parole ec.
di origine antica, e latina pura.
Potrebbe darsi che transversare volesse dire a un dipresso versare, cioè rivolgere e dimenare fra le mani.
Nondimeno la spiegazione che danno il Gloss.
e il Forcell.
a transversare, la prep.
trans, e il significato della voce transversus ec.
par che confermino la mia interpretazione.
C'è anche il verbo transvertere di cui v.
Forcell.
e di cui transversare par che debba essere il continuativo.
Tiriamo innanzi con altro esempio.
Da arctus o arcitus antico participio di arcere preso nel significato di coercere, continere (del quale v.
Festo e il Forcellini che ne dà buoni esempi), viene il continuativo arctare che significa stringere constringere, non già momentaneamente come quando stringiamo la mano ad uno; ma stringere continuatamente, ed in modo che l'azione dello stringere non sia un puro atto, ma un'azione.
O da arctare, o da coercere deriva il verbo coarctare che significa ne' buoni scrittori latini ristringere.
Ma ne' Glossari latino barbari questo verbo si trova in significato di costringere o forzare, e in questo senso l'adoperò Paolo giureconsulto l'esempio del quale è registrato negli stessi vocabolari latini: e in questo senso assai più che in quello di ristringere (oggi, si può dire dimenticato) s'adopera in Italia coartare e coartazione, quantunque la Crusca non dia questo significato a coartare, [1145]e dandolo a coartazione, s'inganni credendo che nell'unico esempio che riporta, questa parola sia presa in detto senso, giacchè v'è presa nel senso di restrizione; conforme ha dimostrato il Monti (Proposta ec.
alla voce Coartazione.
vol.1.
par.2.
p.166.).
Il quale condanna come barbare le parole coartare e coartazione prese in forza di Costrignimento, Sforzamento.
Ora io credo che questo significato non sia nè barbaro in italiano, nè moderno nel latino, ma antico ed usitato nel latino volgare, quantunque non ammesso nelle buone scritture.
Primieramente osservo che coarctare è continuativo di coercere, e coercere, come ognun sa, ha ne' buoni latini un significato metaforico (più comune forse del proprio) che somiglia molto a quello di forzare.
Anzi alcuni gramatici gli danno anche questo significato, sebbene sopra autorità incompetente, cioè quella del libricciuolo De progenie Augusti attribuito a Messala Corvino, dove si legge: Superatos hostes Romae cohabitare COERCUIT, cioè costrinse.
Il quale libretto sebbene dagli eruditi è creduto apocrifo, e dell'età mezzana, tuttavia non è forse d'autorità nè di tempo inferiore a molti e molti altri che sono pur citati nel Vocabolario latino.
Laonde, se coercere [1146]significava forzare, o cosa somigliante, è naturalissimo che il suo continuativo coarctare avesse, almeno nel volgare latino, lo stesso o simile significato.
In secondo luogo osservo che la metafora dallo stringere al forzare è così naturale che si trova e nel latino stesso, e (lasciando le altre) in tutte le lingue che ne derivano.
Quae tibi scripsi, primum, ut te non sine exemplo monerem: deinde ut in posterum ipse AD EANDEM TEMPERANTIAM ADSTRINGERER, cum me hac epistola quasi pignore obligavissem, dice Plinio minore (l.7.
ep.1.).
Che altro vuol dire se non costringersi, forzarsi, obbligarsi (com'egli poi spiega) alla temperanza? Altri usi di adstringere (e parimente di obstringere, constringere, e del semplice stringere latino) similissimi a quelli di forzare sono noti ai gramatici.
E cogere che in senso metaforico (più comune ancora del proprio) significa forzare, ed è contrazione di coagere, che altro significa propriamente se non se in unum colligere, congregare, condensare, spissare, colligare, constringere? Il suo continuativo coactare si adopra pure da Lucrezio nel significato di forzare.
Presso noi stringere, astringere, costringere, [1147]oltre i significati propri hanno anche il metaforico di sforzare.
Presso i francesi astreindre e contraindre si sono talmente appropriato il detto senso, che astreindre manca del primitivo significato di stringere, e in contraindre si considera questa significazione propria, come figurata.
Il che avviene ancora al secondo e terzo dei detti verbi italiani.
Presso gli spagnuoli apretar che significa stringere, vale ancora comunemente hacer fuerza, ossia sforzare; e constreñir o costreñir (da estreñir che significa stringere) non serba altro significato che di sforzare.
Estrechar ha quello di stringere per significato proprio e comune, e quello di costringere o sforzare per metaforico.
Il legare è una maniera di stringere.
Ora, lasciando le significazioni metaforiche del latino obligare, somiglianti a quelle di forzare11 in italiano, in francese, [1148]in ispagnuolo ognuno sa che obligare, obliger, obligar si adopra continuamente nell'espresso significato di costringere.
Mi par dunque ben verisimile che il verbo coarctare (continuativo di coercere), oltre il senso proprio di ristringere, avesse anche, non solo nella bassa latinità, ma nell'antico volgare latino, il senso di forzare.
(6-8.
Giu.
1821.).
V.
p.1155.
Alla p.1107.
Quantunque il Forcellini chiama acceptare frequentativo di accipere, sed, aggiunge, eiusdem fere significationis.
Ora la differenza della significazione la può sentire ne' detti esempi ogni buon orecchio, sostituendovi il verbo accipere.
E quanto al frequentativo, osservi ciascuno che differenza passi dal ricevere annualmente una tale o tale entrata, ch'è azione continua rispettivamente alla natura del ricevere, al ricevere frequentemente; azione che non importa ordine, nè regola, nè determina il come, nè il quando nè con quali intervalli si riceva.
Ed a questo proposito porterò un luogo di Plauto, dove Arpage venuto per pagare un debito [1149]del suo padrone, dice a Seudolo servo del creditore Tibi ego dem? Risponde Seudolo
Mihi hercle vero, qui res rationesque, heri
Ballionis curo, argentum adcepto, expenso, et cui debet,
dato.
(Pseud.
2.2.
v.31.
seq.)
Ecco tre continuativi, e nella loro piena forza e proprietà: adceptare da adceptus di adcipere, expensare da expensus di expendere, e datare da datus di dare.
Crediamo noi che Plauto abbia posti a caso questi tre verbi in fila, tutti d'una forma, in cambio de' loro positivi? Ma qui stanno e debbono stare i continuativi in luogo de' positivi, perchè questi esprimono una semplice azione, laddove qui s'aveva a significare il costume di far quelle tali azioni.
Datare alcuni dicono ch'è lo stesso che dare.
(Indice a Plauto).
Vedete come s'ingannino, e sbaglino la proprietà dell'idioma latino.
Il Forcellini lo chiama frequentativo di dare, e portando un passo di Plinio maggiore, Themison (medico) binas non amplius drachmas (di elelboro) datavit, spiega dare consuevit.
Ma il costume è cosa continua (quando anche l'azione non è continua) e non già frequente, e la frequenza viceversa non importa costume.
E quando Plauto in altro luogo (Mostell.
3.1.
v.73.) dice Tu solus, credo, foenore argentum datas; [1150]e Sidonio (lib.5.
ep.13.), ne tum quidem domum laboriosos redire permittens, cum tributum annuum DATAVERE, usano il continuativo in luogo del positivo, perchè hanno a significare non il semplice atto di dare, ma il costume di dare, che è cosa nè semplice nè frequente, ma continua.
Da sputus o sputum di spuere, sputare.
Iamdudum sputo sanguinem, dice Plauto, cioè soglio sputar sangue, e non avrebbe potuto dire spuo.
V.
in tal proposit.
Virgil.
(Georg.
1.336.) receptet.
Ricettare e raccettare in italiano non è azione venti volte più continua, o durevole ec.
di ricevere? V.
anche resultat Georg.
4.
50.
ed osserva il risultare ital.
franc.
e spagn.
Puoi vedere p.2349.
Da ostentus di ostendere, participio, a quel che pare, più antico di ostensus, ebbero i latini il continuativo ostentare.
Altera manu fert lapidem, panem OSTENTAT altera
disse Plauto (Aulul.
2.2.
v.18.), e non avrebbe potuto dir propriamente ostendit, volendo significar uno che quasi ti mette quel pane sotto gli occhi, perchè tu non solamente lo veda, ma lo guardi.
E Cicerone metaforicamente (Agrar.
2.
c.28.): Agrum Campanum quem vobis OSTENTANT, ipsi cuncupiverunt.
Ponete ostendunt invece di ostentant, e vedrete come l'azione diventa più breve, e la sentenza snervata e inopportuna.
Lo stesso dico delle altre metafore di ostentare per iactare, gloriari, venditare e simili, tutti significati continuati.
(8-9.
Giu.
1821.).
V.
p.2355.
principio.
Alla p.1166.
Quello che dico de' verbi in tare si deve anche estendere ad altri verbi terminati in altro modo, massimamente in sare per anomalia de' participi o supini da cui derivano; come pulsare (che anticamente, e soprattutto, come nota Quintiliano, presso i Comici, si scrisse anche pultare) [1151]è continuativo di pellere dall'anomalo participio pulsus, e così versare di vertere, ed altri che abbiamo veduto.
Voglio però notare che forse pultare creduto lo stesso che pulsare, è contrazione di pulsitare, e diverso originariamente da pulsare quanto è diverso il frequentativo dal continuativo.
E quanto a pulsare s'egli sia propriamente continuativo o frequentativo, come lo chiamano, vedilo in questo luogo di Cicerone (De Nat.
Deor.
1.
c.41.) cum SINE ULLA INTERMISSIONE PULSETUR.
Così da responsus o responsum di respondere, viene responsare continuativo.
Num ancillae aut servi tibi
Responsant? eloquere: impune non erit.
(Plaut.
Menaechm.
4.2.
v.56.
seq.)
Cioè ti sogliono rispondere arrogantemente, non già ti rispondono semplicemente ovvero ti rispondono spesso.
E nel significato metaforico di resistere il verbo responsare è parimente continuativo, e così quando significa eccheggiare, che è cosa più continuata del rispondere, e per nulla frequente, come ognun vede.
(9.
Giugno 1821.).
Così da cessus di cedere viene cessare, il quale chiamano frequentativo, sebbene io non sappia veder cosa più continuata di quella ch'esprime questo verbo.
V.
p.2076.
Alla p.1124.
marg.
E chiunque porrà mente ai versi de' comici, e altresì di Fedro, e degli altri Giambici latini, o se n'abbiano opere intere (come Catullo, le tragedie di Seneca) o frammenti, ci troverà molte altre licenze proprie di quelle sorte di versi, e note agli eruditi; ma anche [1152]potrà di leggeri avvertire che dovunque s'incontrano due o più vocali alla fila, o nel principio o nel mezzo o nel fine delle parole, quelle vocali per lo più e quasi regolarmente stanno per una sillaba sola, come formassero un dittongo, quantunque non lo formino, secondo le leggi ordinarie della prosodia.
Fuorchè se dette vocali si trovano appiè de' versi, dove bene spesso (come ne' versi italiani) stanno per due sillabe, ma spesso ancora per una sola, come in questo verso di Fedro:
Repente vocem sancta misit Religio.
(lib.2.
fab.11 al.10.
vers.4.) Questo è un giambo trimetro acataletto, cioè di sei piedi puri, e la penultima breve, non è la sillaba gi di Religio, ma la sillaba li.
Similmente in quel verso di Catullo, sebbene in questo e nelle leggi metriche, più diligente assai degli altri, (Carm.18.
al.17.
vers.1.)
O Colonia quae cupis ponte ludere ligneo
la penultima dovendo esser lunga, non è la sillaba gne di ligneo, ma la sillaba li, s'è vera questa lezione di ligneo per longo come altri leggono.
Oltre che questo verso trocaico stesicoreo, dovendo essere di quindici sillabe, sarebbe di sedici, se ligneo fosse trisillabo.
(La parola ligneo è qui un trocheo, piede di una lunga e una breve, detto anche coreo).
E quello che dico de' latini, dico anche dei greci.
Nel primo verso della Ricchezza di Aristofane
?????????????????????????????????????????
[1153]la parola ???????? è trisillaba.
E notate che scrivendo
???????????????????????(????????????????
senza nessuna fatica questo verso riusciva giambo trimetro o senario puro, secondo le regole della prosodia greca.
Dal che si vede che quei poeti i quali scrivevano, come dice Tullio dei Comici, a somiglianza del discorso, (Oratoris cap.55.) adoperavano quasi regolarmente siffatte vocali doppie ec.
come dittonghi, e conseguentemente che l'uso quotidiano della favella (tenace dell'antichità molto più che la scrittura) le stimava e pronunziava per dittonghi, o sillabe uniche, sì nella Grecia come nel Lazio.
Puoi vedere la nota del Faber al 2.
verso del prologo di Fedro, lib.1.
e quella pure del Desbillons nelle Addenda ad notas, p.
LI.
fine.
(10.
Giugno, dì di Pentecoste.
1821.).V.
p.2330.
Alla p.1123.
Anzi, secondo me, da principio si diceva legitus, tegitus, agitus, quindi per contrazione, legtus, tegtus, agtus, e finalmente per più dolcezza, lectus, tectus, actus.
E chi se ne vuol persuadere, ponga mente al verbo agitare, il quale, secondo quello che abbiamo osservato e dimostrato finora, è formato dal participio (o dal sup.) di agere.
[1154]E quindi s'inferisce che l'antico e primo participio di agere non fu actus ma agitius da cui venne agitare, come poi da actus actitare.
V.
il Forcell.
in Caveo, fine.
e p.2368.
Lo stesso dico di cogitare o venga da agitare, o dall'antico coagitus di cogere.
V.
p.2105.
capoverso 1.
E similmente come da lectus di legere derivarono lectare e lectitare, così dall'antico legitus, il verbo legitare mentovato da Prisciano.
(10.
Giugno 1821.).
V.
p.1167.
Alla p.1113.
marg.
Se però rogitare non deriva da un antico participio rogitus di rogare (come domitus di domare, crepitus ovvero il sup.
crepitum di crepare, e tali altri) del che mi dà forte sospetto la nostra voce rogito participio sostantivato da rogare, in vece di rogato.
Da lactatus allattato, lactitare ec.
Restitare non saprei se da restatus, o restitus, ambedue inusati, e se da resisto, o resto.
V.
p.2359.
La bassa latinità diceva parimente rogitus us nello stesso significato, ed anche addiettivamente rogitus a um, e roitus in luogo appunto di rogatus, del che v.
il Du Cange.
Del resto anche da paratus di parare, da imperatus d'imperare, da volatus o volatum di volare, da vocatus di vocare (v.
Forcell.
circa vocitare che par verbo continuativo dinotante costume), e da mussatus di mussare i latini fecero paritare, imperitare, volitare, vocitare, e mussitare; e generalmente pare che questo fosse il costume nel formare o i frequentativi o i continuativi da' participii in atus della prima congiugazione; di cambiare cioè l'a del participio in i, per isfuggire il cattivo suono p.e.
di mussatare, o mussatitare.
(Eccetto però datare ec.) Così da mutuatus di mutuare fecero mutitare sincopato da mutuitare se crediamo a quelli che derivano questo verbo mutitare dal precedente mutuare.
Altri lo derivano da mutare, e fa parimente al caso nostro.
(11.
Giugno 1821.).
V.
p.2079.
e 2192.
fine.
e 2199.
principio.
[1155]Alla p.1148.
Lo spagnuolo pintar, cioè dipingere derivato certo dal participio del verbo pingere, sembra che se non altro dinoti un antico participio pinctus, in vece di pictus, participio regolare e proprio di pingere, come tinctus di tingere, cinctus di cingere, planctus o planctum di plangere ec.
(e v.
p.1153.
capoverso ult.
donde raccoglierai che il primo e vero participio passivo di tali verbi era pingitus, tingitus ec.) e conservatosi, a quel che pare, nel volgare latino.
(11.
Giugno 1821.).
Non diciamo noi pinto, dipinto ec.? Pitto solamente in poesia come il Rucellai nelle Api.
I francesi peiNt ec.
Alla p.1121.
Così dubitare deriva da dubitus o dubitum o dubiatum (v.
p.1154.) di un antico dubiare mentovato da Festo, e conservato nell'antico italiano.
Questo però terminando in itare può anche, secondo il detto alla p.1113.
essere un verbo tra frequentativo e diminuitivo, sul gusto di haesitare da haerere, che somiglia anche nel significato.
V.
p.1166.
fine.
(11 Giu.
1821.)
Alla p.1117.
Nostri soli continuativi sono i verbi venire e andare uniti a' gerundi de' verbi denotanti l'azione che vogliamo significare, come venir facendo, andar dicendo.
I quali modi però hanno meno forza, e meno significazione della continuità, che non ne hanno propriamente i continuativi latini.
E dimostrano una languida continuazione della cosa, un'azione più languida, e meno continua, ed anche interrotta; e di più un'azione meno perfetta.
V.
p.1212.
capoverso 1.
e p.2328.
(11.
Giugno 1821.)
Alla p.1128.
Da queste osservazioni apparisce che la desinenza italiana della prima persona attiva singolare del perfetto indicativo, dico la desinenza in ai, è la vera e primitiva desinenza latina di detta persona, conservatasi per tanti secoli dopo sparita dalle scritture, o senza mai esservi ammessa, mediante il volgare latino; e per tanti altri, mediante la nostra lingua che gli [1156]è succeduta.
Desinenza conservatasi anche nella scrittura francese, nostra sorella, ma perduta nella pronunzia, conforme alla qual pronunzia gli spagnuoli (altri nostri fratelli) scrivono e dicono amè ec.
Voce senza fallo derivata dall'antichissimo amai, mutato il dittongo ai nella lettera e, forse a cagione del commercio scambievole ch'ebbero i francesi e gli spagnuoli, e le lingue e poesie loro ne' principii di queste e di quelle: commercio notabilissimo, lungo, vivo, e frequente; e conosciuto dagli eruditi, (Andrès t.2.
p.281.
fine, e segg.) e che in ordine alla forma di molte parole e frasi è la sola cagione per cui la lingua spagnuola somiglia alla latina meno della nostra, quantunque in genere somigli e la lat.
e la nostra assai più della francese.
Così nel futuro amarè ec.
ec.
somiglia alla lingua francese pronunziata.
Quanto alla cagione per cui si trasmise col tempo alle lettere a ed i il digamma eolico, e poi il v, affine d'evitare, come dicono, l'iato, secondo il costume eolico, osserverò alcune cose che gioveranno anche a tutta questa parte del nostro discorso, e dalle quali potremo forse dedurre che il detto costume non venne veramente dal popolo, come ho detto p.1128.
il quale anzi pare che conservasse la pronunzia antica fino a tramandarla ai nostri idiomi, [1157]ma venne piuttosto, o nella massima parte, dagli scrittori, o dal ripulimento della rozza lingua latina antica.
Il concorso delle vocali suol essere accetto generalmente alle lingue (se non altro de' popoli meridionali d'occidente) tanto più, quanto elle sono più vicine ai loro principii, ovvero ancora quanto sono più antiche, e quanto più la loro formazione si dovè a tempi vicini alla naturalezza de' costumi e de' gusti.
Per lo più vanno perdendo questa inclinazione col tempo, e col ripulimento, e si considera come duro e sgradevole il concorso delle vocali che da principio s'aveva per fonte di dolcezza e di leggiadria.
La lingua latina che noi conosciamo, cioè la lingua polita e formata e scritta non ama il concorso delle vocali, perch'ella fu polita e formata e scritta in tempi appunto politi e civili, e i più lontani forse dell'antichità dalla prima naturalezza; nell'ultima epoca dell'antichità; presso una nazione già molto civile ec.
Per lo contrario la lingua greca stabilita e formata, e ridotta a perfette scritture in tempi antichissimi, gradì nelle scritture il concorso delle vocali, lo considerò come dolcezza e dilicatezza; e perciò la lingua greca che noi conosciamo e possiamo conoscere, cioè la scritta, [1158]ama il concorso delle vocali, specialmente quella lingua che appartiene agli scrittori più antichi, e nel tempo stesso più grandi, più classici, più puri, e più veramente greci.
E siccome la prosodia greca era già formata ai tempi d'Omero, (sia ch'egli la trovasse, o la formasse da se) la latina lo fu tanti e tanti secoli dopo, così fra la poesia dell'una e dell'altra lingua si osserva una notabile differenza in questo proposito, la quale conferma grandemente il mio discorso.
Ed è che nella poesia latina se una parola finita per vocale è seguita da un'altra che incominci per vocale, l'ultima vocale della parola precedente è mangiata dalla seguente, si perde, e non si conta fra le sillabe del verso.
All'opposto nella poesia greca non è mangiata, nè si perde o altera in verun modo, e si conta per sillaba, come fosse seguita da consonante; fuorchè se il poeta non la toglie via del tutto, surrogandole un apostrofo.
Così dico dei dittonghi nello stesso caso, parimente elisi nella poesia latina, e intatti nella greca.
Parimente la lingua italiana antica, quella lingua de' trecentisti, che quanto alla dolcezza e leggiadria non ha pari in nessun altro secolo, non [1159]solo non isfugge il concorso delle vocali, ma lo ama.
Proprietà che la nostra lingua è venuta perdendo appoco appoco, quanto più s'è allontanata dalla condizione primitiva; e che oggi non solo dal massimo numero degli scrittori cioè da quelli di poca vaglia, ma da più eleganti, è per lo più sfuggita come vizio, e come causa di brutto e duro suono, in luogo di dolcezza o di grazia.
Massimamente però gli scrittori più triviali (dico quanto alla lingua e lo stile), o affettati o no, di questo e de' due ultimi secoli, par ch'abbiano una somma paura che due o più vocali s'incontrino, e storcono le parole in mille maniere per evitare questo disastro.
E così stimo che accada a tutte le lingue in ragione del tempo, dell'indole sua, e del ripulimento di esse lingue.
E accadde, io penso, anche alla lingua greca.
Giacchè, lasciando quello che si può notare negli scrittori greci più recenti, i dittonghi che da principio, e lungo tempo nel seguito si pronunziavano sciolti, si cominciarono a pronunziar chiusi, e questo costume, come osservò il Visconti, risale fino al tempo di Callimaco, se è veramente di Callimaco un epigramma che porta il suo nome, dove alle parole ????????????si fa che l'eco risponda ????? ???? (epig.30), la qual cosa dimostra che lo scrittore dell'epigramma pronunziava nechi ed echi come i greci moderni, per naichi ed echei.
E come io non [1160]dubito che i latini anticamente non pronunziassero i loro dittonghi sciolti siccome i greci, così mi persuado facilmente che a' tempi di Cicerone e di Virgilio li pronunziassero chiusi come oggi si pronunziano.
(12.
Giugno 1821.)
Alla p.1118.
Perchè meglio s'intenda questa teoria de' verbi continuativi, ne osserveremo e ne distingueremo la natura più intimamente ed accuratamente che non abbiamo fatto finora.
Atto ed azione propriamente, differiscono tra loro.
L'atto, largamente parlando, non ha parti, l'azione sì.
L'atto non è continuato, l'azione sì.
Questi due verbali actus ed actio, sì nel latino come nell'italiano, (ed anche nel francese ec.) e non solamente questi, ma anche gli altri di simile formazione, a considerarli esattamente, differiscono in questo, che il primo considera l'agente come nel punto, il secondo come nello spazio, o nel tempo.
Certo non si dà cosa veramente e assolutamente indivisibile, ma se considereremo le opere dell'uomo o di qualunque agente, vedremo che alcune ci si presentano come indivisibili, e non continuate, altre come divisibili e continuate.
Quando per tanto il verbo positivo latino significa atto, il verbo continuativo significa azione.
[1161]P.e.
vertere significa atto, versare azione.
Il voltare non può farsi veramente in un punto solo, ma la lingua necessariamente considera l'atto del voltare come indivisibile e non continuato.
Laddove quello che in latino si chiama versare, come il voltare per un certo tempo una ruota, si considera naturalmente come azione continuata, fatta non già nell'istante, ma nello spazio, e composta di parti.
Questa dunque è azione, quello è atto, e quest'azione è composta di molti di quegli atti.
Spessissimo avviene che ciò che l'uomo o la lingua considera come atto sia più durevole di un'azione dello stesso genere.
Come, per non dipartirci dall'esempio recato, l'azione del voltare una ruota per lo spazio, poniamo, di una mezz'ora, è più breve dell'atto di voltare sossopra una gran pietra, che non si possa rivolgere senza l'opera d'una o più ore.
E tuttavia quell'azione in latino si esprimerebbe col verbo continuativo versare, quest'atto benchè più lungo dell'azione, non potrebbe mai dirsi versare, ma si esprimerebbe col positivo vertere.
Perchè quest'atto, ancorchè lungo, rappresentandocisi complessivamente al pensiero, ci desta un'idea unica, non [1162]continuata, semplice: laddove quell'azione ci si presenta come moltiplice, composta, e continuata.
Similmente jacere significa atto, jactare, azione.
Quando poi il verbo positivo latino esprime esso stesso non atto, ma azione, come sequi, ec.
il continuativo significa la stessa azione più lunga e durevole, o più continua o costante, come sectari ec.
E finalmente spesse volte il continuativo significa l'usanza, il costume di fare quella tale azione o atto significato dal verbo positivo, come acceptare, datare, captare (v.
il Forcellini), secondo che abbiamo veduto, significano il costume di ricevere, dare, prendere.
(Forse captare nel senso p.e.
di captare aves o pisces appartiene piuttosto alla classe precedente de' continuativi dall'atto all'azione.) Noi abbiamo appunto volgere, voltare (cioè volutare), e voltolare, o rivolgere, rivoltare ec.
positivo, continuativo e frequentativo.
Queste osservazioni debbono sempre più farci ammirare la sottigliezza, e la squisita perfezione della lingua latina, che forse non ha l'uguale in simili prerogative e facoltà.
(12.
Giugno 1821.).
V.
p.2033.
fine.
Alla p.1115.
marg.
in fine.
Che se il verbo salire è stato usato dall'Ariosto, dall'Alamanni, dal Caro e da altri nel significato dell'italiano saltare, come afferma il Monti (Proposta ec.
Esame di alcune voci, alla v.
ascendere.
vol.1.
par.2.
p.65.), e bene, ciò non prova che quel verbo abbia tale significazione in nostra lingua, ma solo presso gli scrittori, e detto verbo in tal senso non è veramente italiano, ma latinismo, [1163]come tanti altri, e latinismo non lodevole, a differenza di molti altri, e non meritevole di passare in uso o nel discorso o nelle scritture.
Il francese saillir ha conservato alcuni significati figurati del latino salire, e lo spagnuolo salir per uscire (nel qual senso anche l'italiano salire fu adoprato dall'Ariosto) si avvicina pure al metaforico latino di salire per celeriter emergere.
E v.
se lo spagnuolo salir ha altri significati.
(13.
Giugno 1821.)
Il miglior uso ed effetto della ragione e della riflessione, è distruggere o minorare nell'uomo la ragione e la riflessione, e l'uso e gli effetti loro.
(13.
Giugno 1821.)
Domandato il tale qual cosa al mondo fosse più rara, rispose, quella ch'è di tutti, cioè il senso comune.
(13.
Giugno 1821.)
Altra prova dell'antico odio nazionale.
Presso gli antichi latini o romani, forestiero e nemico si denotavano colla stessa parola hostis.
V.
Giordani nella lettera al Monti, in fine, (Proposta ec.
vol.1.
par.2.
p.265.
fine.
alle voci Effemeride.
Endica.
Epidemia.) il Forcellini, e il mio pensiero su questa voce, p.205.
fin.
dove si porta anche l'esempio simile, della lingua Celtica.
(13.
Giugno 1821.)
[1164]I Toscani che dicono bi ci di, perchè dicono effe, emme, enne, erre, esse (v.
la Crusca) e non effi, emmi ec.? anzi iffi, immi ec.?
(13.
Giugno 1821.)
A quello che ho notato altrove dell'antichità della nostra frase gridare a testa, ec.
aggiungi delle francesi, crier à pleine tête, à tue tête, du haut de sa tête, delle quali v.
l'Alberti v.
Tête, e v.
pure i Diz.
spagnuoli.
(13.
Giugno 1821.)
L'invidia, passione naturalissima, e primo vizio del primo figlio dell'uomo, secondo la S.
Scrittura, è un effetto, e un indizio manifesto dell'odio naturale dell'uomo verso l'uomo, nella società, quantunque imperfettissima, e piccolissima.
Giacchè s'invidia anche quello che noi abbiamo, ed anche in maggior grado; s'invidia ancor quello che altri possiede senza il menomo nostro danno; ancor quello che ci è impossibile assolutamente di avere, e che neanche ci converrebbe; e finalmente quasi ancor quello che non desideriamo, e che anche potendo avere non vorremmo.
Così che il solo e puro bene altrui, il solo aspetto dell'altrui supposta felicità, ci è grave naturalmente per se stessa, ed è il soggetto di questa passione, la quale per conseguenza non può derivare se non dall'odio verso gli altri, derivante dall'amor proprio, ma derivante, se m'è lecito di [1165]così spiegarmi, nel modo stesso nel quale dicono i teologi che la persona del Verbo procede dal Padre, e lo Spirito Santo da entrambi, cioè non v'è stato un momento in cui il Padre esistesse, e il Verbo o lo Spirito Santo non esistesse.
(13.
Giugno 1821.)
La convenienza al suo fine, e quindi l'utilità ec.
è quello in cui consiste la bellezza di tutte le cose, e fuor della quale nessuna cosa è bella.
(13.
Giugno 1821.)
Tutti quanti i giovani, benchè qual più qual meno, sono per natura disposti all'entusiasmo, e ne provano.
Ma l'entusiasmo de' giovani oggidì, coll'uso del mondo e coll'esperienza delle cose che quelli da principio vedevano da lontano, si spegne non in altro modo nè per diversa cagione, che una facella per difetto di alimento: anche durando la gioventù, e la potenza naturale dell'entusiasmo.
(13.
Giugno 1821.)
Quante controversie sul significato di quelle parole di Orazio intorno a Cleopatra vinta nella battaglia Aziaca: (Od.37.
lib.1.
v.23.
seq.)
Nec latentes
Classe cita REPARAVIT oras!
[1166]V.
il Forcellini e i comentatori.
E nessuno l'ha bene inteso.
Acrone: NEC LATENTES CLASSE CITA REPARAVIT ORAS: fines regni latentes: id est non colligit denuo exercitum ex intimis regni partibus.
Porfirione altro antico Scoliaste: NEC LATENTES C.
C.
R.
ORAS: hoc est: Nec fugit in latentes, id est intimas Aegypti regiones ut vires inde repararet.
Nè mai s'intenderà e spiegherà perfettamente senza l'antico italiano, il quale c'insegna un significato del verbo reparare che non è conosciuto ai Lessicografi latini.
Ed è quello di ricoverarsi, nel qual senso i nostri antichi dicevano, ed ancor noi possiamo dire, riparare o ripararsi a un luogo o in un luogo.
Orazio dunque vuol dire, e dice espressamente: Non si ricoverò, non rifuggi alle recondite, alle riposte parti d'Egitto.
Come se in luogo di reparavit avesse detto petiit, ma reparavit ha maggior forza di esprimere la fuga e il timore.
(14.
Giugno 1821.)
Alla p.1155.
marg.
Così nictare e nictari derivano dall'antico participio nictus o supino nictum dell'antico e inusitato nivere, o come altri vogliono, di niti.
V.
p.1150.
fine.
(14.
Giugno 1821.)
Alla p.1132.
Così nelle parole simplex, duplex, [1167]triplex, multiplex e altre tali, si potrebbe ritrovare la radice monosillaba del verbo plicare (i greci dicono ???????) del quale io credo che sia continuativo anomalo il verbo plectere ne' significati di piegare, intrecciare e simili.
(14.
Giugno 1821.).
V.
p.2225.
capoverso 1.
Alla p.1154.
principio.
E lo stesso dico de' verbi d'altre forme.
Come l'antico participio di noscere si deduce dal verbo noscitare formato da noscitus, come notare da notus.
Così di pascere dal verbo pascitare formato da pascitus in luogo di pastus.
E non solo di altre forme, anche d'altre congiugazioni.
Come doctus che sia contrazione di docitus facilmente rilevasi da nocitus e nociturus di nocere, verbo che non differisce materialmente da docere se non che d'una lettera: da placitus di placere, verbo regolarissimo della stessa congiugazione seconda, e da molti altri simili participii.
Se doctus fosse il vero participio lo sarebbe plactus dirittamente in vece di placitus.
Da coerceo non coarctus o coerctus, ma coercitus, sebben poi contratto in coarctare ec.
Il supino paritum e il participio paritus di parere cioè partorire, in luogo de' quali sono più usitati partum e partus, deducesi però necessariamente da pariturus.
E parturus, ch'io sappia, non si dice mai.
V.
p.2009.
e 2200.
capoverso 2.
Io stimo probabile che il verbo sollicitare intorno all'origine del quale vanno a tastoni gli etimologisti che lo derivano da citare, venga piuttosto [1168]da quel medesimo verbo da cui vedemmo formato adlicere (cioè dal verbo lacere) che ora fa nel participio adlectus, onde adlectare, e anticamente faceva, secondo me, adlicitus.
E così penso che sollicitare sia lo stesso che sublicitare dal participio sublicitus di un antico sublicere (altro composto di lacere) dal qual participio contratto in sublectus abbiamo effettivamente in Plauto il verbo sublectare.
Di maniera che il significato appunto di adlicere, invitare, che i Vocabolaristi danno a sollicitare come traslato e secondario, dovrebbe considerarsi come primo e proprio.
Questa però non intendo di darla se non come congettura.
(15.
Giugno 1821.)
Alla p.1139.
Del che si potrebbono addurre molte prove che lascieremo agli eruditi, contentandoci di questa sola osservazione la quale dimostrerà che al più il b ebraico era un p, che talora si aspirava, e somigliante al ??de' greci ch'è un p aspirato, come abbiam detto.
L'alfabeto Fenicio dal quale derivò l'alfabeto greco, e per conseguenza il latino, o derivato dal greco, o dalla medesima fonte del greco, era lo stesso che il Samaritano, e l'alfabeto Samaritano era l'antico alfabeto ebraico.
Ora che l'alfabeto fenicio mancasse della lettera f, o al [1169]più si servisse in sua vece di un p aspirato si dimostra, fra le molte altre prove, ed oltre quello che abbiamo detto, che il ? mancava all'antico alfabeto greco detto Cadmeo o Fenicio; da questo, che i latini chiamavano, com'è noto, i Cartaginesi originari di Fenicia, Poeni, Poenici, Punici, cioè Fenici, gr.
????????, servendosi come vedete di un p semplice in luogo di un p aspirato che usavano i greci in questo nome, e della f che vi usiamo noi.
E così pure chiamavano non solamente phoeniceum, ma anche poeniceum e puniceum senza aspirazione, quel colore che i greci chiamavano ????????? e per contrazione ?????????.
Il che anche può dimostrare che gli antichi latini (il cui alfabeto derivò pure, come vedemmo, dal Fenicio) mancavano di un carattere proprio ad esprimere la f, ed anche forse della pronunzia di questa lettera.
Ovvero che il f de' greci da' quali essi presero forse i detti nomi (specialmente quelli del detto colore che derivano da ?????? palma), si pronunziava anche come un p semplice.
V.
Forcellini in H.
Pontedera p.14.
(leggi assolutamente le sue prime 2 lettere, necessarie a questo mio discorso).
I greci stessi scrivevano anticamente ?? per ? V.
Encyclop.
in H.
p.215.
(15.
Giugno 1821.)
L'ardore giovanile è la maggior forza, l'apice, la perfezione, l'???? della natura umana.
Si consideri dunque la convenienza di quei sistemi politici, nei quali l'?????dell'uomo, cioè l'ardore e la [1170]forza giovanile, non è punto considerata, ed è messa del tutto fuori del calcolo, come ho detto in altro pensiero.
(15.
Giugno 1821.)
Si consideri per l'una parte che cosa sarebbe la civiltà senza l'uso della moneta.
Oltre ch'ella non potrebbe reggersi, non sarebbe neppur giunta mai ad un punto di gran lunga inferiore al presente, essendo la moneta, di prima necessità ad un commercio vivo ed esteso, e questo commercio scambievole vivo ed esteso, tanto delle nazioni, quanto degl'individui di ciascuna, essendo forse la principal fonte dei progressi della civiltà, o della corruzione umana.
E se bisognassero prove di una proposizione così manifesta, si potrebbe addurre, fra gli altri infiniti de' popoli selvaggi ec., l'esempio di Sparta che, avendo poco uso della moneta per le leggi di Licurgo, in mezzo al paese più civile del mondo a quei tempi, cioè la Grecia, si mantenne sì lungo spazio, e incorrotta, e quasi stazionaria, o certo la sua civiltà, o corruzione, fu sempre di molti gradi minore di quella degli altri popoli greci, e le andò sempre molti passi indietro.
Per l'altra parte si consideri l'immensa [1171]difficoltà, l'immenso spazio che ha dovuto percorrere lo spirito umano prima di pur pensare a ridurre all'uso suo quotidiano, materie così nascoste dalla natura, così difficili a trarsi in luce, così difficili, non dico a lavorarsi, ma a dar sospetto che potessero mai esser lavorate, e solamente modificate e cambiate alquanto di forma.
Anzi prima di trovare i metalli.
E dopo tutto ciò, prima di pensare a ridurre ed erigere in rappresentanti di tutte le cose o necessarie, o utili o dilettevoli, de' pezzi di materia per se stessa (massime anticamente) o inutile, o poco utile, disadatta, pesantissima, e (riguardo ai metalli che formarono le prime monete, cioè rame o ferro ec.) bruttissime ancora a vedersi.
E quanto spazio passasse effettivamente prima di tutto ciò, si deduce anche dal fatto, e dal vedere che a' tempi d'Omero, o almeno a' tempi troiani (benchè certo non incolti), o mancava, o era di poco e raro uso la moneta.
E qui torno a domandare se la natura poteva ragionevolmente porre sì grandi, numerosi, incredibili ostacoli al ritrovamento di un mezzo necessario e principale per ottener quella che noi chiamiamo [1172]perfezione e felicità del genere umano, cioè l'incivilimento; e dico al ritrovamento dell'uso della moneta.
Osservate poi, nella stessa moderna perfezione delle arti, le immense fatiche e miserie che son necessarie per proccurar la moneta alla società.
Cominciate dal lavoro delle miniere, ed estrazion dei metalli, e discendete fino all'ultima opera del conio.
Osservate quanti uomini sono necessitati ad una regolare e stabile infelicità, a malattie, a morti, a schiavitù (o gratuita e violenta, o mercenaria) a disastri, a miserie, a pene, a travagli d'ogni sorta, per proccurare agli altri uomini questo mezzo di civiltà, e preteso mezzo di felicità.
Ditemi quindi 1.
se è credibile che la natura abbia posta da principio la perfezione e felicità degli uomini a questo prezzo, cioè al prezzo dell'infelicità regolare di una metà degli uomini.
(e dico una metà, considerando non solo questo, ma anche gli altri rami della pretesa perfezione sociale, che costano il medesimo prezzo.) Ditemi 2.
se queste miserie de' nostri simili sono consentanee a quella medesima civiltà, alla quale servono.
È noto come la schiavitù sia [1173]difesa da molti e molti politici ec.
e conservata poi nel fatto anche contro le teorie, come necessaria al comodo, alla perfezione, al bene, alla civiltà della società.
E quello che dico della moneta, dico pure delle derrate che ci vengono da lontanissime parti, mediante le stesse o simili miserie, schiavitù ec.
come il zucchero, caffè ec.
ec.
e si hanno per necessarie alla perfezione della società.
V.
p.1182.
E vedete da questo, come la civiltà (secondo il costume di tutte le false teorie) contraddica a se stessa anche in teorica, ed oltracciò non possa sussistere senza circostanze che ripugnano alla sua natura, e sono assolutamente incivili, anzi barbare in tutta la verità e la forza del termine.
Sicchè la perfetta civiltà non può sussistere senza la barbarie perfetta, la perfezione della società senza la imperfezione (e imperfezione nello stesso senso e genere in cui s'intende la detta perfezione); e tolta questa imperfezione, si taglierebbero le radici alla pretesa perfezione della società.
Torno a domandare se tali contraddizioni ed assurdi è presumibile che fossero ordinati e disposti primordialmente dalla natura, intorno alla perfezione, vale a dire al ben ESSERE della principal creatura terrena, cioè l'uomo.
[1174]E notate che l'uso della moneta quanto è necessario a quella che oggi si chiama perfezione dello stato sociale, tanto nuoce a quella perfezione ch'io vo predicando; giacchè il detto uso è l'uno de' principalissimi ostacoli alla conservazione dell'uguaglianza fra gli uomini, e quindi degli stati liberi, alla preponderanza del merito vero e della virtù ec.
ec.
e l'una delle principalissime cagioni che introducono, e appoco appoco costringono la società all'oppressione, al dispotismo, alla servitù, alla gravitazione delle une classi sulle altre, insomma estinguono la vita morale ed intima delle nazioni, e le nazioni medesime in quanto erano nazioni.
(16.
Giugno 1821.).
Quel che si è detto della moneta si può dire di mille altri usi ec.
necessari alla società o civiltà, e pur d'invenzione ec.
difficilissima, come la scrittura, la stampa ec.
Ho detto più volte che la letteratura francese è precisamente letteratura moderna, ed è quanto dire che non è letteratura.
Perchè considerando bene vedremo che i tempi moderni hanno filosofia, dottrina, scienze d'ogni sorta, ma non hanno propriamente letteratura, e se l'hanno, non è moderna, ma di carattere antico, ed è quasi un innesto dell'antico sul moderno.
L'immaginazione ch'è la base della letteratura strettamente considerata, [1175]sì poetica come prosaica, non è propria, anzi impropria de' tempi moderni, e se anche oggi si trova in qualche individuo, non è moderna, perchè non solamente non deriva dalla natura de' tempi, ma questa l'è sommamente contraria, anzi nemica e micidiale.
E vedete infatti che la letteratura francese, nata e formata in tempi moderni, è la meno immaginosa non solo delle antiche, ma anche di tutte le moderne letterature.
E per questo appunto è letteratura pienamente moderna, cioè falsissima, perchè il predominio odierno della ragione quanto giova alle scienze, e a tutte le cognizioni del vero e dell'utile (così detto), tanto nuoce alla letteratura e a tutte le arti del bello e del grande, il cui fondamento, la cui sorgente e nutrice è la sola natura, bisognosa bensì di un mezzano aiuto della ragione, ma sommamente schiva del suo predominio che l'uccide, come pur troppo vediamo nei nostri costumi, e in tutta la nostra vita d'oggidì.
(16.
Giugno 1821.)
Quanto più cresce il mondo rispetto all'individuo, tanto più l'individuo impiccolisce.
I nostri antichi, conoscendo pochissima parte di mondo, [1176]ed essendo in relazione con molto più piccola parte, e bene spesso colla sola loro patria, erano grandissimi.
Noi conoscendo tutto il mondo, ed essendo in relazione con tutto il mondo, siamo piccolissimi.
Applicate questo pensiero ai diversissimi aspetti sotto i quali si verifica che essendo cresciuto il mondo, l'individuo s'è impiccolito sì fisicamente che moralmente; e vedrete esser vero in tutti i sensi che l'uomo e le sue facoltà impiccoliscono a misura che il mondo cresce in riguardo loro.
(16.
Giugno 1821.)
Ho detto altrove che il troppo, spesse volte è padre del nulla.
Osserviamolo ora nel genio e nelle facoltà della mente.
Certi ingegni straordinarissimi che la natura alcune volte ha prodotti quasi per miracolo, sono stati o del tutto o quasi inutili, appunto a cagione della soverchia forza o del loro intelletto o della loro immaginazione, che finiva nel non potersi risolvere in nulla, nè dare alcun frutto determinato.
1.
Questi tali geni sommi hanno consumato rapidamente il loro corpo e le stesse loro facoltà mentali, lo stesso genio.
La soverchia delicatezza de' loro organi li rende e più facili a consumarsi, e più facili a guastarsi, rimanendo inferiori di facoltà agli organi i meno delicati, e i più imperfetti.
Testimonio Pascal, morto di 39 [1177]anni, ed era già soggetto a una specie di pazzia.
Testimonio Ermogene che forse fu uomo insigne e straordinario, sebbene il suo secolo non gli permettesse di parer tale anche a noi, durante quel poco di tempo che gli durò l'uso delle sue facoltà mentali.
Testimonio quel Genetlio di cui parla Esichio Milesio e Suida, il quale non era che un portento di memoria; ma quello ch'io dico dell'intelletto o della fantasia, dico pure della memoria, e si sono spesso veduti uomini che erano portenti di memoria da giovani, divenir maraviglie di dimenticanza da vecchi, o ancor prima.
V.
il Cancellieri, Degli uomini di gran memoria ec.
S'io volessi qui noverare gli uomini insigni che hanno sofferto dal lato del loro fisico, non per altro che a cagione del loro troppo ingegno; e le morti immature che paiono essere inevitabili agli uomini di genio straordinariamente prematuro, e prematuramente sviluppato e coltivato, non finirei mai.
V.
in proposito del Chatterton famoso poeta morto di 19 anni, lo Spettatore di Milano, Quaderno 68.
p.276.
Parte straniera.
2.
Questi geni straordinari, penetrano in certi [1178]misteri, in certe parti della natura così riposte; scuoprono e vedono tante cose, che la stessa copia e profondità delle loro concezioni, ne impedisce la chiarezza tanto riguardo a essi stessi, quanto al comunicarle altrui; ne impedisce l'ordine, insomma vince le loro stesse facoltà, e non è capace, a cagione dell'eccesso, di essere determinata, circoscritta, e ridotta a frutto.
La forza della loro mente soverchia la capacità della stessa mente, perchè insomma la natura, e la copia delle verità esistenti è molto maggiore della capacità e delle facoltà dell'uomo.
E il troppo vedere, il troppo concepire, rende questi tali ingegni, sterili e infruttuosi; e se scrivono, i loro scritti o sono di poco conto, ed anche aridi espressamente e poveri (come quelli di Ermogene); o certo minori assai del loro ingegno.
Come quegli animali inetti alla generazione per l'eccesso della forza generativa (i muli).
E la stupidità della vita è ordinariamente il carattere di tali persone, o mentre ancora son giovani, o da vecchi, come narrano che fosse detto a Pico Mirandolano.
Quello che dico dell'intelletto e della filosofia, dico pure della immaginazione e delle arti che ne derivano.
Esempio del Tasso, della sua pazzia, dell'essere i suoi [1179]componimenti, quantunque bellissimi, certo inferiori alla sua facoltà, ed a quegli stessi degli altri tre sommi italiani, a niuno de' quali egli fu realmente minore.
E lo stesso dico eziandio di qualunque altra facoltà e disciplina particolare.
(17.
Giugno 1821.)
Non è verisimile che la lingua chinese si sia conservata la stessa per sì lunga serie di secoli, a differenza di tutte le altre lingue.
Eppure i suoi più antichi scrittori s'intendono mediante le stesse regole appresso a poco, che servono ad intendere i moderni.
Ma la cagione è che la loro scrittura è indipendente quasi dalla lingua, come ho detto altrove, e (come pure ho detto) la lingua chinese potrebbe perire, e la loro scrittura conservarsi e intendersi nè più nè meno.
Così dunque io non dubito che la loro antica lingua, malgrado l'immutabilità straordinaria di quel popolo, se non è perita, sia certo alterata.
Il che non si può conoscere, mancando monumenti dell'antica lingua, benchè restino monumenti dell'antica scrittura.
La quale ha patito bensì anch'essa, e va soffrendo le sue diversificazioni; ma i caratteri (indipendenti dalla lingua nel chinese) non essendo nelle mani e nell'uso del popolo, (massime nella China, [1180]dove l'arte di leggere e scrivere è sì difficile) conservano molto più facilmente le loro forme essenziali e la loro significazione, di quello che facciano le parole che sono nell'uso quotidiano e universale degl'idioti e de' colti, della gente d'ogni costume, d'ogni opinione, d'ogni naturale, d'ogni mestiere, d'ogni vita, e accidenti di vita.
(A questo proposito ecco un passo di Voltaire portato dal Monti Proposta ec.
vol.2.
par.1.
p.159.
Quasi tutti i vocaboli che frequentemente cadono nel linguaggio della conversazione, ricevono molte digradazioni, lo svolgimento delle quali è difficile: il che ne' vocaboli tecnici non accade, perchè più preciso e meno arbitrario è il loro significato.) E lo vediamo pur nel latino, perduta la lingua, e conservati i caratteri, quanto alle forme essenziali, e al valore.
Così nel greco ec.
Ora nella China, conservato l'uso, la forma, e il significato de' caratteri antichi, è conservata la piena intelligenza delle antiche scritture, quando anche oggi si leggessero con parole e in una lingua tutta diversa da quella in cui gli Antichi Chinesi le leggevano.
(17.
Giugno 1821.)
Dell'antico significato di fabula onde favella, e di ????? v.
le note Variorum al 1.
lib.
di Fedro, prologo, verso ult.
(18.
Giugno 1821.)
Noi diciamo fuso sostantivo mascolino singolare, e fusa plurale femminino, secondo la proprietà della lingua nostra di dare a parecchie voci nel plurale, la desinenza del neutro plurale latino, del che vedi il Ciampi De usu linguae italicae saltem a saeculo sexto, dove mostra come molti di questi nostri plurali femminini in a derivino da un latino popolare [1181]ec.
Queste tali desinenze italiane pare che indichino de' neutri latini corrispondenti, e quel fusa dell'italiano pare che indichi un neutro latino fusum, o almeno il suo plurale fusa, come da brachia facciamo le braccia, da cornua, le corna, da genicula, diminutivo di genua (Forcellini), le ginocchia, da poma, le poma, da ossa, le ossa, da fila, le fila, da membra, le membra, da fundamenta, le fondamenta, da castella, le castella, da labia, le labbia, da labra, le labbra, da gesta, le gesta, da ligna, vestigia, le legna, le vestigia, da ova, le uova, da terga, le terga, da flagella, le flagella, le cervella, ec.
le vestimenta, le ornamenta (v.
la Crusca in vestimento), ec.
le corna, le ciglia ec.
da vasa, le vasa (Crusca, e Tansillo, Podere, capit.3.
terz.2.) ec.
Notate che quando gesto significa gestus us, non diciamo le gesta ma i gesti.
E allora solo diciamo le gesta, quando gesto si piglia in senso neutro, e vuol dire cosa fatta, come in Corn.
Nep.
Obscuriora sunt eius gesta pleraque.
(V.
il Gloss.
in Gesta.) Così diciamo interiori aggettivamente, ma le interiora (ed anche però gl'interiori) assolutamente per entragni, cioè in senso neutro, come Vegezio, Torsiones vocant, et interiorum incisiones.
V.
p.2340.
fine.
Ma nè fusum nè fusa non si trovano ne' Vocabolari latini, ma solamente fusus che fa nel plurale fusi.
Or ecco ne' frammenti di Simmaco scoperti dal Mai (Q.
Aurelii Summachi V.
C.
Octo Orationum ineditarum partes.
Orat.3.
scil.
Laudes in Gratianum Augustum, cap.9.
Mediol.
1815.
p.35.): Et vere si fas est praesagio futura conicere, iamdudum aureum saeculum currunt FUSA Parcarum.
Così ha il Codice Ambrosiano antichissimo, cioè di verso la metà del sesto secolo almeno, vale a dire un secolo al più dopo la morte dell'autore.
E che non sia sbaglio di scrittura si conosce anche dal vedere che scrivendo fusi guasterebbesi quel ritmo di cui Simmaco era tanto vago e sollecito, e così perpetuo seguace, come può sapere ognuno che l'abbia [1182]letto, e come si può notare a prima giunta anche negli altri scrittori di quella età e delle circonvicine, e generalmente di tutti gli scrittori latini e greci di corrotta e affettata eleganza e rettorica.
Questa voce fusa è stata notata dal Mai nell'Indice rerum notabiliorum, e dal Furlanetto nell'Appendice al Forcellini.
V.
pure il Forcell.
e il Gloss.
in saccus, sextarius, poichè noi diciamo le sacca, le staia.
Dal che si potrebbe dedurre che l'antico volgo latino dicesse similmente murum, pugnum, fructum, lectum, sostantivo, digitum, anellum, risum, nel genere neutro, o almeno nel plurale, (oltre il mascolino che abbiamo in tali plurali anche noi) mura, pugna, fructa, lecta, digita, anella, risa, come noi diciamo le mura, le pugna, le frutta, le letta, le dita, le anella, le risa, e simili, quantunque non resti notizia precisa di queste voci latine, come fino a pochi anni addietro non si aveva notizia della voce che abbiamo veduta e che restava pure nell'italiano.
Fructa e mura neutri plurali si ritrovano anche nel latino barbaro.
(Du Cange.) Lectum sostantivo neutro è usato da Ulpiano nel Digesto, e v.
Forcellini.
(18.
Giugno 1821.).
Risus us dicono i buoni latini.
Eppure essi dicono jussus us e parimente jussum i; e così altri tali verbali della quarta congiugazione (che risus è un puro verbale) gli fanno talora neutri della seconda, come pur gustum i, per gustus us, ec.
su di che v.
p.2146.
e 2010.
se vuoi.
Alla p.1173.
Così dico pure delle gemme, e di tanti altri oggetti o di uso o di lusso, difficilissimi a procacciarsi, e non possibili senza infiniti travagli e disastri, ma che d'altra parte si considerano appresso a poco come necessari alla vita civile, e servono effettivamente, o sono anche necessari al commercio fra le nazioni, (che senza molti di tali oggetti, e di tali bisogni, non sussisterebbe), fonte principale della civiltà e quindi della pretesa felicità del genere umano.
[1183]Il pensiero precedente intorno all'effettiva necessità di tanti oggetti di lusso ec.
per mantenere e dar motivo al commercio, necessario alla civiltà, quando anche i detti oggetti non sieno effettivamente e per se stessi nè bisognevoli nè utili alla vita, merita di essere ampliato: perchè i detti oggetti costando infiniti travagli all'umanità, si vede come sia necessaria alla civiltà l'inciviltà, alla perfezione l'imperfezione (nel senso in cui chiamiamo perfezione il suo contrario), alla umanità e delicatezza e raffinatezza ec.
la barbarie della società.
(18.
Giugno 1821.)
Quello che ho detto altrove intorno alla diversa impressione che fanno ne' fanciulli i nomi propri (e si può aggiungere le parole di ogni genere), e alle diverse idee che loro applicano di bellezza o di bruttezza, secondo le circostanze accidentali di quell'età, serve anche a dimostrare come sia vero che il bello è puramente relativo, e come l'idea del bello determinato non derivi dalla bellezza propria ed assoluta di tale o tale altra cosa, ma da circostanze affatto estrinseche al genere e alla sfera del bello.
Ed ampliando questa osservazione, se noi vorremo vedere come i fanciulli appoco appoco si formino [1184]l'idea delle proporzioni e delle convenienze determinate e speciali; e come senz'alcuna idea innata nè di proporzioni nè di convenienze particolari e applicate, giungano pur brevemente a giudicar quella cosa bella e quell'altra brutta, e quella buona, e quell'altra cattiva; e ad accordarsi più o meno col giudizio universale intorno alla bruttezza o bellezza, bontà o il suo contrario, senza però averne nell'intelletto o nella immaginazione alcun tipo; consideriamo per modo di esempio il progresso delle idee de' fanciulli circa le forme dell'uomo, e vediamo come appoco appoco arrivino a giudicare e a sentire la bellezza e la bruttezza estrinseca degl'individui umani.
Il fanciullo quando nasce non ha veruna idea del quali sieno e debbano essere le forme dell'uomo: (eccetto per quello ch'ei sente materialmente e può concepire delle sue proprie membra e parti, mediante l'esperienza de' sensi.) (Ma se egli non ha l'idea di dette forme, e questo è costante presso tutti gl'ideologi, come potrà averla della loro bellezza? Come potrà aver l'idea della qualità, non avendo quella del soggetto? E così discorrete di tutti gli altri oggetti suscettibili di bellezza, di nessuno de' quali il fanciullo ha idea innata.
Come dunque potrà avere idea della bellezza, prima di aver la menoma idea di quelle cose che ponno esser belle? Poniamo un essere non soltanto possibile, ma reale, e che noi pur sappiamo ch'esista, senza però conoscerlo in altro conto.
Che idea abbiamo noi della sua bellezza o bruttezza? Ma se è assolutamente ignoto quel bello e quel brutto che appartiene a forme ignote ec., dunque il bello non è assoluto.) L'acquista però ben presto col vedere, toccare ec.
E vedendo p.e.
in tutte le persone che lo circondano, il naso o la bocca di quella tal misura che noi chiamiamo proporzionata, si forma necessariamente e naturalmente l'idea che quella tal parte dell'uomo sia e debba essere di quella tal misura.
Ecco subito l'idea di una proporzione non assoluta, ma relativa; idea non innata, ma acquisita, non derivata [1185]dalla natura nè dall'essenza delle cose, nè da un tipo e da una nozione preesistente nel suo intelletto, nè da un ordine necessario, ma dall'assuefazione del senso della vista circa quel tale oggetto, e dall'arbitrio della natura che ha fatto realmente la maggior parte degli uomini in quel tal modo.
Acquistata così per solissima assuefazione l'idea delle proporzioni o convenienze, il fanciullo si forma facilmente quella delle sproporzioni e sconvenienze, che è sempre e necessariamente posteriore a quella dei loro contrari, e perciò l'idea del brutto e del cattivo è posteriore a quella del buono e del bello, (il che non sarebbe se fosse assoluta e primitiva e ingenita nell'uomo, e appartenente all'essenza e natura della sua mente e della sua facoltà concettiva) e deriva non da un tipo, ma dalla detta idea in questo modo che son per dire.
Seguendo l'esempio che abbiamo scelto, se il fanciullo vede un naso molto più lungo o più corto di quello ch'è assuefatto a vedere, concepisce subito il senso della sproporzione e sconvenienza, cioè di una mera contraddizione con la sua propria abitudine di vedere, e forma il giudizio dello sproporzionato e sconveniente, ossia del brutto.
Ed eccolo ben presto d'accordo col giudizio universale degli uomini circa la bellezza e la bruttezza determinata, [1186]senza averne portata nè ricevuta dalla natura o dalla ragione verun'idea.
Ma ecco prove più trionfanti di questa mia proposizione, cioè che l'idea d'ogni proporzione, d'ogni convenienza, d'ogni bello, d'ogni buono determinato e specifico, e di tutti i loro contrari, deriva dalla semplice assuefazione.
1.
Se quel naso sarà poco più lungo, o quella bocca poco più larga, quantunque lo sia tanto che basti ad eccitare negli uomini il giudizio e il senso della bruttezza, il fanciullo non concepirà questo giudizio nè questo senso in verun modo.
Che la cosa vada così, n'è testimonio l'esperienza di chiunque è stato fanciullo, e vorrà sovvenirsi di ciò che gli accadeva in quell'età.
E qual è la ragione? La ragione è che il fanciullo avendo acquistato solamente una scarsa e debole idea delle proporzioni, perchè poco ha veduto, e poco ha confrontato, ha parimente una scarsa ed inesatta e non sottile nè minuta idea delle sproporzioni, e non se n'accorge nè le sente, se non quando quel tale oggetto si oppone vivamente e fortemente alla sua abitudine.
Solamente col molto vedere, egli arriva a formarsi senza pensarvi, un giudizio, un discernimento, un senso fino per distinguere il bello dal brutto.
Alle volte per l'opposto pare al fanciullo notabilissima una sproporzione o sconvenienza, che gli altri neppure osservano.
E ne deduce un senso di bruttezza che gli altri non provano.
La ragione è la poca assuefazione, l'aver poco veduto, il che gli fa trovare strano quello che non è strano, e brutto quindi o assai brutto, quello che non è brutto, o poco.
Come ciò, se il brutto fosse assoluto? Un fanciullo raccontava che una persona aveva due nasi, perchè aveva osservata sul suo naso una piccola differenza di colore, in parte più rosso, in parte meno.
E di questa cosa nessun altro si avvedeva senz'apposita osservazione.
Che vuol dir [1187]questo? Se l'idea del bello e del brutto determinato, fosse assoluta e naturale ed innata, avrebbe mestieri il fanciullo di crescere, e di esercitare i suoi sensi, e di esperienza, per acquistare un'idea, non dico perfetta, ma sufficiente, della bellezza o bruttezza determinata? Il vedere che ne ha bisogno, non dimostra evidentemente che il giudizio e il senso della bruttezza o bellezza deriva unicamente dall'assuefazione e dal confronto, e che nessun oggetto al mondo sarebbe nè bello nè brutto, nè buono nè cattivo, se non ci fosse con che confrontarlo, massime nella sua specie? E ciò viene a dire che nessuna cosa è bella nè buona assolutamente, e per se stessa; e quindi non esiste un bello nè un buono assoluto.
Il perfezionamento del gusto in ogni materia, sia nelle arti, sia riguardo alla bellezza umana, sia in letteratura ec.
ec.
si considera come una prova del bello assoluto, ed è tutto l'opposto.
Come si raffina il gusto de' pittori, degli scultori, de' musici, degli architetti, de' galanti, de' poeti, degli scrittori? Col molto vedere o sentire di quei tali oggetti sui quali il detto gusto si deve esercitare; coll'esperienza, col confronto, coll'assuefazione.
Come dunque questo gusto può dipendere da un tipo assoluto, universale, immutabile, necessario, naturale, preesistente? Quello ch'io [1188]dico de' fanciulli, dico anche de' villani, e di tutti quelli che si chiamano o di rozzo, o di cattivo, o di non formato gusto in ogni qualsivoglia genere di cose: lo dico di chi non è avvezzo a vedere opere di pittura, il quale ognuno sa e dice che non può giudicare del bello pittorico; lo dico di chi non è accostumato alla lettura de' buoni poeti, il quale non può mai giudicare del bello poetico, del bello dello stile ec.
ec.
ec.
Come il giudizio e il senso del fanciullo intorno al bello, è da principio necessariamente grossolanissimo, cosa che dimostra evidentemente come il detto giudizio dipenda dall'assuefazione, così il giudizio e il senso della massima parte degli uomini circa il bello, resta sempre imperfettissimo non per altro, se non perchè la massima parte degli uomini non acquista mai una tal esperienza da poter formare quel giudizio minuto, esatto e distinto, che si chiama gusto fino.
Cioè 1.
non considera bene le minute parti degli oggetti, per poterle confrontare, e formarsene quindi l'idea della proporzione determinata, idea ch'egli non ha.
2.
non ha l'abito di confrontare minutamente, ch'è l'unico mezzo di giudicare minutamente della proporzione e sproporzione, bellezza o bruttezza, buono o cattivo.
Così andate discorrendo, e applicate queste osservazioni a tutte le facoltà e cognizioni umane.
E dal vedere che il senso [1189]del bello è suscettivo di raffinamento e accrescimento sì ne' fanciulli, e sì negli uomini già formati, deducete ch'esso non è dunque innato nè assoluto, giacchè quello che ha bisogno di essere acquistato e formato non è ingenito; e quello che essendo suscettivo di accrescimento è per conseguenza suscettivo di cangiamento, non è nè può essere assoluto.
Dunque io non riconosco negli individui veruna differenza di naturale disposizione ed ingegno a riconoscere e sentire il bello ed il brutto ec.? Anzi la riconosco, ma non l'attribuisco a quello a cui si suole attribuire: cioè ad un sognato magnetismo che trasporti gl'ingegni privilegiati verso il bello, e glielo faccia sentire, e scoprire senza veruna dipendenza dall'assuefazione, dall'esperienza, dal confronto; ad una simpatia dell'ingegno con un bello esistente nella natura astratta; ad un favore della natura che si riveli spontaneamente a questi geni privilegiati ec.
ec.
Tutti sogni.
Il genio del bello, come il genio della verità e della filosofia, consiste unicamente nella delicatezza degli organi che rende l'uomo d'ingegno 1.
facile ed inclinato a riflettere, ad osservare, [1190]a notare, a scoprire le minute cose, e le minime differenze: 2.
a paragonare, e nel paragone ad essere diligente, minuto, e ritrovare le minime disparità, le minime somiglianze, le menome contrapposizioni, i menomi rapporti: 3.
ad assuefarsi in poco tempo, e con poca esperienza, poco vedere ec.
poco uso insomma de' sensi, poco esercizio materiale delle sue facoltà, contrarre un'abitudine: 4.
a potere, mediante quello che già conosce, indovinare in breve tempo anche quello che non conosce, in virtù della gran forza comparativa che gli viene dalla delicatezza de' suoi organi; la qual forza fa ch'egli ne' pochi dati che ha, scuopra tutti i possibili rapporti scambievoli, e ne deduca tutte le possibili conseguenze.
Per esempio (non uscendo dalla materia che abbiamo scelta) un fanciullo provvisto di quello che si chiama genio, ha meno bisogno di vedere, di quello che n'abbia un altro d'ingegno ottuso e torpido, per formarsi un'idea della bellezza umana; perchè concepisce più presto l'idea delle proporzioni determinate, mediante una più minuta ed attenta considerazione degli oggetti che vede, ed una più esatta comparazione di questi oggetti fra loro.
V.g.
quel fanciullo d'ingegno [1191]torpido non si accorgerà della piccola differenza di struttura che è fra quella bocca o quella fronte che vede, e quelle ch'è accostumato a vedere.
Un fanciullo d'ingegno fino, penetrante, arguto, riflessivo, cioè di organi delicati, mobili, rapidi, pieghevoli, pronti, si accorgerà o subito, o più presto, di detta differenza, e concepirà il senso e il giudizio della sproporzione, e della bruttezza; perchè gli oggetti che ha veduti gli ha osservati meglio, e osserva meglio questo che or vede, e gli uni e l'altro gli fanno o gli hanno fatto, più viva, più chiara e più costante impressione; dal che deriva la maggior facilità ed esattezza della comparazione ch'egli fa in questo punto; comparazione ch'è l'unica fonte dell'idea delle proporzioni e convenienze.
Ecco tutto il genio.
Così discorrete proporzionatamente di tutte le altre età, e di tutti gli altri oggetti e facoltà, e vedrete come il genio di qualunque sorta, non sia mai altro che una facoltà osservativa e comparativa, derivante dalla delicatezza, e più o meno perfetta struttura degli organi, che è quello che si chiama maggiore o minore ingegno.
2.
Se un fanciullo ha dintorno a se persone o di forme notabilmente diverse, o di forme tutte brutte, e che tutte convengano in una certa specie di bruttezza, l'idea ch'egli si forma della bellezza, e della proporzione, è incertissima nel primo caso, e sta solamente sui generali (cioè su quelle sole proporzioni che sono comuni a tutte le persone che lo circondano): e nel secondo caso, egli concepisce espressamente per bello, quello [1192]ch'è brutto, e che poi col più e più vedere altre persone, arriva finalmente a riconoscere per brutto.
Qui chiamo in testimonio l'esperienza di tutti gli uomini del mondo, acciò mi dicano quanto l'idea loro circa la bellezza e la bruttezza si sia venuta cambiando secondo l'età, cioè a misura dell'esperienza della loro vista: e come quasi tutti abbiano da fanciulli giudicate belle delle fisonomie, delle persone ec.
che in altra età sono loro sembrate brutte, e tali sembravano anche agli altri.
Il che deriva 1.
dalla ragione ora detta, 2.
dalla poca pratica di vedere che ristringeva la facoltà del loro giudizio, e l'idea che essi avevano delle proporzioni, limitandola necessariamente e in ogni caso, alla sola idea delle proporzioni generali e comuni a tutti gli uomini, 3.
da circostanze affatto estrinseche al bello: p.e.
la nostra balia ci par sempre bella, e così tutte quelle persone che ci accarezzano da fanciulli ec.
ec.
Allora il giudizio della bellezza era effetto di queste tali impressioni (e non del bello).
E si giudicava poi bello appoco appoco, quello che somigliava a queste tali fisonomie, sulle quali ci eravamo formata l'idea del bello umano, ancorchè fossero bruttissime.
E siccome le impressioni della fanciullezza sono vivissime, così per effetto loro, [1193]e delle così dette simpatie ed antipatie, che sono uno de' loro effetti, accade che per lungo tempo e forse sempre, ci troviamo inclinati a giudicare favorevolmente di persone bruttissime, ma somiglianti a quelle che da piccoli ci parvero belle, e massime di queste medesime; le quali, ancorchè brutte, non ci parranno mai più, brutte veramente; ma solo il nuovo abito di vedere, e quindi il nuovo modo che abbiamo contratto di giudicare della bellezza, ce le faranno giudicare, ma non parer brutte.
E ci bisognerà sempre una riflessione, ed un confronto espresso colle nostre nuove idee del bello, per giudicar brutte quelle persone, che a prima vista, e senza considerazione, non ci parranno mai tali.
Massime se il nostro ingegno è torpido e difficile a contrarre nuove abitudini: perchè nel caso contrario più facilmente ci riesce di formare intorno all'estrinseco di quelle persone un giudizio conforme alle nuove idee del bello che abbiamo acquistato colla maggiore esperienza de' sensi.
Prove più certe che l'idea del bello non sia nè assoluta, nè innata, nè naturale, nè immutabile, nè dipendente da un tipo (col quale avremmo potuto paragonare quelle fisonomie), non credo che si possano desiderare.
[1194]3.
L'uomo, se ben considereremo, non giudica mai della bellezza nè della bruttezza, se non comparativamente, e l'idea del bello è sempre comparativa e quindi relativa.
Noi giudichiamo della bellezza estrinseca dell'uomo, sia reale, sia imitata, molto più finamente che di qualunque altro bello fisico.
Perchè? Perchè naturalmente facciamo ed abbiamo fatto maggiore attenzione alle forme de' nostri simili, che di qualunque altro oggetto, e ne abbiamo notate le menome parti, le possiamo paragonare fra loro, e quelle di un individuo con quelle di un altro, o della generalità; e in questo modo, abbiamo distinta e minuta ed esatta l'idea acquisita delle proporzioni e convenienze relative alla figura dell'uomo, e delle sproporzioni e sconvenienze, che è quanto dire della bellezza e della bruttezza umana.
Ma poniamo un individuo umano che non abbia mai veduto alcuno de' suoi simili.
Egli non saprà giudicare della bruttezza o bellezza loro in nessun modo, quando ne vegga qualcuno, massimamente se ne vede qualcuno isolato.
Se però egli non avrà posta molta attenzione alle sue proprie forme, alla sua fisonomia, specchiandosi p.e.
nelle fontane ec.
Ed allora il giudizio ch'egli porterà delle forme di quel tal uomo, sarà pur comparativo, cioè comparativo alla sua propria [1195]forma, e quindi non si accorderà col giudizio generale, o solamente a caso.
E se egli avrà avuta molta pratica di qualche altra specie di animali, come cani o cavalli ec.
egli sarà molto meglio a portata di giudicare della bellezza di questi, che di quella dell'uomo.
E nel detto giudizio sarà meglio d'accordo col giudizio comune degli uomini.
Dico degli uomini, e non già di quegli stessi animali, i quali, come gli uomini, ponendo maggiore attenzione alle forme de' loro simili, ne giudicano molto diversamente, e più distintamente ed esattamente degli uomini: in proporzione però della facoltà de' loro organi molto meno disposti o meno esercitati ad osservare, a paragonare, a riflettere, di quelli dell'uomo, e massime dell'uomo o del fanciullo incivilito più o meno.
Bensì è vero che quel tal uomo che abbiamo supposto, si sentirà forse inclinato verso quel suo simile più di quello che fosse verso qualunque altra specie d'animali, con cui fosse addomesticato; e massimamente se quel suo simile è di diverso sesso.
Ma questa è inclinazione materiale ed innata della natura sua, del tutto indipendente dall'idea del bello, e dal giudizio delle forme: è inclinazione e ??????ossia passione, e non idea.
E questo tal uomo, vedendo molti suoi simili tutti in un tratto per la prima volta, non conoscerà fra loro, nelle loro forme e fisonomie ec.
quasi alcuna differenza, come è già noto che accade p.e.
all'Europeo che vede per la prima volta degli Etiopi, o de' Lapponi.
Tutti gli paiono appresso a poco della stessa forma e fisonomia, e nessuno più bello nè più brutto [1196]degli altri.
Questo appunto accade al fanciullo, nel primo veder uomini che gli accade, e va poi appoco appoco acquistando l'idea ed il senso della loro bellezza o bruttezza, per sola comparazione, cominciando a notare le minute parti, e paragonandole, e scoprendo le minute differenze negl'individui.
Questo è ciò che ci accade negli animali, i quali tutti ci paiono appresso a poco p.e.
della stessa fisonomia (dentro i limiti di una stessa specie); e quando anche facendoci l'occhio appoco appoco, arriviamo a portare un giudizio comparativo circa la bellezza comparativa delle loro forme, 1.
questo ci accade solamente negli animali che più si trattano e più si osservano, come cavalli, cani, buoi ec.
chè della bellezza p.e.
del lione individuo, nessun uomo ch'io sappia, nè si arroga, nè pensa pure di giudicare: 2.
questo giudizio è certo assai meno esatto di quello degli stessi animali di quella specie, ed è credibile che bene spesso sia contrarissimo al giudizio degli stessi animali, perchè noi giudichiamo delle loro forme colle idee che abbiamo delle proporzioni (diverse dalle loro), e comparativamente piuttosto ad altre specie, e ad altri oggetti, che alla propria specie loro, del che dirò poco appresso.
Un bambino e un animale confondono facilmente un pupazzo, una statua, una pittura ec.
cogli oggetti che rappresentano, perchè sopra questi hanno fatta poca osservazione: meno facilmente però, o meno durevolmente, se l'oggetto rappresentato è della propria specie e forma, perchè nella forma della loro specie hanno posta naturalmente più attenzione.
Quell'uomo che io ho supposto, se non avesse [1197]bene osservato il suo proprio colore, e vedesse un Nero e un Bianco allo stesso tempo, non saprebbe punto decidere qual de' due fosse più bello, nè qual de' due colori meglio convenisse alla specie umana.
E se non avesse bene osservate le sue proprie forme, e vedesse al tempo stesso un Lappone, un italiano, un Patagone, non saprebbe decidere quale di queste tre forme fosse più bella, e non sentirebbe differenza di bellezza o bruttezza in nessuno di loro.
Il che dimostra ch'egli non ha veruna regola o norma innata ed assoluta per giudicare del bello, neppure umano.
L'uomo non può mai formarsi l'idea di una bellezza isolata, vale a dire che il bello assoluto non esiste, nè altrove, nè nella idea, nella fantasia, nell'intelletto naturale e primitivo dell'uomo.
Figuratevi che ci sia mostrato un oggetto forestiero, e che questo sia il primo e l'unico che noi vediamo nel suo genere.
Noi o non giudichiamo in nessun modo della sua bellezza o bruttezza, nè la sentiamo; ovvero ne giudichiamo comparativamente ad altri generi di cose, e ad altre proporzioni, e così per lo più andiamo errati, e probabilmente giudicheremo brutto un oggetto che nel suo paese è giudicato bellissimo, e che lo è nel suo genere effettivamente; o viceversa.
Figuratevi [1198]di vedere un uccello Americano di specie da voi non prima veduta.
Questa è specie e non genere, e voi per giudicarne potete paragonarla alle altre specie di uccelli che conoscete.
Tuttavia probabilmente sbaglierete il giudizio; voglio dire, p.e.
vi parranno sproporzioni quelle che agli Americani assuefatti a vederne, parranno proporzioni, e bellezza: e viceversa agli Americani parranno sproporzionati e brutti molti uccelli di specie e di forme assai differenti dai loro, e ch'essi non sono accostumati a vedere.
Così discorrete d'ogni sorta di oggetti o naturali o artifiziali.
E passando da queste osservazioni, al buono e al cattivo, vedrete come nessuna cosa possibile sia buona nè cattiva, nè più o meno perfetta ec.
isolatamente, ma solo comparativamente; e che per conseguenza non esiste il buono nè il cattivo assoluto, ma solo il relativo.
Voglio prevenire un'obbiezione.
Diranno che l'uomo naturalmente, e senza osservazione ed esame preferisce un altro uomo, o una donna giovane a una vecchia, e che quindi l'idea della bellezza è assoluta.
1.
Potrei dire che al fanciullo non accade così prima di avere acquistata coll'esperienza de' sensi, [1199]la facoltà comparativa: ed aggiungerei che io mi ricordo di aver da fanciullo giudicato belli alcuni vecchi, e più belli ancora di altre persone ch'erano giovani.
E ciò per le ragioni dette p.1191.
fine-1193.
2.
Ma la vera e piena risposta è che questo non appartiene alla sfera della bellezza.
Il metafisico non deve lasciarsi imporre dai nomi, ma distinguere le diverse cose che si denotano sotto uno stesso nome.
V.
in tal proposito p.1234-36.
e specialmente p.1237.
Un colore isolato e vivo, che piace, si chiama bello, e non è.
Un suono isolato che diletta, senza gradazioni nè armonia, non appartiene al bello.
Bellezza non è altro che armonia e convenienza.
Bruttezza è sproporzione e sconvenienza.
Queste sono proposizioni non contrastate da nessun filosofo, per poco che abbia osservato.
Quali cose si convengano o disconvengano insieme, si crede che la natura dell'uomo l'insegni, e che dipenda dall'ordine primordiale e necessario delle cose, e questo io lo nego.
La quistione è qui.
Dove non entra armonia nè convenienza, la quistione non entra.
Una cosa che piace senza armonia nè convenienza, appartiene alla sfera di altri piaceri.
Quel colore vivo, ci diletta, perchè i nostri organi son così fatti, che quella sensazione li solletichi gradevolmente.
[1200]Questa è sensazione (dipendente dall'arbitrio della natura circa le quali cose sieno piacevoli a questa o a quella specie di esseri) e non idea; e quindi il detto piacere, benchè venga per la vista, non appartiene alla bellezza, più di quello che vi appartenga il piacere che dà un cibo alle papille del nostro palato, o il piacere venereo ec.
(Lascio che anche questi tali piaceri non sono assoluti neppure dentro i limiti di una sola specie, anzi neppure di un solo individuo, e dipendono sommamente, almeno in gran parte, dall'assuefazione.) L'uomo è più inclinato al suo simile giovane, che al suo simile vecchio.
Così anche gli altri animali.
Questa non è idea, ma inclinazione, tendenza, e passione; ed è fuori della teoria del bello, perch'è fuori ancora della sfera dell'armonia.
Le tendenze sono innate e comuni a tutti gli uomini; le idee no.
Ma nel detto caso la mente non giudica; bensì il fisico dell'uomo si sente inclinato, e trasportato.
Non tutti i piaceri che vengono per la vista appartengono alla bellezza, sebbene gli oggetti che producono i detti piaceri, si chiamano ordinariamente belli; ma quelli soli che derivano dall'armonia e convenienza, sì delle parti fra loro, sì del tutto col suo fine.
Io credo poi ancora che la stessa idea dell'uomo che le cose debbano convenire fra loro, non sia innata ma acquisita, e derivi dall'assuefazione in questo modo.
Io sono avvezzo a vedere p.e.
negli uomini [1201]le tali e tali forme.
Se ne vedo delle differenti e contrarie, le chiamo sconvenienti, perchè elle mi producono un effetto contrario alla mia assuefazione.
Sviluppate quest'idea.
(20.
Giugno 1821.)
Perchè la parzialità è sempre odiosa e intollerabile, quando anche colui che favorisce o benefica alcuno più degli altri, non tolga niente agli altri del loro dovuto, nè di quello che darebbe loro in ogni caso, nè li disfavorisca in nessun modo? Per l'odio naturale dell'uomo verso l'uomo, inseparabile dall'amor proprio.
E v.
in questo proposito la parabola del padre di famiglia e degli operai del Vangelo.
(21.
Giugno, dì del Corpus Domini.
1821.).
V.
p.1205.
fine.
Alla p.1114.
verso il fine.
Il Forcellini ora fa derivare i continuativi da' frequentativi, (come ductare da ductitare) ora questi da quelli.
I continuativi da' frequentativi non derivano mai.
Quanto ai frequentativi da' continuativi, io non nego che talvolta non possano essere derivati dai participi o supini di questi ultimi, cangiata l'a di detti participii o supini, in i, secondo quello che abbiamo stabilito p.1154.
Nel qual caso i verbi continuativi venivano a diventar positivi relativamente al frequentativo che se ne formava.
P.e.
saltitare può forse anche venire da saltatus di saltare, cambiata l'a in i, ed essere frequentativo o diminutivo non di salire, ma di saltare, cioè ballare.
Infatti esso non vale saltellare, ma ballonzare o ballonzolare.
Questo però, posto che talvolta avvenga, avviene di rado, e la massima parte de' frequentativi derivano immediatamente da' positivi, e sono affatto indipendenti da' continuativi degli stessi verbi, o abbiano questi, o non abbiano continuativi.
Ed è curioso che il Forcellini bene spesso chiama p.e.
cursare frequentativo di currere, e cursitare che cosa? frequentativo di cursare.
V.
p.2011.
(21.
Giugno 1821.)
[1202]Alla p.767.
Le parole che per se stesse sono meri suoni, e così le lingue intere, in tanto sono segni delle idee, e servono alla loro significazione, in quanto gli uomini convengono scambievolmente di applicarle a tale e tale idea, e riconoscerle per segni di essa.
Ora il principal mezzo di questa convenzione umana, in una società alquanto formata, si è la scrittura.
Le lingue che o mancano o scarseggiano di questo mezzo di convenzione per intendersi, e spiegarsi distintamente, ed esprimere tutte le cose esattamente, restano sempre o affatto impotenti, o poverissime, e debolissime; e così accade a tutte le lingue finchè non sono estesamente applicate alla scrittura.
Come convenire scambievolmente in tutta una nazione, di dare a quella tal parola quella tal significazione certa determinata e stabile, e di riconoscerla universalmente per segno di quella tal cosa o idea? Come arricchire la lingua, accrescere le significazioni di una stessa parola, stabilire l'uso e l'intelligenza comune di una metafora o traslato, dare alla lingua una tal facoltà di tale o tal formazione di voci o di modi che significhi regolarmente tale o tal altro genere di cose o idee? Come poi regolare ed uniformare e ridurre sotto leggi conformi in tutta la nazione la sintassi, le inflessioni dinotanti i diversi accidenti di una stessa parola, ec.
ec.? Tutte queste cose sono impossibili [1203]senza la scrittura, perchè manca il mezzo di una convenzione universale, senza cui la lingua non è lingua ma suono.
La viva voce di ciascheduno, poco ed a pochi si estende.
Le scritture vanno per le mani di tutta la nazione, e durano anche dopo che quegli che le fece, non può più parlare.
Gl'individui di una nazione non possono convenir tutti fra loro di veruna cosa a uno a uno.
Ed un individuo, ancorchè di sommo ingegno, non può mettere in uso una parola, una frase, una regola di lingua, un significato, e renderne comune e stabilirne l'intelligenza colla sola sua voce, e favella (di cui tanto pochi e solo istantaneamente possono partecipare), se non lentissimamente e difficilissimamente.
Ora le lingue le più estese sono sempre nate dall'individuo, e vi fu sempre il primo che inventò e pronunziò quella parola, quella frase, quel significato ec.
In qualunque modo si sieno formate le lingue primitive, e gli uomini abbiano cominciato ad intendersi ed esprimersi scambievolmente mediante gli organi della favella, certo è che questo non è avvenuto se non a pochissimo per volta, sinchè una lingua non è stata applicata alla scrittura; perchè la convenzione individuale di ciascheduno, non può essere se non lentissima e difficilissima.
Di più è certo che l'uso di tutte le lingue nel loro nascere fu ristretto [1204]a una piccolissima società, dove la convenzione era meno difficile, perchè fra un piccolo numero d'individui.
Ma trattandosi di arricchire, accrescere, regolare, ordinare, perfezionare, e in qualunque modo migliorare una lingua già parlata da una nazione, dove la convenzione che deriva dall'uso è lentissima, difficilissima, e per lo più parziale e diversa, il principale e forse l'unico mezzo di convenzione universale (senza cui la lingua comune non può ricevere nè miglioramento nè peggioramento), è la scrittura, e fra le scritture quella che 1.
va per le mano di tutti, 2.
è conforme ne' suoi principii, e nelle sue regole, vale a dire la letteratura largamente considerata.
Perchè la scrittura non letterata, o non importante in qualunque modo per se stessa, come lettere cioè epistole ec.
ec.
è soggetta quasi agli stessi inconvenienti della viva voce, cioè si comunica a pochi, (forse anche a meno di quelli a cui si comunica la voce di un individuo) e non è uniforme nè costante nelle sue qualità.
Insomma si richiede un genere di scrittura che sia nazionale, e possa produrre, stabilire, regolare e mantenere la convenzione universale circa la lingua.
(22.
Giugno 1821.)
Alla p.1129.
Bisogna notare che i gramatici e vocabolisti intorno a parecchi di questi e simili verbi e nomi portano opinione contraria al parer nostro, cioè fanno derivare i nomi da' verbi, come vedremo [1205]di lex da legere, e come rex da regere, laddove noi regere da rex, conforme porta la sana filosofia, e ideologia, e la considerazione del progresso naturale delle idee.
Che certo molto prima ebbero gli uomini un nome da significare colui da cui veniva il comando, che un altro da significar l'azione stessa del comandare.
L'idea dell'azione la più materiale, e per conseguenza l'idea espressa da' verbi, è sempre metafisica, e quindi posteriore a quella significata da' nomi.
V.
in proposito la p.1388-91.
Dico posteriore ad esser significata, non sempre però posteriore nella concezione; ma benchè anteriore nella concezione (come in questo esempio) l'uomo stabilì prima un segno per esprimere colui che la faceva, e che era materiale e visibile, (come il re, cioè quegli che comanda) di quello che arrivasse a fissare e determinare con un segno l'idea metafisica di ciò che questi faceva.
Perchè questa idea benchè seconda nell'ordine, fu la prima idea ch'egli concepisse chiaramente, in modo da poterla determinare e circoscrivere con un segno.
Così che ella è anteriore come idea chiara, benchè posteriore come idea semplicemente.
E quello che bisogna cercare in riguardo alle lingue è l'ordine e la successione non delle idee assolutamente ma delle idee chiare che l'uomo ha concepite, giacchè queste sole egli ha potuto e può significare.
V.
Sulzer p.53.
Ma bisogna perdonare ai gramatici se finora non sono stati ideologi; bensì non bisogna che il filologo illuminato dalla filosofia, si lasci imporre dalla loro opinione in quelle cose che ripugnano all'analisi e alla scienza dell'umano intelletto.
(22.
Giugno 1821.)
Alla p.1201.
Ho già detto altrove di una donna sterile che bastonava una cavalla pregna dicendo, [1206]Tu gravida, e io no? Io credo che un padre storpio difficilmente possa vedere con compiacenza i suoi figli sani, e non provare un certo stimolo a odiarli, o una difficoltà ad amarli, che facilmente si convertirà in odio, e riceverà poi scioccamente il nome di antipatia, quasi fosse una passione innata, e senza causa morale.
Del che si potrebbero portare infinite prove di fatto, come dell'odio delle madri brutte verso le figlie belle, e delle persecuzioni che bene spesso fanno per tal cagione a giovani innocentissime, senza che nè queste nè esse medesime vedano bene il perchè.
Così de' padri di poco ingegno o in qualunque modo sfortunati, verso i figli di molto ingegno, o in qualunque modo avvantaggiati su di loro.
Così (e questa è cosa generalissima) de' vecchi verso i giovani (siano anche loro figliuoli, (anzi massimamente in simili casi) e femmine o maschi ec.
ec.); ogni volta che i vecchi non hanno deposto i desiderii giovanili, ed ogni volta che i giovani, ancorchè innocentissimi ed ottimi, non si conducano da vecchi.
Così tra fratelli e sorelle ec.
ec.
Tanto naturalmente l'amor proprio inseparabile dai viventi, produce e quasi si trasforma nell'odio degli altri oggetti, anche di quelli che la natura ci ha maggiormente raccomandati (al nostro stesso amor proprio) e resi più cari.
(22.
Giugno 1821.)
[1207]Quante cose si potrebbero dire circa l'infinita varietà delle opinioni e del senso degli uomini, rispetto all'armonia delle parole.
Lascio i diversissimi e contrarissimi giudizi dell'orecchio sulla bellezza esterna delle parole, secondo le diversissime lingue, climi, nazioni, assuefazioni; ed intorno alla dolcezza, alla grazia, sì delle parole, che delle lettere e delle pronunzie ec.
In un luogo parrà graziosa una pronunzia forestiera, in un altro sgraziata quella, e graziosa un'altra pur forestiera; secondo i differenti contrasti colle abitudini di ciascun paese o tempo, contrasti che ora producono il senso della grazia, ora l'opposto ec.
ec.
V.
p.1263.
Lascio le differentissime armonie de' periodi della prosa parlata o scritta, secondo, non solamente le diverse lingue e nazioni e climi, ma anche i diversi tempi, e i diversi scrittori o parlatori d'una stessa lingua e nazione, e d'un medesimo tempo.
Osserverò solo alcune cose relative all'armonia de' versi.
Un forestiero o un fanciullo balbettante, sentendo versi italiani, non solo non vi sente alcun diletto all'orecchio, ma non si accorge di verun'armonia, nè li distingue dalla prosa; se pure non si accorge e non prova qualche piccolo, anzi menomo diletto nella conformità regolare della loro cadenza, cioè nella rima.
La quale sarebbe sembrata spiacevolissima e barbara agli antichi greci e latini, ec.
alle cui lingue si poteva adattare niente meno che alle nostre, ed a quelle stesse forme di versi che usavano, che bene spesso o somigliano, o sono a un dipresso le medesime che parecchie delle nostre, massimamente italiane.
E di più sarebbe stata loro più facile, stante il maggior numero di consonanze che avevano, ed anche [1208]il maggior numero di parole, considerando se non altro (per non entrare adesso nel paragone della ricchezza) l'infinita copia e varietà delle inflessioni di ciascun loro verbo o nome ec.
Così che avrebbero potuto usar la rima meglio di noi, e più gradevolmente, cioè più naturalmente, forzando meno il senso, il verso, l'armonia della sua struttura, il ritmo, ec.
E nondimeno la fuggivano tanto quanto noi la cerchiamo, ed a noi stessi, avvezzi all'armonia de' loro versi, parrebbero barbari e disgustosi ponendovi la rima.
Se esistesse un'assoluta armonia, cioè a dire un'assoluta convenienza e relazione fra i suoni articolati, e se i versi italiani (che è pur la lingua e la poesia stimata la più armonica del mondo) fossero assolutamente armoniosi, lo sentirebbe tanto il forestiero e il fanciullo ignorante della lingua, quanto l'italiano adulto nè più nè meno.
E se quest'assoluta armonia, e questi versi assolutamente armonici fossero assoluta e natural cagione di diletto per se stessi, lo sarebbero universalmente, e non più all'italiano che allo straniero e al fanciullo.
Tutti coloro che non sanno il latino o il greco, di qualunque nazione sieno, non sentono armonia veruna ne' versi latini o greci, se pur non sono assuefatti lungamente ad udirne per qualsivoglia circostanza, [1209]ed allora notandone appoco [appoco] le minute parti, e le minute corrispondenze, e relazioni, e regolarità, non si formano l'orecchio a sentirne e gustarne l'armonia.
Il qual processo è necessario anche a chi meglio intenda il latino ed il greco.
Il nostro volgo trova una certa armonia negl'inni ecclesiastici ec.
e nessuna ne troverebbe in Virgilio.
Perchè? perchè gl'inni ecclesiastici somigliano sì per la struttura, l'andamento e il metro, sì bene spesso per la rima, ai versi italiani che il volgo pure è avvezzo a udire e cantare per le strade.
E poi, perch'egli è avvezzo ad udire appunto quei tali barbari versi e metri latini.
Un italiano assai colto, ma non avvezzo a legger poesia nostra, leggendogli una canzone del Petrarca, mi disse quasi vergognandosi, che trovava privo d'armonia quel metro, e che il suo orecchio non ne era punto dilettato.
Il qual metro somiglia a quello delle odi greche composte di strofe, di antistrofe, e d'epodo, ed ha un'armonia così nobile e grave, ed atto alla lirica sublime.
Soggiunse ch'egli non sentiva il diletto dell'armonia fuorchè nelle ottave, e in qualcuno de' nostri metri che chiamiamo anacreontici.
Notate ch'egli non aveva punto [1210]quell'orecchio che si chiama cattivo.
Domandate a un francese, ancorchè bene istruito dell'italiano o dell'inglese, s'egli sente verun'armonia ne' versi sciolti più belli, o ne' versi bianchi degl'inglesi.
Ciascuna nazione ha avuto ed ha i suoi metri particolari, tanto per la struttura di ciascun verso, quanto per la loro combinazione, disposizione e distribuzione, ossia per le strofe ec.
E questi in proporzione della differenza maggiore o minore de' climi, opinioni, assuefazioni, tempi (giacchè le stesse nazioni altri n'avevano anticamente, altri poi, altri oggi) ec.
ec.
sono diversissimi, e spesso affatto o inarmonici, o disarmonici per gli stranieri, secondo la misura dell'essere straniero, come noi verso i francesi dall'una parte, dall'altra verso gli orientali ec.
ec.
È impossibile allo straniero il sentirvi armonia nè diletto, senza una di queste condizioni 1.
lungo uso di quella lingua; ma non basta, anzi è nullo quest'uso, se non vi si aggiunge il lungo uso di quella poesia.
2.
somiglianza o affinità di quei metri co' metri della propria nazione; come fra quelli degl'italiani e degli spagnuoli.
La difficoltà del sentire l'armonia de' versi stranieri è maggiore o minore in proporzione ch'ella è più o meno diversa dall'armonia de' nostrali, o da quella o quelle a cui siamo avvezzi.
3.
abito fatto ad altre armonie forestiere affini a quella di cui si tratta.
4.
orecchio esercitato a tante e sì diverse armonie, che mediante una forza riflessiva, osservativa, e comparativa straordinariamente accresciuta, sia in grado di avvertire e conoscere o subito o ben presto la natura di quelle combinazioni forestiere, gli elementi di quell'armonia, e il ritorno de' loro regolati rapporti rispettivi; sia in grado di assuefar presto l'orecchio, ed abbia una facilità di contrarre abitudine, ch'è propria degli animi e degl'ingegni pieghevoli e adattabili, cioè in somma de' grandi ingegni; ec.
ec.
e possa in poco tempo arrivare a [1211]scoprire e discernere in detta armonia quello che i nazionali ci scuoprono.
È impossibile al nazionale avvezzo, e formato l'orecchio all'armonia de' suoi metri, per quanto sia chiamata barbara, dura, dissonante ec.
dagli stranieri, il non sentirla meglio, e il non trovarla più dilettevole di qualunque altra armonia forestiera, ancorchè giudicata bellissima ec.
Fuorchè formando (che è difficilissimo e forse non accade mai) un'assuefazione nuova che vinca la passata.
Chi di noi sente l'armonia de' versi orientali, o delle strofe loro? Non parlo de' versi tedeschi o inglesi, o della prosa tedesca misurata ec.
in ordine agl'italiani.
I quali molto più presto e facilmente riconoscono un'armonia ne' versi francesi, perchè lingua ed armonia più affine alla loro.
Si pretende, ed è probabilissimo che parecchi libri scritturali sieno metrici.
Ma in quali metri sieno composti nessuno l'ha trovato, benchè molti l'abbiano cercato.
E non si potrà mai trovare se non a caso, non essendoci regola che c'insegni qual fosse quella che agli Ebrei pareva armonia rispetto alle parole.
E ciò per qual altra ragione, se non perchè non esiste armonia assoluta? Se esistesse, la regola sarebbe trovata, massime esistendo tutte intere e ordinate quelle parole, che si pretendono aver formato un'armonia.
[1212]
(23.
Giugno 1821.).
V.
p.1233.
fine.
Alla p.1155.
Alle volte, anzi bene spesso dinotano l'appoco appoco, il corso il progresso dell'azione, per lo più lento, anzi hanno forza bene spesso di esprimere appunto la lentezza dell'azione, e non si usano ad altro fine.
Ovvero esprimono formalmente la debolezza dell'azione, ed hanno come una forza diminutiva uguale o simile a quella de' verbi latini terminati in itare.
Hanno simili modi anche gli spagnuoli e francesi, e gli adoprano in simili significati.
(24.
Giugno 1821.).
V.
p.1233.
capoverso 2.
Non è ella cosa notissima, comunissima, frequentissima, e certa per la esperienza quasi di ciascuno, che certe persone che da principio, o vedendole a prima giunta, ci paion brutte, appoco appoco, assuefacendoci a vederle, e scemandosi coll'assuefazione il senso de' loro difetti esteriori, ci vengono parendo meno brutte, più sopportabili, più piacevoli, e finalmente bene spesso anche belle, e bellissime? E poi perdendo l'assuefazione di vederle, ci torneranno forse a parer brutte.
Così dico di ogni altro genere di oggetti sensibili o no.
Molti de' quali che per una primitiva assuefazione di vederli e trattarli ci parvero belli da principio, cioè prima di esserci formata un'idea distinta e fissa del bello; veduti poi dopo lungo intervallo, ci paiono brutti e bruttissimi.
Che vuol dir ciò? Se esistesse un bello assoluto, la sua idea sarebbe continua, indelebile, inalterabile, uniforme in tutti gli uomini, nè si potrebbe o perdere o acquistare, o indebolire o rinforzare, o minorare o accrescere, [1213]o in qualunque modo cambiare (e cambiare in idee contrarie, come abbiamo veduto) coll'assuefazione, dalla quale non dipenderebbe.
(24.
Giugno 1821.)
Da qualche tempo tutte le lingue colte di Europa hanno un buon numero di voci comuni, massime in politica e in filosofia, ed intendo anche quella filosofia che entra tuttogiorno nella conversazone, fino nella conversazione o nel discorso meno colto, meno studiato, meno artifiziato.
Non parlo poi delle voci pertinenti alle scienze, dove quasi tutta l'Europa conviene.
Ma una grandissima parte di quelle parole che esprimono cose più sottili, e dirò così, più spirituali di quelle che potevano arrivare ad esprimere le lingue antiche e le nostre medesime ne' passati secoli; ovvero esprimono le stesse cose espresse in dette lingue, ma più sottilmente e finamente, secondo il progresso e la raffinatezza delle cognizioni e della metafisica e della scienza dell'uomo in questi ultimi tempi; e in somma tutte o quasi tutte quelle parole ch'esprimono precisamente un'idea al tempo stesso sottile, e chiara o almeno perfetta ed intera; grandissima parte, dico, di queste voci, sono le stesse in tutte le lingue colte d'Europa, eccetto piccole modificazioni particolari, per lo più nella desinenza.
Così che vengono a formare una specie di piccola lingua, o un vocabolario, strettamente universale.
E dico strettamente universale, cioè non come è universale la lingua francese, ch'è lingua secondaria [1214]di tutto il mondo civile.
Ma questo vocabolario ch'io dico, è parte della lingua primaria e propria di tutte le nazioni, e serve all'uso quotidiano di tutte le lingue, e degli scrittori e parlatori di tutta l'Europa colta.
Ora la massima parte di questo Vocabolario universale manca affatto alla lingua italiana accettata e riconosciuta per classica e pura; e quello ch'è puro in tutta l'Europa, è impuro in Italia.
Questo è voler veramente e consigliatamente metter l'Italia fuori di questo mondo e fuori di questo secolo.
Tutto il mondo civile facendo oggi quasi una sola nazione, è naturale che le voci più importanti, ed esprimenti le cose che appartengono all'intima natura universale, sieno comuni, ed uniformi da per tutto, come è comune ed uniforme una lingua che tutta l'Europa adopera oggi più universalmente e frequentemente che mai in altro tempo, appunto per la detta ragione, cioè la lingua francese.
E siccome le scienze sono state sempre uguali dappertutto (a differenza della letteratura), perciò la repubblica scientifica diffusa per tutta l'Europa ha sempre avuto una nomenclatura universale ed uniforme nelle lingue le più difformi, ed intesa da per tutto egualmente.
Così sono oggi uguali (per necessità e per natura del tempo) le cognizioni metafisiche, filosofiche, politiche ec.
la cui massa e il cui sistema semplicizzato e uniformato, è comune oggi [1215]più o meno a tutto il mondo civile; naturale conseguenza dell'andamento del secolo.
Quindi è ben congruente, e conforme alla natura delle cose, che almeno la massima parte del vocabolario che serve a trattarle ed esprimerle, sia uniforme generalmente, tendendo oggi tutto il mondo a uniformarsi.
E le lingue sono sempre il termometro de' costumi, delle opinioni ec.
delle nazioni e de' tempi, e seguono per natura l'andamento di questi.
Diranno che buona parte del detto vocabolario deriva dalla lingua francese, e ciò stante la somma influenza di quella lingua e letteratura nelle lingue e letterature moderne, cagionata da quello che ho detto altrove.
Ma venisse ancora dalla lingua tartara, siccome l'uso decide della purità e bontà delle parole e dei modi, io credo che quello ch'è buono e conveniente per tutte le lingue d'Europa, debba esserlo (massime in un secolo della qualità che ho detto) anche per l'Italia, che sta pure nel mezzo d'Europa, e non è già la Nuova Olanda, nè la terra di Jesso.
E se hanno accettate, ed usano continuamente le dette voci, quelle lingue Europee che non hanno punto che fare colla francese, quanto più dovrà farlo, e più facilmente, e con più naturalezza e vantaggio la nostra lingua, ch'è sorella carnale della francese? Le origini di dette parole, a noi [1216]riescono familiari e domestiche, perchè in gran parte derivano dal latino, benchè applicate ad altre significazioni che non avevano, nè potevano aver nel latino, mancando i latini di quelle idee.
Spessissimo vengono dal greco, che a noi non è più, anzi meno alieno, di quello che sia alle altre lingue colte moderne.
Spesso sono interamente italiane cioè stanno già materialmente nel nostro linguaggio, benchè in significato diverso, e meno sottile, o meno preciso, perchè i nostri antichi non poterono aver quelle idee, che oggi abbiamo noi, non perciò meno italiani di loro, nè quelle idee sono meno italiane perchè i nostri antichi non le arrivarono a concepire, o solo confusamente, secondo la natura de' tempi, e lo stato dello spirito umano.
Si condannino (come e quanto ragion vuole) e si chiamino barbari i gallicismi, ma non (se così posso dire) gli europeismi, che non fu mai barbaro quello che fu proprio di tutto il mondo civile, e proprio per ragione appunto della civiltà, come l'uso di queste voci che deriva dalla stessa civiltà e dalla stessa scienza d'Europa.
Osservate p.e.
le parole genio, sentimentale, dispotismo, analisi, analizzare, demagogo, fanatismo, originalità ec.
e tante simili che tutto il mondo intende, tutto il mondo adopera in una stessa e precisa significazione, e il solo italiano non può adoperare (o non può in quel significato), perchè? perchè i puristi le scartano, e perchè i nostri antichi, non potendo aver quelle idee, non poterono pronunziare nè scrivere quelle parole in quei sensi.
Ma così accade in ordine alle stesse parole, a tutte le lingue del mondo che pur non hanno scrupolo di adoperarle.
Piuttosto avrebbero scrupolo e vergogna di non saper esprimere un'idea chiara per loro, e chiara per tutto [1217]il mondo civile, mentre per la espressione delle idee chiare son fatte e inventate e perfezionate le lingue.
Come infatti noi, non volendo usar queste parole, non possiamo esprimere le idee chiare che rappresentano, o dobbiamo esprimere delle idee chiare e precise (e ciò nella stessa mente nostra), confusamente e indeterminatamente: e poi diciamo che l'italiano è copiosissimo, e basta a tutto, ed avanza.
Sicchè bisogna tacere, o scriver cose da bisavoli, e poi lagnarsi che l'italiana letteratura e filosofia resta un secolo e mezzo addietro a tutte le altre.
E come no, senza la lingua?
Aggiungo che quando anche potessimo ritrovare nel nostro Vocabolario o nella nostra lingua, o formare da essa lingua altre parole che esprimessero le stesse idee, bene spesso faremmo male ad usarle perchè non saremmo intesi nè dagli stranieri, nè dagli stessi italiani, e quell'idea che desteremmo non sarebbe nè potrebbe mai esser precisa; e non otterremmo l'effetto dovuto e preciso di tali parole, che è quanto dire, le useremmo invano, o quasi come puri suoni.
1.
Fu tempo dove agli uomini ed agli scrittori bastava di giovare, di farsi intendere, di rendersi famosi dentro i limiti della propria nazione.
Ma oggi, nello stato d'Europa che ho detto di sopra, non acquista fama nè grande nè durevole quello scrittore il cui nome e i cui scritti non passano i termini del [1218]proprio paese.
Nè in questa presente condizione di cose può molto e immortalmente giovare alla sua patria chi non viene almeno indirettamente a giovare più o meno anche al resto del mondo civile.
Nel rimanente quella gloria o quel nome che fu ristretto a una sola nazione fu sempre, ed anche anticamente poco durevole, nella stessa nazione ancora.
Fra mille esempi, basti nominare i Bardi; molti de' quali si sa confusamente e genericamente che furono famosissimi nelle loro nazioni, ed oggi p.e.
nella Scozia appena resta il nome e la memoria oscura di pochissimi degli stessi antichi Bardi Scozzesi.
Quello che dico degli scrittori, dico anche degli altri generi di persone famose ec.
ma degli scrittori in maggior grado, perchè i fatti degli uomini poco durano, e poco si possono stendere ma le voci e i pensieri loro consegnati agli scritti, sopravvivono lunghissimo tempo, e possono giovare a tutta l'umanità; nè lo scrittore, massimamente in questo presente stato del mondo, si deve contentare della utilità della sua sola patria, potendo con quel medesimo che impiega per lei, proccurare il vantaggio di tutte le altre nazioni.
2.
Ho detto che difficilmente ci faremmo intendere, e susciteremmo precisamente l'idea che vorremmo significare, e che è precisamente espressa dalle parole [1219]corrispondenti già usitate in Europa.
La filosofia (con tutti quanti i diversissimi suoi rami) è scienza.
Tutte le scienze giunte ad un certo grado di formazione e di stabilità hanno sempre avuto i loro termini, ossia la loro propria nomenclatura, e così propria, che volendola cambiare, si sarebbe cambiato faccia a quella tale scienza.
Com'è avvenuto che la rinnovazione della Chimica, ha portato la rinnovazione della sua nomenclatura, e di tutta quella parte di nomenclatura fisica o d'altre scienze, che apparteneva, o era influita dalle cognizioni chimiche vecchie o nuove.
E la nomenclatura di qualunque scienza è stata sempre così legata con lei, che dovunque ell'è entrata, v'è anche entrata quella stessa nomenclatura, comunque e dovunque formata, e comunque pur fosse inesatta nell'etimologie ec.
purchè fosse esatta nell'intendimento e nel senso che le si attribuiva.
La Chimica ha nuova nomenclatura, perch'è scienza nuova e diversa dall'antica.
E così accade alle altre scienze quando si rinnuovano o in tutto o in parte.
Perdono l'antica nomenclatura, e ne acquistano altra, che diviene però universale come la prima.
E quando fra diverse e lontane nazioni poco note o strette fra loro, trovate differenza di nomenclatura in una medesima scienza, certo è che quella scienza è diversa notabilmente nelle rispettive nazioni e lingue.
V.
p.1229.
Quindi i termini di tutte le scienze, esatte o no, ma alquanto stabilite sono stati sempre universali, nè sarebbe mai possibile nel trattarle, l'adoperare altri termini da quelli universalmente conosciuti, intesi e adoperati, senza nuocere sommamente alla chiarezza, e toglier via la precisione.
La qual precisione non deriva propriamente e principalmente da altro se non dalla convenzione che applica a quella parola quel preciso significato, bene spesso metaforico, ma passato in proprissimo.
Mutando la parola, è tolta via la forza della convenzione, e quindi, benchè la nuova parola equivalga quanto alla sua origine, alla sua proprietà intrinseca ec.
non equivale quanto all'effetto, perchè il [1220]lettore o uditore non concepisce più quell'idea precisa e netta che concepiva mediante la parola usitata, la qual era aiutata dalla convenzione, o sia dall'assuefazione di attribuirgli e d'intenderla in quel preciso significato.
Converrebbe rinnovare appoco appoco l'assuefazione, applicandola a queste nuove parole, il che porterebbe necessariamente un lungo intervallo di oscurità e confusione nella intelligenza degli scrittori, finchè la nuova nomenclatura non arrivasse a prendere nella mente nostra in tutto e per tutto il posto dell'usitata, e a farvi, per così dire, quel letto che questa vi aveva già fatto.
Nè questo sarebbe il solo danno, o difficoltà; ma converrebbe che questa nuova nomenclatura diventasse universale, altrimenti restringendosi a una sola nazione o lingua, ne seguirebbero i danni che ho specificati all'articolo 1.
e le nazioni non s'intenderebbero fra loro nelle idee che denno essere da per tutto egualmente precise, e precisamente intese.
E se una sola fosse la nazione che in qualunque scienza avesse una nomenclatura diversa dalle altre nazioni, quella nazione in ordine a quella scienza sarebbe come fuori del mondo e del secolo, tanto per l'effetto de' suoi scrittori sugli stranieri, quanto (ch'è peggio) per l'effetto degli scrittori stranieri su di lei.
[1221]Posto poi il caso ch'ella arrivasse a rendere quella nomenclatura universale, ognun vede che siamo da capo colla quistione, e che la universalità resterebbe, e solo avrebbe fatto passaggio inutilmente (e con danno temporaneo) da una ad altra nomenclatura: ed allora io dico che sarebbe pazzo quello scrittore o quel paese che non vi si volesse uniformare.
La filosofia dunque ha i suoi termini come tutte le altre scienze.
E siccome l'odierna filosofia è così 1.
raffinata, 2.
dilatata nelle sue parti e influenze, così che si può dire che tutta la vita umana oggi è filosofica, o almeno è tutta soggetta alle speculazioni della filosofia; perciò accade che i termini filosofici sieno moltissimi, e cadano spessissimo nel discorso familiare, e regnino in grandissima parte delle cognizioni, delle discipline, degli scritti presenti.
E perchè questi termini, come ho detto, sono in gran parte uniformi per tutta Europa, perciò oggi il linguaggio di tutta Europa nelle espressioni delle idee sottili o sottilmente considerate, è presso a poco uniforme, anche nella conversazione.
Ed è ben ragionevole che la filosofia divenuta scienza così profonda, sottile, accurata, ed appresso a poco uniforme e concorde da per tutto (a differenza delle antiche filosofie), e, quel ch'è notabilissimo nel nostro proposito, sempre più chiara e certa nelle sue nozioni, e determinata, abbia [1222]i suoi termini stabili e universalmente uniformi, massime in tanta uniformità, e stretto commercio d'Europa: quando anche le vecchie, informi ed oscure, incerte, mal determinate, e sciocche filosofie che s'insegnavano nelle scuole, ebbero la loro nomenclatura stabile e universale, fuor di cui non sarebbero state intese in nessuna parte d'Europa, benchè tanto meno uniforme ed unita fra se.
Di questi termini dell'antica filosofia, di questi termini scolastici universalmente adoperati ne' bassi tempi e fino agli ultimi secoli, abbonda la lingua italiana.
E perchè ebbero la fortuna d'essere usati da' nostri vecchi, perciò questi termini, quantunque derivati da barbare origini, e appartenenti a scienze che non erano scienze, si chiamano purissimi in Italia; e i termini dell'odierna filosofia, derivati dalla massima civiltà d'Europa, appartenenti alla prima delle scienze, e questa condotta a sì alto grado, si chiamano impurissimi, perchè ignoti agli antichi; quasi che a noi toccasse il venerare e il conservare, e non lo scusare per l'una parte, per l'altra discacciare l'ignoranza antica.
E che l'ignoranza de' passati dovesse esser la misura e la norma del sapere dei presenti.
[1223]Se dunque l'odierna filosofia, quella filosofia che abbraccia per così dire tutto questo secolo, tutte le cose e tutte le cognizioni presenti, ha e deve avere i suoi termini costanti, ed uniformi in qualunque luogo ella è trattata, noi dobbiamo adottarli ed usarli, e conformarci a quelli che tutto il mondo usa.
E non è più tempo di cambiarli, e formarci una nomenclatura filosofica italiana, cioè cavata tutta dalle fonti della nostra lingua.
Questo avrebbe potuto essere, se la massima parte dell'odierna filosofia fosse derivata dall'Italia.
Ed allora le altre nazioni, senza veruna ripugnanza avrebbero usata nella filosofia, la nomenclatura fabbricata in Italia.
Ma avendo lasciato far tutto agli stranieri, ed arrivar questa scienza a sì alto grado senza quasi nessuna opera nostra, o dobbiamo seguitare a non curarla, ignorarla, e non trattarla; o volendo trattarla ci conviene adottare quella nomenclatura che troviamo già stabilita e generalmente intesa, fuor della quale non saremmo bene intesi nè dagli stranieri, nè da' nostri medesimi, come apparisce dalle sopraddette ragioni.
Alle quali aggiungo come corollario, dimostrato dal fatto, che tutte quelle parole che [1224]hanno espressa precisamente e sottilmente un'idea sottile e precisa, di qualunque genere, e in qualunque ramo delle cognizioni, sono state o sempre o quasi sempre universali, ed usate in qualsivoglia lingua da tutti quelli che hanno concepita e voluta significare quella stessa idea strettamente.
E quella tale idea è passata dal primo individuo che la concepì chiaramente, agli altri individui, e alle altre nazioni, non altrimenti che in compagnia di quella tal parola.
Appunto perchè questa fina precisione di significato, non deriva nè può derivare se non da una stretta e appositissima convenzione, difficilissima a rinnovare, e a moltiplicare secondo le lingue.
Per tutte queste ragioni, sarebbe opera degna di questo secolo, ed utilissima alle lingue non meno che alla filosofia, un Vocabolario universale Europeo che comprendesse quelle parole significanti precisamente un'idea chiara, sottile, e precisa, che sono comuni a tutte o alla maggior parte delle moderne lingue colte.
E massimamente quelle parole che appartengono a tutto quello che oggi s'intende sotto il nome di filosofia, ed a tutte le cognizioni ch'ella abbraccia.
Giacchè le scienze materiali, o le scienze esatte non hanno tanto bisogno di questo servigio, essendo bastantemente riconosciute e fisse le loro nomenclature, e le idee che queste significano non essendo così facili [1225]o a sfuggire, o ad oscurarsi e confondersi e divenire incerte e indeterminate, come quelle della filosofia.
Dovrebbe chi prendesse questo assunto definire e circoscrivere colla possibile diligenza il significato preciso di tali parole o termini, e recarne dalle diverse lingue dov'elle sono in uso, esempi giudiziosamente scelti di scrittori veramente accurati e filosofi, e massime quegli esempi dov'è contenuta una definizione filosofica dell'idea significata dalla parola; esempi che non sarebbero difficili a trovarsi in tanta copia di scrittori profondissimi e sottilissimi e acutissimi di questo e del passato secolo, e anche del precedente.
In maniera simile si contenne Samuele Johnson nel Dizionario della lingua inglese, lingua che sa veramente esser filosofica, ed abbonda di scrittori di tal genere.
Se il compilatore di tal Dizionario fosse italiano, ci renderebbe anche gran servigio, ponendovi gli esempi de' migliori italiani che hanno trattato simili materie; e in caso che si trovassero voci italiane perfettamente corrispondenti, sia nel Vocabolario nostro sia ne' nostri buoni scrittori qualunque, sia nell'uso, farebbe utilissima cosa, ponendole a fronte ec.
con che verrebbe a fare un Vocabolario italiano filosofico, cosa veramente da sospirarsi, e per conoscere e per mostrare e per usare le nostre ricchezze, se ne abbiamo.
Questo Vocabolario che sarebbe utilissimo a tutta l'Europa, lo sarebbe massimamente all'Italia, la quale dovrebbe vedere quanta copia di parole che tutta l'Europa pronunzia e scrive, e riconosce per necessarie, ella disprezzi e proscriva, senz'averne alcuna da surrogar loro.
E la lingua italiana dovrebbe adottare le dette voci senza timore di corrompersi più di quello che si sieno corrotte coll'adottarle, [1226]tutte le altre lingue europee.
E non dovrebbe volere, anzi vergognarsi, che un tal vocabolario essendo Europeo, non fosse italiano quasi che l'italiano non fosse Europeo, nè di questo secolo ec.
E dovrebbe riconoscerle per voci nobilissime, perchè inseparabilmente spettanti e legate alla più nobile delle scienze umane ch'è la filosofia.
V.
p.1231.
fine.
Con ciò non vengo mica a dire ch'ella debba, anzi pur possa adoperare, e molto meno profondere siffatte voci nella bella letteratura e massime nella poesia.
Non v'è bontà dove non è convenienza.
Alle scienze son buone e convengono le voci precise, alla bella letteratura le proprie.
Ho già distinto in altro luogo le parole dai termini, e mostrata la differenza che è dalla proprietà delle voci alla nudità e precisione.
È proprio ufficio de' poeti e degli scrittori ameni il coprire quanto si possa le nudità delle cose, come è ufficio degli scienziati e de' filosofi il rivelarla.
Quindi le parole precise convengono a questi, e sconvengono per lo più a quelli; a dirittura l'uno a l'altro.
Allo scienziato le parole più convenienti sono le più precise, ed esprimenti un'idea più nuda.
Al poeta e al letterato per lo contrario le parole più vaghe, ed esprimenti idee più incerte, o un maggior numero d'idee ec.
Queste almeno gli denno esser le più care, e quelle altre che sono l'estremo opposto, le più odiose.
V.
p.1234.
capoverso 1.
e 1312.
capoverso 2.
Ho detto e ripeto che i termini in letteratura e massime in poesia faranno sempre pessimo e bruttissimo effetto.
Qui peccano assai gli stranieri, e non dobbiamo imitarli.
Ho detto che la lingua francese (e intendo quella della letteratura e della poesia) si corrompe per la profusione de' termini, ossia delle voci di nudo e secco significato, perch'ella si compone oramai tutta quanta di termini, abbandonando e dimenticando le parole: che noi non dobbiamo mai nè [1227]dimenticare nè perdere nè dismettere, perchè perderemmo la letteratura e la poesia, riducendo tutti i generi di scrivere al genere matematico.
Le dette voci ch'io raccomando alla lingua italiana, sono ottime e necessarie, non sono ignobili, ma non sono eleganti.
La bella letteratura alla quale è debito quello che si chiama eleganza, non le deve adoperare, se non come voci aliene, e come si adoprano talvolta le voci forestiere, notando ch'elle son tali, e come gli ottimi latini scrivevano alcune voci in greco, così per incidenza.
I diversi stili domandano diverse parole, e come quello ch'è nobile per la prosa, è ignobile bene spesso per la poesia, così quello ch'è nobile ed ottimo per un genere di prosa, è ignobilissimo per un altro.
I latini ai quali in prosa non era punto ignobile il dire p.e.
tribunus militum o plebis, o centurio, o triumvir ec.
non l'avrebbero mai detto in poesia, perchè queste parole d'un significato troppo nudo e preciso, non convengono al verso, benchè gli convengano le parole proprie, e benchè l'idea rappresentata sia non solo non ignobile, ma anche nobilissima.
I termini della filosofia scolastica, riconosciuti dalla nostra lingua per purissimi, sarebbero stati barbari nell'antica nostra poesia, come nella moderna, ed anche nella prosa elegante, s'ella gli avesse adoperati come parole sue proprie.
[1228]E se Dante le profuse nel suo poema, e così pur fecero altri poeti, e parecchi scrittori di prosa letteraria in quei tempi, ciò si condona alla mezza barbarie, o vogliamo dire alla civiltà bambina di quella letteratura e di que' secoli, ch'erano però purissimi quanto alla lingua.
Ma altro è la purità, altro l'eleganza di una voce, e la sua convenienza, bellezza, e nobiltà, rispettiva alle diverse materie, o anche solo ai diversi stili: giacchè anche volendo trattar materie filosofiche in uno stile elegante, e in una bella prosa, ci converrebbe fuggir tali termini, perchè allora la natura dello stile domanda più l'eleganza e bellezza che la precisione, e questa va posposta.
(Del resto in tal caso, la filosofia è l'uno de' principali pregi della letteratura e poesia, sì antica che moderna, atteso però quello che ho detto p.1313.
la quale vedi.) Io dico che l'Italia dee riconoscere i detti termini ec.
per puri, cioè propri della sua lingua, come delle altre, ma non già per eleganti.
La bella letteratura, e massime la poesia, non hanno che fare colla filosofia sottile, severa ed accurata; avendo per oggetto in bello, ch'è quanto dire il falso, perchè il vero (così volendo il tristo fato dell'uomo) non fu mai bello.
Ora oggetto della filosofia qualunque, come di tutte le scienze, è il vero: e perciò dove regna la filosofia, quivi non è vera poesia.
La qual cosa [1229]molti famosi stranieri o non la vedono, o adoprano (o si conducono) in modo come non la vedessero o non volessero vederla.
E forse anche così porta la loro natura fatta piuttosto alle scienze che alle arti ec.
Ma la poesia quanto è più filosofica, tanto meno è poesia.
(26.
Giugno 1821.).
V.
p.1231.
Alla p.1219.
marg.
La filosofia e le scienze greche passarono ai latini, passarono agli Arabi; e portarono nel latino e nell'Arabo le loro voci greche.
Gli Arabi vi ggiunsero alcune cose, e inventarono qualche scienza, o parte di scienze; e i nomi Arabi insieme con dette aggiunte e invenzioni, sono diffusi universalmente in Europa.
Così sempre è accaduto negli antichi, ne' mezzani, ne' moderni tempi.
La filosofia Chinese p.e.
ha nomenclatura diversa dalla nostra, ed ognun sa quanto ella ne differisca: oltre ch'ella non può in nessun modo chiamarsi scienza esatta nè simile all'esatte, come la moderna nostra.
Così dico delle altre scienze chinesi.
Così della filosofia degli Ebrei, che avendo altra nomenclatura, ha, rispetto alla nostra, un'idea di originalità, massime in quelle parti dove i loro nomi differiscono da quelli della filosofia latina, [1230](divenuti poi comuni in Europa ec.) nella qual lingua conosciamo i libri Ebraici.
Oltre che l'Ebraica filosofia è pure inesatta come ho spiegato di sopra, e quindi tanto meno copiosa ne' termini, e meno precisa ne' loro significati.
ec.
ec.
ec.
(26.
Giugno 1821.)
Da repere che anche il Forcellini dice esser metatesi di ????, oltre l'inerpicare del quale ho detto altrove, ed oltre il latinismo repere che nella Crusca ha un esempio di Dante, e uno del Soderini, ebbero i nostri antichi anche ripire, voce italiana d'uso, e volgare in quei tempi, come sembra, e adoprata anch'essa nel significato di inerpicarsi, ????????, o di salire, montar su, come puoi vedere ne' due esempi delle Storie Pistolesi nella Crusca, e in questi della Storia della Guerra di Semifonte scritta da M.
Pace da Certaldo, Firenze 1753.
il quale autore fu tra il 200 e il 300.
Gli Fiorentini appoggiate le scale di già RIPIVANO (p.37): e Videro...
alcuni già avere appoggiate le scale, e far pruova di RIPIRE.
(p.46.) Esempi portati nella Lettera a V.
Monti di Vincenzo Lancetti, Proposta di alcune Correzioni ed Aggiunte al Vocab.
della Crusca, vol.2.
par.1.
Milano 1819.
Appendice, p.284.
Quindi ripido, cioè Erto, Malagevole a salire, spiega la Crusca, e ripidezza astratto di ripido, voci non latine: e da repere, repente, per molto erto, ripido, dice la Crusca, che ne porta due [1231]esempi del trecento.
Il Du Cange non ha niente in proposito.
(27.
Giugno 1821.)
Alla p.1229.
E infatti gran parte, e forse la maggiore delle poesie straniere, riescono e sono piuttosto trattati profondissimi di psicologia, d'ideologia ec.
che poesia.
E quivi la filosofia nuoce e distrugge la poesia, e la poesia guasta e pregiudica la filosofia.
Tra questa e quella esiste una barriera insormontabile, una nemicizia giurata e mortale, che non si può nè toglier di mezzo, e riconciliare, nè dissimulare.
E così dico proporzionatamente del resto della bella letteratura propriamente e veramente considerata.
(27.
Giugno 1821.)
Alla p.1125, marg.
- ossia le radici de' verbi ebraici chiamati perfetti, tutte composte di tre lettere nè più nè meno, e di due sillabe, ed anche gl'imperfetti fuorchè i Deficienti (come dicono) in Ghaiin, quando per contrazione perdono la seconda radicale nella terza singolare del Preterito di Kal attivo (cioè della prima coniugazione attiva); e i Quiescenti detti in Ghaiin Vau, i quali avendo pur tre lettere, hanno però una sola sillaba nella radice.
Questo genere di radici dissillabe e trilettere, io credo che sia comune e regolare anche nell'Arabo, nel Siriaco e in altre lingue orientali.
(27.
Giugno 1821.)
Alla p.1126.
Dovrebbe, dico adottare, fra queste voci, tutte quelle che non hanno, nè possono avere nell'italiano un preciso equivalente, cioè preciso nella significazione, e preciso nell'intelligenza e nell'effetto.
[1232]Perchè se qualcuna di tali voci ha già nell'uso o dello scrivere o del parlare italiano, una voce corrispondente che produca lo stesso preciso effetto, quantunque diversa materialmente; o se si può formare dalle nostre radici, o riporre in uso qualche parola dismessa che indichi la stessa idea in modo da suscitarla con piena e perfetta precisione, e senza oscurità nè veruna minima incertezza, e senza niente di vago o di dissimile, nella mente del lettore, o uditore; non nego, anzi affermo, che in tal caso (che quando si ponga ben mente a tutte e a ciascuna delle dette condizioni sarà rarissimo) faremo bene a preferir queste voci nostre, alle sopraddette, benchè universali, e benchè in tal caso pure, non saremmo in diritto di riprenderle come impure, mentre son pure, cioè comunemente usate, e precisamente intese in tutta l'Europa.
(27.
Giugno 1821.)
La trattabilità e facilità della lingua francese, ond'ella è così agevole a scriver bene e spiegarsi bene sì per lo straniero che l'adopra o l'ascolta, sì pel nazionale, non deriva dall'esser ella uno strumento pieghevole e souple (qualità negatale espressamente dal Thomas) ec.
ma dall'essere un piccolo strumento, e quindi manuale, ???????????????? maneggiabile, [1233]facile a rivoltarsi per tutti i versi, e ad adoprare in ogni cosa.
ec.
(27.
Giugno 1821.)
Quello che ho detto de' termini filosofici comuni oggi a tutta Europa, bisogna anche estenderlo ai nomi appartenenti al commercio, alle arti, alle manifatture, agli oggetti di lusso ec.
ec.
che da qualunque lingua e nazione abbiano ricevuto il nome, lo conservano in gran parte per tutte le lingue e nazioni, e così è sempre accaduto.
Quanto però al Vocabolario ch'io propongo, il comprendervi questi nomi, sarebbe anche meno necessario di quelli appartenenti alle scienze esatte o materiali.
(28.
Giugno 1821.)
Alla p.1212.
Talvolta anche adopriamo i detti modi, a espresso fine di denotare azione interrotta, e il di quando in quando, come p.e.
dicendo il Tasso viene ornando i suoi versi di falsi ornamenti, vogliamo dire, di quando in quando gli orna ec.
e vogliamo significare minor continuità che se dicessimo orna i suoi versi ec.
il che verrebbe a dire che lo facesse sempre o quasi sempre; o se dicessimo suole ornare ec.
(28.
Giugno 1821.)
Alla p.1212.
principio.
Se esistesse un'armonia assoluta in ordine ai suoni articolati o alle parole, tutte le versificazioni in qualunque lingua e tempo, avrebbero [1234]avuto ed avrebbero le stesse armonie, e renderebbero le stesse consonanze, che in un batter d'occhio si ravviserebbero dal forestiero, come dal nazionale, e dal contemporaneo ec.
Quando per lo contrario il forestiero non solo non vi trova alcuna conformità coll'armonia della versificazione sua nazionale, ma bene spesso non si accorge nè si può accorgere che quella tale sia versificazione, se non se n'accorge per la materia, e per essere scritta in linee distinte, o per la rima, che non ha punto che fare col ritmo, nè colla misura.
(28.
Giugno 1821.)
Alla p.1226.
marg.
fine.
L'analisi delle cose è la morte della bellezza o della grandezza loro, e la morte della poesia.
Così l'analisi delle idee, il risolverle nelle loro parti ed elementi, e il presentare nude e isolate e senza veruno accompagnamento d'idee concomitanti, le dette parti o elementi d'idee.
Questo appunto è ciò che fanno i termini, e qui consiste la differenza ch'è tra la precisione, e la proprietà delle voci.
La massima parte delle voci filosofiche divenute comuni oggidì, e mancanti a tutti o quasi tutti gli antichi linguaggi, non esprimono veramente idee che mancassero assolutamente ai nostri antichi.
Ma come è già stabilito dagl'ideologi [1235]che il progresso delle cognizioni umane consiste nel conoscere che un'idea ne contiene un'altra (così Locke, Tracy ec.), e questa un'altra ec.; nell'avvicinarsi sempre più agli elementi delle cose, e decomporre sempre più le nostre idee, per iscoprire e determinare le sostanze (dirò così) semplici e universali che le compongono (giacchè in qualsivoglia genere di cognizioni, di operazioni meccaniche ancora ec.
gli elementi conosciuti, in tanto non sono universali, in quanto non sono perfettamente semplici e primi); (v.
in questo proposito la p.1287.
fine) così la massima parte di dette voci, non fa altro che esprimere idee già contenute nelle idee antiche, ma ora separate dalle altre parti delle idee madri, mediante l'analisi che il progresso dello spirito umano ha fatto naturalmente di queste idee madri, risolvendole nelle loro parti, elementari o no (che il giungere agli elementi delle idee è l'ultimo confine delle cognizioni); e distinguendo l'una parte dall'altra, con dare a ciascuna parte distinta il suo nome, e formarne un'idea separata, laddove gli antichi confondevano le dette parti, o idee suddivise (che per noi sono oggi altrettante distinte idee) in un'idea sola.
Quindi la secchezza che risulta dall'uso de' termini, i quali ci destano un'idea quanto più si possa scompagnata, solitaria e circoscritta; laddove la bellezza del discorso e della poesia consiste nel destarci gruppi d'idee, e nel fare errare la nostra mente nella moltitudine delle concezioni, e nel loro vago, confuso, indeterminato, incircoscritto.
Il che si ottiene colle parole proprie, ch'esprimono un'idea composta di molte parti, e legata [1236]con molte idee concomitanti; ma non si ottiene colle parole precise o co' termini (sieno filosofici, politici, diplomatici, spettanti alle scienze, manifatture, arti ec.
ec.) i quali esprimono un'idea più semplice e nuda che si possa.
Nudità e secchezza distruttrice e incompatibile colla poesia, e proporzionatamente, colla bella letteratura.
P.e.
genio nel senso francese, esprime un'idea ch'era compresa nell'ingenium, o nell'ingegno italiano, ma non era distinta dalle altre parti dell'idea espressa da ingenium.
E tuttavia quest'idea suddivisa, espressa da genio, non è di gran lunga elementare, e contiene essa stessa molte idee, ed è composta di molte parti, ma difficilissime a separarsi e distinguersi.
Non è idea semplice benchè non si possa facilmente dividere nè definire dalle parti, o dal'intima natura.
Lo spirito umano, e seco la lingua, va sin dove può; e l'uno e l'altra andranno certo più avanti, e scopriranno coll'analisi le parti dell'idea espressa da genio, ed applicheranno a queste parti o idee nuovamente scoperte, cioè distinte, nuove parole, o nuovi usi di parole.
Così egoismo che non è amor proprio, ma una delle infinite sue specie, ed egoista ch'è la qualità del secolo, e in italiano non si può significare.
Così cuore in quel senso metaforico che è sì comune a tutte le lingue moderne fin dai loro principii, era voce sconosciuta in detto senso alle lingue antiche, e non però era sconosciuta l'idea ec.
ma non bene distinta da mente, animo ec.
ec.
ec.
ec.
Così immaginazione o fantasia, per quella facoltà sì notabile ed essenziale della mente umana, che noi dinotiamo con questi nomi, ignoti in tal senso alla buona latinità e grecità, benchè da esse derivino.
Ed altri nomi non avevano per dinotarla, sicchè anche queste parole (italianissime) e questo senso, vengono da barbara origine.
(28.
Giugno 1821.)
[1237]Nè solamente col progresso dello spirito umano si sono distinte e denominate le diverse parti componenti un'idea che gli antichi linguaggi denominavano con una voce complessiva di tutte esse parti, o idee contenute; ma anche si sono distinte e denominate con diverse voci non poche idee che per essere in qualche modo somiglianti, o analoghe ad altre idee, non si sapevano per l'addietro distinguer da queste, e si denotavano con una stessa voce, benchè fossero essenzialmente diverse e d'altra specie o genere.
V.
p.e.
quello che ho detto p.1199-200.
circa il bello, e quello ch'essendo piacevole alla vista, non è però bello, nè appartiene alla sfera della bellezza, benchè ne' linguaggi comuni, si chiami bello, e l'intelletto volgare non lo distingua dal vero bello.
Da queste osservazioni e da quelle del pensiero precedente, inferite 1.
che quelli i quali scartano tali nuove parole o termini, e vietano la novità nelle lingue, pretendono formalmente d'impedire l'andamento, e rompere il corso, e fermare immobilmente e per sempre il progresso dello spirito umano, posto il quale, la lingua necessariamente progredisce, e si arricchisce di parole sempre più precise, distinte, sottili, uniformi ed universali, e in somma di termini; e [1238]vicendevolmente senza il progresso della lingua (e progresso di questa precisa natura, e non d'altra, che poco influisce) è nullo il progresso dello spirito umano, il quale non può stabilire ed assicurare, e perpetuare il possesso delle sue nuove scoperte e osservazioni, se non mediante nuove parole o nuove significazioni fisse, certe, determinate, indubitabili, riconosciute; e di più, uniformi, perchè se non sono uniformi, il progresso dello spirito umano sarà inevitabilmente ristretto a quella tal nazione, che parla quella lingua dove si sono formate le dette nuove parole; o a quelle sole nazioni che le hanno bene intese e adottate.
2.
Che tali parole o termini, sono affatto incompatibili coll'essenza della poesia, e l'abuso loro, guasta affatto, e perde e trasforma in filosofia, o discorso di scienze ec.
la bella letteratura.
(29.
Giugno, dì mio natalizio.
1821.)
Già non accade avvertire che tali parole universali in Europa, non riuscirebbero nè nuove, nè per verun conto più difficili, oscure, incerte ai lettori italiani, di quello riescono agli stranieri, non ostante che in Italia non sieno riconosciute per proprie della lingua, cioè per voci pure, nè ammesse ne' Vocabolari.
E di questo è cagione 1.
l'uso giornaliero [1239]del parlare italiano, il quale vorrei che non avesse altro di forestiero e di barbaro, che l'uso di siffatte parole.
2.
l'uso di molti scrittori italiani moderni, i quali parimente vorrei che non meritassero altro rimprovero fuorchè di avere adoperato tali voci.
3.
l'intelligenza e l'uso del francese, familiare agl'italiani come agli altri, dal qual francese son derivate, o nel quale son ricevute e comuni, e per via e mezzo del quale ci sono ordinariamente pervenute o tutte o quasi tutte simili parole.
Circostanza notabile e favorevolissima all'introduzione di tali voci in nostra lingua, mentre quasi tutte le moderne cognizioni, colle voci loro appartenenti, ci vengono pel canale di una lingua sorella, e già ridotte in forma facilmente adattabile al nostro idioma, massime dopo averci familiarizzato l'orecchio mediante l'uso fattone da essa lingua 1° sì comune in Italia e per tutto, 2°.
sì affine alla nostra.
(29.
Giugno, dì di S.
Pietro.
1821.)
Spesso è utilissimo il cercar la prova di una verità già certa, e riconosciuta, e non controversa.
Una verità isolata, come ho detto altrove, poco giova, massime al filosofo, e al progresso dell'intelletto.
Cercandone la prova, se ne conoscono i rapporti, e le ramificazioni (sommo scopo della filosofia): e si scoprono pure [1240]bene spesso molte analoghe verità, o ignote, o poco note, o dei rapporti loro, sconosciuti ec.: si rimonta insomma bene spesso dal noto all'ignoto, o dal certo all'incerto, o dal chiaro all'oscuro, ch'è il processo del vero filosofo nella ricerca della verità.
E perciò i geometri non si contentano di avere scoperta una proposizione, se non ne trovano la dimostrazione.
E Pitagora immolò un'Ecatombe per la trovata dimostrazione del teorema dell'ipotenusa, della cui verità era già certo, ed ognuno poteva accertarsene colla misura.
Però giova il cercare la dimostrazione di una verità già dimostrata da altri, senza aver notizia della dimostrazione già fatta.
Perchè i diversi ingegni prendendo diverse vie, scoprono diverse verità e rapporti, benchè partendo da uno stesso punto, o collimando a una stessa meta o centro ec.
(29.
Giugno 1821.)
Una delle principali, vere, ed insite cagioni della vera e propria ricchezza e varietà della lingua italiana, è la sua immensa facoltà dei derivati, che mette a larghissimo frutto le sue radici.
Osserviamo solamente le diverse formazioni che dalle sue radici ella può fare de' verbi frequentativi o diminutivi.
Colla desinenza in eggiare come da schiaffo, [1241]da vezzo, da arma, da poeta, o poetare, da verso, schiaffeggiare, vezzeggiare, armeggiare, poeteggiare, verseggiare, (e così da vano o vanare, vaneggiare, e pargoleggiare, e spalleggiare ec.
e da favore, come favorare, e favorire, così favoreggiare); in icciare come da arso arsicciare; in icchiare, come da canto canticchiare; in ellare come da salto saltellare; in erellare, come pur da salto salterellare, e da canto canterellare; in olare, come da spruzzo spruzzolare, da vòlto voltolare, da rotare, rinfocare, rotolare, rinfocolare, da giuocare, giuocolare, da muggire o mugghiare, mugolare, muggiolare, mugiolare; in igginare, come da piovere piovvigginare; in uzzare, come da taglio tagliuzzare; in acchiare come da foro foracchiare; in ecchiare, come da morso, roso, sonno, morsecchiare, rosecchiare, sonnecchiare; (e così punzecchiare che anche si dice punzellare); in azzare come da scorrere scorrazzare, da volare svolazzare; in eare come da ruota o rotare roteare (che la Crusca chiama V.
A.
non so perchè) alla spagnuola rodear, blanquear cioè biancheggiare e imbiancare ec.; in ucchiare, come da bacio baciucchiare; in onzare come da ballo ballonzare; ed in altri modi ancora, che neppur qui finisce il novero, senza contare i sopraffrequentativi, o sopraddiminutivi, come ballonzolare, sminuzzolare ec.
ec.
ovvero diminutivi de' frequentativi o viceversa.
E queste, e le altre formazioni sono di significato certo, determinato, riconosciuto, convenuto e costante, in modo che vedendo una tal formazione, e conoscendo il significato della voce originaria, s'intende subito la modificazione che detta parola formata esprime, dell'idea espressa dalla parola materna.
La pazza idea per tanto (ch'è l'ultimo eccesso della pedanteria) di voler proibire la formazione di nuovi derivati, è lo stesso che seccare una delle principali e più proprie ed innate sorgenti della ricchezza di nostra lingua.
V.
[1242]in questo proposito p.1116-17.
Io non dubito (e l'esempio portato lo conferma) che nella immensità e varietà della facoltà certa stabile e definita ch'ella ha dei derivati, e nell'uso che ne sa fare, e ne ha fatto, la lingua nostra non vinca la latina, e la stessa greca.
Alla quale però si rassomiglia assai anche per questa moltiplicità di forme nelle derivazioni che hanno un medesimo o simile significato, a differenza della latina, non già povera, ma più regolata e con più certezza circoscritta in ciò, come nel resto.
V.
la p.1134.
fine.
(29.
Giugno 1821.).
Queste sono le vere cagioni e fonti per cui (se non le chiuderemo) la nostra lingua resterà sempre superiore in ricchezza alle moderne, malgrado i nuovi vocaboli ec.
particolari, ch'elle vanno tuttogiorno acquistando.
V.
p.1292.
capoverso 1.
Alla p.302.
principio.
In prova di quello che ho detto della utilità che risulta ai governi dai partiti loro contrarii, osservate cosa già nota, che non è luogo dove la religion cattolica, anzi la cristiana, (e così qualunque altra) sia più rilasciata nell'esterno ancora, e massime nell'interno, come in quel paese dov'ella è non solo dominante ma unica, cioè in Italia, che di più è la sua sede.
(La Spagna, come finora non civile, e fuori del mondo colto, non fa eccezione).
E proporzionatamente scendendo sì per le stesse province d'Italia più vicine o più commercianti ec.
con religioni diverse, sì per le diverse nazioni, come la Francia ec.
sino alla Germania e all'Inghilterra ec.
si trova che dove la religion cattolica o le altre cristiane, sono più avvilite, più vicine e frammiste a religioni diverse e contrarie, sette ec.
quivi appunto il loro culto esterno ed interno è più che mai vivo, sodo, vero, efficace, e fermo.
(29.
Giugno 1821.)
[1243]Osserviamo il grand'effetto prodotto nelle nostre sensazioni dalle piccole e minime differenze reali nella statura degli uomini.
Osserviamo pure la differenza delle proporzioni circa la statura delle donne, e come una donna alta ci paia bene spesso di maggiore statura che un uomo mediocre, e posta al paragone si trovi il contrario.
ec.
Osserviamo finalmente che le stesse proporzionate differenze in altri oggetti di qualunque genere, non sono mai capaci di produrre in noi gli stessi effetti, nè proporzionati a quelli delle stature umane.
E quindi inferiamo quanto la continua osservazione ci renda sottili conoscitori, ed affini le nostre sensazioni circa le forme esteriori de' nostri simili: e come per conseguenza l'idea delle proporzioni determinate non si acquisti se non a forza di osservazione, e di abitudine; e quanto sia relativa, giacchè la menoma differenza reale, ci par grandissima in questi oggetti, e menoma, qual è, in tutti gli altri.
(30.
Giugno 1821.).
Altre cagioni di fatto della ricchezza e varietà della lingua italiana, oltre la copia degli scrittori, come ho detto altrove sono
1.
Il non aver noi mai rinunziato alle nostre [1244]ricchezze di quantunque antico possesso, a differenza della lingua francese, a cui non gioverebbe neppure l'avere avuta altrettanta copia di scrittori e di secoli letterati, quanti noi.
Neppure alla varietà, ed anche a quella ricchezza che serve precisamente all'esatta espressione delle cose, gioverebbe alla lingua francese l'avere avuto in questi due secoli dopo la sua rigenerazione, tanti e più scrittori quanti noi in cinque secoli.
Non le gioverebbe dico, quanto giova alla nostra lingua la moltitudine dei secoli, e quindi la maggior varietà degli scrittori, delle opinioni, de' gusti, degli stili, delle materie da loro trattate; varietà che non si può trovare nello stesso grado in due secoli soli, benchè fossero più copiosi di scrittori, che questi 5.
insieme: e varietà che serve infinitamente alla ricchezza di una lingua, ed alla esattezza e minutezza del suo poter esprimere, giacch'è stata applicata ad esprimere tanto più diverse cose, da tanto più diversi ingegni, e più diversamente disposti; e in tanto più diversi modi.
Neppure la lingua tedesca ha rinunziato alle sue antiche ricchezze e possedimenti, come si vede nel Verter, abbondante di studiati e begli ed espressivi arcaismi.
[1245]2.
La gran vivacità, immaginosità, fecondità, e varietà degl'ingegni degli scrittori nostri, qualità proprie della nazione adattabile a ogni sorta di assunti, e di caratteri, e d'imprese, e di fini.
3.
Il moltissimo che la nostra lingua scritta, (giacchè della ricchezza e varietà di questa intendiamo parlare, e questa intendiamo paragonare colle straniere) ha preso dalla lingua parlata e popolare.
Or come ciò, se io dico, che la principale, anzi necessaria fonte della ricchezza e perfezione di una lingua, sono gli scrittori, e questi, letterati? Ecco il come.
Ho detto, ed è vero, che la convenzione, sola cosa che può render parola una parola, cioè segno effettivo di un'idea, non può mai esser molto estesa, nè uniforme e regolata, nè nazionale, se non per mezzo della letteratura.
Ma un popolo, massimamente vivacissimo come l'italiano, e in particolare il toscano, e di più, civilizzato assai (qual fu il toscano e l'italiano fra tutti i popoli Europei, e prima di tutti), e posto in gran corrispondenza cogli altri popoli (come appunto la Toscana, sì per la fama della sua coltura, sì per le circostanze sue politiche, la sua libertà, e specialmente il suo commercio)12 [1246]inventa naturalmente, o adotta, infinite parole, infinite locuzioni, e infiniti generi e forme sì di queste che di quelle, l'uso però e l'intelligenza delle quali, se non sono ricevute dalla letteratura, la quale le diffonde per la nazione, ne stabilisce la forma, ne precisa il significato, ne assicura la durata, poco si estendono, poca precisione acquistano, restano facilmente incerte, ondeggianti, e arbitrarie, e presto si perdono, sottentrandone delle nuove.
V.
p.1344.
Ora la letteratura italiana ha fatto appunto quello che ho specificato.
Ha ricevute con particolare, e fra tutte le letterature singolar cura, amorevolezza e piacere, le voci, i modi, le forme del popolo segnatamente toscano: e da questo è venuto
1.
Che le parole modi ec.
che sarebbero state proprie di una sola provincia, e bene spesso di una sola città ed anche meno, ricevute e accarezzate e stabilite nell'uso letterario, prima dagli scrittori di quella provincia ec.
poi da quelli che vi andavano per imparar la lingua, o a qualunque effetto, poi dalla totalità degli scrittori italiani, son divenute italiane, di toscane o altro che erano.
Ed è avvenuto questo alle toscane più che alle altre, perchè i primi buoni scrittori italiani sono stati di quel paese, e ne hanno diffuso e stabilito nella letteratura italiana [1247]le parole ec.
ed anche perchè quel dialetto forse ancora per se stesso, era più grazioso, ed anche meno irregolare, meno goffo e meno storpiato e barbaro degli altri, e meno difforme a se stesso, nelle strutture, nelle forme delle parole e modi ec.
2.
Non essendo mai cessato negli scrittori toscani e italiani lo studio e l'imitazione competente (gli abusi ora non si contano) della favella popolare, massime toscana (a differenza di quello ch'è accaduto in tutte le altre letterature un poco formate); n'è seguito che la lingua italiana presente, mediante la sua letteratura, sia ricca delle parole, modi ec.
venuti in uso in uno de' suoi popoli più vivaci, immaginosi e inventivi, dal principio della lingua fino al di d'oggi: parole e modi ec.
che non avrebbero avuto se non cortissima durata, e pochissima estensione, se non fossero state adottate e stabilite dalla letteratura, che le ha fatte e perpetue, e nazionali.
E così la letteratura e non il popolo, anche riguardo alle voci popolari, viene ad essere la vera e principale sorgente della ricchezza e perfezione di nostra lingua.
3.
Gridino a piacer loro i mezzi filosofi.
Ricchezza che importi varietà, bellezza, espressione, efficacia, forza, brio, grazia, facilità, mollezza, naturalezza, non l'avrà mai, non l'ebbe e non l'ha veruna lingua, che non abbia moltissimo, [1248]e non da principio soltanto, ma continuamente approfittato ed attinto al linguaggio popolare, non già scrivendo come il popolo parla, ma riducendo ciò ch'ella prende dal popolo, alle forme alle leggi universali della sua letteratura, e della lingua nazionale.
La precisione filosofica non ha punto che fare con veruna delle dette qualità: e la ricchezza filosofica e logica, cioè di parole precise ec.
e di modi geometrici ec.
serve bensì al filosofo, è una ricchezza, ed è necessaria, ma non importa veruna delle dette qualità, anzi serve loro di ostacolo, e bene spesso, com'è avvenuto al francese, ne spoglia quasi affatto quella lingua, che già le possedeva.
Tutte le dette qualità sono principalissimamente proprie dell'idioma popolare; e se la lingua italiana scritta, si distingue in ordine ad esse qualità, fra tutte le altre moderne; se è ricca fra tutte le moderne, ed anche le antiche di quella ricchezza che produce e contiene le dette qualità; ciò proviene dall'aver la lingua italiana scritta (forse perchè poco ancora applicata alla filosofia, e generalmente poco moderna), attinto più, e più durevolmente che qualunque altra, al linguaggio popolare.
Le ragioni per cui questo linguaggio, abbia sempre, e massime in un popolo vivacissimo, sensibilissimo, e suscettibilissimo, le dette qualità, più [1249]che qualunque altro linguaggio, sono abbastanza manifeste da se.
Quella ricchezza proprissima della lingua italiana, e maggiore in lei che nella stessa greca e latina, della quale ho parlato p.1240-42.
non da altro deriva che dall'idioma popolare, giudiziosamente e discretamente applicato dagli scrittori alla letteratura.
4.
Con questi vantaggi vennero anche dalla stessa fonte molti abusi.
Li condanniamo altamente, e conveniamo in questo cogli scrittori che oggidì alzano contro di essi la voce in Italia, senza convenire in questo che ogni genere di bellezza in una lingua, non debba per necessità riconoscere come sua fonte essenziale e principale l'idioma popolare.
Dico della bellezza, ec.
la quale conviene alla vera poesia, ed alla bella letteratura, essenzialmente distinta nel suo linguaggio da quello che conviene alle scienze ec.
Negando questo, io non so com'essi ammirino tanto p.e.
il Caro, la massima parte delle cui verissime finissime e carissime bellezze, sì nelle prose, come ne' versi dell'Eneide, ognun può vedere a prima giunta che derivano originalmente da un grandissimo uso e possesso del linguaggio toscano volgare, (o anche degli altri volgari d'Italia, v.
Monti, Proposta, vol.1.
par.1.
p.
XXXV.) e da una giudiziosissima applicazione di questo ai diversi generi della letteratura, dai più bassi fino ai più alti, dalle lettere familiari, fino all'Epopea.
Del resto, ben fecero gli scrittori italiani attingendo al volgare toscano più che agli altri volgari d'Italia, e ciò [1250]per le ragioni che tutti sanno, e che abbiam detto p.1246.
fine-47.
principio.
Ma sciocca, assurda, pedantesca, ridicola è la conseguenza che dunque non si possa attingere se non da quel volgare; che gli scrittori non possano scrivere se non come e quanto dice e parla quel popolo; che la lingua e letteratura italiana dipenda in tutto e per tutto dal volgo toscano (quando non dipende neppure in nessun modo dal volgo, ma solamente se ne serve se le pare); che in Toscana e fuori, lo scrittore italiano non possa formar voce nè frase, che il volgo toscano non usi; che in somma quello che non è toscano, anzi fiorentino, anzi pure di Mercato vecchio, non sia italiano.
Quando, come abbiamo veduto, non la letteratura al volgo, ma il volgo è totalmente subordinato alla letteratura, e quello è ai servizi, e giova ai comodi di questa, e non già questa di quello.
E la letteratura forma e dispone della favella che prende dal volgo, e non viceversa.
E le aggiunge quel che le piace, e se ne serve, sin dove può, e dove la favella del volgo non le può servire, l'abbandona, o in parte o in tutto.
In somma abbiamo lodato la lingua italiana scritta perchè ha saputo giovarsi del linguaggio popolare, più e meglio forse [1251]di qualunque altra lingua moderna, e perchè non l'ha mai licenziato da' suoi servigi, come hanno fatto si può dir tutte le altre (anche la greca dopo un certo tempo, e lo farebbe anche l'italiana, se non la richiamassimo, anzi lo andrebbe già facendo); non già perch'ella si sia sottomessa alla favella del volgo, molto meno del volgo di una sola provincia o città, che nè essa l'ha fatto o potuto fare, nè facendolo sarebbe stata superiore, ma inferiore a tutte le altre, nè noi l'avremmo lodata ma sommamente biasimata.
Da tutto ciò segue ancora che la lingua italiana scritta, può servirsi di qualunque altro volgare (come faceva la lingua greca, anzi la stessa attica); e che è pazzo il privilegio esclusivo che si arrogano i toscani sulla lingua comune; se non in quanto non si possano torre da questi volgari quelle cose che non convengono a detta lingua comune.
Parimente soggiungo.
Molti scrittori toscani e italiani hanno preso dal volgare toscano più di quello che ne potessero prendere, che fosse intelligibile o aggradevole ec.
da per tutto, che convenisse all'indole e alle forme della lingua italiana regolata e scritta, che potesse comunicarsi [1252]alla nazione, e di toscano e provinciale divenir nazionale e italiano, che riuscisse nobile e adattato a una lingua scritta e ad una letteratura non più da formarsi, ma formata.
Han fatto malissimo, e se non vanno confusi cogli altri scrittori vernacoli, certo però non s'hanno da tenere per italiani ma per toscani o fiorentini o sanesi, e per iscrittori non già nazionali, ma provinciali, ovvero anche, se così posso dire, oppidani.
Così discorro di tutti simili abusi, e negli scrittori e nel Vocabolario ec.
Nessuno è meno filosofo di chi vorrebbe tutto il mondo filosofo, e filosofica tutta la vita umana, che è quanto dire, che non vi fosse più vita al mondo.
E pur questo è il desiderio ec.
de' filosofastri, anzi della maggior parte de' filosofi presenti e passati.
Così i nostri mezzi filosofi italiani, sapendo bene che il volgo non può essere il legislatore della favella scritta, nè la lingua volgare può mai bastare ai progressi dello spirito umano, nè alla fissazione, determinazione, distinzione e trasmissione delle cognizioni; perciò pretendono che qualunque lingua scritta, e qualunque stile debba appartarsi affatto dal volgare, ed escludono affatto il volgare dallo scritto, non avendo bastante filosofia per distinguere il bello dal vero, e quindi la letteratura e la poesia dalle scienze; e vedere che prima fonte del bello è la natura, la quale a nessun altro genere di uomini parla sì vivamente, immediatamente, [1253]e frequentemente, e da nessuno è così bene, e felicemente, e così al vivo e propriamente espressa, come dal volgo.
La precisione toglietela dai filosofi.
La proprietà, e quindi l'energia, la concisione ben diversa dalla precisione, e tutte le qualità che derivano dalla proprietà, non d'altronde le potrete maggiormente attingere che dalla favella popolare.
E il Lipsio (Epistolica Institutio, cap.11.) consigliando lo studio di Cicerone sopra tutti per la eleganza, la soavità, la copia, la facilità del latino, consiglia i comici Plauto e Terenzio, come unici o principali mezzi d'imparare la proprietà d'esso sermone.
Puoi vedere p.1481-84.
Da quanto abbiamo detto sulla differenza essenziale della lingua poetica e letterata dalla scientifica, risulta che la lingua francese, che nei suoi modi quasi geometrici si accosta alla qualità di quelle voci che noi chiamiamo termini, e di più, massimamente oggi, abbonda quasi più di termini, o pressochè termini, che di parole, è di sua natura incapace di vera poesia, e di veramente bella letteratura: mancando del linguaggio di queste, che non può non essere sostanzialmente segregato da quello delle scienze.
Termini o quasi termini, chiamo io anche le voci di conversazione, e d'altri tali generi, di cui la lingua francese, è sì ricca, e che esprimono in qualsivoglia materia, un'idea nuda, o quasi nuda, secca, precisa, e precisamente.
(30.
Giugno 1821.)
[1254]La facilità di contrarre abitudine, qualità ed effetto essenziale de' grandi ingegni, porta seco per naturale conseguenza ed effetto la facilità di disfare le abitudini già contratte, mediante nuove abitudini opposte che facilmente si contraggono; e quindi la potenza sì della durevolezza, come della brevità delle abitudini.
Osservate quegli abiti o discipline che hanno bisogno di un esercizio materiale, p.e.
di mano, per essere imparate.
Chi vi ha gli organi meglio disposti, o generalmente più facili ad assuefarsi, riesce ad acquistare quell'abilità in più breve tempo degli altri.
Ecco tutto l'ingegno.
Organi facili ad assuefarsi, cioè pieghevoli, e adattabili ec.
o generalmente e per ogni verso, e questa è la universalità di un ingegno; o solamente ovvero principalmente in un certo modo, e questa è la disposizione dell'ingegno a una tal cosa, o la sua capacità di riuscire principalmente in quella.
Ma siccome altri sono gli organi interiori, altri gli esteriori, così un uomo di grande ingegno, sarà bene spesso inettissimo ad acquistare abilità meccaniche, cioè assuefazioni materiali; e viceversa.
Io nel povero ingegno mio, non ho riconosciuto altra differenza dagl'ingegni volgari, che una facilità [1255]di assuefarlo a quello ch'io volessi, e quando io volessi, e di fargli contrarre abitudine forte e radicata, in poco tempo.
Leggendo una poesia, divenir facilmente poeta; un logico, logico; un pensatore, acquistar subito l'abito di pensare nella giornata; uno stile, saperlo subito o ben presto imitare ec.; una maniera di tratto che mi paresse conveniente, contrarne l'abitudine in poco d'ora ec.
ec.
V.
p.1312.
Il volgo che spesso indovina, e nelle sue metafore esprime, senza saperlo, delle grandi verità, e dei sensi piuttosto propri che metaforici, sebben tali nell'intenzione, chiama fra noi, (e s'usa dire familiarmente anche fra i colti, ed anche scrivendo) testa o cervello duro (cioè organi non pieghevoli, e quindi non facili ad assuefarsi) chi non è facile ad imparare.
L'imparare non è altro che assuefarsi.
Io credo che la memoria non sia altro che un'abitudine contratta o da contrarsi da organi ec.
Il bambino che non può aver contratto abitudine, non ha memoria, come non ha quasi intelletto, nè ragione ec.
E notate.
Non solo non ha memoria, perchè poche volte ha potuto ricevere questa o quella impressione, ed assuefarsi a richiamarla colla mente.
Ma manca formalmente della facoltà della memoria, giacchè nessuno si ricorda delle cose dell'infanzia, quantunque le impressioni d'allora sieno più vive che mai, e quantunque nell'infanzia possa essere ritornata al bambino quella tale impressione, più volte ancora di quello che bisogna all'uomo fatto perchè un'impressione o concezione qualunque gli resti nella memoria.
Questa idea, merita di essere largamente sviluppata e distinta.
(1 Luglio 1821).
[1256]Se intorno alla bellezza umana, molte cose si trovano nelle quali o tutti o quasi tutti gli uomini convengono, questo non è giudizio, ma senso, inclinazione ec.
ec.
e non ha che fare col discorso astratto e metafisico della bellezza.
Le donne che Omero chiama ??????????.
(Il.
?.
(18.) v.122.
339.
?.
(24.) v.215.
Hymn.
in Vener.
4.
v.258.
quivi delle ninfe montane.) parranno a tutto il mondo più belle delle contrarie.
La cagione è manifesta, e non accade dirla.
Certo non è questa nè il tipo della bellezza, nè un'idea innata, nè un giudizio, una ragione ec.
I fanciulli staranno molto tempo ad avvedersi che quella qualità che ho detto sia bellezza, e a far distinzione di beltà fra una donna che l'abbia, e un'altra che ne sia priva.
Nè solo i fanciulli, ma anche i giovani mal pratici, e poco istruiti di certe cose, quantunque assuefatti a vedere; i giovani modestamente educati ec.; del che interrogo la testimonianza di molti.
Le donne tarderanno assai più ad avvedersi di questa cosa, e non concepiranno per lungo tempo nè giudizio nè senso di bellezza differente, fra due donne ec.
V.
p.1315.fine.
E tuttavia questa qualità ch'io dico, passa [1257]ben tosto nel bello ideale, e il poeta, (come appunto Omero), o il pittore che tira dalla sua mente (come dice Raffaello ch'egli faceva) l'idea di una bellezza da rappresentare, non mancherà certo di concepire l'idea di una donna o donzella ??????????.
E pur l'origine di questa idea sarà tutt'altra che il tipo della bellezza, ed un giudizio o forma innata, universale e impressa dalla natura nella mente dell'uomo.
Così facile è l'ingannarsi nel giudicare delle idee che l'uomo ha circa il bello preteso assoluto.
V.
p.1339.
Similmente discorro di altre simili qualità esteriori dell'uomo o della donna.
Così della vivacità degli occhi, o di qualunque espressione dell'anima che apparisca nel volto, il che però quando anche tutti convengano che sia bellezza, non tutti però convengono nel preferirlo alla languidezza, e anche alla melensaggine ec.
Non so neppure se quelle donne inglesi che si paragonano ai silfi, e si giudicano da molti sì belle, e si antepongono ec.
appartengano al numero di quelle significate da Omero ne' citati luoghi.
Ed osservo, cosa manifesta per l'esperienza, che la donna (ancor prima di essere suscettibile d'invidia per cagione della bellezza) tarda molto più degli uomini a poter formare un giudizio fino e distinto circa le forme esteriori del suo sesso, e non giunge mai a quella perfezione di giudizio e di gusto, a cui gli uomini arrivano.
Così viceversa discorrete degli uomini rispetto al sesso loro.
Intendo già in parità di circostanze, e non di paragonare, per esempio, una donna molto riflessiva ec.
ec.
a un uomo torpido, e poco o niente suscettibile ec.
Giacchè in tal caso, ognuno intende che quella tal [1258]donna ben facilmente sarà miglior giudice delle forme del suo stesso sesso che questo tal uomo.
(1.
Luglio 1821.)
Osservate i differentissimi, e spesso contrarissimi giudizi delle diverse nazioni, o province, e de' diversi tempi, e di una stessa nazione o provincia in diverso tempo, circa la bellezza e grazia del portamento delle diverse classi di persone, delle maniere di stare di andare di sedere di gestire di presentarsi ec.
e circa le stesse creanze, eccetto quelle che sono determinate e prescritte dalla ragione, e dal senso comune.
Intorno alle quali cose possiamo dire che non c'è maniera giudicata bellissima e graziosissima e convenientissima in un luogo o in un tempo, che in altro luogo o tempo, non sia, non sia stata, o non sia per esser giudicata bruttissima, sconveniente, di mal garbo ec.
Certo è che intorno alla bellezza del portamento dell'uomo, nessuno può stabilire veruna regola, veruna teoria, veruna norma, verun modello assoluto.
Non parlo delle mode del vestire, intorno alla bellezza del quale, e degli uomini per rispetto ad esso, varia il giudizio secondo i paesi e i tempi, anzi pure secondo i territorii, e i momenti, senza veruna dipendenza neppur dalla natura costante e [1259]universale.
(1 Luglio 1821.).V.
p.1318.
fine.
Spesso nel vedere una fabbrica, una chiesa, un oggetto d'arte qualunque, siamo colpiti a prima giunta da una mancanza, da una soprabbondanza, da una disuguaglianza, da un disordine o irregolarità di simmetria ec.
ed appena che abbiamo saputo o capito la ragione di questo disordine, e com'esso è fatto a bella posta, o non a caso, nè per negligenza, ma per utilità, per comodo, per necessità ec.
non solo non giudichiamo, ma non sentiamo più in quell'oggetto veruna sproporzione, come la concepivamo e sentivamo e giudicavamo a primo tratto.
Non è dunque relativa e mutabile l'idea delle proporzioni e sproporzioni determinate? E perchè sentivamo noi e formavamo in quel primo istante il giudizio della sproporzione o sconvenienza? Per l'assuefazione, la quale in noi ha questa proprietà naturale, che ci fa giudicar di una cosa sopra un'altra, di un individuo, di una specie, di un genere stesso sopra un altro, e quindi di una convenienza sopra un'altra.
Dal che deriva l'errore universale, non solo del bello assoluto, ma della verità assoluta, del misurare tutti i nostri simili da noi stessi, della perfezione assoluta, del credere che tutti gli esseri vadano giudicati sopra una sola norma, e quindi del crederci più perfetti d'ogni altro [1260]genere di esseri, quando non si dà perfezione comparativa fuori dello stesso genere, ma solamente fra gl'individui ec.
(1 Luglio 1821.)
Si può però ammettere una perfezione comparativa fra i diversi generi di cose, dentro il sistema di questa tal natura, o modo universale di esistere: ma una perfezione comparativa assai larga, e molto meno stretta e precisa di quello che l'uomo e il vivente qualunque si figuri naturalmente; e non mai assoluta, perchè assoluta non potrebb'essere se non in ordine al sistema intiero ed universale di tutte le possibilità.
Questo pensiero ha bisogno di esser ponderato, svolto, dilatato, e rischiarato.
(1 Luglio 1821.)
A quello che altrove ho detto circa l'impossibilità di far bene quello che si fa con troppa cura, si può aggiungere quello che dice l'Alfieri nella sua Vita della matta attenzione ch'egli poneva a tutte le minuzie nelle sue prime letture e studi de' Classici: e quello che ci avviene p.e.
nello studio delle lingue.
Nel quale osservate che da principio per la somma attenzione che ponete a ogni menoma cosa, leggendo in quella tal lingua, vi riescono gli scrittori sempre (più o meno) difficili.
Laddove bene spesso, se si dà il caso, che [1261]voi abbiate intralasciato per qualche tempo lo studio di quella lingua, e perduto l'abito di quella minuta attenzione, ripigliando poi a leggere in detta lingua qualche pagina, e credendo di trovarci maggior difficoltà per l'interrompimento dell'esercizio, vi trovate al contrario molto più spedito di prima.
Così pure, senza averla intralasciata, ma solamente pigliando a leggere qualche cosa in detta lingua non con animo di studio o di esercizio, ma solo di passare il tempo, o divertirvi, o in qualunque modo con intenzione alquanto, più o meno, rilasciata.
Così dopo avere o credere di aver già imparata quella lingua, quando leggiamo non più come scolari, ma disinvoltamente e come semplici lettori.
Nel qual tempo trovando forse difficoltà reali maggiori di quando leggevamo per istudio, non ci fanno gran caso, nè c'impediscono e trattengono più che tanto, nè ci tolgono una spedita facilità.
In somma non si arriva mai a leggere speditamente una lingua nuova, se non quando si lascia l'intenzione di studioso per prendere quella di lettore, e durando la prima, solamente per sua cagione, ed anche senza veruna difficoltà reale, [1262]si trovano sempre intoppi, che altri non troverà nelle stesse circostanze, e colla stessa perizia, ma con diversa intenzione.
Così non si trova piacere, nè facilità, nella semplice lettura, anche in nostra lingua, quando si legge con troppo studio ec.
(1-2.
Luglio 1821.)
A quello che ho detto altrove della impossibilità di formarsi idea veruna al di là della materia, e del nome materiale imposto allo stesso spirito e all'anima, aggiungete che noi non possiamo concepire verun affetto dell'animo nostro se non sotto forme o simiglianze materiali, nè dargli ad intendere se non per via di traslati presi dalla materia (sebbene alle volte abbiano perduto col tempo il significato proprio e primitivo per ritenere il metaforico), come infiammare, confortare, muovere, toccare, inasprire, addolcire, intenerire, addolorare, innalzar l'animo ec.
ec.
Nè solo gli affetti ma gli accidenti tutti o siano prodotti da cose interiori, o dall'azione immediata degli oggetti esteriori, come costringere, ed altri de' sopraddetti ec.
(2.
Luglio 1821.).
V.
p.1388.
princip.
Passano anni interi senza che noi proviamo un piacer vivo, anzi una sensazione pur momentanea di piacere.
Il fanciullo non passa giorno che non ne provi.
Qual è la cagione? La scienza in noi, in lui l'ignoranza.
Vero è che così viceversa accade del dolore.
(2.
Luglio 1821.)
[1263]Alla p.1207.
marg.
Queste differenze s'incontrano a ogni passo dentro una medesima nazione, secondo i dialetti ec.
Ed osserviamo ancora come l'assuefazione e l'uso ci renda naturale, bella ec.
una parola che se è nuova, o da noi non mai intesa ci parrà bruttissima deforme, sconveniente in se stessa e riguardo alla lingua, mostruosa, durissima, asprissima e barbara.
Per es.
se io dicessi precisazione moverei le risa: perchè? non già per la natura della parola, ma perchè non siamo assuefatti ad udirla.
E così le parole barbare divengono buone coll'uso; e così le lingue si cambiano, e i presenti italiani parlano in maniera che avrebbe stomacato i nostri antenati; e così l'uso è riconosciuto per sovrano signore delle favelle ec.
(2.
Luglio 1821.)
Alla p.1134.
Lo studio dell'etimologie fatto coi lumi profondi dell'archeologia, per l'una parte, e della filosofia per l'altra, porta a credere che tutte o quasi tutte le antiche lingue del mondo, (e per mezzo loro le moderne) sieno derivate antichissimamente e nella caligine, anzi nel buio de' tempi immediatamente, o mediatamente da una sola, o da pochissime lingue assolutamente primitive, madri di tante e sì diverse figlie.
Questa primissima lingua, a quello che pare, quando si diffuse per le diverse parti del globo, mediante le trasmigrazioni degli uomini, era ancora rozzissima, scarsissima, priva d'ogni sorta d'inflessioni, inesattissima, costretta a significar cento cose con [1264]un segno solo, priva di regole, e d'ogni barlume di gramatica ec.
e verisimilissimamente non applicata ancora in nessun modo alla scrittura.
(Se mai fosse già stata in uso la così detta scrittura geroglifica, o le antecedenti, queste non rappresentando la parola ma la cosa, non hanno a far colla lingua, e sono un altro ordine di segni, anteriore forse alla stessa favella; certo, secondo me, anteriore a qualunque favella alquanto formata e maturata.) Nè dee far maraviglia che la grand'opera della lingua, opera che fa stordire il filosofo che vi pensa, e molto più del rappresentare le parole, e ciascun suono di ciascuna parola, chiamato lettera, mediante la scrittura, e ridurre tutti i suoni umani a un ristrettissimo numero di segni detto alfabeto, abbia fatto lentissimi progressi, e non prima di lunghissima serie di secoli, abbia potuto giungere a una certa maturità; non ostante che l'uomo fosse già da gran tempo ridotto allo stato sociale.
Quanto all'alfabeto o scrittura par certo ch'egli fosse ben posteriore alla dispersione del genere umano, sapendosi che molte nazioni già formate presero il loro alfabeto da altre straniere, come i greci dai Fenici, i latini ec.
Dunque non era noto prima ch'elle si disperdessero, e dividessero, giacch'elle da principio non ebbero alcun alfabeto.
E i Fenici l'ebbero pel loro gran commercio ec.
Dunque esistendo il commercio, le nazioni erano, e da gran tempo, divise.
Diffondendosi dunque pel globo il genere umano, e portando con se per ogni parte quelle scarsissime e debolissime convenzioni di suono significante, che formavano allora la lingua; si venne stabilendo nelle diverse parti, e la società cominciò lentissimamente a crescere e camminare verso la perfezione.
Primo e necessario mezzo per l'una parte, e per l'altra effetto di questa, è la sufficienza e l'organizzazione della favella.
Venne dunque lentamente [1265]a paro della società, crescendo e formandosi la favella, sempre sul fondamento o radice di quelle prime convenzioni, cioè di quelle prime parole che la componevano.
Queste erano dappertutto uniformi, ma le favelle formate non poterono essere uniformi, nè conservarsi l'unità della lingua fra gli uomini.
Primieramente dipendendo la formazione della favella in massima parte dall'arbitrio, o dal caso, e da convenzione o arbitraria o accidentale, gli arbitri e gli accidenti, non poterono essergli stessi nelle diversissime società stabilitesi nelle diversissime parti del globo, quando anche esse avessero tutte conservato gli stessi costumi, le stesse opinioni, le stesse qualità che aveva la primitiva e ristrettissima società da cui derivavano; e quando anche tutte le parti del globo avessero lo stesso clima e influissero per ogni conto sopra i loro abitatori in un modo affatto uniforme.
Secondariamente il genere umano diviso, e diffuso pel mondo, si diversificò nelle sue parti infinitamente, non solo quanto a tutte le altre appartenenze della vita umana, e de' caratteri ec.
ma anche quanto alle pronunzie, alle qualità de' suoni articolati, e degli alfabeti parlati, diversissimi secondo i climi ec.
ec.
come vediamo.
Queste infinite [1266]differenze sopravvenute al genere umano, già diviso in nazioni, e distribuito nelle diverse parti della terra, fecero sì che la formazione delle lingue presso le nazioni primitive, differisse sommamente, quantunque tutte derivassero da una sola e stessa radice, e conservassero nel loro seno i pochi e rozzi elementi della loro prima madre, diversamente alterati collo scambio delle lettere, secondo le inclinazioni degli organi di ciascun popolo, colle inflessioni, colle significazioni massimamente, colle composizioni, e derivazioni, e metafore infinite e diversissime di cui l'uomo naturalmente si serve a significare le cose nuove o non ancora denominate ec.
ec.
Nel terzo luogo, la lingua primitiva, dovette immancabilmente servirsi delle stesse parole per significare diversissime cose, scarseggiando di radici, e mancando o scarseggiando d'inflessioni, di derivati, di composti ec.
La lingua ebraica, l'una delle lingue scritte più rozze, e lingua antichissima, serve di prova di fatto a questo ch'io dico, e che è chiaro abbastanza per la natura delle cose.
Ora i diversi popoli nella formazione progressiva delle lingue, trovando qual per un verso, qual per un altro, il modo di significar le cose più distintamente, conservarono alle loro prime parole radicali dove uno [1267]dove un altro de' sensi che ebbero da principio, o fossero propri, o traslati.
Così che non è da far maraviglia se bene spesso in diversissime lingue si trovano tali e tali radici uniformi o somiglianti nel suono, ma disparatissime nel significato.
Nè la disparità del significato è ragion sufficiente per decidere che non hanno fra loro alcuna affinità.
Ci vuole il senno e la sottigliezza del filosofo, e la vasta erudizione e perizia del filologo, dell'archeologo, del poliglotto, per esaminare se e come quella tal radice potesse da principio riunire quei due o più significati diversi.
Chi non vede p.e.
che wolf, voce che in inglese e in tedesco significa lupo, è la stessa che volpes o vulpes, che significa un altro quadrupede pur selvatico, e dannoso agli uomini? Frattanto la detta osservazione dimostra la immensa differenza che appoco appoco dovette nascere fra le varie lingue, e l'infinita oscurazione che ne dovette seguire del linguaggio primitivo e comune una volta, ma già non più intelligibile nè riconoscibile.
(V.
la p.2007.
principio.)
Nel quarto luogo che dirò della scrittura?
1.
O della sua mancanza (giacchè è più che verisimile che quando gli uomini e le lingue si divisero e sparsero, non si avesse ancora nessuna notizia della scrittura alfabetica, nè di segno alcuno de' suoni, trattandosi che la lingua stessa allora parlata, era così bambina come abbiamo probabilmente conghietturato dagli effetti); mancanza che toglieva ogni [1268]stabilità, ogni legge, ogni forma, ogni certezza, ogni esattezza, alle parole, ai modi, alle significazioni; e lasciava la favella fluttuante sulle bocche del popolo, e ad arbitrio del popolo, senza nè freno, nè guida, nè norma.
Dal che quante variazioni derivino, lo può vedere chiunque osservi i dialetti ne' quali sempre o quasi sempre si divide una stessa lingua parlata, quantunque già formata e applicata alla scrittura; e insomma le infinite diversità che a seconda de' tempi e de' luoghi patisce quella lingua che il popolo parla, ancorchè ella stessa sia pure scritta ec.
Che se da questo che noi vediamo, rimonteremo a quello che doveva essere in quei tempi, dove l'ignoranza dell'uomo era somma, somma l'incertezza e l'ondeggiamento di tutta la vita, ec.
ec.
potremo facilmente vedere, che cosa dovessero divenire, e quante forme prendere o la lingua primitiva o le sottoprimitive, mancanti dell'appoggio, e dell'asilo non pur della letteratura, ma della stessa scrittura alfabetica.
2.
Che dovrò dire dell'invenzione della scrittura? Pensate voi stesso, nella prima imperfezione di quest'arte prodigiosa e difficilissima; nella differenza degli alfabeti, o nella inadattabilità dell'alfabeto scritto di un popolo, all'alfabeto parlato di un altro; [1269]nella imperizia de' lettori, e degli scrittori, e de' primi copisti ec.
ec.
pensate voi quali incalcolabili e inclassificabili alterazioni dovessero ricevere le prime lingue, sì come scritte, sì come parlate, cominciando a influir la scrittura sulla favella.
Notate cosa notabilissima.
Tutte le lingue antiche non ci possono essere pervenute se non per mezzo della scrittura, giacchè quando anche non sieno interamente morte, il corso de' secoli porta sì enormi variazioni alle lingue, che dal modo in cui ora si parli una lingua antichissima, chi può sicuramente argomentare delle sue antiche proprietà, ancor dopo formata? Ora egli è certo che le lingue scritte differirono sommamente dalle parlate, stante la difficoltà che nel principio si dovè provare per rappresentare esattamente ciascun suono ec.
Difficoltà che produsse infallibilmente eccessive differenze fra le antiche parole scritte e le pronunziate.
Differenze che appoco appoco si stabilirono; e malgrado le cure che si posero per una parte ad uniformare più esattamente i segni scritti ai suoni inventando nuovi segni ec.
ec.; malgrado l'influenza che acquistarono le scritture sulle modificazioni del parlare ec.
certo è che tali differenze dove più dove meno dovettero perpetuarsi e sempre conservarsi.
[1270]Quindi considerate i pericoli che si corrono nell'argomentare le proprietà di un'antica parola, e la sua prima forma, dal modo in cui solamente ella ci può esser nota, dal modo cioè nel quale è scritta.
Come chi argomentasse della lingua inglese o francese ec.
dal modo in cui sono scritte.
Non c'è regola per sapere precisamente qual fosse il valore e la pronunzia di un tal carattere in una lingua antica, e massime antichissima, e massime antichissimamente ec.
ec.
Quindi è ben verisimile che moltissime parole d'antiche lingue, che vedendole scritte ci paiono diversissime e disparate, ci dovessero parere del tutto affini, se sapessimo qual vera e primitiva pronunzia si volle antichissimamente rappresentare con quei tali segni che vediamo.
V.
p.1283.
Aggiungete un'osservazione che cresce forza all'argomento.
L'invenzione dell'alfabeto è sì maravigliosa e difficile, che è ben verisimile, che quel primo alfabeto che fu inventato passasse dalla nazione e dalla lingua che l'inventò, a tutte o quasi tutte le altre; e quindi o tutti o quasi tutti gli alfabeti derivino da un solo alfabeto primitivo.
Quello ch'è certo e costante si è che l'alfabeto Fenicio, il Samaritano, l'Ebraico, il Greco, l'arcadico, il pelasgo, l'Etrusco, il latino, il Copto, senza [1271]parlare di non pochi altri (come il Mesogotico, il Gotico, e il tedesco, l'Anglosassone, il russo) dimostrano evidentemente l'unità della loro comune origine.
Or quali lingue più disparate che p.e.
l'ebraica e la latina? (Pur ebbero, come vediamo, lo stesso alfabeto in principio.) Tanto che Sir W.
Jones, il quale fa derivare da una stessa origine le lingue, e le religioni popolari della prima razza de' Persiani e degli Indiani, dei Romani, dei Greci, dei Goti, degli antichi Egizi o Etiopi, tiene per fermo che gli EBREI, gli Arabi, gli Assirii, ossia la seconda razza Persiana, i popoli che adoperavano il Siriaco, ed una numerosa tribù d'Abissinii, parlassero tutti un altro dialetto primitivo, diverso affatto dall'idioma pocanzi menzionato, cioè di quegli altri popoli.
Così che, eccetto quella prima nazione, dove fu ritrovato l'alfabeto, in qualunque modo ciò fosse, tutte le altre, o tutte quelle che immediatamente o mediatamente lo ricevettero da lei, scrissero con alfabeto forestiero.
Ed essendo infinita in tante nazioni la varietà de' suoni ec.
ec.
vedete che immense alterazioni dovè ricevere ciascuna lingua nell'essere applicata a un solo alfabeto, per lei più o meno, e bene spesso estremamente forestiero.
V.
p.2012.
2619.
A tutte le sopraddette cose aggiungete le alterazioni molto maggiori che ricevettero le lingue sottoprimitive nel suddividersi, e risuddividersi secondo le vicende infinite delle nazioni, e del genere umano; aggiungete le alterazioni che ricevettero e quelle e queste lingue appoco appoco, non solo col corso de' secoli e indipendentemente ancora da ogni altra circostanza, ma coll'esser finalmente ridotte più o meno a lingue gramaticali, col raddolcimento delle parole prodotto e dalla civiltà crescente, e dai letterati, secondo i diversi geni degli orecchi nazionali ec.; coll'essere applicate non più solamente alla scrittura, ma alla letteratura, della cui estrema influenza sul modificare e formare le lingue, che accade ora ripetere quello che s'è tante volte ripetuto? Bensì osservo che le lingue antiche non ci sono pervenute se non per mezzo, non già della semplice scrittura, ma della letteratura.
Delle alterazioni che le parole soffrono nel significato v.
p.1505.
fine.
e 1501.-2.
[1272]E dopo tutto ciò non vi farà maraviglia se tanto deve stentarsi, e se bene spesso è impossibile a riconoscere nelle diversissime e quasi innumerevoli lingue del mondo l'unità dell'origine; e se la lingua o le lingue assolutamente primitive, o piuttosto quella o quelle prime poverissime e rozzissime nomenclature, che furono la base delle lingue tutte, e che formano ancora le radici delle loro parole; annegate nelle derivazioni, inflessioni, composizioni diversissime secondo i casuali accidenti delle formazioni delle lingue, i caratteri, i geni, i climi, le letterature che formarono esse lingue, le opinioni, i costumi, le circostanze diversissime della vita che v'influirono, le cognizioni, le disposizioni della terra, del cielo ec.
ec.
e modificate e svisate secondo le differenze degli organi nelle diverse nazioni, secondo l'ignoranza de' parlatori primitivi, la corruzione che inevitabilmente soffrono le parole anche nelle lingue le più stabilite e perfette; non vi maraviglierete, dico, se tali primitive radici benchè comuni a tutte le lingue, si nascondono per la più parte agli occhi degli osservatori più fini, fanno disperare l'etimologista, e considerare come un frivolo sogno l'investigazione delle origini delle lingue, e lo studio delle etimologie, e dell'analogia delle parole di tutte le favelle (intrapresa però a svolgere da parecchi, ed ultimamente, secondo che odo, da non so qual francese); insomma la primitiva unità di origine e analogia di tutte le lingue.
(Riferite tutte queste osservazioni a quello che altrove ho detto della necessaria varietà delle lingue, e vicendevolmente riferite quei pensieri a questi.)
[1273]Malgrado tutto ciò, ella è cosa certissima che tali investigazioni (per quanto elle possono avvicinarsi al vero) sono delle più utili che mai si possano concepire sì alla storia come alla filosofia.
Le origini delle nazioni (oltre ai progressi dello spirito umano, e la storia de' popoli, cose tutte fedelmente rappresentate nelle lingue), le remotissime epoche loro, le loro provenienze, la diffusione del genere umano, e la sua distribuzione pel mondo, in somma la storia de' primi ed oscurissimi incunaboli della società, e de' suoi primi passi, non d'altronde si può maggiormente attingere che dalle etimologie, le quali rimontando di lingua in lingua fino alle prime origini di una parola, danno le maggiori idee che noi possiamo avere circa le prime relazioni, i primi pensieri, cognizioni ec.
degli uomini.
Certo è parimente che in lingue disparatissime parlate antichissimamente da popoli lontanissimi fra loro, si trovano bene spesso tali conformità nelle forme esteriori e nel significato di certe voci, e queste voci sono in gran parte così necessarie alla vita, esprimono cose così necessarie, e nel tempo stesso così facili e prime e naturali ad esprimersi, che queste conformità, non volendo attribuirle al caso, ch'è inverisimile, non potendo attribuirle alla natura, giacchè si tratta di voci d'espressione e di forma quasi al tutto arbitraria; [1274]e neppure potendo attribuirle a relazioni posteriori di detti popoli fra loro, sì perchè ciò s'oppone molte volte a tutte le storie conosciute, sì perchè si tratta di parole necessarie e prime in tutte le lingue; resta che si attribuisca ad una comune origine di tali lingue e di tali popoli, ancorchè ora e sin da remotissimo tempo disparatissimi, e lontanissimi, e ignoti gli uni agli altri.
A scoprir dunque tal comune origine delle lingue e quindi delle nazioni (o sia una sola origine, o sieno alcune pochissime); a ritrovare quanta maggior parte si possa della prima lingua degli uomini; a soddisfare al filosofico desiderio di quel metafisico tedesco (v.
p.1134.) ec.
ec.
non v'è altro mezzo che lo studio etimologico.
E questo non ha altra via, se non che giovandosi de' lumi comparativi d'una estesa poliglottia, de' lumi profondamente archeologici e filologici, fisiologici e psicologici ec.
prendere a considerar le parole delle lingue meglio conosciute fra le più antiche (come più vicine alla comune origine delle lingue); e denudandole d'ogni inflessione, composizione, derivazione gramaticale ec.
ec.
cavarne la radice più semplice che si possa; e quindi coi detti lumi comparativi ec.
ridurre questa radice dalle diversissime alterazioni di forma, e di suoni che può avere ricevute, (anche prima di divenire radice d'altra parola, e nel suo semplice stato, ovvero dopo) alla sua forma primitiva.
Quando questa non si possa trovare e stabilire precisamente, l'Etimologo avrà fatto abbastanza, e l'utilità sarà pur molta, se avrà dimostrato che una tal parola dimostrata radicale, quantunque diversa nelle diverse lingue, è però una sola in origine, e che fra quelle diverse forme, significati ec.
di essa radice, si trova la forma, il significato ec.
primitivo, quantunque non si possa definitamente stabilire se questo sia il tale o il tale fra i detti sensi e forme che ha nelle differenti favelle.
Come [1275]questo si possa fare nella lingua latina che è una delle antichissime, delle meglio conosciute, e delle meglio accomodate a tali ricerche, abbiamo cercato di indicarlo colla scorta della filologia e dell'archeologia, mostrando come dalle parole latine si possa trarre la radice monosillaba, e colla scorta della filosofia la quale insegna che le prime lingue dovettero essere per la più parte monosillabe, e composte quasi di soli nomi; mostrando molti accidenti delle parole latine, considerati finora come qualità essenziali, il che nuoce, come è chiaro, infinitamente alla invenzione delle estreme radici, ed arresta il corso delle ricerche etimologiche lungi dalla sua meta, e in un punto dove elle non debbono arrestarsi, come se già fossero giunte alle ultime origini, ed agli ultimi elementi delle parole.
Abbiamo insomma cercato di ridurre l'analisi e la decomposizione delle parole latine, ad elementi più semplici: cosa giovevolissima alla cognizione delle loro origini e radici; come infiniti progressi ha fatto la chimica quando ha scoperto che quei quattro che si credevano primi elementi, erano composti, ed è giunta a trovar sostanze, se non del tutto elementari ed ultime esse stesse, certo molto più semplici delle prima conosciute.
[1276]Voglio portare in conferma di ciò un altro esempio, oltre ai già riferiti, per mostrare quanto giovino i lumi archeologici alla ricerca delle antichissime radici.
Silva è radice in latino, cioè non nasce da verun'altra parola latina conosciuta.
Osservate però quanto ella sia mutata dalla sua vecchia e forse prima forma.
???? è lo stesso che silva per consenso di quasi tutti gli etimologi.
Or come la parola latina ha una s e un v davantaggio che la greca? Quanto alla s vedi quello che ho notato altrove, vedi Iul.
Pontedera Antiquitt.
Latinn.
Graecarumq.
Enarrationes atque Emendatt.
Epist.
2.
Patav.
Typis Seminar.
1740.
p.18.
(le due prime epistole meritano di esser lette in questi propositi archeologici della lingua latina) ed ella è cosa già nota agli eruditi.
Nelle stesse antiche iscrizioni greche si trova sovente il sigma innanzi alle parole comincianti per vocale, in luogo dell'aspirazione.
Anzi questa scrittura s'è conservata in parecchie delle stesse voci greche, (come nelle latine): p.e.
????? pronunziavasi da principio ???? o ???? coll'aspirazione aspra o dolce, giacchè gli Eoli ne fecero ????? e i latini ficus.
V.
l'Encyclop.
in S.
Quanto al v ecco com'io la discorro.
L'antico H greco derivato dall'Heth Fenicio, Samaritano, ed Ebraico, col quale ha comune anche il nome ???? (giacchè il ??? greco deriva dal thau degli Ebrei), oltre alla figura, ec., non fu da principio altro segno che di un'aspirazione, (v.
p.1136.
marg.) come lo fu sempre nel latino, e come lo era nell'alfabeto da cui venne il greco.
(V.
Cellar.
Orthograph.
Patav.
ap.
Comin.
1739.
p.40.
fine.
e l'Encyclop.
méthodique.
Grammaire.
art.
H.
specialmente p.215.
e se vuoi, il Forcellini in H.) Abbiamo veduto che l'antico v latino non era altro che [1277]il digamma eolico, e questo non altro che un carattere che gli Eoli ponevano in luogo dell'aspirazione, anzi un segno di aspirazione esso stesso, e in somma fratello carnale dell'antico H greco.
Antichissimamente pertanto la parola ???, pronunziavasi hulh con due aspirazioni l'una in capo, e l'altra da piè.
(voglio dire insomma che l'? di ??? non era da principio lettera mobile, e puro carattere di desinenza, ma radicale, il che si deduce dal v che i latini hanno per lettera radicale in questa parola, cioè in silva.) Ovvero pronunziavasi hilh giacchè non si può bene accertare qual fosse l'antichissima pronunzia dell'? greco; se u simile al francese, come lo pronunziavano i greci ai buoni tempi; ovvero i, come lo pronunziano i greci moderni, come si pronunzia in moltissime voci latine o figlie o sorelle di voci greche, e come pronunziano i tedeschi il loro u.
Certo è che gli antichi latini pronunziarono e scrissero le parole che in greco si scrivevano per Y, ora per I, ora per u, e quindi corrottamente talvolta anche per o, come da sumnus somnus ec.
V.
Pontedera loc.
cit.
nella pagina precedente.
Per y non mai, carattere greco, il quale graecorum caussa nominum adscivimus dice Prisciano (lib.1 p.543.
ap.
Putsch.), ed è carattere non antico, come dice Cicerone, e pronunziavasi alla greca, come una u francese, secondo che apparisce da Marziano Capella.
(V.
Forcellini, l'Encyclop.
e Cellar.
Orthograph.
p.6 fine-7 principio).
Quindi nel nostro caso, gli antichi marmi e manoscritti, e gli eruditi, rigettano la scrittura di sylva sylvestris ec.
per silva; scrittura [1278]corrotta e più moderna, introdottasi presso gli scrittori latino-barbari, come si può vedere nel Ducange.
Il che per altro serve anch'esso a mostrare la derivazione o cognazione del latino silva col greco ???, non essendoci altra ragione perchè l'uso di tempi ignorantissimi, e che non pensavano o sapevano nulla d'etimologie nè di greco, dovesse introdurre questa lettera greca y in una parola che gli antichi latini scrivevano per i; uso conservatosi fino a' nostri tempi presso molti che scrivono ancora sylva e così ne' derivati.
E forse a quel tempo in cui, secondo che dice Cicerone, si cominciò a scrivere e pronunziare (cioè per u gallico) Pyrrhus e Pryhges ec.
in luogo di Purrus e Phruges che gli antichi scrivevano (v.
Forcellini in Y); si cominciò anche a scrivere e pronunziare sylva: o certo in qualunque tempo questo accadesse, ebbe origine e causa dal vizio di volere in tutto conformare la scrittura e la pronunzia agli stranieri, nelle parole venute da loro, vizio che Cicerone riprende nello stesso luogo.
(osservazione molto applicabile ai francesi.) E ciò mostra che dunque silva si considerò per tutt'una parola con ???, quantunque la scrittura sylva sia viziosa.
Presso gli stessi greci de' buoni tempi le parole che hanno la ?, quando subiscono le solite affezioni delle parole greche, cambiano spesso l'? in ?, come da ??? si fa ???, e ne' composti (come ???????, ??????, ????????, ?????? ec.) sempre ??.
Tornando al proposito, ed oggi, e da lungo tempo, questa medesima lettera greca y, non per altro introdotta nell'alfabeto latino che per rappresentare l'? greco, ed esprimere il suono della u francese, [1279]non si pronunzia in esso alfabeto nè in essa lingua, se non come i semplice.
Così pure nello spagnuolo e nel francese, quando non è trasformato in i anche nella scrittura, come sempre lo è nella nostra lingua.
E notate che in dette due lingue l'y si pronunzia i anche in parole e nomi propri ec.
non derivati dal latino, o che in latino non avevano detta lettera, o anche avevano l'i in sua vece.
E l'y e l'i si scambiano a ogni tratto nella scrittura spagnuola e francese, massime in quelle non affatto moderne, giacchè oggi l'ortografia è più determinata.
(I francesi scrivono Sylvain pronunziando Silvain.
V.
anche il Diz.
Spagnuolo in Syl.) Notate ancora che i francesi conservano l'u gallico, e pure pronunziano l'y per i.
Dal che apparisce che questa lettera grecolatina, perdè affatto e universalmente il suo primo suono, e cangiossi in i, come l'? presso i greci.
Ed è naturale l'affinità scambievole dell'i e dell'u, le più esili delle nostre vocali.
V.
p.2152.
fine.
Infatti il suono della u francese o Lombarda (il Forcellini la chiama Bergamasca) partecipa della i come della u.
E quegli stessi greci che pronunziavano il loro ? come i francesi la u, lo consideravano come una i piuttosto che come una u; voglio dire come una specie o inflessione ec.
della i.
Giacchè nel loro alfabeto lo chiamavano ?????? (come noi diciamo pure alla greca ipsilon) cioè ? tenue.
Ora questo aggiunto di tenue non gli è dato ad altro oggetto che di distinzione, come l'? si chiama parimente ?????? per distinguerlo dall'???.
Ma i greci non hanno nel loro alfabeto altra u da cui bisognasse distinguere questo ?; bensì hanno un'altra i cioè l'????.
Da hulh dunque pronunziato alla francese, e doppiamente aspirato, ovvero da hilh, fecesi hulf o hilf all'eolica, il che in latino (e in molte altre lingue per la somiglianza delle labiali f e v) pronunziossi, come abbiamo veduto, o da principio [1280]o col tempo hilv.
Anzi il digamma eolico non doveva esser altro che una cosa di mezzo tra f e v, ed un'aspirazione che tenea della consonante, e tale divenne pienamente nel seguito.
(Aspirazioni considerate per consonanti formali, ne ha pure lo spagnuolo ec.) Da hilv i latini, secondo il loro costume, fecero silv.
E finalmente come presso i greci l'aspirazione H perdendosi affatto, passò ad esser lettera, e desinenza di ??? e cessò di esser carattere radicale; così presso i latini la parola silv, raddolcendosi e formandosi la lingua, venne a ricevere la sua vocale terminativa a.
Ecco quanti cangiamenti dovè subire la radice hulh o hilh (seppur questa fu la primissima parola) secondo le differenze de' popoli e de' tempi, prima ancora di passare dal suo semplice stato di radice a parola derivativa o composta, anzi prima pur di subire alcuna inflessione, giacchè ??? e silva essendo nominativi non hanno inflessione veruna.
Ed aggiungete ancora, prima di divenir selva in italiano, giacchè la radice di questa parola italiana è parimente quell'hulh, e così tutte le più moderne parole che giornalmente oggi si parlano, hanno la loro antichissima, e per lo più irreconoscibilissima radice nelle lingue primitive.
Queste non sono etimologie stiracchiate, nè sogni, benchè etimologie lontanissime.
E non volendoci prestar fede, perciò solo che sono lontane, e che a prima vista non si scorge somiglianza fra hulh e silva, non si creda di mostrarsi spirito forte, ma ignorante d'archeologia, di filologia, e della storia naturale degli organi umani, de' climi ec.
come pur della storia certa e chiara di tante altre parole e lingue, similissima a questa; [1281]come di quelle stesse parole italiane che si sa di certo esser derivate dall'Arabo, dal greco, e dallo stesso latino, e che pur tanto hanno perduto della loro prima fisonomia, (in tanto minor tempo e varietà di casi) ed appena si possono ridurre alla loro origine.
Giacchè ci sono due generi d'incredulità, l'uno che viene dalla scienza, e l'altro (ben più comune) dall'ignoranza, e dal non saper vedere come possa essere quello che è, conoscer pochi possibili ec.
poche verità e quindi poche verisimiglianze ec.
non saper quanto si stenda la possibilità.
(V.
p.1391.
fine.)
Se dunque non m'inganno, abbiamo trovato una radice primitiva, o prossima alla forma primitiva, dico hulh o hilh.
Sarebbe tanto curioso quanto utile il ricercare questa parola, se esistesse, o altra che le somigliasse, nelle lingue straniere, principalmente orientali, da cui pare che derivassero antichissimamente le lingue occidentali, come pure le nazioni, le opinioni, i costumi, e che in somma l'oriente fosse abitato prima dell'occidente.
Gli studi e le scoperte che i moderni negli ultimi tempi hanno fatte, e vanno facendo anche oggi nelle antichità orientali, pare che sempre più confermino questa proposizione (già conforme al Cristianesimo, e alle antiche tradizioni pagane) della maggiore antichità dell'oriente rispetto all'occidente, o almeno della società e civiltà orientale, generalmente parlando.
Converrebbe consultare specialmente le lingue indiane.
Le lingue selvagge sarebbero anche adattate a queste ricerche, essendo verisimilmente le meno lontane dallo stato primitivo, come lo sono quelli che le parlano.
Ma prima d'istituire tali ricerche bisogna fare un'ultima osservazione in questo proposito.
Finora non abbiamo considerato che le variazioni nella forma esteriore di detta radice.
Bisogna osservare anche quelle del significato.
???? non significa solamente [1282]selva, ma anche materia, materiale sostantivo ec.
v.
i Lessici.
Anzi questo si pone per significato proprio d'essa parola.
Quindi ylgnh, hiuli presso i Rabbini significa materia o materia prima, termine filosofico.
V.
Johannis Buxtorfii Lex;.
Chaldaicum Talmudicum et Rabbinicum alla radice (fittizia) ]yh, Basileae 1640.
col.605 fine-606.
Dove è notabile il modo nel quale è imitato il suono dell'? greco, o u francese; cioè con due i ed una u; dal che 1.
si conferma quello che ho detto p.1279.
che i greci consideravano detta lettera più come una i che come una u, 2.
apparisce che l'antica pronunzia dell'? greco durava ancor dopo trasformata quella dell'e lunga ?, in i; giacchè l'? di ??? è espresso in questa parola rabbinica per la i lunga.
Del resto la radice ]yh è mal formata dal Lessicografo, giacchè manca del lamed, lettera radicalissima nella voce surriferita.
Si vede pure che conservavasi ancora l'aspirazione nella voce ???, giacchè la He non ad altro oggetto che di rappresentar l'aspirazione, fu posta dai rabbini in detta voce.
???? significa anche particolarmente legna o legname, o legno in genere.
Così pure silva (v.
Forcellini), altra prova dell'affinità di questo vocabolo col vocabolo greco.
Non saprei dire, nè monta per ora assai, il ricercare quale dei detti significati fosse il primitivo, se quello di selva, o di legna, o di materia o materiale ec.
Anche negli Scrittori latino-barbari si trova Silva per Lignum, Materia.
V.
il Glossar.
del Ducange.
Vedilo anche in Hyle, e quivi pure il Forc.
Bensì è curioso l'osservare che presso gli spagnuoli madera, lo stesso che materia, che i nostri antichi italiani dissero anche matera, non significa oggi altro che legno generalmente o legname.
E presso i francesi è noto che bois significa tanto bosco o selva quanto legno in genere.
V.
i Diz.
francesi, e la Crusca in selva, bosco, foresta, materia ec.
se ha nulla in proposito.
Anche fra noi poeticamente si direbbe molto bene selva ec.
per legna ec.
come presso a' poeti latini.
Si potrebbe dunque e dovrebbe ricercare nelle lingue orientali ec.
la radice hulh o hilh, non solo in [1283]senso di selva, ma anche di materia, di legno, o legname ec.
e in qualsivoglia di questi si ritrovasse, servirebbe ugualmente di conferma al nostro ragionamento.
(2-5.
Luglio 1821.).
V.
p.2306.
Alla p.1270.
Anche dopo fatta la meravigliosa analisi de' suoni articolati pronunziabili in una intera favella, e concepito il portentoso disegno di esprimergli ad uno ad uno e rappresentargli nella scrittura; e in somma trovato l'alfabeto; si dovè provare tanta difficoltà nell'applicazione, quanta se ne prova sempre passando dalla teorica alla pratica.
Anzi si può dire in genere che lo scrivere una lingua non mai stata scritta era lo stesso che applicar la teorica alla pratica.
Difficoltà, inconvenienti, disordini infiniti dovettero comparire nelle prime scritture.
Gli alfabeti, come tutte le cose umane, e massime così difficili e sottili, durarono per lunghissimo tempo imperfetti.
Cioè l'analisi dei suoni non fu potuta fare perfettamente, se non dopo lunghe serie di esperienze e riflessioni.
Non potè detta analisi arrivar subito ai suoni intieramente elementari.
Quindi segni inutili e soprabbondanti per una parte, mancanze di segni necessarii per l'altra.
Quindi sistema peccante di poca semplicità e di troppa semplicità.
Gli archeologi possono facilmente vedere e notare, e notano i progressi dell'alfabeto sì presso una medesima nazione, sì passando ad altre nazioni, come fece.
Certo è però che i primissimi alfabeto dovettero essere molto più imperfetti di quegli stessi imperfettissimi e primi che conosciamo, e che essi dovettero lungo tempo durare in quella o simile imperfezione, e quindi tanto più contribuire ad alterare la lingua scritta, la lingua comunicata alle altre nazioni e tempi ec.
Quante parole che si distinguevano ottimamente nella pronunzia, si dovettero confondere nella scrittura.
O si cercò allora di distinguerle in modi arbitrarii, o lasciandole così indistinte, le proprietà, i significati, le origini delle parole si [1284]vennero a poco a poco a confondere.
Nell'uno e nell'altro caso vedete quanto la necessaria imperfezione delle prime scritture (e per prime intendo quelle di parecchi secoli) debba aver nociuto alla perfetta conservazione delle primitive radici, averle svisate di forma, confusine i significati ec.
ec.
Così discorrete degli altri inconvenienti che derivarono dalle imperfezioni degli alfabeti, e degli effetti che questi inconvenienti dovettero produrre sulle parole.
Ma anche senza considerare nei primitivi alfabeti, o alfabeto, veruna imperfezione, ripeto che l'applicare le parole pronunziate ai segni allora inventati, dovè necessariamente patire le stesse difficoltà, che si patiscono nel discendere dalla teorica alla pratica.
Osserviamo i fanciulli che incominciano a scrivere, ancorchè sappiano ben leggere; ovvero gl'ignoranti che sanno però ben formare tutte le lettere, e scrivono sotto la dettatura.
Quanti spropositi derivati dalla poca pratica che hanno di applicare quel tal segno a quel tal suono, e di analizzare la parola che odono, risolvendola ne' suoni elementari, per applicare a ciascun suono elementare il suo segno.
(Notate ch'essi adoprano un alfabeto proprio fatto della lingua in cui scrivono, ed i segni propri e distinti di quei suoni precisi che debbono rappresentare).
Appena riescono essi a copiar bene, cioè trasferire non da suono a segno, ma da segno a segno.
Così i fanciulli principianti di scrittura, se hanno da scrivere sotto dettatura, o scrivere senza esemplare sotto gli occhi, quelle parole che pensano.
Così anche gli uomini fatti, e che sanno ben parlare, ma non avvezzi a scrivere o leggere, ommettono, traslocano, cambiano, aggiungono tante lettere, fanno la loro parola scritta così diversa dalla parlata, ch'essi stessi si vergognerebbero di pronunziar la loro scrittura nel modo in cui ella giace.
Ma essi credono che corrisponda alla pronunzia.
V.
p.1659.
Lo scrittore che scrive [1285]traslatando nella carta le parole che la mente gli suggerisce, scrive sotto la sua propria dettatura.
Quanto dunque dovè tardare prima di perfezionarsi nel rappresentare con segni ciascun suono che concepiva! E gl'infiniti errori prodotti dalla necessaria imperizia de' primi scrittori, dovettero perpetuarsi in gran parte nelle scritture, e confondere e guastare non poche parole, le loro forme, i loro significati, ec.
(E ricordiamoci che le lingue antiche ci sono pervenute per mezzo della sola scrittura.) Lascio il noto costume antico di scrivere tutte le parole a distesa senza nè intervalli nè distinzioni, punteggiature (di cui l'Ebraico manca quasi affatto) ec.
il che ognun vede quante confusioni e sbagli dovesse produrre.
Così dite degli altri inconvenienti della paleografia, gli effetti de' quali nelle lingue colte ec.
furono maggiori che non si pensa.
Lo vediamo anche nei Codici scritti in tempi dove l'arte della scrittura era già di gran lunga completa.
Vediamo dico quanti errori, quante sviste perpetuate in un'opera ec.
dove suda la critica, e molte volte non arriva a correggerle, e molte altre neppur se n'accorge ec.
ec.
V.
p.1318.
Da tutte le quali cose apparisce che le lingue primitive dalla sola applicazione alla semplice scrittura, senza ancor punto di letteratura, dovettero inevitabilmente ricevere una somma alterazione e sfigurazione, e travisamento.
Incorporiamo queste osservazioni coi fatti.
Pare che le lingue orientali fossero le prime del mondo.
Certo è che gli alfabeti occidentali vennero dall'oriente, e quindi orientali furono i primi alfabeti, e orientale dovette essere il primo inventore dell'alfabeto.
Ora gli alfabeti orientali mancano originariamente de' segni delle vocali.
Questo pare strano.
Nell'analisi de' suoni articolati pare a noi che le vocali, come elementi in realtà principali, debbano essere i primi e più facili a trovarsi.
Molti Critici vogliono forzatamente ritrovar le vocali ne' primitivi alfabeti d'Oriente.
Ma consideriamo la cosa da filosofi, e vediamo quanto il giudizio nostro [1286]che siamo sì avvezzi e pratici dell'analisi de' suoni articolati, fatta e perfetta da sì lungo tempo, differisca dal giudizio del primo o dei primi, che senza alcuna guida e soccorso concepirono questa sottilissima e astrusissima operazione.
Benchè le vocali sieno i primi suoni che l'uomo pronunzia, (anzi pure la bestia) e il fondamento di tutta e di tutte le favelle, certo è peraltro, chi le considera acutamente, ch'elle sono suoni più sottili; dirò così, più spirituali, più difficili a separarsi dal resto de' suoni, di quello che sieno le consonanti.
Noi chiamiamo così queste ultime, perch'elle non si reggono da se, ed hanno bisogno delle vocali, ed i greci le chiamavano similmente ???????? quasi convocali.
Questo ci par che dovesse menare per mano al ritrovamento immediato de' suoni vocali, nella ricerca de' suoni elementari; e questo per lo contrario fu quello che impedì e dovette naturalmente impedire la prima analisi della favella, di arrivare sino a questo punto.
Le vocali furono considerate come suoni inseparabili dagli altri suoni articolati; come suoni quasi inarticolati; come parti inesprimibili della favella, parti sfuggevoli, e incapaci d'esser fissate nella scrittura, e rappresentate separatamente col loro segno individuale.
Insomma l'analisi degli elementi delle parole, la decomposizione della voce umana articolata non arrivò fino a questi sottili elementi, cioè fino alle vocali, e non si conobbe che i suoni vocali fossero elementari, e [1287]divisibili dagli altri; e si considerarono come sostanze semplici le consonanti il cui stesso nome presso noi dimostra ch'elle sono sostanze composte, o bisognose della composizione, e più composte insomma o meno semplici che le vocali.
V.
p.2404.
Le prime scritture pertanto mancando delle vocali, somigliarono appunto a quelle che si fanno in parecchi metodi di stenografia: e l'oriente continuò per lunga serie di secoli, a scriver così, quasi stenograficamente.
(E così credo che ancora continui in più lingue.)
Notate che i primi alfabeti abbondarono de' segni delle aspirazioni (frequentissime, e di suono marcatissimo nelle lingue orientali come nello spagnuolo) i quali segni passarono poi ad esser vocali negli alfabeti d'occidente, presi dallo stesso oriente.
E ciò per la naturale analogia delle aspirazioni colle vocali, che pronunziate da se, non sono quasi altro che aspirazioni.
Abbondarono pure de' segni delle consonanti aspirate, distinti da' segni delle non aspirate: abbondanza non necessaria quando v'erano i segni delle aspirazioni che potevano congiungersi a quelli delle consonanti non aspirate dette tenui, e così denotare le consonanti aspirate, come poi fecero i latini, ed anticamente i greci che scrivevano ?????, ????? o ?????? ec.
Ma questo è il naturale andamento dello spirito umano, tutto il cui progresso tanto in genere come in ispecie, vale a dire in qualsivoglia scienza o arte, consiste nell'avvicinarsi sempre più agli elementi delle cose e delle idee, e nel conoscere che una cosa o un'idea fin allora dell'ultima semplicità conosciuta, ne contiene un'altra più semplice.
V.
in questo proposito la p.1235.
principio.
[1288]Osserviamo ora le conseguenze di questa scrittura quasi stenografica, cioè senza vocali, scrittura per sì lungo tempo comune all'oriente, anche dopo l'intero perfezionamento della loro arte di scrivere; e scrittura primitiva fra gli uomini.
Osserviamo, dico, le conseguenze che appartengono al nostro proposito, cioè alle alterazioni portate dalla scrittura alle prime radici, ed alla perdita che ci ha cagionata della perfetta cognizione di molte di loro ec.
Tutti gli eruditi sanno che delle vocali non bisogna far molto calcolo nelle lingue e parole orientali, sia nello studiarle, sia nel confrontarle con altre lingue e parole, nel cercarne le radici, le origini, le proprietà, le regole ec.
E che le vocali in dette lingue sono per lo più variabilissime incertissime, e bisogna impazzire per ridurre sotto regole (suddivise in infinito) quello che loro appartiene.
Or come ciò? Questo è pur contrario alla natura universale della favella umana, la cui anima, la cui parte principale e sostanziale sono le vocali.
E ben dovrebbero queste naturalmente esser meno variabili, e più regolate che le consonanti.
Ciò non si deve attribuire se non a quella imperfetta maniera di scrivere che abbiamo accennata; (imperfezione derivata dall'esser quella scrittura la prima del mondo ec.) e serve anche a dimostrare contro l'opinione di alcuni critici, che i più antichi e primitivi alfabeti orientali mancarono effettivamente de' segni delle vocali.
Non è già che le vocali [1289]non formassero e non formino la sostanza delle lingue orientali, come di tutte le altre più o meno.
Formano la sostanza di quelle lingue, ma non della loro gramatica, e ciò per la detta ragione.
Anzi molte lingue orientali, p.e.
l'ebraica (e credo generalmente quasi tutte) abbondano di vocali più che le nostre.
La lingua ebraica ha 14.
differenze di vocali, nessuna delle quali è dittongo.
Questa è la prima conseguenza ed effetto della imperfezione di detta scrittura, sulla favella, e sull'indole delle lingue che adoperavano detta scrittura.
Altro notabile e inevitabile effetto, si è la confusione de' significati, delle origini, delle proprietà ec.
delle voci, scritte senza le vocali, nel qual proposito v.
quello che ho detto p.1283.
fine-84.
principio.
A tutti è noto quante parole della Scrittura ebraica di diversissimo significato, e secondo che si stima, di diversissima origine e radice, o che sono esse medesime, radici differentissime, scritte senza vocali, sono perfettamente uguali fra loro, nè si possono distinguere se non dal senso.
Immaginate voi quanta confusione ciò debba aver prodotto e produrre, quanti equivoci, quanti dubbi; quante parole che si credono bene spiegate, e ben distinte coi punti vocali introdotti posteriormente, debbano in realtà aver significato tutt'altra cosa, ed avere avuto nella pronunzia tutt'altre vocali.
Onde nel [1290]testo Ebraico l'Ermeneutica trova bivi e trivi e quadrivi a ogni passo; e nella semplice interpretazione letterale gli stessi odierni Giudei, gli stessi antichi Dottori della nazione andarono e vanno le mille miglia lontani l'uno dall'altro.
Vedete quanti danni recati alla conservazione dell'antica lingua, e alla cognizione delle forme del senso ec.
delle antiche parole, dalla maniera di scrivere che abbiam detto.
Ciò non basta.
Avendo gli Orientali scritto per sì lungo tempo senza vocali, ne deve seguire che la vera antichissima pronunzia delle loro voci e lingue, in ordine ai suoni vocali, cioè alla parte primaria e sostanziale della pronunzia, sia in grandissima parte perduta.
La qual naturale opinione si conferma dal vedere che molte, anzi quasi tutte le voci o i nomi propri Ebraici passati anticamente ad altre lingue, si pronunziarono e si pronunziano in ordine alle vocali, tutt'altrimenti da quello che si leggono nella Scrittura Ebrea Masoretica, cioè fornita de' punti vocali, inventati (secondo i migliori Critici) in bassissima età, come gli accenti e gli spiriti che furono aggiunti in bassi secoli alla scrittura greca.
(Morery conchiude sulla fede del Calmet, del Prideaux, del Vossio, e degli altri più dotti, che detta invenzione fu verso il nono secolo, e che per l'avanti nella scrittura Ebrea non v'era segno alcuno di vocali.) E notate primieramente, ch'io dico in ordine alle vocali, giacchè [1291]quanto alle consonanti la scrittura e la pronunzia delle parole e nomi Ebraici in altre lingue, concorda generalmente con quella della Bibbia masoretica: il che serve di prova al mio discorso, mostrando che detta diversità di pronunzia nelle vocali, non deriva da corruzione sofferta da dette parole o nomi nel passare ad altre lingue, ma dal differire effettivamente la pronunzia masoretica cioè la moderna pronunzia ebraica, dalla pronunzia antica rispetto alle vocali.
E che tal differenza si deve attribuire alla imperfezione dell'antica scrittura ebraica senza vocali ec.
Secondariamente notate che trattasi per lo più di nomi propri, i quali nel passare ad altre lingue, sogliono naturalmente conservare la loro forma e pronunzia nazionale, meglio che qualunque altro genere di voci.
(7.
Luglio 1821.)
L'aspetto dell'uomo allegro e pieno o commosso anche mediocremente da qualche buona fortuna, da qualche vantaggio, da qualche piacere ricevuto ec.
è per lo più molestissimo non solo alle persone afflitte, o pur malinconiche, o poco inclinate alla letizia per atto o [1292]per abito, ma anche alle persone d'animo indifferentemente disposto, e non danneggiate punto, nè soverchiate ec.
da quella prosperità.
Questo ci accade ancora cogli amici, parenti i più stretti ec.
E bisogna che l'uomo il quale ha cagione di allegria, o la dissimuli, o la dimostri con certa disinvoltura, indifferenza e spirito, altrimenti la sua presenza, e la sua conversazione riuscirà sempre odiosa e grave, anche a quelli che dovrebbero rallegrarsi del suo bene, o che non hanno materia alcuna di dolersene.
Tale infatti è la pratica degli uomini riflessivi, padroni di se, e ben creati.
Che vuol dir questo, se non che il nostro amor proprio, ci porta inevitabilmente, e senza che ce ne avvediamo, all'odio altrui? Certo è che nel detto caso, anche all'uomo il più buono, è mestieri un certo sforzo sopra se stesso e un certo eroismo, per prender parte alla letizia altrui, della quale egli non aspetti nessun vantaggio nè danno, o solamente per non gravarsene.
(8.
Luglio 1821.)
Alla p.1242.
Non è dunque da maravigliarsi che la lingua italiana fra le moderne sia tenuta la più ricca.
(Monti.) Ho già mostrato come la vera fonte della ricchezza delle lingue antiche, consistesse nella gran facoltà dei derivati e de' composti, e come questa sia la principal fonte della ricchezza di qualsivoglia lingua, e quella che ne manca o ne scarseggia, non possa esser mai ricca.
La lingua italiana la quale cede alla greca e latina nella facoltà de' composti (colpa più nostra che sua), abbiamo veduto [1293]e si potrebe dimostrare con mille considerazioni, che nella facoltà dei derivati, e nell'uso che finora ha saputo fare di tal facoltà, piuttosto vince dette lingue, di quello che ne sia vinta.
Sarà dunque vero che la lingua italiana sia la più ricca delle moderne, e questa superiorità sua, che una volta fu effettiva (e per le dette ragioni), non passerà come parecchie altre, se noi non la spoglieremo di quelle facoltà che la producono, e sole la possono principalmente produrre; e che per l'altra parte sono proprie della sua indole.
Cioè se non la spoglieremo della facoltà di crear nuovi composti e derivati, disfacendo quello che fecero i nostri antichi.
Giacchè l'impedire alla lingua (e ciò per legge costante) che non segua ad esercitare le facoltà generative datele da quelli che la formarono, è lo stesso che spogliarnela, e quindi si chiama disfare e non conservare l'opera dei nostri maggiori.
Dilatate quest'ultimo pensiero, dimostrando come il voler togliere alla lingua l'esercizio delle sue facoltà creatrici, proprie della sua indole, sia appunto l'opposto di quello che si crede, cioè allontanarla dalla sua indole, e dalla sua condizione primitiva in luogo di mantenercela.
La condizione primitiva della lingua era di esser viva: ora il ridurla allo stato [1294]assoluto di morta, si chiamerà conservarla qual ella era, e quale ce la trasmisero i suoi formatori? Dunque conservare una parola, una forma, un significato, un suono antico, ec.
e sbandire una voce o modo barbaro, una cattiva ortografia, un significato male applicato ec.
tutte cose particolari ed accidentali, e quel ch'è più mutabili, tutto questo si chiamerà conservare la lingua.
E lo spogliarla delle sue facoltà generali, ed essenziali, e immutabili, non si chiamerà guastarla o alterarla, ma anzi conservarla? Dico immutabili, fin tanto ch'ella non muti affatto qualità, e di viva diventi morta.
Il solo immutabile nella lingua sono le facoltà che costituiscono il suo carattere, parimente immutabile.
Le parole, i modi, i significati, le ortografie, le inflessioni ec.
niente di questo è immutabile, ma tutto soggetto all'uso per propria natura.
Così che i nostri bravi puristi vogliono eternare nella lingua la parte mortale, e distruggere l'immortale, o quella che tale dev'essere, se non si vuol mutare la lingua.
E l'uso di tali facoltà creatrici, ch'io dico immortali, deve essere perpetuo finchè una lingua vive, appunto perchè la novità delle cose e delle idee (alle quali serve la lingua) [1295]è perpetua.
Che se non fosse perpetua, la lingua potrebbe allora perdere dette facoltà, e vivere nello stato delle lingue morte.
Ma essendo la novità delle cose perpetua, ripeto che non si può conservare la lingua senza mantenerle intieramente le sue primitive facoltà creatrici, e che lo spogliarla di queste è lo stesso che ridurla necessariamente alla barbarie; giacch'ella barbara o no, finch'è parlata e scritta non può morire; e non potendo vivere nella sua prima condizione, cioè durando la novità delle cose senza ch'ella possa più esprimerle del suo proprio prodotto, vivrà nella barbarie.
(8.
Luglio 1821.)
Alla p.1138.
fine, aggiungi - 4.
La lingua latina ha prodotto tre figlie, che ancor vivono, che noi stessi parliamo, e le di cui antichità, origini, progressi ec.
dal principio loro fino al dì d'oggi, si conoscono o si possono ottimamente o sempre meglio conoscere.
Che in somma è quanto dire che la lingua latina ancor vive.
E la considerazione di queste lingue fatta coi debiti lumi, ci può portare e ci porta a scoprire moltissime proprietà della lingua latina antichissima, che non si potrebbero, o non così bene dedurre dagli scrittori latini; e ciò stante l'infinita tenacità del [1296]volgo che mediante il parlar quotidiano, ha conservato dai primordi della lingua latina fino al dì d'oggi, e conserva tuttavia nell'uso quotidiano (e le ha pure introdotte nelle scritture) molte antichissime particolarità della lingua latina; come dimostrerò discorrendo dell'antico latino volgare.
Sicchè lo studio comparativo delle tre lingue latino-moderne, fatto con maggior cura, di quello che finora sia stato, e con maggiore intenzione all'effetto di scoprire le antichità della favella materna, ci può condurre a conoscer cose latine antichissime, e primitive, o quasi primitive.
La quale facoltà di uno studio comparativo sulla lingua greca parlata, non si ha, benchè la lingua greca viva ancora al modo che vive la latina.
Oltre che non si hanno tante comodità di conoscere così bene il greco moderno, e le sue origini, e progressi, e generalmente la storia della lingua greca da un certo tempo in qua; come si hanno di conoscere quello che noi possiamo chiamare il latino moderno, e la storia della lingua latina dalla sua formazione e letteratura fino al dì d'oggi, come dirò poi.
Da queste considerazioni segue in primo luogo che la lingua latina, non ci è solamente nota [1297]per via della scrittura e letteratura, cose che sfigurano sommamente le origini di qualunque lingua, come ho detto poche pagine dietro, discorrendo delle cause di alterazione nelle lingue; ma eziandio per mezzo della viva favella, la quale è sempre influita dall'uso degli antichi parlatori, assai più che degli antichi scrittori; e di una favella che si parla tuttodì nel mezzo d'Europa, e in gran parte d'Europa, ed è conosciuta per tutto, e massime a noi stessi che la parliamo e scriviamo.
Cosa che non si può dire di nessun'altra lingua antica.
In secondo luogo segue dalle dette considerazioni che noi possiamo conoscere quasi perfettamente (massime rispetto a qualunque altra lingua) le vicende della lingua latina e delle sue parole, e condurre una storia della lingua e delle voci latine, (generalmente parlando) quasi perfetta, quasi completa, e senz'alcuna laguna, dai primi principii della sua letteratura fino al dì d'oggi, cioè per venti secoli interi.
(Plauto morì nel 184.
av.
G.
C.) Il che non si può dire di verun'altra lingua occidentale, fuor della greca, la cui notizia e storia è soggetta però alle difficoltà dette p.1296.
E molto più, ed a molto maggiori difficoltà sono soggette quelle delle lingue orientali, ancorchè possano rimontare ad epoca [1298]più remota.
L'antica lingua teutonica ha veramente prodotto più lingue che la latina; inglese, tedesca, olandese, danese, svedese, svizzera ec.
(Staël): ma essa medesima è quasi ignota.
Così l'antica illirica, madre della russa, della Polacca, e di altre.
La lingua Celtica è poco nota essa, e non vive in nessuna moderna.
In somma la lingua latina è di tutte le lingue antiche quella la cui storia si può meglio e per più lungo spazio conoscere, e le cui primitive proprietà per conseguenza si ponno meglio indagare.
Giacchè spetta all'archeologo il rimontare dalla storia ch'egli può conoscere ec.
de' venti secoli sopraddetti, a quella de' secoli antecedenti; nè gli mancano copiose notizie di fatto, le quali basterebbero già per se stesse a potere spingere la detta storia molto più in là di detta epoca, sebbene meno perfettamente e completamente sino ad essa epoca, cioè al secondo secolo av.
Cristo, ch'è il secolo di Plauto.
Aggiungete quella lingua Valacca, derivata pure dalla latina, e che per essersi mantenuta sempre rozza, è proprissima a darci grandi notizie dell'antico volgare latino, il qual volgare, come tutti gli altri, è [1299]il precipuo conservatore delle antichità di una lingua.
Aggiungete i dialetti vernacoli derivati dal latino, come i vari dialetti ne' quali è divisa la lingua italiana.
I quali ancor essi si sono mantenuti qual più qual meno rozzi, com'è naturale ad una lingua non applicata alla letteratura, o non sufficientemente; e com'è naturale a una lingua popolarissima: e quindi tanto più son vicini al loro stato primitivo.
E trovasi effettivamente di molte loro parole, frasi ec.
che derivano da antichissime origini.
Quello che s'è perduto p.e.
nella lingua italiana comune, o in questo o quel vernacolo italiano, o s'è alterato ec., s'è conservato in quell'altro vernacolo ec.
E il loro esame comparativo deve infinitamente servire all'esame delle lingue latino-moderne, diretto a scoprire le ignote e primitive proprietà del latino antico.
Aggiungete ancora la lingua Portoghese, dialetto considerabilissimo della spagnuola.
5.
La lingua latina colta è incontrastabilmente meno varia, più regolare, più ordinata, più perfetta della greca pur colta.
Facilmente si può vedere quanto ciò giovi e favorisca la ricerca della lingua latina incolta.
Più facilmente si vede, si trova, si cammina nell'ordine, che nel disordine.
Aperta che vi siate nella lingua latina una strada, questa sola vi mena, e dirittamente, alla scoperta d'infinite sue voci antiche.
Le formazioni delle parole nella lingua latina; la fabbrica dei derivati e dei composti, è per lo più regolatissima, ordinatissima, e uniforme [1300]dentro ai limiti di ciascun genere.
Trovato che abbiate e ben conosciuto un genere di derivati nel latino, tutti o quasi tutti in quel genere sono formati nello stesso preciso modo, e secondo la stessa regola; da tutti si può rimontare egualmente alle radici.
Vedete quello che abbiamo osservato dei continuativi e frequentativi; due generi di voci derivate, regolarissimamente ed uniformemente formate, da ciascuna delle quali si può egualmente salire alla voce originaria.
Bene stabilito che sia il preciso modo di quella tal formazione, come abbiamo fatto, questa sola strada ci mena senza fatica, a un larghissimo e ubertosissimo campo; anzi è quasi una porta che vi c'introduce immediatamente.
Non così accade per lo più nella lingua greca, tanto più varia, difforme da se stessa nelle sue formazioni, ed in ogni altro genere di cose, e senza pregiudizio (anzi con vantaggio) della bellezza, tanto meno regolare e corrispondente.
Giacchè sì la moltiplicità, come la scarsezza delle regole, non sono altro che irregolarità.
L'una e l'altra dimostrano la copia e soprabbondanza delle eccezioni, le quali chi vuol ridurre a regola, moltiplica necessariamente le regole fuor di misura; chi non vuol dare in questo intoppo, è necessario che stabilisca [1301]poche e larghe regole, acciò possano lasciar luogo a molte differenze, e comprenderle: e in somma conviene che si tenga sugli universali, perchè i particolari discordano troppo frequentemente.
E così accade nella gramatica greca, dove altri soprabbondano di regole, e la fanno parere complicatissima, altri scarseggiano, e la fanno parere semplicissima.
La lingua latina è proprio nel mezzo di questi due estremi, riguardo alle regole d'ogni genere.
(Intendo già fra le lingue del genere antico, e non del moderno, tanto più filosoficamente costituito, com'è naturale.) Vale a dire per tanto ch'ella è la più facile a sviscerare, e considerare parte per parte.
Ma nella lingua greca bisogna aprirsi ad ogni tratto una nuova strada, e quella regola e maniera di formazioni ec.
che avrete scoperta, non vi servirà se non per poche voci ec.
ec.
(8 9.
Luglio 1821.)
Alla p.936-8.
Osservate ancora qualunque persona, rozza, o non assuefatta al bel parlare, ed alla lingua della polita conversazione, o poco pratica e ricca di lingua, o poco esercitata e felice nel trovar le parole favellando, (cioè la massima parte degli uomini), ovvero anche quelli che parlano bene, quando si trovano in circostanza dove non abbiano bisogno di star molto sopra se stessi nel parlare, o quando parlano rozzamente a bella posta o in qualunque modo, o talvolta anche fuori di dette circostanze, e nella stessa polita conversazione; o finalmente quelli che hanno una certa forza, e vivacità, e prontezza ec.
o insubordinazione di fantasia; e facilmente potrete notare [1302]che tutti o quasi tutti gli uomini, qual più qual meno secondo le suddette differenze, hanno delle parole affatto proprie loro, e particolari, (non già derivate nè composte, ma nuove di pianta) che sogliono abitualmente usare quando hanno ad esprimere certe determinate cose, e che non s'intendono se non dal senso del discorso, e son prese per lo più da una somiglianza ed una imitazione della cosa che vogliono significare.
Così che si può dire che il linguaggio di ciascun uomo differisce in qualche parte da quello degli altri.
Anzi il linguaggio di un medesimo uomo differisce bene spesso da se medesimo, non essendoci uomo che talvolta non usi qualche parola della sopraddetta qualità, non abitualmente, ma per quella volta sola, (qualunque motivo ce lo porti, che possono esser diversissimi) quantunque abbiano nella stessa lingua che conoscono ed usano, la parola equivalente da potere adoperare.
(9.
Luglio 1821.)
Un ritratto, ancorchè somigliantissimo, (anzi specialmente in tal caso) non solo ci suol fare più effetto della persona rappresentata (il che viene dalla sorpresa che deriva dall'imitazione, e dal piacere che viene dalla sorpresa), ma, per così dire, quella stessa persona ci fa più effetto dipinta che [1303]reale, e la troviamo più bella se è bella, o al contrario.
ec.
Non per altro se non perchè vedendo quella persona, la vediamo in maniera ordinaria, e vedendo il ritratto, vediamo la persona in maniera straordinaria, il che incredibilmente accresce l'acutezza de' nostri organi nell'osservare e nel riflettere, e l'attenzione e la forza della nostra mente e facoltà, e dà generalmente sommo risalto alle nostre sensazioni.
ec.
(Osservate in tal proposizione ciò che dice uno stenografo francese, del maggior gusto ch'egli provava leggendo i classici da lui scritti in istenografia.) Così osserva il Gravina intorno al diletto partorito dall'imitazione poetica.
(9.
Luglio 1821.)
Diletto ordinarissimo ci produce un ritratto ancorchè somigliantissimo, se non conosciamo la persona; straordinario se la conosciamo.
Applicate questa osservazione alla scelta degli oggetti d'imitazione pel poeta e l'artefice, condannando i romantici e il più de' poeti stranieri che scelgono di preferenza oggetti forestieri ed ignoti per esercitare la forza della loro imitazione.
(9.
Luglio 1821.)
Altra prova che noi siamo più inclinati al timore che alla speranza, è il vedere che noi per lo più crediamo facilmente quello che temiamo, e difficilmente quello che desideriamo, anche molto più verisimile.
E poste due persone delle quali una tema, e l'altra desideri una stessa cosa, quella la crede, e questa no.
E se noi passiamo dal temere una cosa al desiderarla, non sappiamo più credere quello che prima non sapevamo non credere, [1304]come mi è accaduto più volte.
E poste due cose, o contrarie o disparate, l'una desiderata, e l'altra temuta, e che abbiano lo stesso fondamento per esser credute, la nostra credenza si determina per questa e fugge da quella.
Nell'esaminare i fondamenti di alcune proposizioni ch'io da principio temeva che fossero vere, e poi lo desiderava, io li trovava da principio fortissimi, e quindi insufficientissimi.
(10.
Luglio 1821.)
A quello che ho detto del linguaggio popolare, pochi pensieri addietro, soggiungi.
Il linguaggio popolare è ricca e gran sorgente di bellissime voci e modi, non veramente alla lingua scritta, ma propriamente allo scrittore.
Vale a dire, bisogna che questo nell'attingerci, nobiliti quelle voci e modi, le formi, le componga in maniera che non dissuonino, nè dissomiglino dalle altre che l'arte ha introdotto nello scrivere, ed ha polite, e insomma non disconvengano alla natura dello scrivere artifizioso ed elegante.
Non già le deve trasferir di peso dalla bocca del popolo alla scrittura, se già non fossero interamente adattate per se medesime, o se la scrittura non è di un genere triviale o scherzoso o molto familiare ec.
Così che io [1305]dico che il linguaggio popolare è una gran fonte di novità ec.
allo scrittore, nello stesso modo in cui lo sono le lingue madri ec.
le quali somministrano gran materia, ma tocca allo scrittore il formarla, il lavorarla, e l'adattarla al bisogno, non già solamente trasportarla di netto, o adoperarla come la trova.
(10.
Luglio 1821.)
L'uomo isolato crederebbe per natura, almeno confusamente, che il mondo fosse fatto per lui solo.
E intanto crede che sia fatto per la sua specie intera, in quanto la conosce bene, e vive in mezzo a lei, e ragiona facilmente e pianamente sui dati che la società e le cognizioni comuni gli porgono.
Ma non potendo ugualmente vivere nella società di tutti gli altri esseri, la sua ragione si ferma qui, e senza riflessioni che non possono esser comuni a molti, non arriva a conoscere che il mondo è fatto per tutti gli esseri che lo compongono.
Ho veduto uomini vissuti gran tempo nel mondo, poi fatti solitarii, e stati sempre egoisti, credere in buona fede che il mondo appresso a poco fosse tutto per loro, la qual credenza appariva da' loro fatti d'ogni genere, ed anche dai detti implicitamente.
E non [1306]potevano non solo patire o mancar di nulla, ma appena concepire come gli uomini e le cose non si prestassero sempre e interamente ai loro comodi, e ne manifestavano la loro maraviglia e la loro indignazione in maniere singolarissime, e talvolta incredibili in persone avvezze alle maniere civili, ed ai sacrifizi della società, nelle quali cose conservavano pur molta pretensione.
Ma non si accorgevano, così facendo, di mancare a nessun debito loro verso gli altri, nè di esigger più di quello che loro convenisse ec.
(10.
Luglio 1821.)
Dovunque ha luogo l'utilità quivi noi non consideriamo e concepiamo e sentiamo la proporzione e convenienza, se non in ragione dell'utile.
Poniamo una spada con una grande impugnatura a comodo e difesa della mano.
Che proporzione ha quella grossa testa con un corpo sottile? E pure a noi pare convenientissima e proporzionatissima.
Perchè? primo per l'assuefazione principal causa e norma del sentimento delle proporzioni, convenienze, bellezza, bruttezza.
Secondo perchè ne conosciamo il fine e l'utilità, e questa cognizione determina la nostra idea circa la proporzione ec.
dell'oggetto che vediamo.
Chi non avesse mai veduto una spada, e non conoscesse l'uffizio [1307]suo, o dell'elsa ec.
potrebbe giudicarla sproporzionatissima, e concepire un senso di bruttezza, relativo agli altri oggetti che conosce, e alle altre proporzioni che ha in mente.
Così dite delle forme umane ec.
Non è dunque vero che la proporzione è relativa? Qual tipo, qual forma universale può aver quell'idea, ch'è determinata individualmente dalla cognizione di quel tale oggetto delle sue parti, de' loro fini ec.? che è determinata dall'assuefazione di vederlo ec.? che varia non solo secondo le infinite differenze degli oggetti, ma secondo le differenze di dette cognizioni, assuefazioni ec.? E quell'idea che deriva da cognizione speciale di ciascheduna cosa e parte, e da speciale assuefazione, come può essere innata, avere una norma comune, stabile, determinata primordialmente e astrattamente dalla natura assoluta del tutto?
(10.
Luglio 1821.)
Mi si permetta un'osservazione intorno ad una minuzia, la cui specificazione potrà parere ridicola, e poco degna della scrittura.
Alcune minute parti del corpo umano che l'uomo osserva difficilmente, e assai di rado, e per solo caso negli altri, le suole osservare solamente in se stesso.
In se stesso, e da ciò che elle sono in lui, egli concepisce l'idea del [1308]quali debbano essere, e della convenienza delle loro forme, e proporzione ec.
e di tutti i loro accidenti.
Così le unghie della mano.
Le quali ben di rado si possono osservare negli altri, bensì sovente in se stesso.
Or che ne segue? Ne segue che tutti noi ci formiamo l'idea della bellezza di questa parte del nostro corpo, dalla forma ch'ella ha in ciascheduno di noi; e perchè quest'idea è formata sopra un solo individuo della specie, e l'assuefazione è del tutto individuale nel suo soggetto, perciò se talvolta ci accade di osservare o di porre qualche passeggera attenzione a quella medesima parte in altrui, rare volte sarà ch'ella non ci paia di forma strana, e non ci produca un certo senso di deformità o informità ec.
di bruttezza, e anche di ribrezzo, perchè contrasta coll'assuefazione che noi abbiamo contratta su di noi.
E se accadrà che noi osserviamo quella parte nella persona più ben fatta del mondo, ma che in questa differisca notabilmente da noi, quella parte in detta persona ci parrà notabilmente difettosa, quando anche ad altri o generalmente paia l'opposto per differente circostanza.
Ed insomma il giudizio che noi formiamo della bellezza o bruttezza di quella parte in altrui, è sempre in proporzione della maggiore o minore conformità ch'ella ha non col generale che non conosciamo, ma colla nostra particolare.
Aggiungete che le altre idee della bellezza umana, siccome sono formate sulla cognizione, ed assuefazione, ed osservazione da noi fatta sopra [1309]molti individui, così non sono mai uniche, e ci parrà bello questi, e bello quegli, benchè molto diversi.
(Questa moltiplicità medesima delle idee della bellezza umana, va in proporzione del vedere e dell'osservare che si è fatto ec.
ec.
ec.) Ma nel nostro caso, perchè l'idea è formata sopra un soggetto solo, ed un'assuefazione ed osservazione individuale, perciò è unica, e ci par brutto o men bello proporzionatamente, non solo ciò che non è simile, ma ciò pure che non è uniforme al detto soggetto.
V.
p.1311.
capoverso 2.
Bisogna modificare queste osservazioni secondo i casi e circostanze che ciascuno può facilmente pensare.
P.e.
se una malattia o altro accidente vi ha deformato le unghie, voi sentite quella deformità, perchè contrasta colla vostra assuefazione precedente, ed allora (almeno fintanto che non arriviate ad assuefarvi a quella nuova forma) non misurerete gli altri da quello che voi siete, ma piuttosto da quello ch'eravate precedentemente.
Se un'unghia vostra è deforme, anche sin dalla nascita ec.
voi facilmente ve ne accorgerete paragonandola colle altre pur vostre.
Se in questa parte del corpo umano voi siete sempre stato assolutamente deforme, cioè grandemente diverso dagli [1310]altri, allora quel poco che voi potrete accidentalmente osservare delle forme comuni, benchè in grosso e non minutamente, potrà bastare a farvi accorgere della vostra deformità, perchè la differenza essendo grande, sarà facilmente notabile, e vi daranno anche nell'occhio quelle parti in altrui, più di quello che farebbero in altro caso, e così l'assuefazione che formerete, contrasterà con quello che vedete in voi stesso.
Vi accorgerete però di essa deformità molto più difficilmente, e la sentirete assai meno di quello che fareste in un altro.
Così accade di molto maggiori deformità o nostre proprie, o di persone con cui conviviamo ec.
e v.
la p.1212.
capoverso 2.
Queste osservazioni sono menome.
Ma non altrimenti il filosofo arriva alle grandi verità che sviluppando, indagando, svelando, considerando, notando le menome cose, e risolvendo le stesse cose grandi nelle loro menome parti.
Ed io da un lato non credo che forse si possa addurre prova più certa di queste osservazioni, per dimostrare come il giudizio, il senso, l'idea della bellezza o bruttezza delle forme degli stessi nostri simili (giudizio, e senso influito dalla natura universale più che qualunque altro) dipende dall'assuefazione ed osservazione, ed eccetto in certe inclinazioni naturali, non ha assolutamente altra ragione, altra regola, altro esemplare.
[1311]Dall'altro lato non vedo qual altra più vera e incontrastabile proposizione possa venir dimostrata in maniera più palpabile di questa.
Discorrete allo stesso modo delle altre parti del corpo umano, o egualmente minute, o egualmente poco facili ad osservarsi o vedersi negli altri, o in più che tanti.
(10.
Luglio 1821.).
V.
qui sotto.
Alla p.1309.
Tanto più che l'osservazione che noi abbiam fatta in noi stessi delle dette parti è minutissima, e quindi l'idea che abbiamo della loro conveniente figura ec.
è bene esatta e determinata, forse più di qualunque altra simile idea.
E questo pure perch'ella è formata sopra noi stessi, vale a dire sopra un esemplare che da noi è naturalmente meglio conosciuto, più precisamente osservato, e più frequentemente anzi continuamente veduto che qualunque altro oggetto materiale.
(10.
Luglio 1821.)
Al pensiero superiore.
Non voglio spingere il discorso all'indecente, e forse di necessità e contro voglia, l'ho portato già troppo innanzi.
Dirò brevemente.
Di quelle parti umane che taluno non conosce, o in quel tempo in cui nessuno le conosce, non solo non ne ha veruna idea di bello o di brutto, e volendola formare, verisimilissimamente s'inganna, ma [1312]volendo congetturare le loro proprietà, forme e proporzioni universali, non indovina, se non forse a caso.
E il fanciullo distingue già il bello e il brutto fra gli uomini, e ancora non conosce intieramente la bellezza non solo, ma neppure la forma umana, e quello che ne conosce non gli dà veruna idea sufficiente, nè delle proprietà nè delle proporzioni e convenienze di quello che non conosce.
E v.
in questo proposito p.1184.
marg.
(12.
Luglio 1821.)
Alla p.1255.
marg.
- e divenir maturo, pratico ec.
p.e.
in uno stile, con una sola lettura, cioè con pochissimo esercizio ec.
La qual facilità di assuefazione, segno ed effetto del talento io la notava in me anche nelle minuzie, come nell'assuefarmi ai diversi metodi di vita, e nel dissuefarmene agevolmente mediante una nuova assuefazione ec.
ec.
In somma io mi dava presto per esercitato in qualunque cosa a me più nuova.
(12.
Luglio 1821.)
Alla p.1226.
marg.
fine.
Se attentamente riguarderemo in che soglia consistere l'eleganza delle parole, dei modi, delle forme, dello stile, vedremo quanto sovente anzi sempre ella consista nell'indeterminato, (v.
in tal proposito quello che altrove ho detto circa un passo di Orazio) v.
p.1337.
principio o in qualcosa d'irregolare, cioè nelle qualità contrarie a quelle che principalmente si ricercano nello scrivere didascalico o dottrinale.
Non nego io già che questo non sia pur suscettibile di eleganza, massime in quelle parti dove l'eleganza non fa danno alla precisione, vale a dire massimamente nei modi e nelle forme.
E di questa associazione [1313]della precisione coll'eleganza, è splendido esempio lo stile di Celso, e fra' nostri, di Galileo.
Soprattutto poi conviene allo scrivere didascalico la semplicità (che si ammira massimamente nel primo di detti autori), la quale dentro i limiti del conveniente, è sempre eleganza, perch'è naturalezza.
Bensì dico che piuttosto la filosofia e le scienze, che sono opera umana, si possono piegare e accomodare alla bella letteratura ed alla poesia, che sono opera della natura, di quello che viceversa.
E perciò ho detto che dove regna la filosofia, quivi non è poesia.
La poesia, dovunque ella è, conviene che regni, e non si adatta, perchè la natura ch'è sua fonte non varia secondo i tempi, nè secondo i costumi o le cognizioni degli uomini, come varia il regno della ragione.
(13.
Luglio 1821.)
Chi vuol persuadersi dell'immensa moltiplicità di stili e quasi lingue diverse, rinchiuse nella lingua italiana, consideri le opere di Daniello Bartoli, meglio del quale niuno conobbe i più riposti segreti della nostra lingua.
(Monti, Proposta, vol.1 par.1.
p.
XIII.) [1314]Un uomo consumato negli studi della nostra favella, il quale per la prima volta prenda a leggere questo scrittore, resta attonito e spaventato, e laddove stimava d'essere alla fine del cammino negli studi sopraddetti, comincia a credere di non essere a mala pena al mezzo.
Ed io posso dire per esperienza che la lettura del Bartoli, fatta da me dopo bastevole notizia degli scrittori italiani d'ogni sorta e d'ogni stile, fa disperare di conoscer mai pienamente la forza, e la infinita varietà delle forme e sembianze che la lingua italiana può assumere.
Vi trovate in una lingua nuova: locuzioni e parole e forme delle quali non avevate mai sospettato, benchè le riconosciate ora per bellissime e italianissime: efficacia ed evidenza tale di espressione che alle volte disgrada lo stesso Dante, e vince non solo la facoltà di qualunque altro scrittore antico o moderno, di qualsivoglia lingua, ma la stessa opinione delle possibili forze della favella.
E tutta questa novità non è già novità che non s'intenda, che questo non sarebbe pregio ma vizio sommo, e non farebbe vergogna al lettore ma allo scrittore.
Tutto s'intende benissimo, e tutto è nuovo, e diverso dal consueto: [1315]ella è lingua e stile italianissimo, e pure è tutt'altra lingua e stile: e il lettore si maraviglia d'intender bene, e perfettamente gustare una lingua che non ha mai sentita, ovvero di parlare una lingua, che si esprime in quel modo a lui sconosciuto, e però ben inteso.
Tale è l'immensità e la varietà della lingua italiana, facoltà che pochi osservano e pochi sentono fra gli stessi italiani più dotti nella loro lingua; facoltà che gli stranieri difficilmente potranno mai conoscere pienamente, e quindi confessare.
(13.
Luglio 1821.)
Il successivo cambiamento delle disposizioni dell'animo di ciascun uomo secondo l'età, è una fedele e costante immagine del cambiamento delle generazioni umane nel processo de' secoli.
(E così viceversa).
Eccetto che è sproporzionatamente rapido, massimamente oggidì, perchè il giovane di venticinque anni non serba più somiglianza alcuna col tempo antico, nè veruna qualità, opinione, disposizione, inclinazione antica, come l'immaginazione, la virtù ec.
ec.
ec.
(13.
Luglio 1821.)
Alla p.1256.
fine.
E tanto è vero che l'idea di questa tal bellezza non venga da tipo ec.
ma da inclinazione naturale, e da senso affatto indipendente dalla sfera del bello e del conveniente; [1316]che la inclinazione chiamata da Aristofane ?????????? ???? (v.
assolutamente il Menagio, ad Laert.
Polemon., 4.
19.), fa parer bella e desiderare ai libidinosi una ?????????? eccessiva e maggiore assai delle proporzioni generali, e seguite comunemente dalla natura, e quindi non bella.
Applicate questa osservazione a tutte le altre idee che ha della bellezza femminile il ?????? ?????? ????????????? ???????.
(Crate Tebano, Cinico, ap.
Laert.
in Crat.
Theb.
6.85.
v.
quivi il Menag.) Idee diverse da quelle più stabilite e comuni, e non per tanto radicatissime e sensibilissime in loro, che altrove non riconoscono e non sentono la bellezza femminile.
(13.
Luglio 1821.)
La nostra lingua ha, si può dire, esempi di tutti gli stili, e del modo nel quale può essere applicata a tutti i generi di scrittura: fuorchè al genere filosofico moderno e preciso.
Perchè vogliamo noi ch'ella manchi e debba mancare di questo, contro la sua natura, ch'è di essere adattata anche a questo, perchè è adatta a tutti gli stili? Ma nel vero, quantunque l'esito sia certo, non s'è fatta mai la prova di applicare la buona lingua italiana al detto genere, eccetto ad alcuni generi scientifici [1317]negli scritti del Galilei del Redi, e pochi altri; ed alla politica, negli scritti del Machiavelli, e di qualche altro antico, riusciti perfettamente quanto alla lingua, ed in ordine alla materia, quanto comportavano i tempi e le cognizioni d'allora.
Ma a quel genere filosofico che possiamo generalmente chiamare metafisico, e che abbraccia la morale, l'ideologia, la psicologia (scienza de' sentimenti, delle passioni e del cuore umano) la logica, la politica più sottile, ec.
non è stata mai applicata la buona lingua italiana.
Ora questo genere è la parte principalissima e quasi il tutto degli studi e della vita d'oggidì.
(13.
Luglio 1821.)
I termini della filosofia scolastica possono in gran parte servire assaissimo alla moderna, o presi nel medesimo loro significato (quantunque la moderna avesse altri equivalenti), il che non farebbe danno alla precisione, essendo termini conosciuti nel loro preciso valore; o torcendolo un poco senz'alcun danno della chiarezza ec.
E questi termini si confarebbero benissimo all'indole della lingua italiana, la quale ne ha già tanti, e i cui scrittori antichi, cominciando da Dante, hanno tanto adoperato detta filosofia, ed introdottala nelle scritture più colte ec.
oltre che derivano tutti o quasi tutti dal latino, [1318]o dal greco mediante il latino ec.
Anche per questa parte ci può essere utilissimo lo studio del latino-barbaro, ed io so per istudio postoci, quanti di detti termini, andati in disuso, rispondano precisamente ad altri termini della filosofia moderna, che a noi suonano forestieri e barbari; e possano essere precisamente intesi da tutti nel senso de' detti termini recenti: e così quanti altri ve ne sarebbero adattatissimi, e utilissimi, ancorchè non abbiano oggi gli equivalenti ec.
ec.
anzi tanto più.
Aggiungete che benchè andati in disuso negli scrittori filosofi moderni, gran parte di detti termini è ancora in uso nelle scuole, o in parte di esse, e per questa e per altre ragioni, sono di universale e precisa e chiara intelligenza.
(13.
Luglio 1821.).
V.
p.1402.
Alla p.1285.
Osserviamo inoltre quanti vocaboli derivati da soli antichi errori di scrittura, si scoprano mediante la critica, essersi introdotti e ne' Vocabolari, e nell'uso stesso degli scrittori antichi o moderni, che sogliono formarsi sopra i più antichi, ed attingerne la lingua ec.
(14.
Luglio 1821.)
Alla p.1259.
principio.
Nel che, intorno al giudizio del bello, non opera tanto l'assuefazione, quanto l'opinione.
Giacchè di momento in momento varia il giudizio, e se noi [1319]vediamo una foggia di vestire novissima, e diversissima dall'usitata, noi subito o quasi subito la giudichiamo bella, e proviamo ben tosto il senso della bellezza, se sappiamo che quella foggia è d'ultima moda, e se al contrario, il contrario ci accade, perchè quella nuova foggia contrasta sì all'assuefazione nostra, come all'opinione.
Aggiungete che noi giudichiamo bella quella nuova foggia di moda, quando pure contrasti a tutte le forme ricevute del bello, eccetto che allora, bastando un solo momento per formare il giudizio del bello, vi vorrà però proporzionatamente qualche poco di tempo per concepirne il senso istantaneo, vale a dire, acquistarne l'assuefazione, la quale conserva pur sempre i suoi dritti; e disfare l'assuefazione passata.
Del resto quanto la pura opinione indipendente dall'assuefazione stessa e da ogni altra cosa, influisca sul giudizio e senso del bello, si potrebbe mostrare con mille prove le più quotidiane, quantunque perciò appunto meno avvertite.
Chi non sa che una bellezza mediocre, ci par grande, s'ella ha gran fama? E che ci sentiamo più inclinati, e proviamo il senso della bellezza molto più vivo nel mirare una donna famosa per la [1320]beltà, che nel mirarne una più bella, ma ignota, o meno famosa? Così pure se una donna non è bella, ma ha nome di esserlo o è celebre per avventure galanti, o è stata contrastata ec.
ec.
ec.
Così dico degli uomini rispetto alle donne ec.
ec.
Così negli scrittori: il senso del bello è molto maggiore, più intimo, più frequente, più minuto, quando leggiamo p.e.
un poeta già famoso, e di merito già riconosciuto, che quando ne leggiamo uno, del cui merito abbiamo da giudicare, sia pur egli più bello di molti altri che sommamente ci dilettano.
Il formare il gusto, in grandissima parte non è altro che il contrarre un'opinione.
Se il tal gusto, il tal genere ec.
è disprezzato, o se tu in particolare lo disprezzi, quell'opera di quel tal gusto o genere ec.
non piace.
Nel caso contrario, e se tu cambi opinione, ecco che quella stessa opera ti dà sommo piacere, e ci trovi infinite bellezze di cui prima neppur sospettavi.
Questo caso è frequentissimo in ogni genere di cose.
Pochissimi trovavano piacere nella lettura del buono stile italiano, durante l'ultima metà del secolo passato, e i primi anni di questo.
Oggi moltissimi; e quei medesimi che non vi trovavano alcun diletto, anzi noia ec., oggi se ne pascono con gran piacere, perchè l'opinione in Italia è cambiata.
Fra questi così cambiati, sono ancor io.
[1321]Potrei condurre questo discorso a cento altri particolari.
Lo stile dei trecentisti ci piace sommamente perchè sappiamo ch'era proprio di quell'età.
Se lo vediamo fedelissimamente ritratto in uno scrittore moderno, ancorchè non differisca punto dall'antico, non ci piace, anzi ci disgusta, e ci pare affettatissimo, perchè sappiamo che non è naturale allo scrittore, sebben ciò dallo scritto non apparisca per nulla.
Questa è dunque sola opinione; ragionevole bensì, ma dunque il bello non è assoluto, perchè la stessissima cosa, in diversa circostanza, ci par bella e brutta, e se noi non sapessimo p.e.
la circostanza che quel tale scrittore sia moderno, quel suo scritto ci piacerebbe moltissimo.
Così dite delle imitazioni le più fedeli nel genere letterario, o nelle arti ec.
ragguagliate cogli originali, ancorchè non ne differiscano d'un capello, del che ho detto in altro pensiero.
Così dite della simmetria ec.
del che v.
la p.1259.
Così dite degli arcaismi i quali non ci offendono punto, nè ci producono verun senso di mostruosità in uno scrittore antico, perchè sappiamo che allora si usavano; e ci fanno nausea in un moderno, ancorchè di stile tanto simile all'antico, che quegli arcaismi non vi risaltino, o discordino dal rimanente nulla più che negli antichi scrittori.
(14.
Luglio 1821.)
[1322]Ho detto altrove che la grazia deriva bene spesso (e forse sempre) dallo straordinario nel bello, e da uno straordinario che non distrugga il bello.
Ora aggiungo la cagione di questo effetto.
Ed è, non solamente che lo straordinario ci suol dare sorpresa, e quindi piacere, il che non appartiene al discorso della grazia; ma che ci dà maggior sorpresa e piacere il veder che quello straordinario non nuoce al bello, non distrugge il conveniente e il regolare, nel mentre che è pure straordinario, e per se stesso irregolare; nel mentre che per essere irregolare e straordinario, dà risalto a quella bellezza e convenienza: e insomma il vedere una bellezza e una convenienza non ordinaria, e di cose che non paiono poter convenire; una bellezza e convenienza diversa dalle altre e comuni.
Esempio.
Un naso affatto mostruoso, è tanto irregolare, che distrugge la regola, e quindi la convenienza e la bellezza.
Un naso come quello della Roxolane di Marmontel, è irregolare, e tuttavia non distrugge il bello nè il conveniente, benchè per se stesso sia sconveniente; ed ecco la grazia, e gli effetti mirabili di questa grazia, descritti festivamente da [1323]Marmontel, e soverchianti quelli d'ogni bellezza perfetta.
V.
p.1327.
fine.
Se osserveremo bene in che cosa consista l'eleganza delle scritture, l'eleganza di una parola, di un modo ec., vedremo ch'ella sempre consiste in un piccolo irregolare, o in un piccolo straordinario o nuovo, che non distrugge punto il regolare e il conveniente dello stile o della lingua, anzi gli dà risalto, e risalta esso stesso; e ci sorprende che risaltando, ed essendo non ordinario, o fuor della regola, non disconvenga; e questa sorpresa cagiona il piacere e il senso dell'eleganza e della grazia delle scritture.
(Qui discorrete degl'idiotismi ec.
ec.) Il pellegrino delle voci o dei modi, se è eccessivamente pellegrino, o eccessivo per frequenza ec.
distrugge l'ordine, la regola, la convenienza, ed è fonte di bruttezza.
Nel caso contrario è fonte di eleganza in modo che se osserverete lo stile di Virgilio o di Orazio, modelli di eleganza a tutti secoli, vedrete che l'eleganza loro principalissimamente e generalmente consiste nel pellegrino dei modi e delle voci, o delle loro applicazioni a quel tal uso, luogo, significazione, nel pellegrino delle metafore ec.
Cominciando [1324]dal primo verso sino all'ultimo potrete far sempre la stessa osservazione.
E ciò è tanto vero, che se quella cosa pellegrina, p.e.
quella voce, frase, metafora, diventa usuale e comune, non è più elegante.
Quanti esempi di fatto si potrebbero addurre in questo particolare, mediante l'attenta considerazione delle lingue.
Per noi italiani è grandissima fonte di eleganza l'uso di voci o modi latini, presi nuovamente da
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