ZIBALDONE, di Giacomo Leopardi - pagina 59
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Ma da questi segue ancora che la maggior felicità possibile dell'uomo in questa vita, ossia il maggior conforto possibile, e il più vero ed intero, all'infelicità naturale, è la religione.
Perchè (riassumendo il discorso) la perfezione primitiva o umana assolutamente, e quindi la felicità naturale, e quindi la felicità temporale, è impossibile all'uomo dopo la corruzione.
La ragione autrice di essa corruzione, avendo prevaluto per sempre, il miglior grado dell'uomo corrotto è la perfezione di essa ragione, che forma oggi la sua parte principale.
La perfezion della ragione non può condurre se non alla felicità di un'altra vita.
Quindi, e anche senza ciò, la perfezion della ragione e della cognizione, non può stare senza la rivelazione.
Dunque il migliore stato dell'uomo corrotto, è la Religione, e siccome è il migliore, cioè quello che più gli conviene, perciò, sebben suppone l'infelicità di questa vita, contiene però il maggior conforto, e quindi la maggior felicità, e quindi la maggior perfezione possibile dell'uomo in questa vita.
Ecco come la Religione si accorda mirabilmente col mio sistema, e quasi ne riceve una nuova prova.
[407]7° La perfezion della ragione consiste in conoscere la sua propria insufficienza a felicitarci, anzi l'opposizione intrinseca ch'ella ha colla nostra felicità.
V.
p.304.
capoverso 2.
Questa è tutta la perfettibilità dell'uomo, conoscersi incapace affatto a perfezionarsi, anzi ch'essendo egli uscito perfetto sostanzialmente dalle mani della natura, alterandosi non può altro che guastarsi.
Ora la Religione confonde appunto la nostra ragione, gli mostra la sua insufficienza, la corruttela che ha introdotto nell'uomo, e l'impossibilità ch'ell'ha di felicitarci: ed ecco la perfezion della ragione.
Perchè queste cose l'uomo non le avrebbe conosciute nel suo stato primitivo, ma prevaluta la ragione, egli non può giungere a maggior perfezione che di conoscere l'impotenza e il danno della ragione.
La perfezion della ragione consiste a richiamar l'uomo quanto è possibile al suo stato naturale; ritorno ch'essendo fatto mediante quella ragione stessa che ha corrotto l'uomo, ed avendo il suo fondamento in questa medesima corruttrice, non può più equivalere allo stato naturale, nè per conseguenza alla nostra perfezion primitiva, nè quindi proccurarci quella felicità che ci era destinata.
Ma contuttociò, riguardo a questa vita, è la miglior condizione che l'uomo possa sperare.
Ed ecco che la Religione favorisce infinitamente [408]la natura, come ho detto in parecchi altri luoghi, stabilisce moltissime di quelle qualità ch'eran proprie degli uomini antichi o più vicini alla natura, appaga la nostra immaginazione coll'idea dell'infinito, predica l'eroismo, dà vita, corpo, ragione e fondamento a mille di quelle illusioni che costituiscono lo stato di civiltà media, il più felice stato dell'uomo sociale e corrotto insanabilmente, stato dove si concede tanto alla natura, quanto è compatibile colla società.
Osservate infatti che lo stato di un popolo Cristiano, è precisamente lo stato di un popolo mezzanamente civile.
Vita, attività, piaceri della vita domestica, eroismo, sacrifizi, amor pubblico, fedeltà privata e pubblica degl'individui e delle nazioni, virtù pubbliche e private, importanza data alle cose, compassione e carità ec.
ec.
Tutte le illusioni che sublimavano gli antichi popoli, e sublimano il fanciullo e il giovane, acquistano vita e forza nel Cristianesimo.
Esempio della Spagna fino al 1820.
del suo eroismo contro i francesi ec.
Le sue stesse superstizioni non erano altro che illusioni, e però vita.
Osservate ancora che tutto quello che v'è di meno della civiltà media nello stato di un popolo, è contrario al Cristianesimo, o deriva da corruzione di esso, come nello stato de' bassi tempi, della Spagna ec.
Perchè il Cristianesimo puro, conduce, anzi equivale a una sufficiente e giusta civiltà, quanta nè più nè meno conviene all'uomo sociale.
D'altra parte osservate che nessun popolo al di qua della civiltà media, nessun popolo al di là, è stato mai cristiano, e viceversa nessun popolo cristiano veramente, è stato mai al [409]di qua nè al di là della civiltà media.
Le società o barbare assolutamente, o corrotte e barbare per corruzione, sono incivilite dal Cristianesimo, e portate al detto stato di civiltà media.
Esempio de' popoli barbari convertiti dalla predicazione del Vangelo.
All'opposto le società eccessivamente incivilite, e strettamente ragionevoli, (come anche gl'individui) non sono state mai cristiane.
Esempio de' nostri tempi.
In luogo delle qualità dette di sopra, i distintivi di queste società, sono l'egoismo, la morte, il tedio, l'indifferenza, l'inazione, la mala fede pubblica e privata, l'assenza di ogni eroismo, sacrifizio, virtù, di ogni illusione ispirata dalla natura nello stato primitivo, o sviluppatasi naturalmente nello stato sociale; di ogni illusione che forma la sostanza e la ragione della vita, e ch'essendo ispirata dalla natura è confermata dal Cristianesimo.
8° La detta perfezion della ragione è relativa a questa vita.
Ma la ragione non può esser perfetta se non è relativa all'altra vita.
Perchè quel richiamarci ch'ella deve fare alla natura, e alle illusioni naturali, essendo un richiamo fatto dalla ragione, non può esser altro che persuasione di esse illusioni.
Dopo ch'esse son conosciute, come ci torneremmo, se non [410]ci persuadessimo di nuovo che fossero vere? Un ritorno della ragione, non ragionato, ma solamente volontario, non può esser che vano, istabile e passeggero, come quello de' moderni filosofi sensibili, che cercando a più potere di riprendere le illusioni perdute, ci riescono, al più, momentaneamente, e del resto passano la vita nella freddezza, indifferenza e morte.
Dopo la cognizione pertanto, non possiamo tornare alle illusioni, cioè ripersuadercene, se non conoscendo che son vere.
Ma non son vere se non rispetto a Dio e ad un'altra vita.
Rispetto a Dio ch'è la virtù, la bellezza ec.
personificata; la virtù sostanza, e non fantasma, come nell'ordine delle cose create.
Rispetto a un'altra vita, dove la speranza sarà realizzata, la virtù e l'eroismo premiato ec.
dove insomma le illusioni non saranno più illusioni ma realtà.
Dunque la perfezion della ragione (tanto rispetto a questa come all'altra vita, perchè ho mostrato che la perfezione rispetto a questa vita dipende dalla perfezione rispetto all'altra) consiste formalmente nella cognizione di un altro mondo.
In questa cognizione dunque consiste la perfezione, e quindi la felicità dell'uomo corrotto.
Dunque l'uomo corrotto non poteva esser perfezionato nè felicitato se non dalla rivelazione, ossia dalla Religione.
Ed ecco strettamente [411]dimostrato e dichiarato come all'uomo corrotto sia necessaria quella cognizione, ch'era contraria alla natura dell'uomo primitivo; e come il Cristianesimo divinizzando la ragione e il sapere, non si opponga al mio sistema che divinizza la natura nemica della ragione e del sapere.
9° L'esperienza conferma che l'uomo qual è ridotto, non può esser felice sodamente e durevolmente (quanto può esserlo quaggiù) se non in uno stato (ma veramente) religioso, cioè che dia un corpo e una verità alle illusioni, senza le quali non c'è felicità, ma ch'essendo conosciute dalla ragione, non possono più parer vere all'uomo, come paiono agli altri viventi, se non per la relazione e il fondamento e la realtà che si suppongano avere in un'altra vita.
A questo effetto contribuirono anche le Religioni antiche, il Maomettismo, le sette d'ogni genere, e tutte quelle opinioni che hanno dato vita a un popolo o ad una società, e indottala ad operare.
Riferite a questo tutto quello che ho detto altrove della necessità di una persuasone per condurre alle azioni, e di una persuasione che abbia l'aspetto d'illusione e di passione, ec.
Giacchè la persuasione che tutto sia nullo, non conduce all'azione.
E la persuasione che le cose sieno cose, non può [412]aver fondamento nè ragione, se non se nell'idea e persuasione di un'altra vita.
Ma questa ci deve persuadere: dunque bisogna che la religione ci persuada, e non si può essere indifferenti circa la sua qualità e verità.
Altrimenti se la Religione si considera e si segue come una delle altre illusioni, questa non sarà più persuasione, e tanto le altre illusioni, quanto questa, mancheranno di nuovo del loro fondamento, e non ci potranno quindi condurre all'azione durevole, alla perfezione, alla felicità.
Ecco perchè la Religione si trova presso la culla di tutti i popoli; ecco perchè gl'imperi o stati fondati o conservati dalle opinioni religiose, sono distrutti dalla filosofia; ecco perchè la decadenza di Roma fu compagna della decadenza della sua Religione ec.
ec.
V.
gli altri pensieri.
Perchè indebolendoo mancando le credenze Religiose, indebolisce, o manca il principio di azione, cioè la credenza alle illusioni, o sia la persuasione della realtà delle cose, le quali non possono essere reali ed importanti se non rispetto ad un'altra vita.
E nello stesso modo, mancando quella tal Religione che realizza quelle tali illusioni, manca quel tale stato di un popolo, e la sostituzione di un'altra Religione, non riconduce quello stesso stato, anzi lo cambia.
E così avvenne del Cristianesimo rispetto al paganesimo in Roma.
Perchè l'uomo credendo [413](non dico conoscendo ma credendo) diversamente, opera diversamente.
Quindi resta giustificata anzi lodata la gelosia che gli antichi politici greci e Romani manifestarono sempre per le loro antiche credenze, colle quali doveva mancare e mancò il loro stato.
10° Dal sopraddetto segue che il Cristianesimo non prova che la verità assoluta non sia indifferente per l'uomo, non prova che la felicità dell'uomo consista nel conoscere.
Col prevaler della ragione e del sapere, l'uomo non potendo più credere quello che credeva naturalmente, bisognava ch'egli tornasse a crederlo mediante questa medesima ragione e questo sapere che non si poteva più estinguere.
La cognizione del vero gli era dunque necessaria, non come indirizzata al vero, ma come solo fonte di quella credenza che gli bisognava per riacquistare quella felicità che la stessa cognizione gli avea tolta.
Verità o errore, bastava ed importava solamente che l'uomo credesse quelle cose, senza le quali non poteva esser felice.
Ma l'errore l'avrebbe potuto credere stabilmente nello stato naturale, nello stato di ragione, non poteva credere stabilmente altro che il vero.
Bisognava dunque ch'egli trovasse verità reali in quelle opinioni e in [414]quei giudizi che formano e servono di base alla vita umana.
Ma queste opinioni e giudizi, non poteva trovarli realmente veri, se non supposta una Religione, e una Religion vera, cioè universalmente e stabilmente credibile.
Ecco dunque come la ragione non poteva condurre alla felicità senza la rivelazione.
La verità non era necessaria all'uomo in quanto verità, ma in quanto stabile credibilità.
Ora la verità sola è stabilmente credibile nello stato di ragione e di sapere.
E l'uomo senza credenza stabile, non ha stabile motivo di determinarsi, quindi di agire, quindi di vivere.
Ma siccome la verità era necessaria all'uomo, soltanto come unico fondamento di quelle credenze che sono necessarie alla sua vita, perciò tutta quella parte di verità che non serve di fondamento a queste credenze, è indifferente all'uomo, anzi nociva, anche nello stato presente di corruzione.
Al contrario di quello che accadrebbe se la felicità dell'uomo o naturale o corrotto dovesse necessariamente consistere nella cognizione assoluta; il cui oggetto essendo la verità assolutamente, nessuna minima verità sarebbe indifferente all'uomo, e l'uomo sarebbe infelice finchè non avesse conosciuta tutta la generale e particolare estensione della verità, perch'egli prima di questo punto, non sarebbe arrivato alla [415]sua perfezione.
Al qual punto però gli è formalmente impossibile di arrivare, come ho detto altrove.
V.
p.385-386.
e p.389-390.
Dove che la Religione, avendo insegnato all'uomo quelle verità che realizzano le credenze necessarie alla sua felicità, non solo non insegna, o suppone le altre verità, ma anzi, come ho detto di sopra, e come prova l'esperienza, non c'è maggior nemico della Religione che un secolo pieno di cognizioni.
E la Religion Cristiana si adatta e si deve adattare alla capacità dell'ignorante, e conviene, anzi trova il suo miglior posto nell'ignoranza delle altre verità.
Le quali anche astraendo dalla religione, pregiudicano alla felicità dell'uomo, quantunque già ragionevole, perchè non sono altro che un'estensione di questa ragione e sapere che distruggono la umana felicità, e un più vasto eccidio di quelle opinioni e illusioni parziali, che anche dopo prevaluta la ragione, possono esser credute stabilmente, se il sapere, l'esperienza ec.
non si applicano parzialmente a sradicarle, cioè finchè dura l'ignoranza parziale.
La quale può occupare maggiore o minore spazio, e quanto più ne occupa tanto più l'uomo è felice.
P.e.
le scoperte geografiche sono indifferenti alla religione.
Ma geometrizzando l'idea del mondo, distruggono quelle belle illusioni che ancora restavano a causa dell'ignoranza parziale intorno a questo capo.
[416]E la perfezione della ragione non consiste nella cognizione di queste verità, perchè non consiste nella cognizione della verità in quanto verità, ma in quanto stabile fondamento delle credenze necessarie o utili alla vita.
E ci deve richiamare alla natura o alla felicità naturale per una strada diversa dalla primitiva, la quale è irrevocabilmente perduta.
Ora se alcune delle dette credenze hanno già un fondamento stabile nell'ignoranza parziale, la ragione e il sapere, distruggendole nuocono alla nostra felicità, e non corrispondono alla loro perfezione la quale consiste in richiamarci alla natura.
Laddove scoprendo queste verità parziali ch'erano stabilmente nascoste, ci allontanano maggiormente dalla natura, e quindi dalla felicità.
V.
p.420.
capoverso 1.
11° Il mio sistema non si fonda sul Cristianesimo, ma si accorda con lui, sicchè tutto il fin qui detto suppone essenzialmente la verità reale del Cristianesimo: ma tolta questa supposizione il mio sistema resta intatto.
Frattanto osserverò che il Cristianesimo legandosi col mio sistema può supplire a spiegare quella parte della natura delle cose che nel mio sistema resta intatta, ovvero oscura e difficile.
1.
L'origine del mondo e dell'uomo, che [417]mediante il Cristianesimo resta spiegata colla creazione.
2.
Col Cristianesimo resta spiegato perchè l'uomo sia così facile a perdere il suo stato primitivo, e non si trovi, si può dir, popolo nè individuo che perfettamente conservi questo stato, ch'io predico pel solo perfetto, felice, destinatogli, e proprio suo: laddove tutti gli altri viventi appresso a poco (escluse alcune cause accidentali, e provenienti per lo più dall'uomo) conservano il loro primo stato.
(Sebbene si potrebbero forse addurre parecchi esempi di nazioni che conservano quasi interamente lo stato naturale, e ne sono felici e contente: nè hanno se non quanta società conviene ai loro bisogni, come ne hanno gli animali; peraltro con quel di più che conviene alla nostra specie, a causa dell'organizzazione, specialmente riguardo agli organi della favella.
Anche gli animali hanno più o meno società, proporzionatamente alla natura rispettiva, e le scimie più degli altri, perchè più si accostano alla nostra organizzazione).
Questo fenomeno si può naturalmente spiegare colla diversità dell'organizzazione, la quale in noi è tale che ci dà somma facilità di sperimentare, e quindi conoscere, e quindi alterare il nostro primo stato: giacchè l'esperienza è la sola madre della cognizione [418]e del sapere, come anche delle immaginazioni determinate (non della facoltà immaginativa): e questo in tutti i viventi: essendo riconosciute per favola le idee assolutamente innate.
Così forse anche la nostra diversa organizzazione interna, come del cervello ec.
Ma da questa spiegazione si potrebbe conchiudere che l'uomo dunque, in vece d'essere il primo degli enti nell'ordine delle cose terrestri, è anzi l'infimo, perch'è il più facile a perdere la sua felicità, ossia la perfezione; e quasi impossibilitato a conservarla.
(Questa conseguenza già non sarebbe assurda se non per chi si forma della perfezione un'idea assoluta, ossia considera la perfezione assolutamente secondo le nostre idee nello stato presente.
Chi considera la perfezione e ogni altra cosa come relativa, non avrebbe difficoltà di creder l'uomo l'infimo degli enti terrestri).
Il Cristianesimo spiega chiaramente perchè la ragione e il sapere corruttori dell'uomo, siano in lui così facili a prevalere, giacchè attribuisce la cagione originale e radicale della sua corruzione, al peccato, il quale introdusse lo squilibrio fra la ragione e la natura sua, ragione e natura ottimamente equilibrate o subordinate l'una all'altra, insomma combinate negli altri esseri viventi.
Ed è ben conforme alla ragione, e ben verisimile il supporre che Dio volendo manifestare la sua misericordia e tutta la sua gloria alla terra, e avendo scelto [419]di farlo, com'era naturale, nella più nobile delle creature terrestri, abbia voluto assoggettarla ad una prova, e permettere la sua corruzione e infelicità temporale, la quale ha dato luogo a tutta quella manifestazion di Dio, ch'è seguita dall'incremento della ragione umana, alla Redenzione ec.
Manifestazione che non avrebbe avuto luogo se l'uomo avesse conservato il suo grado e felicità naturale, ancorchè più perfetto, relativamente alla sua natura.
Questa supposizione è conforme non solo alla ragione, ma espressamente al Cristianesimo, il quale insegna (e non può altrimenti) che Dio permise il peccato dell'uomo per sua maggior gloria.
Ora, secondo lo stesso Cristianesimo, era certamente meglio che l'uomo non peccasse: ed egli sarebbe rimasto più perfetto e più buono non peccando, e non corrompendosi, e questo gli era destinato primordialmente.
Eppure Iddio permise che peccasse.
Dunque secondo lo stesso Cristianesimo, Dio permise un effettivo male, per un bene: permise una cosa contraria alla destinazione dell'uomo.
Dunque questa destinazione era meno atta alla gloria di Dio, secondo i suoi misteriosi giudizi.
[420]Altrimenti Dio avrebbe permesso un male (e sommo male qual è il peccato) senza motivo: avrebbe lasciato violare e guastare l'ordine da lui stabilito senza motivo; e non avrebbe fatto il meglio ma il peggio.
Così il Cristianesimo aiuta il mio sistema riempiendone le necessarie lagune nelle cose dove non arriva il nostro ragionamento: e di più l'appoggia precisamente; come apparisce dal sopraddetto, massime dalla esposizione di quei luoghi della Genesi, i quali somministrano una formale e stretta dimostrazion religiosa del punto principale del mio sistema, cioè che la corruzione e l'infelicità conseguente dell'uomo, è stata operata dalla ragione e dalla cognizione, (9-15.
Dic.
1820.) e consiste immediatamente nell'esso incremento loro.
Alla p.416.
L'ignoranza parziale può sussistere, come ho detto, anche nell'uomo alterato dalla ragione, anche nell'uomo ridotto in società.
Può dunque servire di stabile fondamento a un maggiore o minor numero di credenze naturali; dunque tener l'uomo più o meno vicino allo stato primitivo, dunque conservarlo più o meno felice.
Per [421]conseguenza quanto maggiore per estensione, e per profondità sarà questa ignoranza parziale, tanto più l'uomo sarà felice.
Questo è chiarissimo in fatto, per l'esperienza de' fanciulli, de' giovani, degl'ignoranti, de' selvaggi.
S'intende però un'ignoranza la quale serva di fondamento alle credenze, giudizi, errori, illusioni naturali, non a quegli errori che non sono primitivi e derivano da corruzione dell'uomo, o delle nazioni.
Altro è ignoranza naturale, altro ignoranza fattizia.
Altro gli errori ispirati dalla natura, e perciò convenienti all'uomo, e conducenti alla felicità; altro quelli fabbricati dall'uomo.
Questi non conducono alla felicità, anzi all'opposto, com'essendo un'alterazione del suo stato naturale, e come tutto quello che si oppone a esso stato.
Perciò le superstizioni, le barbarie ec.
non conducono alla felicità, ma all'infelicità.
V.
p.314.
Quindi è che dopo lo stato precisamente naturale, il più felice possibile in questa vita, è quello di una civiltà media, dove un certo equilibrio fra la ragione e la natura, una certa mezzana ignoranza, [422]mantengano quanto è possibile delle credenze ed errori naturali (e quindi costumi consuetudini ed azioni che ne derivano); ed escludano e scaccino gli errori artifiziali, almeno i più gravi, importanti, e barbarizzanti.
Tale appunto era lo stato degli antichi popoli colti, pieni perciò di vita, perchè tanto più vicini alla natura, e alla felicità naturale.
Le Religioni antiche pertanto (eccetto negli errori non naturali e perciò dannosi e barbari, i quali non erano in gran numero, nè gravissimi) conferivano senza dubbio alla felicità temporale molto più di quello che possa fare il Cristianesimo; perchè contenendo un maggior numero e più importante di credenze naturali, fondate sopra una più estesa e più profonda ignoranza, tenevano l'uomo più vicino allo stato naturale: erano insomma più conformi alla natura, e minor parte davano alla ragione.
(All'opposto la barbarie de' tempi bassi derivata da ignoranza non naturale ma di corruzione, non da ignoranza negativa ma positiva.
Questa non poteva conferire alla felicità, ma all'infelicità, allontanando maggiormente l'uomo dalla natura: se non in [423]quanto quell'ignoranza qualunque richiamava parte delle credenze e abitudini naturali, perchè la natura trionfa ordinariamente, facilmente, e naturalmente quando manca il suo maggiore ostacolo ch'è la scienza.
E però quella barbarie produceva una vita meno lontana dalla natura, e meno infelice, più attiva ec.
di quella che produce l'incivilimento non medio ma eccessivo del nostro secolo.
Del resto v.
in questo proposito p.162.
capoverso 1.
Tra la barbarie e la civiltà eccessiva non è dubbio che quella non sia più conforme alla natura, e meno infelice, quando non per altro, per la minor conoscenza della sua infelicità.
Del rimanente per lo stesso motivo della barbarie de' bassi tempi, è opposta alla felicità e natura, la barbarie e ignoranza degli Asiatici generalmente, barbareschi Affricani, Maomettani, persiani antichi dopo Ciro, sibariti, ec.
ec.
Così proporzionatamente quella della Spagna e simili più moderne ed europee.).
Ma il detto effetto delle antiche religioni non poteva durare, se non quanto durasse la credenza della verità reale di esse religioni: vale a dire, quanto durasse quella tal misura e profondità d'ignoranza che permettesse di credere veramente [424]e stabilmente dette religioni, e gli errori e illusioni naturali che vi erano fondate.
Prevalendo sempre più la ragione e il sapere, e scemando l'ignoranza parziale, quelle religioni più naturali e felici, ma perciò appunto più rozze, non potevano più esser credute, nè servire di fondamento a illusioni reali e stabili, alle azioni che ne derivano, e quindi alla felicità.
Le nazioni pertanto disingannandosi appoco appoco, perdevano colle illusioni ogni vita.
Bisognava richiamare quelle illusioni.
Ma come, se restavano e non potevano più allontanarsi la ragione e il sapere che le avevano distrutte, e la ragione e il sapere erano padroni dell'uomo? (qui osservate gl'inutili sforzi di Cicerone nelle Filippiche, dove si studiava di richiamare le illusioni come illusioni, non più come verità, perchè tali non erano più credute; e com'egli non avendo altro fondamento di esse illusioni, cercava di persuadersi dell'immortalità dell'anima, e del premio delle buone azioni nell'altra vita; insomma proccurava di farsi nuovamente una ragione delle illusioni col mezzo di una tal qual religione, e v.
gli altri pensieri).
Bisognava dunque richiamare quelle illusioni col consentimento, anzi col mezzo della [425]stessa ragione e sapere.
Dico col mezzo, perchè non c'era altro modo di richiamarle, se non tornare a giudicarle vere, e questo giudizio non poteva farlo se non la ragione e il sapere già stabilito.
Ma come quella stessa ragione e sapere che le avevano distrutte, potevano permettere che risorgessero, anzi introdurle di nuovo nell'anima? Sarebbe convenuto che la ragione rinegasse se stessa.
(come conviene ora a qualunque filosofo vuol vivere).
Non c'era altro mezzo se non che una nuova religione, ammessa e creduta per vera dalla ragione, e conforme ai lumi di quel tempo: la qual religione tornasse a far la base delle illusioni perdute: (altrimenti a che valeva nel nostro caso?) in maniera che queste ripigliassero l'aspetto stabile di verità agli occhi degli uomini.
In somma bisognava che questa religione, nuova base delle illusioni naturali e necessarie, fosse il parto della ragione e del sapere.
O parlando cristianamente, bisognava che una espressa rivelazione assicurasse la ragione, che quelle credenze ch'ella aveva ripudiate, erano vere.
Ecco dunque arrivata la necessità di una religione perfettamente ragionevole [426](cioè rivelata, perchè senza il fondamento della rivelazione, come può una perfetta ragione credere o tornare a credere quello che, umanamente parlando, è veramente falso?) o almeno perfettamente conforme a quella tal misura della ragione e sapere di quei tali tempi.
Ed ecco il punto in cui comparve il Cristianesimo, cioè quel momento in cui l'eccessivo progresso della ragione e del sapere, negando tutto o dubitando di tutto (perchè tutto è veramente falso o dubbio senza la rivelazione), spegnendo tutte le illusioni o credenze primitive, gettava l'uomo nell'inazione, nell'indifferenza, nell'egoismo (e quindi nella malvagità); riduceva la vita affatto morta, e barbara di quella orrenda barbarie nella quale, in maggior grado però, siamo caduti in questi ultimi secoli: quel momento in cui la virtù, l'eroismo, l'amor patrio, l'amore scambievole ec.
erano considerati per quei fantasmi che sono (umanamente parlando): quel momento in cui per conseguenza erano rotti tutti i legami sociali, e anche individuali, cioè dell'uomo con se stesso e con la vita: quel momento in cui non solo le illusioni primitive, ma anche quelle che si sviluppano naturalmente nell'uomo ridotto in società, (quali sono quasi tutte le illusioni sopraddette), erano pure estinte: [427]quel momento a cui forse si dee riferire il maggior progresso della setta scettica o Pirroniana.
(V.
Diog.
Laerz.
l.9.
Luciano passim, e Sesto Empirico, i quali furono bensì sotto Aurelio, e Comodo, cioè dopo nato il Cristianesimo, ma non però divulgato, anzi bambino).
Con ciò si potrà spiegare perchè il Cristianesimo fosse rivelato in quel tempo, e non prima nè dopo: e per la pienezza de' tempi famosa nel Vecchio Testamento si potrà ingegnosamente e sodamente intendere quel punto in cui la ragione e il sapere divenuti affatto soverchianti e preponderanti, aveano incominciato una devastazione, e una rivoluzione micidiale nell'uomo, e una mortificazione generale dei popoli colti e degl'individui.
In maniera che quello era il punto in cui (se esiste un Dio che curi le cose umane) una grande rivelazione del vero relativo all'uomo diveniva precisamente, e per la prima volta necessaria.
E il Cristianesimo fece certo un gran bene, e sostenne il mondo crollante, sovvenendo con una medicina composta della ragione, alla malattia mortale cagionata da essa ragione.
Ma appunto perchè la medicina era composta di ragione, e perchè le origini del Cristianesimo furono quelle che ho spiegate, cioè il guasto fatto dalla ragione e la necessità di un rimedio ragionevole, perciò [428]quel rimedio era bensì l'unico applicabile a quei tempi, e giovò, ma relativamente al peggiore stato in cui si era, non a quello anteriore al male.
Giacchè questo era necessariamente più naturale, e quindi più conducente alla felicità di quaggiù.
E infatti la vita, sebben tornò ad esser vita, fu però molto minore, meno attiva, meno bella, meno varia, e precisamente più infelice, giacchè il Cristianesimo non aveva insegnato all'uomo che la vita è ragionevole, e ch'egli deve vivere, se non insegnandogli che deve indirizzar questa ad un'altra vita, rispetto alla quale solamente, è ragionevole questa vita: e che questa sarebbe necessariamente infelice.
Ma il detto effetto non fu colpa del Cristianesimo, ma delle cause che aveano, come si è detto, prodotta la necessità di questo rimedio; cause che presto o tardi doveano necessariamente emergere dall'andamento che avea preso la ragione (ossia dalla superiorità che aveva acquistata, e che dovea naturalmente crescere e portar gli uomini a quel punto) e dallo stato di società, a cui l'uomo era irrevocabilmente ridotto.
Sicchè presto o tardi era indispensabile e certa la nascita del Cristianesimo, o di una [429]Religione ammissibile dalla ragione, anzi prodotta in certo modo da essa, e molto più ragionevole delle antiche le quali non erano conformi nè adattabili se non ad un grado di ragione e di sapere molto minore.
Quindi, posta la corruzione dell'uomo operata dalla ragione e dal sapere, l'uomo doveva necessariamente arrivare una volta, a quella poca felicità di vita, che il Cristianesimo stabilisce dogmaticamente, e anche produce attivamente, ma come seconda e necessaria, non come prima e libera cagione.
Era dico indispensabile presto o tardi il Cristianesimo, posta la corruzione operata dalla ragione, e lo era 1.
umanamente: perchè la ragione prima di arrivare a quell'estremo al quale è giunta oggidì, doveva naturalmente spaventarsi di se stessa; e vedendosi sparir dagli occhi la realtà delle cose, e quindi venirsi a distruggere la vita e il mondo, doveva considerar se stessa come assurda, e concludere che ci doveva esser qualche verità ignota la quale dasse alle cose quella realtà ch'essa non poteva più scoprire nè ammettere.
Quindi anche da se stessa [430]dovea rifugiarsi nel seno di una religione astratta e metafisica, adattata alla sua natura speculativa; di una religione misteriosa, e perciò appunto ragionevole, perchè la realtà delle cose di cui la ragione non poteva persuadersi chiaramente nè particolarmente colle sue forze, veniva stabilita dall'opinione verisimile, e creduta vera, di un Dio infallibile, e rivelatore di arcani, conducenti a stabilire in genere la detta realtà.
Così che la ragione sopra un fondamento oscuro, ma creduto vero, veniva a creder quelle cose, che dall'una parte non poteva credere sopra un fondamento chiaro e dettagliato; dall'altra parte le sembrava ancora assurdo il negare, a dispetto della natura e del sentimento intimo che le asseriva.
Sicchè la ragione anche da se, nel suo corso naturale, prima di distrugger tutto, doveva necessariamente immaginare, e persuadersi di una religion rivelata.
2.
molto più divinamente.
Perchè supposto un Dio, e che questi abbia cura delle sue creature, quando per non veder perire [431]il primo degli enti terrestri, e distruggersi immancabilmente la sua vita quaggiù, o ridursi all'ultima infelicità, non rimase altro mezzo che la credenza di una rivelazione, era troppo conveniente alla sua misericordia l'adoperarlo, e perchè questa credenza fosse stabile e certa, fare che fosse vera, cioè rivelar da vero.
Del resto sebbene io dico che la civiltà media è il migliore stato dell'uomo corrotto e sociale, e che il Cristianesimo lo mette nè più nè meno in questo stato, ciò non contraddice a quello ch'io soggiungo, che l'uomo era più felice prima che dopo il Cristianesimo.
Perchè questo stato di civiltà media può avere diversi gradi, cioè contener più o meno di natura, o di ragione; di credenze naturali o non naturali; e quindi essere più o meno felice.
Ma oggidì non essendo più possibile tornare allo stato di civiltà antica, pel maggiore incremento della ragione, sostengo che il più felice possibile in questa vita, è lo stato di vero e puro Cristianesimo.
V.
poi gli altri miei pensieri circa gli effetti del Cristianesimo (o delle cause che lo produssero) [432]sulla società, sulla qualità e sulla felicità di questa vita.
Del resto osservate che il Cristianesimo limita estremamente l'esercizio della ragione, di quella facoltà distruttrice della vita; di quella facoltà che l'aveva reso necessario; di quella al cui guasto egli è venuto a riparare; di quella che in certo modo l'invocò e lo produsse.
Perchè, tranne alcune proposizioni generali fondamentali, che hanno bisogno della ragione per esser giudicate e credute, vale a dire, l'esistenza, la provvidenza, la manifestazione, e l'infallibilità di un Dio, tutte le altre proposizioni particolari che la religione insegna, sono indipendenti dall'esame e dall'intervento della ragione.
E sebben questa, credendole, e regolando con esse le azioni e la vita, opera ragionevolmente e conseguentemente, in vista di quelle proposizioni generali, contuttociò, l'uso e l'esercizio suo resta scarsissimo nella vita cristiana, limitandosi al solo fondamento, e al solo generale, il quale esclude essenzialmente ogni operazion della ragione in tutti i particolari, che sono il [433]più, e che formano e regolano la vita.
Anche per questo capo il Cristianesimo conduce l'uomo alla civiltà media, ingiungendo l'inazione e l'acciecamento della ragione nella vita, sebbene essa ragione sia la fonte di questa inazione ec.
dipendente dalla persuasione attiva ch'ella ha, delle proposizioni fondamentali.
(18.
Dic.
1820.)
Alla p.398.
Di più, soggiunse Iddio: nunc ergo ne forte mittat manum suam, et sumat etiam de ligno vitae, et comedat, et vivat in aeternum.
(Gen.
3.22.) Dunque il ragionamento è chiaro.
S'egli mangerà del frutto dell'albero di vita, vivrà realmente in eterno: dunque avendo colto e mangiato dell'albero della scienza, aveva realmente acquistato essa scienza.
E Dio non gliel'aveva tolta, perchè nello stesso modo gli poteva togliere l'immortalità, se avesse mangiato dell'albero della vita.
Ora egli tanto non giudicava di togliergli quest'immortalità, nel caso che ne avesse mangiato, che anzi perchè non ne mangiasse (non per il peccato, ma per questo espresso motivo, secondo la chiarissima narrazione della Genesi) lo cacciò dal paradiso, dov'era quell'albero di vita.
Et emisit eum (segue immediatamente [434]la Gen.) Dominus Deus de paradiso voluptatis...
et collocavit ante paradisum voluptatis Cherubim, et flammeum gladium atque versatilem, AD CUSTODIENDAM VIAM LIGNI VITAE.
(23.24.) Vengano adesso i teologi, e mi dicano che la corruzione dell'uomo consistè nella ribellione della carne allo spirito, e nella superiorità acquistata da quella, ossia nell'assoggettamento della parte ragionevole e intellettiva.
Ovvero che questo fu il proprio effetto della corruzione e del peccato.
È vero, e dico anch'io, che allora incominciò quella nemicizia della ragione e della natura ch'io sempre predico, nemicizia che non ha luogo negli altri viventi, provveduti per altro di raziocinio, e del principio di cognizione.
Ma questa nemicizia, questo squilibrio, questo contrasto di due qualità divenute allora incompatibili, provenne e consistè nell'incremento e preponderanza acquistata dalla ragione; e la degradazione dell'uomo non fu quella della ragione nè della cognizione, nè l'offuscazione dell'intelletto.
Anzi dopo il peccato, e mediante il peccato l'uomo ebbe l'intelletto rischiaratissimo, acquistò la scienza del bene e del male, e divenne effettivamente per questa, quasi unus ex nobis, disse Iddio.
[435]Tutto ciò lo dice la Scrittura a lettere cubitali.
Allora insomma la ragione dell'uomo cominciò a contraddire alle sue 1.
inclinazioni, 2.
credenze primitive, cosa che per l'avanti non aveva fatto; e questa fu una ribellione della ragione alla natura, o dello spirito al corpo, non della natura alla ragione nè del corpo allo spirito.
Osservate che il mio sistema è l'unico che possa dare alla narrazion della Genesi, una spiegazione quanto nuova, tanto letterale, facile, spontanea, anzi tale che non può esser diversa, senza o far forza al testo, o considerarlo come assurdo.
E infatti secondo i teologi i quali considerano l'incremento della ragione e sapere come un bene assoluto per l'uomo, e la parte ragionevole come primaria in lui assolutamente ed essenzialmente (non accidentalmente, cioè posta la corruzione); secondo i teologi dico, il senso chiarissimo della Genesi, resta assurdissimo, giacchè pone l'incremento della ragione e l'acquisto della scienza come effetto preciso e diretto del peccato.
Laddove il mio sistema che pone la perfezion vera ed essenziale dell'uomo, nel suo stato primitivo, cioè in [436]quello stato in cui fu creato, ed uscì immediatamente dalle mani di Dio, e la sua corruzione nella preponderanza della ragione e del sapere, trova il senso letterale e incontrovertibile della Genesi, profondissimo, e conforme alla più sublime ed ultima filosofia.
(19.
Dic.
1820.)
Nella Genesi non si trova nulla in favore della pretesa scienza infusa in Adamo, eccetto quello che appartiene ad un certo linguaggio, come ho detto p.394.
fine.
Dio, dice la Genesi, adduxit ea (gli animali) ad Adam, ut videret quid vocaret ea: omne enim quod vocavit Adam animae viventis, (che forse è quanto dire: omnis enim anima vivens, quam vocavit Adam, cioè omne animal vivens) ipsum est nomen eius.
Appellavitque Adam nominibus suis cuncta animantia, et universa volatilia caeli, et omnes bestias terrae.
(Gen.
2.19.
et 20.) Questo non suppone mica una storia naturale infusa in Adamo, nè la scienza di quelle qualità degli animali che non si conoscono senza studio, ma solamente di quelle che appariscono a prima giunta agli occhi, all'orecchio ec.: qualità dalle quali ordinariamente son derivati i nomi di tutti gli oggetti sensibili [437]nei primordi di qualunque lingua; quei nomi dico e quelle parole che formano le radici degl'idiomi.
Del resto sostengo anch'io, anzi fa parte essenziale del mio sistema la proposizione che Adamo ebbe una scienza infusa: ma in questo modo.
Ogni essere capace di scelta, anzi tale che non si può determinare all'azione (neppure a quella necessaria per conservarsi, eccetto le azioni che chiamano hominis, se ce ne ha veramente) e per conseguenza non può vivere, senza un atto elettivo e definito della sua volontà, ha bisogno di credenze, cioè deve credere che le cose siano buone o cattive, e che quella tal cosa sia buona o cattiva, altrimenti la sua volontà non avrà motivo per determinarsi ad abbracciarla o fuggirla, per decidersi a fare o non fare, all'affermativo o al negativo.
E l'uomo e l'animale in questa indifferenza diverrebbe necessariamente come quell'asino delle scuole, di cui vedi p.381.
Le piante e i sassi che non si muovono da se, nè dipendono da se nell'azione e nella vita, non hanno bisogno di credenze, ma l'animale che dipende da se nell'azione e nella vita, ha bisogno di credere, giacchè non c'è altro motivo [438]nè mobile, nè altra forza, (eccetto l'estrinseche) che lo possa determinare, e definirne la scelta.
Qualunque essere non è macchina, ha bisogno di credenze per vivere.
Dunque anche gli animali, se non sono purissime macchine: dunque hanno anch'essi il principio di ragionamento, senza cui non v'è credenza, perchè il credere non è altro che tirare una conseguenza.
Ma io dico credenze, non cognizioni.
L'oggetto della cognizione è la verità; l'oggetto della credenza è una proposizione credibile, e dico credibile relativamente in tutto e per tutto alle qualità generali o individuali, essenziali o accidentali dell'essere che crede, perchè una cosa può esser credibile a una specie o genere, e non ad un'altra; a un individuo di quella specie o genere, e non ad un altro; a questo medesimo individuo oggi, e non domani.
La verità dunque non entra in questo discorso, ma solo bisogna sapere quali determinazioni a credere siano atte a produrre una determinazione ad operare, vantaggiosa (e questo veramente) all'essere pensante e vivente; e perciò quali determinazioni a credere, o sia quali credenze, sieno atte a produrre la sua felicità.
Io dunque dico che queste credenze determinanti l'uomo bene (cioè non altro che convenientemente alla sua propria e particolare essenza), e perciò conducenti [439]alla felicità, sono (come negli altri animali) le credenze ingenite, primitive, e naturali.
In questo modo io sostengo che Adamo ebbe non una scienza propriamente, ma delle credenze infuse: non la cognizione del vero, indifferente per lui, ma delle opinioni credute veramente vere da lui, opinioni di credere il vero (senza di che non v'è credenza), e opinioni veramente convenienti alla sua natura, e alla sua felicità, e quindi conducenti alla perfezione.
E Adamo ne dovette avere necessariamente, come gli altri animali, perchè senza credenze non c'è vita per quegli esseri che dipendono nell'operare dalla determinazione della propria volontà, come ho dimostrato.
Queste credenze ingenite, primitive e naturali, non sono altro se non quello che si chiama istinto, idee innate ec.
Gli animali ne hanno: non si contrasta: ma non perciò non son liberi: se non fossero liberi sarebbono macchine pure: l'istinto non è altro che quello che ho detto, cioè credenze ingenite.
Queste non tolgono la libertà, perchè non fanno altro che determinare la volontà, e non già forzare macchinalmente gli organi: nello stesso modo [440]che una credenza qualunque, o ingenita o acquistata, non toglie la libertà o la scelta all'uomo.
Che il ragionamento necessario per iscegliere sia determinato da principii naturali ed innati, o da principii acquistati colla cognizione, da principii veri, o da principii falsi ma creduti naturalmente veri; questo è indifferente alla libertà, com'è indifferente alla felicità relativa che ne dipende, il vero o il falso assoluto.
E il ragionamento della scelta, è ragionamento nello stessissimo modo, da qualunque principio parta.
Sicchè i bruti hanno istinto e insieme libertà piena.
L'uomo dunque che aveva libertà piena, aveva ancora ed ha tuttavia istinto.
Considerate l'uomo naturale, il fanciullo ec.
e vedrete quante sieno le sue azioni determinate da principii ingeniti, sieno principii di sola credenza, sieno anche di vera cognizione delle cose come sono.
P.e.
il bambino, applicategli le labbra alla mammella, ne succhia il latte senza maestro.
Ma è cosa già osservata, e quanto naturale ad accadere, tanto perciò appunto difficile ad esser notata dai più, e tuttavia degnissima d'esser sempre meglio osservata, che la forza dell'istinto, scema in proporzione che crescono le altre forze determinatrici dell'uomo, cioè la ragione e la cognizione; e così [441]in proporzione che l'uomo si allontana dalla natura, per la società, l'alterazione o sostituzione di altri mezzi a quelli che la natura ci aveva dato per gli stessi fini ec.
ec.
E come l'uomo perde la felicità naturale, così pure, anzi precedentemente, perde la forza attuale dell'istinto, e dei mezzi ingeniti di ottener questa felicità.
Perciò è un vero acciecamento il dire che il bruto ha dalla natura tutta quella istruzione che gli bisogna per esistere: l'uomo no: e dedurne ch'egli dunque ha bisogno di ammaestramento, di società ec.
insomma ch'egli esce imperfetto dalle mani della natura, e conviene che si perfezioni da se.
Anche l'uomo aveva naturalmente tutto il necessario; se ora non sente più d'averlo, viene che l'ha perduto; ha perduto la perfezione volendosi perfezionare, e quindi alterandosi e guastandosi.
Osserviamo l'uomo primitivo, il bambino, e proporzionatamente l'ignorante, e vedremo quanto essi o sappiano di quello che noi abbiamo scoperto; o credano di quello che noi non crediamo più, ma dovevamo credere, e avrebbe servito ai nostri bisogni veramente, ed era l'istrumento che ci conveniva, e che [442]la natura ci avea posto in mano; e sebben falso in assoluto, era vero in relativo, e pienamente sufficiente al suo fine, cioè insomma, alla nostra esistenza perfetta secondo la nostra particolare essenza, e quindi alla nostra felicità.
Ma bisogna ben intendere che cosa siano queste credenze ingenite, o vero istinto, e idee innate.
Idee precisamente innate non esistono in alcun vivente, e sono un sogno delle antiche scuole.
La natura influisce sulle idee o credenze di qualunque animale, non ponendoci identicamente e immediatamente quelle tali idee e credenze, ma mediatamente, cioè disponendo l'animale, e l'ordine delle cose relativo a lui, in tal maniera, che l'animale si determini naturalmente a credere questo e non quello.
Così che la credenza non è neppur essa determinata primitivamente, non più della volontà, ma deve anch'essa determinarsi prima di determinare la volontà.
Ma come le azioni o determinazioni della volontà sono naturali quando vengono da credenze naturali, così le credenze o determinazioni dell'intelletto sono naturali, quando sono conformi al modo in cui la natura avea disposto e provveduto che l'intelletto si determinasse; cioè ai mezzi di credenza che [443]la natura ci ha dati, come nelle credenze ci ha dato i mezzi di azione.
Tutti i moderni ideologi hanno stabilito che le idee o credenze, le più primitive, le più necessarie all'azione la più vitale, e quindi tutte le idee o credenze moventi del bambino appena nato, (e così d'ogni altro animale): tutte le idee o credenze determinanti o non determinanti, cioè relative o no all'azione, non vengono altro che dall'esperienza, e quindi non sono se non tante conseguenze tirate col mezzo di un raziocinio e di un'operazione sillogistica, da una maggiore ec.
(E qui osservate la necessità del raziocinio ne' bruti.)
Questa esperienza che deve necessariamente formare la base o come chiamano, le antecedenti del sillogismo, senza il qual sillogismo non v'è idea nè credenza, può esser di due sorte.
L'una è quella che deriva dalle inclinazioni naturali, passioni affetti ec.
tutte cose veramente ingenite, e assolutamente primitive, sebbene molte di esse possano svilupparsi più o meno, o nulla; possono alterarsi, corrompersi ec.
L'uomo che sente fame (quest'è un'esperienza) e si sente portato dalla natura al cibo (questa non è idea, ma inclinazione), ne deduce che bisogna cibarsi, che il cibo è cosa buona.
Ecco la conseguenza, cioè la [444]credenza.
Dunque si determina e risolve a cibarsi.
Ecco la determinazione della volontà prodotta dalla previa determinazione dell'intelletto, ossia dalla credenza.
Segue il cibarsi, cioè l'azione, che deriva dalla volontà determinata in quel modo.
L'altro genere di esperienza, è quello che appartiene ai sensi esterni.
E l'uno e l'altro genere di esperienza sono i soli fonti della cognizione in atto (non in potenza); i soli fonti o del credere o del sapere.
Qual conseguenza poi si debba tirare da una data esperienza, questo è ciò ch'è relativo, perchè l'uomo naturale, ne tira una; l'uomo sociale, istruito ec.
un'altra; quell'animale di diversa specie, un'altra: e via discorrendo.
E così son relative e si diversificano le credenze.
Sicchè la credenza è naturale, quando l'animale tira da quella esperienza, quella conseguenza che la natura ha provveduto che ne tirasse, e viceversa.
E quindi l'azione che ne deriva è naturale, quando proviene da una credenza naturale, ossia da una conseguenza tirata naturalmente, e viceversa.
E quindi la vita è naturale quando le azioni derivano da credenze naturali, e viceversa.
E quindi finalmente l'uomo è perfetto e felice come ogni altro vivente, quando la sua vita si compone di azioni naturali, e viceversa.
[445]Non sono dunque precisamente innate nè le idee nè le credenze, ma è innata nell'uomo la disposizione a determinarsi dietro quella tale esperienza, inclinazione ec.
a quella tal credenza o giudizio.
E in questo senso io nomino le idee innate e l'istinto.
E così appunto avviene nei bruti, i quali non hanno altre idee innate che in questo senso, e tuttavia generalmente parlando, tutti gli animali della stessa specie, hanno le stesse credenze cioè si determinano a credere nello stesso modo; e operando giusta tali credenze, sono tutti perfetti e felici relativamente alla loro essenza.
Tali credenze pertanto sono effettivamente naturali, e figlie legittime della natura, sebbene non partono immediatamente dalla sua mano.
Ma quod est caussa caussae, est etiam caussa caussati.
Nello stesso modo che le azioni conformi a dette credenze, sono naturali, sebbene eseguite immediatamente dall'individuo, e non dalla natura: sebben libere, e non forzate; come non sono forzate le azioni che derivano da credenze religiose, filosofiche ec.
le quali tuttavia, senza esser forzate, si chiamano e sono azioni religiose, filosofiche ec.
[446]L'uomo si allontana dalla natura, e quindi dalla felicità, quando a forza di esperienze di ogni genere, ch'egli non doveva fare, e che la natura aveva provveduto che non facesse (perchè s'è mille volte osservato ch'ella si nasconde al possibile, e oppone milioni di ostacoli alla cognizione della realtà); a forza di combinazioni, di tradizioni, di conversazione scambievole ec.
la sua ragione comincia ad acquistare altri dati, comincia a confrontare, e finalmente a dedurre altre conseguenze sia dai dati naturali, sia da quelli che non doveva avere.
E così alterandosi le credenze, o ch'elle arrivino al vero, o che diano in errori non più naturali, si altera lo stato naturale dell'uomo; le sue azioni non venendo più da credenze naturali non sono più naturali; egli non ubbidisce più alle sue primitive inclinazioni, perchè non giudica più di doverlo fare, nè più ne cava la conseguenza naturale ec.
E per tal modo l'uomo alterato, cioè divenuto imperfetto relativamente alla sua propria natura, diviene infelice.
(L'uomo può essere anche infelice accidentalmente per forze esterne, che gl'impediscano di conformar le azioni alle credenze, cioè di far quello ch'egli giudica buono per lui, o non far quello ch'egli giudica e crede [447]cattivo.
Tali forze sono le malattie, le violenze fattegli da altri individui, o da altre specie, o dagli elementi ec.
ec.
ec.
Quest'infelicità non entra nel nostro discorso.
Essa è appresso a poco l'infelicità antica.)
Da queste osservazioni deducete che propriamente la nemica della natura non è la ragione, ma la scienza e cognizione, ossia l'esperienza che n'è la madre.
Perchè anche le operazioni e tutta la vita dell'uomo naturale, e degli altri viventi, è perfettamente ragionevole, giacchè deriva da credenze tirate in forma di conseguenza, per via di sillogismo, da quei tali dati.
L'esperienza, crescendo oltre il dovere, cambia, altera, moltiplica soverchiamente le basi di questi sillogismi produttori delle credenze, e quindi alterando dette conseguenze o credenze, fa che non sia più ragionevole il determinarsi a credere quelle tali cose naturalmente credibili, e quindi a fare o fuggire quelle tali cose naturalmente da farsi o da fuggirsi.
Ma la ragione assolutamente in se stessa, è innocente; ed ha la sua intera azione anche [448]nello stato naturale; vale a dire, anche nello stato naturale l'uomo (e così nè più nè meno il bruto) è conseguente, e si determina a credere quello che gli par vero, per via di perfetto raziocinio; e si determina ad abbracciare o fuggire quello che crede veramente buono o cattivo per lui, rispetto alla sua natura generale e individuale, e alle sue circostanze di quel tal momento in cui si determina.
Del resto, come l'indifferenza assoluta, ossia la mancanza di ogni determinazione dell'intelletto, cioè di ogni credenza, sarebbe mortifera per l'animale libero, e dipendente dalla sua propria determinazione; così anche appresso a poco il dubbio, ch'è quasi tutt'uno col detto stato.
Così anche sarà cattiva e dannosa la difficoltà o lentezza al determinarsi (riferite a questo capo l'angoscia e il tormento dell'irresoluzione): e quindi lo stato dell'uomo sarà tanto più felice, quanto egli avrà maggior facilità e prontezza a determinarsi a credere (dal che poi segue l'operare); cioè a tirare una conseguenza da un tal dato; e con quanto maggior forza, ossia certezza, egli si determinerà al credere.
(s'intende già che la credenza sia buona per lui, perchè la supposizione contraria [449]è fuor del caso).
Ora è cosa dimostrata dalla continua esperienza, che l'uomo si determina al credere, tanto più facilmente, prontamente, e certamente, quanto più è vicino allo stato naturale, come appunto accade negli animali, che non hanno nè difficoltà nè lentezza nè dubbio intorno alle loro idee o credenze, innate nel senso detto di sopra.
E così il fanciullo, l'ignorante, ec.
E per lo contrario, quanto più si è lontani dallo stato naturale, cioè quanto più si sa, tanto maggior difficoltà e lentezza si prova alla determinazione dell'intelletto, e tanto minor forza, ossia certezza, ha questa determinazione o credenza.
Così che la certezza degli uomini nel credere (e quindi la determinazione e forza nell'operare, ch'è in ragion diretta colla certezza del credere) è in ragione inversa del loro sapere.
Hoc unum scio, me nihil scire: famoso detto di quell'antico sapiente.
E questa è la conclusione, la sostanza, il ristretto, la sommità, la meta, la perfezione della sapienza.
Laddove il fanciullo e l'ignorante, si può dire che crede di non ignorar nulla: e se non altro, crede di saper di certo tutto quello che crede.
E questa è la sommità dell'ignoranza.
(Onde credendo quello ch'è conforme alla natura, e credendolo in questo modo, ne viene a esser felice e [450]perfetto.) In maniera che, dove alla determinazione dell'uomo, non è necessario, anzi non può servir altro che la credenza; la cognizione la quale si vuol che sola sia capace a determinarlo, viene a esser nemica della credenza, e però della determinazione.
E in vece che l'ignoranza, tal qual è in natura, (non l'assoluta, cioè la negazione di ogni credenza, o determinazione dell'intelletto, che in natura non si dà) conduca l'uomo o l'animale all'indifferenza, come pretendono; ve lo conduce anzi il sapere (e l'eterna esperienza lo prova).
E l'uomo tanto meno, tanto più difficilmente, lentamente, e dubbiamente si determina, quanto più sa.
Tanto minore è la determinazione, quanto maggiore è il sapere.
E tanto è lungi che la credenza sia incompatibile coll'ignoranza, che per lo contrario è molto più compatibile coll'ignoranza che col sapere.
Se poi ancora dubitaste di quello ch'io dico, cioè che in Adamo fu primitivamente infusa la credenza come negli altri animali, e non la scienza propria; basta che osserviate quello che dice la Scrittura, che dopo il peccato egli acquistò la scienza del bene e del male.
La scienza del bene e del male, non è altro che la cognizione assoluta, [451]la credenza vera non più relativamente ma assolutamente, la cognizione delle cose come sono, cioè buone o cattive, non relativamente all'uomo, ma indipendentemente e assolutamente; la cognizione della realtà, della verità assoluta che per se stessa è indifferente all'uomo, e nociva quando il conoscerla è contrario alla natura del conoscente.
Se dunque Adamo l'acquistò dopo il peccato, non l'aveva per l'avanti.
In fatti la Scrittura dice espressamente che non l'aveva, e il serpente persuase alla donna di peccare per acquistarla.
Questo è un argomento vittorioso, ultimo, e decisivo.
Come poteva essere infusa primitivamente la scienza in Adamo, se dopo e mediante il peccato egli acquistò la scienza del bene e del male? E qual fosse l'effetto di questa precisa scienza, vedilo p.446-447.
(22.
Dic.
1820.)
È cosa mille volte osservata che gl'individui naturalmente son portati a misurar gli altri individui da se stessi, cioè a creder vero assolutamente quello ch'è vero soltanto relativamente a loro.
Anzi naturalmente, l'individuo appena può concepire formalmente un altro individuo di diverso carattere, indole, pensare, fare ec.
Al più concepirà che questo sia, perchè lo vede, ma non il come sia, non la espressa e definita costituzione di quell'individuo, diversa dalla sua.
Neanche nelle menome e accidentali differenze, e quotidiane e usuali.
Se dunque gl'individui, quanto più naturalmente le specie e i generi, rispetto alle altre specie e generi! se dunque le specie e i generi di uno stess'ordine di cose, quanto più tutto quest'ordine di cose complessivamente, rispetto a un altr'ordine, o esistente o possibile! [452]Ella è cosa certa e incontrastabile.
La verità, che una cosa sia buona, che un'altra sia cattiva, vale a dire il bene e il male, si credono naturalmente assoluti, e non sono altro che relativi.
Quest'è una fonte immensa di errori e volgari e filosofici.
Quest'è un'osservazione vastissima che distrugge infiniti sistemi filosofici ec.; e appiana e toglie infinite contraddizioni e difficoltà nella gran considerazione delle cose, massimamente generale, e appartenente ai loro rapporti.
Non v'è quasi altra verità assoluta se non che Tutto è relativo.
Questa dev'esser la base di tutta la metafisica.
(22.
Dic.
1820.)
In proposito della pretesa legge naturale, come in natura non esista idea nè legge di contratto, e come non ci possa assolutamente esser contratto obbligatorio in natura, ancorchè fatto realmente, e con tutta la possibile perfezione, vedilo nell'Essai sur l'indifférence en matière de Religion, una ventina di pagg.
dopo il principio del Capo X.
(22.
Dic.
1820.)
Tanto è vero che lo straordinario è fonte di [453]grazia, che gli uomini malvagi, purchè la loro malvagità abbia un carattere deciso, aperto, franco, coraggioso, sia una malvagità schietta forte e costante, non timida, indecisa, nascosta, variabile ec.
come quella di tutti: questi tali fanno per lo più fortuna colle donne a preferenza dei buoni.
Non già solamente perchè i malvagi sono più furbi dei buoni, ma propriamente per questo che sono malvagi, e perchè quel non so che di coraggioso, di fiero ec.
insomma di straordinario che ha quella tale malvagità, picca e piace, e rende amabile.
Così che lo stesso odioso diventa amabile, perciò appunto ch'essendo decisamente odioso, viene a essere straordinario.
(22.
Dic.
1820.)
Clarissimum deinde omnium ludicrum certamen, et ad excitandam (alii legunt exercitandum, sed non probatur) corporis animique virtutem efficacissimum, Olympiorum, initium habuit.
Velleius hist.
rom.
l.1.
c.8.
(22 Dic.
1820.)
Quale idea avessero gli antichi della felicità (e quindi dell'infelicità) dell'uomo in questa vita, della sua gloria, delle sue imprese; e come tutto ciò paresse loro solido e reale, [454]si può arguire anche da questo, che delle grandi felicità ed imprese umane, ne credevano invidiosi gli stessi Dei, e temevano perciò l'invidia loro, ed era lor cura in tali casi deprecari la divina invidia, in maniera che stimavano anche fortuna, e (se ben mi ricordo) si proccuravano espressamente qualche leggero male, per dare soddisfazione agli Dei, e mitigare l'invidia loro.
Deos immortales precatus est, ut, si quis eorum invideret OPERIBUS ac fortunae suae, in ipsum potius saevirent, quam in remp.
Velleio l.1.
c.10.
di Paolo Emilio.
E così avvenne essendogli morti due figli, l'uno 4 giorni avanti il suo trionfo, e l'altro 3 giorni dopo esso trionfo.
E v.
quivi le note Variorum.
V.
pure Dionigi Alicarnasseo l.12 c.20.
e 23.
ediz.
di Milano, e la nota del Mai al c.20.
V.
ancora questi pensieri p.197.
fine.
Così importanti stimavano gli antichi le cose nostre, che non davano ai desideri divini, o alle divine operazioni altri fini che i nostri, mettevano i Dei in comunione della nostra vita e de' nostri beni, e quindi gli stimavano gelosi delle nostre felicità ed imprese, come i nostri simili, [455]non dubitando ch'elle non fossero degne della invidia degl'immortali.
(23.
Dic.
1820.).
V.
p.494.
capoverso 1.
Come in quei popoli che non conoscono o non pregiano oro nè argento, il più ricco de' nostri, profondendo danaio, non sarebbe in onore, anzi se non avesse altro mezzo per esser pregiato, sarebbe posposto all'infimo di quella gente, e per danari non otterrebbe neanche il necessario; così dove l'ingegno o lo spirito non è in pregio, o non si sa valutare, l'uomo il più ingegnoso, il più spiritoso, il più grande, se non avrà altre doti, sarà dispregiato, e posposto agli ultimi.
Così s'egli avrà un certo ingegno o un certo spirito, che in quel paese non si pregi.
Così relativamente ai tempi.
In ciascun luogo e in ciascun tempo, bisogna spendere la moneta corrente.
Chi non è provveduto di questa, è povero, per molto ch'egli sia ricco d'altra moneta.
(23.
Dic.
1820.).
Tityrus et segetes, Aeneiaque arma legentur
Roma triumphati dum caput orbis erit.
Ovid.
Amorum l.1.
Fortunati ambo! si quid mea carmina possunt,
Nulla dies umquam memori vos eximet aevo:
[456]Dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum
Adcolet, imperiumque pater Romanus habebit.
Virg.
Aen.
IX.
446.
sque ego postera
Crescam laude recens, dum Capitolium
Scandet cum tacita virgine pontifex.
Hor.
Carm.
III.
od.30.
v.7.
Roma non è più la Regina del mondo, nè il padre Romano tiene le redini dell'imperio, nè il pontefice ascende più al Campidoglio colla Vestale, e questo da lunghissimo tempo; e tuttavia si leggono ancora i versi di Virgilio, e Niso ed Eurialo non son caduti dalla memoria degli uomini, e dura la fama di Orazio.
La fortuna giuoca nel mondo, e certo questi poeti non s'immaginavano che il tempo dovesse penar più a distruggere i versi loro, che l'immenso e saldissimo imperio Romano, opera di tanti secoli.
Ma quelle carte sono sopravvissute a quella gran mole, per mero giuoco della fortuna la quale ha distrutte infinite altre opere degli antichi ingegni, e conservate queste oltre allo spazio segnato dalla stessa speranza, dallo stesso amor proprio, dalla stessa forza immaginativa de' loro autori.
(23.
Dic.
1820.)
[457]Quanto sia vero che l'amore universale distruggendo l'amor patrio non gli sostituisce verun'altra passione attiva, e che quanto più l'amor di corpo guadagna in estensione, tanto perde in intensità ed efficacia, si può considerare anche da questo, che i primi sintomi della malattia mortale che distrusse la libertà e quindi la grandezza di Roma, furono contemporanei alla cittadinanza data all'Italia dopo la guerra sociale, e alla gran diffusione delle colonie spedite per la prima volta fuori d'Italia per legge di Gracco o di Druso, 30 anni circa dopo l'affare di C.
Gracco, e 40 circa dopo quello di Tiberio Gracco, del quale dice Velleio, (II.
3.) Hoc initium in urbe Roma civilis sanguinis, gladiorumque impunitatis fuit.
col resto, dove viene a considerarlo come il principio del guasto e della decadenza di Roma.
Vedilo l.2.
c.2.
c.6.
c.8.
init.
et c.15.
et l.1.
c.15.
fine.
colle note Varior.
Le quali colonie portando con se la cittadinanza Romana, diffondevano Roma per tutta l'Italia, e poi per tutto l'impero.
V.
in particolare Montesquieu, Grandeur etc.
ch.9.
p.99-101.
e quivi le note.
Ainsi Rome n'étoit pas proprement une Monarchie [458]ou une République, mais la tête d'un corps formé par tous les peuples du monde...
Les peuples...
ne faisoient un corps que par une obéissance commune; et sans être compatriotes, ils étoient tous Romains.
(ch.6.
fin.
p.80.
dove però egli parla sotto un altro rapporto.) Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che Cosmopolita, non si amò nè Roma nè il mondo: l'amor patrio di Roma divenuto cosmopolita, divenne indifferente, inattivo e nullo: e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu più patria di nessuno, e i cittadini Romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto.
(24.
Dic.
1820.)
Quanta parte abbia nell'uomo il timore più della speranza si deduce anche da questo, che la stessa speranza è madre di timore, tanto che gli animi meno inclinati a temere, e più forti, sono resi timidi dalla speranza, massime s'ella è notabile.
E l'uomo non può quasi sperare senza temere, e tanto più quanto la speranza è maggiore.
Chi spera teme, e il disperato non teme nulla.
Ma viceversa la speranza non [459]deriva dal timore, benchè chi teme speri sempre che il soggetto del suo timore non si verifichi.
(26.
Dic.
1820.)
Osservate che la passione direttamente opposta al timore, è la speranza.
E nondimeno ella non può sussistere senza produrre il suo contrario.
Le Filippiche di Cicerone, contengono l'ultima voce romana, sono l'ultimo monumento della libertà antica, le ultime carte dov'ella sia difesa e predicata apertamente e senza sospetto ai contemporanei.
D'allora in poi la libertà non fu più l'oggetto di culto pubblico, nè delle lodi, e insinuazioni degli scrittori (non solo romani, ma quasi possiamo dire di qualunque nazione, se non de' francesi ultimamente.
E infatti colla libertà romana spirò per sempre la libertà delle nazioni civilizzate.) Quelli che vennero dopo, la celebrarono nel passato come un bene, la biasimarono e detestarono nel presente come un male.
I suoi fautori antichi furono esaltati nelle storie, nelle orazioni, nei versi, come Eroi: i moderni biasimati ed esecrati come traditori.
Si alzarono statue e monumenti agli antichi liberali, si citarono, condannarono e proscrissero i moderni.
L'elogio della libertà, per una strana contraddizione, fu permesso ne' discorsi negli scritti e nelle azioni, fino ad un certo tempo.
Passato quel termine, gli scrittori mutano linguaggio, e maledicono nei contemporanei, quello che hanno divinizzato, [460]e divinizzano allo stesso tempo, negli antenati.
Tale è fra gli altri Velleio, grandissimo lodatore degli antichi fatti, libertà ec.
esecratore degli antichi nemici della libertà, e de' moderni amici; lodatore di Nasica ed Opimio uccisori di Tiberio e Caio Gracchi, (uomini per altro, secondo lui, egregi anzi sommi, se non in quanto attentarono alla libertà) ed esecratore della congiura contro Cesare ec.
Perchè appena egli arriva a costui, si cambia scena manifestamente e tutto a un tratto, e il suo linguaggio liberalissimo fino a quel punto, diviene abbiettissimo e servilissimo nel seguito.
Ed è tanto improvvisa e sensibile questa mutazione, ch'egli è anche gran panegirista di Pompeo l'immediato antagonista di Cesare: e di Pompeo repubblicano, perchè lo biasima dovunque egli manca ai doveri verso una patria libera.
(27.
Dic.
1820.).
V.
p.463.
capov.1.
Quelle rare volte ch'io ho incontrato qualche piccola fortuna, o motivo di allegrezza, in luogo di mostrarla al di fuori, io mi dava naturalmente alla malinconia, quanto all'esterno, sebbene l'interno fosse contento.
Ma quel contento placido e riposto, io temeva di turbarlo, alterarlo, guastarlo, e perderlo [461]col dargli vento.
E dava il mio contento in custodia alla malinconia.
(27.
Dic.
1820.)
Alla p.8.
capoverso 1 e p.10.
fine.
Non solamente nelle azioni naturali, o manuali, insomma materiali, ma in tutte quante le cose umane, è necessario l'abbandono o la confidenza: e per lo contrario la diffidenza, o il troppo desiderio, premura, attenzione e studio di riuscire è cagione che non si riesca.
Se tu non hai nulla da perdere ti diporterai franchissimamente nel mondo.
E acquisterai facilmente il buon tratto e la stima, quando non avrai più stima da conservare: o in proporzione.
E viceversa.
Che se ti troverai in un luogo, occasione ec.
dove ti prema assai di figurare, probabilmente sfigurerai.
E se parlando con una persona, ne avrai guadagnata la stima ti costerà moltissimo il non perderla, quando ti sarai accorto di possederla, e ti premerà di conservarla.
La qual cosa succede massimamente nell'amore, o anche nella galanteria, che cercando di conservare, si perde quella stima e quell'amore di una persona che si è guadagnato senza cercarlo.
Così discorrete di cento altri generi di cose.
La natura insomma è la sola potente, e l'arte non solo non l'aiuta, ma spesso la lega; e lasciando [462]fare si ottiene quello che non si può ottenere volendo fare.
La noncuranza dell'esito, e la sicurezza di riuscire è il più sicuro mezzo di ottenerlo, come la troppa cura, e il troppo timore di non riuscire, è cagione del contrario.
Nè si può nelle cose umane acquistar facilmente questa sicurezza, e schivar questo timore, senza una certa noncuranza, o senza esser preparato in alterutram partem.
E perciò i disperati, o quelli che hanno tutto perduto, e niente da perdere nè da conservare, riescono meglio degli altri nella vita.
Nè c'è un disperato così povero e impotente che non sia buono a qualche cosa nel mondo, da che è disperato.
E questo è il motivo per cui naturalmente, e non a caso, audaces fortuna iuvat.
(28.
Dic.
1820.).
Chiunque conosce intimamente il Tasso, se non riporrà lo scrittore o il poeta fra i sommi, porrà certo l'uomo fra i primi, e forse nel primo luogo del suo tempo.
Quanto a, preposizione italiana, usata anche in latino da Tacito, come ho detto in altro pensiero, deriva intieramente dal greco: ???? ????, ???? ??? ???? ec.
si dice nello stesso significato, e negli stessi casi.
[463]Alla p.460.
Se non altro non si potè più nè lodare nè insinuare e inculcare la libertà ai contemporanei espressamente, e la libertà non fu più un nome pronunziabile con lode, riguardo al presente o al moderno.
Quando anche non tutti si macchiassero della vile adulazione di Velleio, e Livio fosse considerato come Pompeiano nella sua storia, e sieno celeberrimi i sensi generosi di Tacito, ec.
Ma neppur egli troverete che, sebbene condanna la tirannia, lodi mai la libertà in persona propria.
Dei poeti, come Virgilio, Orazio, Ovidio non discorro.
Adulatori per lo più de' tiranni presenti, sebben lodatori degli antichi repubblicani.
Il più libero è Lucano.
(28.
Dic.
1820.)
L'egoismo comune cagiona e necessita l'egoismo di ciascuno.
Perchè quando nessuno fa per te, tu non puoi vivere se non t'adopri tutto per te solo.
E quando gli altri ti tolgono quanto possono, e per li loro vantaggi non badano al danno tuo, se vuoi vivere, conviene che tu combatta per te, e contrasti agli altri tutto quello che puoi.
Perchè di qualunque cosa tu voglia cedere, non devi aspettare nè gratitudine nè compenso, essendo abolito il commercio de' sacrifizi e liberalità e benefizi scambievoli: anzi se tu cedi un passo gli altri ti cacciano indietro venti passi, adoperandosi ciascuno per se con tutte le sue forze; onde bisogna che ciascuno [464]contrasti agli altri quanto può, e combatta per se fino all'ultimo, e con tutto il potere: essendo necessario che la reazione sia proporzionata all'azione, se ne deve seguire l'effetto, cioè se vuoi vivere.
E l'azione essendo eccessiva, dev'esserlo anche la reazione.
E quanto l'una è maggiore, tanto l'altra dee crescere necessariamente.
Come in una truppa di fiere affollate intorno a una preda, dove ciascuna è risoluta di non lasciare alle altre se non quanto sarà costretta; quella fiera che o restasse inattiva, o cedesse alle altre, o aspettasse che queste pensassero a lei, o finalmente non adoperasse tutte le sue forze; o resterebbe a digiuno, o perderebbe tanto, quanto meno forza avesse adoperata, o potuto adoperare.
Tutto quello che si cede è perduto, posto il sistema dell'egoismo universale.
Anche per altra parte, questo egoismo cagiona l'egoismo individuale, cioè non solo per l'esempio, ma pel disinganno che cagiona in un uomo virtuoso, la trista esperienza della inutilità, anzi nocevolezza della virtù e de' sacrifizi magnanimi: e per la misantropia che ispira il veder tutti occupati per se stessi, e non curanti del vostro vantaggio, non grati ai vostri benefizi, e pronti a danneggiarvi o beneficati o no.
[465]La qual cosa cambia il carattere delle persone, e introduce non solo materialmente, ma radicalmente l'egoismo, anche negli animi più ben fatti.
Anzi principalmente in questi, perchè l'egoismo non vi entra come passione bassa e vile, ma come alta e magnanima, cioè come passione di vendetta, e odio de' malvagi e degl'ingrati.
Si nocentem innocentemque idem exitus maneat, acrioris viri esse, merito perire: diceva Ottone Imp.
appresso Tacito Hist.
l.1.
c.21.
(2.
Gen.
1821.).
V.
p.607.
fine.
Velleio II.
76.
sect.3.
Adventus deinde in Italiam Antonii, praeparatusque (cioè apparatusque substantive) Caesaris contra eum, habuit belli metum: sed pax contra Brundisium composita.
Che vuol dire contra Brundisium? Gl'interpreti si storcono, e chi legge circa, chi difende la volgata.
Leggete: sed pax contra Brundisii composita.
Contra è avverbio.
Si temeva la guerra, ma all'incontro fu fatta la pace a Brindisi.
V.
però gl'istorici, e le edizioni di Velleio, posteriori a quella del Burmanno seconda e postuma, Lugd.
Bat.
1744.
ap.
Sam.
Luchtmans.
(2.
Gen.
1821.).
Post Brundisinam pacem.
Vel.
II.
86.
sect.3.
[466]Sopra ogni dolore d'ogni sventura si può riposare, fuorchè sopra il pentimento.
Nel pentimento non c'è riposo nè pace, e perciò è la maggiore o la più acerba di tutte le disgrazie, come ho detto in altri pensieri.
(2.
Gen.
1821.).
V.
p.476.
capoverso 1.
È cosa notata e famosa presso gli antichi (non credo però gli antichissimi, ma più secoli dopo Senofonte) che Senofonte non premise nessun preambolo alla ??????????????, sebbene dal secondo libro in poi, premetta libro per libro, il Laerzio dice un proemio, ma veramente un epilogo o riassunto brevissimo delle cose dette prima.
Vedi il Laerz.
in Xenoph.
Luciano, de scribenda histor.
ec.
E Luciano dice che molti per imitarlo non ponevano alcun proemio alle loro istorie.
Ed aggiunge, ???????????????????????(potentiâ) ????????????????????????????????????????.
Io qui non vedo maraviglia nessuna.
Esaminate bene quell'opera: non è una storia, ma un Diario o Giornale (si può dire, e per la massima parte militare) di quella Spedizione.
Infatti procede giorno per giorno, segnando le marce, contando le parasanghe ec.
ec.
infatti l'opera si chiude con una lista effettiva o somma dei giorni, spazi percorsi, nazioni ec.
lista indipendente dal resto, per la sintassi.
E di queste enumerazioni ne [467]sono sparse per tutta l'opera.
Non doveva dunque avere un proemio, non essendo propriamente in forma d'opera, ma di Commentario o Memoriale, ossiano ricordi, e materiali.
Chi si vuol far maraviglia di Senofonte, perchè non se la fa di Cesare? Il quale comincia i suoi Commentari de bello G.
e C.
ex abrupto, appunto come Senofonte.
E questo perchè non erano Storia ma commentari.
Nè pone alcun preambolo a nessuno de' libri in cui sono divisi.
Così Irzio.
Eccetto una specie di avvertimento indirizzato a Balbo e premesso al lib.8.
de b.
G.
(il quale era necessario non per l'opera in se, ma per la circostanza, ch'egli n'era il continuatore) nè quel libro, nè quello de b.
Alexandrino, nè quello de b.
Africano, nè quello d'autore incerto de b.
Hispaniensi non hanno alcun preambolo, ed entrano subito in materia.
Da queste osservazioni deducete 1.
un'altra prova che Senofonte è il vero autore della K.
A.
non Temistogene ec.
trattandosi di un giornale, che non poteva essere scritto o almeno abbozzato se non in praesentia, e dallo stesso Generale (come i commentarii di Cesare), o almeno da qualche suo intimo confidente.
Questa proprietà, di essere cioè scritta da un testimonio di [468]vista, anzi dal principale attore e centro degli avvenimenti non è comune a nessun'altra opera storica greca, che ci rimanga, anzi a nessun'antica, fuorchè ai commentarii di Cesare.
Perciò ella è singolarmente preziosa anche per questo capo, e propria più delle altre a darci la vera idea de' costumi, pensieri, natura degli antichi, e de' loro fatti; come le lettere di Cicerone in altro genere di scrittura, sono la più recondita e intima sorgente della storia di quei tempi.
V.
p.519.
capoverso 2.
2.
Che poco saggiamente Arriano volle scrivere l'???????????(?(??????(in 7.
libri perchè 7.
son quelli di Senofonte) a imitazione della detta opera.
Perch'egli non poteva scrivere, nè scrisse, nè intese o pensò di scrivere un giornale.
Quindi le due opere sono essenzialmente di diverso genere, cioè l'una un diario, l'altra una storia.
Meno male Onesicrito, in quello che scrisse d'Alessandro a imitazione pure di Senofonte.
Perch'egli fu compagno di Alessandro nella sua spedizione, come Senofonte di Ciro.
V.
il Laerz.
l.6.
in Onesicrito.
Del resto, se la storia ?????????? di Senofonte non ha proemio, ciò viene perch'era destinata a continuare e far tutto un corpo con quella di Tucidide.
Infatti gli antichi notando la mancanza del proemio nella K.
A.
non parlano di quest'altra.
[469]E v.
le ultime parole ??? ????????? e Dionigi Alicarnasseo nelle testimonianze de Xenophonte.
È osservabile che Senofonte in quest'altra opera riesce minor di se stesso, perchè si sforza d'imitar Tucidide, e ciò servilmente, volendo che il suo stile non si distinguesse da quello di Tucidide, e le due opere sembrassero tutt'una.
E tanto peggio, quanto lo stile di Tucidide è quasi l'opposto di quello ch'era proprio di Senofonte.
Infatti chi ha un poco di criterio, può facilmente notare nei libri ??? ?????????.
una brevità forzata, una differenza sensibile dallo stile delle altre opere Senofontee, uno studio impotente di esser efficace, rapido, forte ec.
Cosa contraria all'indole di Senofonte: e v.
Cicerone nei testimoni de Xenophonte ec.
e Dionigi Alicarnasseo parimente nelle testimonianze de Xenophonte.
Anzi nelle stesse frasi, parole, modi, insomma nell'esterno e materiale dello stile, Senofonte abbandona spesso il suo costume per seguir quello di Tucidide, così che anche l'esteriore dello stile riesce alquanto nuovo a chi ha l'orecchio assuefatto alle altre opere di Senofonte.
Fino nell'ortografia, Senofonte volendo assomigliarsi a Tucidide, scrive (contro quello che suole nelle altre [470]opere) ??? per ???, e così nei composti dov'entra questa preposizione: consuetudine ch'io credo familiare a Tucidide.
(2.
Gen.
1821.)
Quello che si è detto di sopra intorno ai proemi particolari di ciascun libro K.
A.
eccetto il primo, non è vero nel 6to...
il quale non ha proemio nessuno.
Se non che il capo 3.
cominciando con un breve epilogo, ho creduto lungo tempo che i due capi precedenti appartenessero al 5 libro, e il sesto cominciasse col 3zo capo.
E però vero che il detto epilogo non rinchiude se non le cose dette ne' due capi antecedenti, e non tutto il detto nella parte superiore dell'opera, come ciascun altro proemio premesso ai diversi libri.
(3.
Gen.
1821.)
La natura non è perfetta assolutamente parlando, ma la sola natura è grande, e fonte di grandezza.
Perciò tutto quello che è, o si accosta al perfetto, secondo la nostra maniera astratta di considerare, non è grande.
Osservatelo in tutte le cose: nelle opere di genio, poesia, belle arti ec.
nelle azioni, nei caratteri, nei costumi, nei popoli, nei governi ec.
Un uomo perfetto, non è mai grande.
Un uomo grande, non è mai perfetto.
[471]L'eroismo e la perfezione sono cose contraddittorie.
Ogni eroe è imperfetto.
Tali erano gli eroi antichi (i moderni non ne hanno); tali ce li dipingono gli antichi poeti ec.
tale era l'idea ch'essi avevano del carattere eroico; al contrario di Virgilio, del Tasso ec.
tanto meno perfetti, quanto più perfetti sono i loro eroi, ed anche i loro poemi.
(3.
Gen.
1821.)
Venga un filosofo, e mi dica.
Se ora si trovassero le ossa o le ceneri di Omero o di Virgilio ec.
il sepolcro ec.
quelle ceneri che merito avrebbero realmente, e secondo la secca ragione? Che cosa parteciperebbero dei pregi, delle virtù, della gloria ec.
di Omero ec.? Tolte le illusioni, e gl'inganni, a che servirebbero? Che utile reale se ne trarrebbe? Se dunque, trovatele, qualcuno, le dispergesse e perdesse, o profanasse disprezzasse ec.
che torto avrebbe in realtà? anzi non oprerebbe secondo la vera ed esatta ragione? Come dunque meriterebbe il biasimo, l'esecrazione degli uomini civili? E pur quella si chiamerebbe barbarie.
Dunque la ragione non è barbara? Dunque la civiltà dell'uomo sociale e delle nazioni, non si fonda, non si compone, non consiste essenzialmente negli errori e nelle illusioni? Lo stesso [472]dite generalmente della cura de' cadaveri, dell'onore de' sepolcri ec.
(3.
Gen.
1821.)
Velleio II.
98.
sect.2.
Quippe legatus Caesaris triennio cum his bellavit; gentesque ferocissimas, plurimo cum earum excidio, nunc acie, nunc expugnationibus, in pristinum pacis redegit modum; ejusque patratione, Asiae securitatem, Macedoniae pacem reddidit.
Eiusque patratione a che si riporta? Spiegano eiusque pacis Patratione (così l'indice Velleiano).
Ottimamente: fatta la pace, o con quella PACE, rendè LA PACE alla Macedonia.
Leggo: eiusque belli patratione, (4.
Gen.
1821.), ovvero eiusque patratione belli.
V.
p.477.
capoverso 2.
Non solo la facoltà conoscitiva, o quella di amare, ma neanche l'immaginativa è capace dell'infinito, o di concepire infinitamente, ma solo dell'indefinito, e di concepire indefinitamente.
La qual cosa ci diletta perchè l'anima non vedendo i confini, riceve l'impressione di una specie d'infinità, e confonde l'indefinito coll'infinito; non però comprende nè concepisce effettivamente nessuna infinità.
Anzi nelle immaginazioni le più vaghe e indefinite, e quindi le più sublimi e dilettevoli, l'anima sente espressamente una certa angustia, una certa difficoltà, un certo desiderio insufficiente, un'impotenza decisa di abbracciar tutta la misura di quella sua [473]immaginazione, o concezione o idea.
La quale perciò, sebbene la riempia e diletti e soddisfaccia più di qualunque altra cosa possibile in questa terra, non però la riempie effettivamente, nè la soddisfa, e nel partire non la lascia mai contenta, perchè l'anima sente e conosce o le pare, di non averla concepita e veduta tutta intiera, o che creda di non aver potuto, o di non aver saputo, e si persuada che sarebbe stato in suo potere di farlo, e quindi provi un certo pentimento, nel che ha torto in realtà, non essendo colpevole.
(4.
Gen.
1821.)
Velleio II.
90.
sect.4.
ut quae maximis bellis numquam vacaverant, eae sub C.
Antistio, ac deinde P.
Silio legato, ceterisque, postea etiam latrociniis vacarent.
Leggo, ceterisque postea, etiam etc.
Parla delle Spagne.
Velleio II.
102.
sect.2.
Mox in conloquium (cui se temere crediderat) circa Artageram graviter a quodam, nomine Adduo vulneratus.
Come non si ha da correggere: in conloquio?
Del vigore del corpo, quanto influisca sopra l'animo, e in genere come lo stato dell'animo corrisponda a quello del corpo, v.
alcune sentenze degli antichi nella nota del Grutero a Velleio II.
102.
sect.2.
[474]Di un francese di nazione o di costume, ch'a ogni tratto si buttava in ginocchio avanti alle donne.
Se raccontava loro, poniamo caso, una storietta galante, o una nuova di gazzetta, e quelle non ci credevano, per dimostrazione, per supplicarle a credere, come per impetrar fede o credenza, si buttava in ginocchio.
(5.
Gen.
1821.)
Dai tempi di Giulio Cesare in poi, Velleio nel tracciare, come suole, i caratteri delle persone illustri che descrive, trovate spessissimo che dopo aver detto come quel tale era pazientissimo de' travagli e de' pericoli, attivo nei negozi, vigilante al bisogno, atto alla guerra, o ai maneggi politici, soggiunge poi, che nell'ozio era molle ed effeminato, o almeno si compiaceva anche dell'ozio, e dei diletti pacifici, e insomma delle frivolezze, e che tanto era pigro e voluttuoso nell'ozio, quanto laborioso diligente e tollerante nel negozio.
V.
il libro II.
c.88.
sect.2.
c.98.
sect.3.
c.102.
sect.3.
c.105.
sect.3.
Dappertutto fa menzione dell'ozio, e sempre li trova inclinati anche a questo e non poco, sebbene sieno gli uomini più attivi di quel secolo.
Cosa ignota agli antichi Eroi romani, i quali nell'ozio non trovavano nè potevano trovare nessun piacere.
E infatti questo lineamento [475]nei ritratti sbozzati da Velleio non si trova prima del detto tempo che fu l'epoca della decisa e sviluppata corruzione de' Romani.
Di Lucullo e di Antonio è cosa ben nota in questo proposito.
(Di Scipione Emiliano parla bensì Velleio riguardo all'ozio, 1.13.
sect.3.
ma molto diversamente.) Notate dunque gli effetti dell'incivilimento e della corruzione.
Notate quanto ella porti per sua natura all'inazione, all'ozio, e alla pigrizia: che anche gli uomini più splendidi e attivi, in questa condizione della società, inclinano naturalmente all'inazione.
La causa è il piacere che nell'antico stato di Roma non si poteva trovar nell'ozio, e perciò l'uomo desiderando il piacere e la vita si dava necessariamente all'azione: e così accade in tutte le nazioni non ancora o mediocremente incivilite.
La causa è pure l'egoismo, per cui l'uomo non si vuole scomodare a profitto altrui, se non quanto è necessario, o quanto giova a se stesso.
La causa è la mancanza delle illusioni, delle idee di gloria, di grandezza di virtù di eroismo, ec.
tolte le quali idee, deve sottentrar quella di non far nulla, lasciar correre le cose, e godere del presente.
La causa [476]per ultimo nelle monarchie (come sotto Augusto) è la mancanza non solo delle illusioni, ma del principio di esse, non solo della vita dell'animo, ma della vita delle cose, cioè la mancanza di cose che realizzino e fomentino queste illusioni; la difficoltà o impossibilità di far cose grandi o importanti, e di essere o considerarsi come importante; la nullità, o piccolezza, e ristretta esistenza del suddito ancorchè innalzato a posti sublimi.
Del resto paragonate questo tratto del carattere Romano a quei tempi, col carattere francese oggidì, nazione snervata dall'eccessiva civiltà, col carattere de' loro uomini più insigni per l'azione; e ci troverete un'evidente conformità.
(5.
Gen.
1821).
V.
p.620.
fine.
e 629.
capoverso 1.
Alla p.466.
pensiero 1.
Quippe ita se res habet, ut plerumque, qui fortunam mutaturus Deus, (Voss.
leg.
cui fortunam.
al.
delent ?? qui, et melius) consilia corrumpat, efficiatq., QUOD MISERRIMUM EST, ut quod accidit, etiam merito accidisse videatur, et casus in culpam transeat.
Velleio II.
118.
sect.4.
(6.
Gen.
1821.)
Non punir mai l'ingiuria che non hai meritata, nè lasciare impunita quella che hai meritata.
[477]Perdona al tuo calunniatore, punisci il tuo detrattore.
Non far caso di chi ti schernisce a torto, ma piglia vendetta di chi ti motteggia a ragione.
(7.
Gen.
1821.)
Alla p.375.
principio.
In questo proposito, la differenza o dell'ingegno o del giudizio, si può vedere in Livio, il quale è il poeta della storia, poeta vero e grande, e degno di servir di studio e di maestro ai poeti; e nondimeno è il modello splendidissimo della più perfetta prosa.
Laddove costoro, e pessimi prosatori, (7.
Gen.
1821.) e non perciò migliori poeti ordinariamente.
V.
p.526.
capoverso 1.
Alla p.472.
Tanto più che quella guerra, come consistente in domar popoli affatto barbari, non pare che fosse finita con trattato, nè con altri mezzi artifiziali, ma solamente con quel semplice fine che deriva dalla forza.
V.
Floro IV.
12.
sect.17.
e Dione LIV.
34.
p.764-765.
dove nella nota 316.
citandosi questo passo di Velleio, pare che si sia letto appunto nel modo ch'io suggerisco.
(8.
Gen.
1821.)
Velleio I.
2.
sect.2.
di Codro: Immixtusque castris hostium, de industria, imprudenter, rixam ciens, [478]interemptus est.
È vero che, secondo la storia o la favola, Codro fu ucciso imprudenter, cioè senza sapere ch'egli fosse il Re degli Ateniesi e v.
il passo di Val.
Mas.
citato nelle note a questo luogo.
Ma che razza di costruzione è questa? De industria si riferisce al rixam ciens che vien dopo l'imprudenter; l'imprudenter all'interemptus est che vien dopo il rixam ciens.
Chi traspone e legge, de ind.
rix.
ciens, impr.
inter.
est.
Chi emenda oltracciò, de ind., ab imprudente, rix.
ciens, inter.
est.
A me pare che il luogo sia chiarissimo, la costruzione piana e facile, togliendo la virgola dopo de industria e dopo imprudenter, e trasportandola dopo hostium.
Giacchè il de industria, non ha nè deve aver niente che fare coll'immixtusq.
castris host.
il che già s'intende ch'era fatto de industria; ma solo col rixam ciens.
Ma ille imprudenter? grida il Lipsio.
Signor sì, de industria imprudenter, con istudiata imprudenza, pensatamente incauto.
Ed è una delle solite antitesi e giuocherelli Velleiani.
Imprudenter per imprudentemente, incaute, improvide si usa benissimo da ottimi scrittori.
(come imprudens, imprudentia, e così prudenter ec.) Il Forcellini cita Terenzio, [479]Nepote, Cesare.
(8.
Gen.
1821.)
Il veder morire una persona amata, è molto meno lacerante che il vederla deperire e trasformarsi nel corpo e nell'animo da malattia (o anche da altra cagione).
Perchè? Perchè nel primo caso le illusioni restano, nel secondo svaniscono, e vi sono intieramente annullate e strappate a viva forza.
La persona amata, dopo la sua morte, sussiste ancora tal qual'era e così amabile come prima, nella nostra immaginazione.
Ma nell'altro caso, la persona amata si perde
affatto, sottentra un'altra persona, e quella di prima, quella persona amabile e cara, non può più sussistere neanche per nessuna forza d'illusione, perchè la presenza della realtà, e di quella stessa persona trasformata per malattia cronica, pazzia, corruttela di costumi ec.
ec.
ci disinganna violentemente, e crudelmente: e la perdita dell'oggetto amato non è risarcita neppur dall'immaginazione.
Anzi neanche dalla disperazione, o dal riposo sopra lo stesso eccesso del dolore, come nel caso di morte.
Ma questa perdita è tale, che il pensiero e il sentimento non vi si può adagiar sopra in nessuna maniera.
[480]Da ogni lato ella presenta acerbissime punte.
(8.
Gen.
1821.)
Che il nostro pensare non sia altro che il pensare latino, perduto il significato proprio, e conservato il metaforico di ponderare col pensiero, come appunto il ponderare latino e italiano oggidì non ritiene se non la significazione traslata di considerare o meditare; e come gli antichi latini adoperassero veramente il loro pensare in maniera similissima alla presente italiana, vedilo in una nota dell'Heinsio a Velleio II.
129.
sect.2.
Consulta ancora il Forcellini, e l'Appendice.
Naturale nella maniera che noi ed i francesi lo sogliamo adoperare frequentemente: è naturale che questo succeda; il est bien naturel ec.
si adoperava anche in latino, sebbene i Lessicografi non l'abbiano osservato (nè il Forcellini, nè l'Appendice).
Asconio in Orat.
contra L.
Pison.
Argumento: Sed ut ego ab eo dissentiam, facit primum, quod Piso etc.
deinde, quod magis NATURALE est, ut in ipso recenti reditu invectus sit in Ciceronem (Piso), responderitque insectationi eius, qua revocatus erat ex provincia, quam [481](in altra edizione trovo prius quam, e vorrebbe dire potius quam, o magis quam, nel qual significato prius quam si trova in ottimi esempi appresso il Forcellini: e notate anche qui la somiglianza coll'italiano prima che, avanti innanzi anzi che, per piuttosto che; e similmente più presto che ec.) post anni intervallum.
Questo esempio è veramente notabile e forse unico ne' buoni scrittori.
V.
però la nota del Burmanno alle prime parole della sezione 4.
del capo 128.
lib.
II.
di Velleio, dove peraltro ?????????????????????.
(9.
Gen.
1821.)
Quanta sia la forza d'immaginazione nei fanciulli, e com'ella sia tale che le concezioni derivatene nella prima età, influiscono grandemente anche nel resto della vita, si può vedere ancora in questa osservazione minuziosa.
Noi da fanciulli per lo più concepiamo una certa idea, un certo tipo di ciascun nome di uomo: e la natura di questo tipo deriva dalle qualità delle prime o a noi più cognite e familiari persone che hanno portato quei tali nomi.
Formatoci nella fantasia questo tipo (il quale ancora corrisponde alle circostanze particolari di quelle persone relativamente [482]a noi, alle nostre simpatie, antipatie ec.) sentendo dare lo stesso nome ad un'altra persona diversa da quella su cui ci siamo formati il detto tipo, noi concepiamo subito di quella persona un'idea conforme al detto tipo.
E il nome può essere elegantissimo, e quella tal persona bellissima: se quel tipo è stato da noi immaginato e formato sopra una persona odiosa o brutta; anche quell'altra bellissima, ci pare che di necessità debba esser tale: almeno troviamo una contraddizione tra il nome e il soggetto; o proviamo una ripugnanza a credere quel soggetto diverso da quel tipo e da quell'idea ec.
Così viceversa e relativamente alle varie qualità dei nomi e delle persone.
Ed anche da grandi, e dopo che l'immaginazione ha perduto il suo dominio, dura per lungo tempo e forse sempre questo tale effetto, almeno riguardo ai primi momenti, e proporzionatamente alla forza dell'impressione ricevuta da fanciulli, e dell'immagine concepita.
Io da fanciullo ho conosciuto familiarmente una Teresa vecchia, e secondo che mi pareva, odiosa.
Ed allora e oggi che son grande provo una certa ripugnanza a persuadermi che il nome di Teresa possa appartenere [483]ad una giovane, o bella, o amabile: o che quella che porta questo nome, possa aver questa qualità: e insomma sentendo questo nome, provo sempre un impressione e prevenzione sfavorevole alla persona che lo porta.
E ordinariamente l'idea che noi abbiamo dell'eleganza, grazia, dolcezza, amabilità di un nome, non deriva dal suono materiale di esso nome, nè dalle sue qualità proprie e assolute, ma da quelle delle prime persone chiamate con quel nome, conosciute o trattate da noi nella prima età.
Anche però viceversa potrà accadere che noi da fanciulli concepiamo idea della persona, dal nome che porta, massime se si tratta di persone lontane, o da noi conosciute solamente per nome: e giudichiamo della persona, secondo l'effetto che ci produce il nome, col suono materiale, o col significato che può avere, o con certe relazioni con altre idee.
E questo ci avviene ancora da grandi, sia per conseguenza dell'idea concepita nella fanciullezza, sia anche assolutamente: perchè è certo che noi non ascoltiamo il nome, ovvero il cognome di persona a noi tanto ignota, che sopra quella denominazione non ci [484]formiamo una tal quale idea sì dell'esterno che dell'interno di quella persona.
Idea più o meno confusa, più o meno viva, secondo le circostanze; ma ordinariamente chiarissima e vivissima ne' fanciulli, sebbene per lo più falsissima.
E massimamente i fanciulli (sempre lontani dall'indifferenza), secondo questa idea, si determinano all'odio o all'amore, a un certo genio o contraggenio verso quelle tali persone, non conosciute se non per nome.
(10.
Gen.
1821.)
Non si è mai letto di nessun antico che si sia ucciso per noia della vita, laddove si legge di molti moderni, e v.
il Suicidio ragionato di Buonafede.
Nè perchè questo accade oggidì massimamente in Inghilterra, si creda che questo fosse comune in quel paese anche anticamente, senza che ne rimanga memoria.
Dai poemi di Ossian si vede quanto gli antichi abitatori di quel paese fossero lontani dal concepire la nullità e noia necessaria della vita assolutamente; e molto più dal disperarsi e uccidersi per questo.
Gli antichi Celti e gli altri antichi si uccidevano per disperazioni [485]nate da passioni e sventure, non mai considerate come inevitabili e necessarie assolutamente all'uomo, ma come proprie dell'individuo, perciò disgraziato e infelice, e disperantesi.
La disperazione e scoraggimento della vita in genere, l'odio della vita come vita umana (non come individualmente e accidentalmente infelice), la miseria destinata e inevitabile alla nostra specie, la nullità e noia inerente ed essenziale alla nostra vita, in somma l'idea che la vita nostra per se stessa non sia un bene, ma un peso e un male, non è mai entrata in intelletto antico, nè in intelletto umano avanti questi ultimi secoli.
Anzi gli antichi si uccidevano o disperavano appunto per l'opinione e la persuasione di non potere, a causa di sventure individuali, conseguire e godere quei beni ch'essi stimavano ch'esistessero.
(10.
Gen.
1821.)
[486]Il desiderio di mettere gli altri a parte delle proprie sensazioni (o piacevoli o dispiacevoli come ho detto in altri pensieri) si può notare massimamente, ed ha tanto maggior forza quanto ciascun individuo è più vicino alla natura.
I fanciulli non lo possono frenare in nessun modo, tanto che per amore, per preghiere, o per forza d'importunità, [487]non communichino ai circostanti, o a quelli ch'essi vanno a cercare a posta, quei piaceri, quei dispiaceri, in somma quelle sensazioni notabili, e per loro alquanto straordinarie, che hanno sperimentato o sperimentano; come udendo una buona o cattiva musica, o suono o canto di qualunque sorta, che li colpisca: vedendo qualunque oggetto che faccia loro impressione ec.
e tanto in bene quanto in male.
Gli uomini poi più rozzi e ignoranti e incolti, e generalmente il volgo, non si può tenere che in simili circostanze, non gridi al vicino, vedi vedi, senti senti.
E questa esclamazione è così naturale che anche in una gran moltitudine presente allo stesso spettacolo ec.
tutti o moltissimi esclameranno lo stesso, senza o essere ascoltati da nessuno in particolare, o anche curarsi precisamente di farsi udire da questo o da quello.
Ma nessuno si può tenere dall'esclamare in quel modo, dando evidente indizio della inclinazione naturale che li porta al desiderio e voglia di partecipare.
E osservate che questa esclamazione si pronunzia bene spesso anche [488]nella solitudine e senza nessuno uditore, quando l'uomo provi simili sensazioni in tal circostanza: e noi diciamo vedi e senti quando anche non c'è chi possa vedere o sentire, e cerchiamo così in tutti i modi di soddisfare illusoriamente una voglia che non può essere soddisfatta realmente.
E sebben questo accade tanto più, quanto l'individuo tiene del primitivo, e tanto più frequentemente, quanto più spesso egli è suscettibile di maravigliarsi, o di provar sensazioni forti e vive; contuttociò è frequentissimo anche negli uomini più colti ec.
e basterebbe fare attenzione per vedere quanto spesso ci avvenga nella giornata senza che noi ce ne accorgiamo.
Ci avvenga, dico, o in solitudine e fra noi stessi, o in compagnia.
Ed io non credo che vi sia uomo sì taciturno, e nemico del parlare, del conversare, e del communicarsi altrui, che provando una sensazione straordinariamente forte e viva, non sia costretto quasi suo malgrado, o senza riflessione, e senza avvedersene, a prorompere in simili esclamazioni, dinotanti il desiderio e l'intenzione di communicare e far parte altrui di ciò ch'egli prova.
(10 Gen.
1821.)
[489]Floro I.
8.
Haec est prima aetas populi Romani et quasi infantia, quam habuit sub regibus septem, quadam fatorum industria.
Tam variis ingenio, ut Reipublicae ratio et utilitas postulabat.
Quel quadam fatorum industria a che ha relazione? All'avere avuto il popolo Romano una prima età ovvero un'infanzia? Cosa veramente straordinaria e bisognosa di molto ingegno dei destini.
Leggi continuamente, quadam fatorum industria tam variis ingenio ec.
perchè le dette parole non si possono riportare se non a queste che seguono; e queste dipendono intieramente da quelle.
V.
però
le ultime ediz.
di Floro.
(11.
Gen.
1821.)
Floro I.
12.
Veientium quanta res fuerit, indicat decennis obsidio.
Tunc primum hiematum sub pellibus: taxata stipendio hiberna: adactus miles sua sponte iureiurando, "nisi capta urbe remeare." Spolia de Larte Tolumnio rege ad Feretrium reportata.
Denique non scalis, nec irruptione, sed cuniculo, et subterraneis dolis peractum urbis excidium.
[490]Tutto questo fa un periodo solo, e non va distinto se non colle minori interpunzioni.
L'hiematum sub pellibus, il taxata hiberna, l'adactus miles, lo spolia reportata, il peractum excidium, non istanno da se, ma dipendono dal Veientium quanta res fuerit, indicat; come apparisce sì dalle cose stesse, come quello che Floro soggiunge immediatamente: Ea denique visa est praedae magnitudo, cuius decimae Apollini Pythio mitterentur: universusque populus Romanus ad direptionem urbis vocaretur.
HOC TUNC VEII FUERE.
Le quali parole chiudono la dimostrazione dell'antica grandezza e forza di Veio.
V.
però le ult.
edizioni di Floro.
(11 Gen.
1821.)
?????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????; disse quella vecchia fantesca a Talete caduto in una fossa mentre andava contemplando le stelle.
(Laerz.
1.34.
in Thalete.) [491]?O???? ??? ????? ?????????????, ? ???????, (dum coelum suspiceret.
Ficin.) ??? ??? ????????, ??????? ??? ?????, (in foveam.
id.) ??????? ??? ??????? ??? ???????? ???????? (Thracia quaedam eius ancilla concinna et lepida.
id.) ????????? ???????, ?? ?? ??? ?? ?????? ?????????? ???????,(pervidere contenderet.
id.), ?? ?? ????????? ????? ??? ???? ?????, ???????? ?????.
????? ?? ?????, (obiici potest.
id.
aptius, cadit, convenit) ?????? ??? ?????? ???? ?? ????????? ????????? (in philosophia versantur.
id.) Platone nel Teeteto, ? ???? ?????????, alquanto prima della metà.
(p.127.
f.
Lugduni 1590.) E v.
il Menag.
ad Laert.
I.
34.
E Diogene Cinico si maravigliava ????????...
???? ???????????( (cioè gli astronomi) ????????? ??? ???? ??? ????? ??? ??? ???????, ?? ?? ?? ???? ???????? ???????? (Laerz.
VI.
28.
in Diogene Cynico.).
Tutto questo si può dire non solo dei sapienti ma degli uomini in generale, e compiangere non solo l'impotenza del sapere umano, non solo il cattivo giudizio nello scegliere, cioè il [492]curarsi delle cose poste fuori della nostra sfera, e a noi straniere, e lasciar le vicine, e importanti per noi; ma anche la cecità, la miseria, l'inutilità, la dannosità del sapere umano: quando tutte le cose che noi dovevamo sapere, ed ancora che possiamo sapere, sono veramente ?????????????????????????????, e finalmente la sommità, l'ultimo grado del sapere, consiste in conoscere che tutto quello che noi cercavamo era davanti a noi, ci stava tra' piedi, l'avressimo saputo, e lo sapevamo già, senza studio: anzi lo studio solo e il voler sapere, ci ha impedito di saperlo e di vederlo; il cercarlo ci ha impedito di trovarlo.
E guardando in alto per informarci delle cose nostre, che ci stavano tra' piedi visibilissime, chiarissime, e ordinatissime, non le abbiamo vedute, e non le vediamo; e siamo per conseguenza caduti e cadiamo in tante fosse, primieramente di errori, secondariamente, che peggio è, di mali e infelicità.
Quanto non si è studiato, che cosa non si è consultata, quali confronti non si son fatti, quali rapporti non osservati, quali secreti, quali misteri [493]scoperti o cercati di scoprire, quante scienze, quante arti, quante discipline inventate, quante istituzioni fatte, o politiche o morali o religiose ec.
per iscoprire la nostra origine, i nostri destini, la natura delle cose, l'ordine universale, la nostra felicità! Ma noi eravamo felici naturalmente, e tali quali eravamo nati, l'ordine delle cose era quello nè più nè meno che ci stava innanzi agli occhi, quello ch'esisteva prima dei nostri studi i quali non hanno fatto altro che turbarlo; la natura era quella che noi sentivamo senza studiarla, trovavamo senza cercarla, seguivamo senza osservarla, ci parlava senza interrogarla: il bene e il male era veramente quello che noi credevamo naturalmente tale: i nostri destini erano quelli ai quali correvamo naturalmente, come il fiume al mare: la verità reale era quella che sapevamo senz'avvedercene, e senza pensare o credere di sapere.
Tutto era relativo, e noi abbiamo creduto tutto assoluto: noi stavamo bene come stavamo, e perciò appunto ch'eravamo fatti così; ma noi abbiamo cercato il bene, come diviso dalla nostra essenza, [494]separato dalla nostra facoltà intellettiva naturale e primigenia, riposto nelle astrazioni, e nelle forme universali.
Si è ricorso al cielo e alla terra, ai sistemi i più difficili (siano chimerici o sodi), in milioni di guise, per trovare quella felicità, quella condizione conveniente a noi, nella quale eravamo già stati posti nascendo: e non s'è trovata, se non quanto si è potuto conoscere ch'ella era appunto quella che avevamo prima di pensare a cercarla.
(12.
Gen.
1821.)
Hic sive invidia deum, sive fato, rapidissimus procurrentis imperii cursus parumper Gallorum Senonum incursione subprimitur.
Floro I.
13.
principio, entrando a raccontare la prima guerra gallica.
Floro 1.
13.
ed.
Manhem.
Adeo tum quoque in ultimis religio publica privatis adfectibus antecellebat.
Perchè tum quoque? Forse ne' tempi seguenti, e massime in quelli di Floro, cioè di Traiano, la religione pubblica fu più a cuor de' Romani, che ne' primi tempi di Roma? O non più tosto ella venne indebolendo a proporzione del tempo, e all'età di Floro, era, si può dire, estinta nel fatto? [495]E non solo ai Romani, ma a tutti i popoli è sempre avvenuto e avviene lo stesso.
Questa era cosa confessata da tutti anche allora, e la somma religiosità dell'antica Roma era notissima e famosissima.
Leggi: Adeo tum in ultimis quoque: allora anche nell'infima plebe la religione pubblica prevaleva alle affezioni private, laddove in seguito fu tutto l'opposto.
Io credo però che in ultimis l'abbiano inteso per in ultimis rebus o casibus, negli estremi frangenti, e così abbiano spiegato: Tanto anche in quel tempo, cioè nell'ultima calamità.
Male.
In ultimis vuol dire negl'infimi, come apparisce dalle parole di Floro che precedono.
V.
il Forcellini, e le ult.
ediz.
di Floro.
V.
p.510.
capoverso 2.
Floro 1.
13.
avendo detto che i Romani distrussero la gente dei Galli Senoni in maniera che hodie nulla Senonum vestigia supersint, soggiunge con breve intervallo: ne quis exstaret in ea gente, quae incensam a se Romam urbem gloriaretur.
Che vada letto qui per quae non par da dubitare, e sarà già osservato.
Ma e così, [496]e in ogni modo, come avea da restare alcuno in quella gente, se questa era tutta distrutta? Leggo: ex ea gente: acciò non restasse nessuno DI quella gente.
Chiunque ha senso o di latinità o solamente di ragione, conoscerà che la preposizione in qui non ha luogo.
(12.
Gen.
1821.)
Chiunque è sommo in qualsivoglia professione per triviale o leggera o poco rilevante ch'ella sia, certo è che poteva esser grande in altra professione di più alto affare.
Perchè non si arriva alla perfezione in veruna cosa per piccola ch'ella sia, senza molta e singolare virtù, forza, capacità, facilità, e idoneità d'indole e d'ingegno.
(13.
Gen.
1821.)
Dicono e suggeriscono che volendo ottener dalle donne quei favori che si desiderano, giova prima il ber vino, ad oggetto di rendersi coraggioso, non curante, pensar poco alle conseguenze, e se non altro brillare nella compagnia coi vantaggi della disinvoltura.
Voltaire consiglia scherzosamente di bere, per dimenticare o liberarsi dall'amore.
[497]Ou bien buvez: c'est un parti fort sage.
Non so quanto bene.
Il vino, ossia la forza del corpo, come ho detto altrove, ed è vero, sebbene inclini all'allegrezza, e sopisca i dolori dell'animo, contuttociò dà risalto alle passioni dominanti o abituali di ciascheduno.
Bensì le rallegrerà, e darà speranza anche allo sventurato o disperato in amore.
V.
p.501 capoverso 1
Favella e favellare derivano evidentemente da fabula e fabulari mutato al solito il b in v, come da fabula diciamo pure favola; onde è come se dicessimo fabella e fabellare.
Qui non c'è niente di notabile o strano: la cosa va da se, e sarà stata notata da tutti gli Etimologi.
Ma che ha da far la favella e il favellare col favoleggiare e colle favole? Qui appunto consiste il singolare e l'osservabile in questa derivazione.
Perocchè l'antico e primitivo significato di fabula, non era favola, ma discorso, da for faris, quasi piccolo discorso, onde poi si trasferì al significato di ciancia [498]nugae, e finalmente di finzione e racconto falso.
Appunto come il greco ????? nel suo significato proprio, valeva lo stesso che ?????, verbum dictum oratio sermo colloquium, e da Omero non si trova, cred'io, adoperato se non in questa o simili significazioni, così esso come i suoi derivati.
Poi fu trasferito alla significazione di favola.
Il detto senso di fabula, fabulator, fabulo, fabulor, confabulor etc.
è evidente negli scrittori latini di tutti i buoni secoli, massime però ne' più antichi e più puri.
V.
il Forcellini in tutte queste voci.
Ma dopo, e massimamente ne' bassi tempi il significato usuale e comune di fabula nelle scritture non era altro che favola.
E tuttavia la nostra lingua ha ritenuto espressamente questa parola (la quale, come ho detto, è la stessa nostra di favella) nel suo antichissimo, primitivo e proprio valore.
Certo non è andata a pescare questo significato nelle antichissime memorie, e nei primi scrittori.
Bisogna dunque che la detta significazione tal qual era da principio sia pervenuta di mano in mano, e conservata e continuata senza [499]interruzione fino alla nascita e alle origini della nostra lingua.
Ora ciò non può essere stato se non per mezzo del volgo latino; tanto più che gli scrittori, quando anche avessero conservata in uso la detta significazione sino all'ultimo, non avrebbero mai potuto essi soli comunicarla al volgo, e renderla volgare, usuale, comune, propria e primitiva in una lingua nascente, quando il significato più comune di quella parola fose stato un altro.
E tale era infatti appresso gli scrittori.
Del resto come ????? e fabula vuol dire al tempo stesso discorso e favola, e da quel primo significato fu trasferito al secondo così viceversa nella nostra lingua novella e novellare, dal significato di favola o racconto, trasferiti a quello di ciance o di favella, hanno parimente nel tempo stesso il valore di favola e di discorso.
V.
la Crusca.
(13.
Gen.
1821.).
V.
p.871.
fine.
La fecondità e istabilità e velocità della immaginazione e concezione (vera o falsa, che [500]ciò non monta) ne' fanciulli, apparisce ancora da una osservazione che ho fatta in quelli che trovandosi in età di mezzana fanciullezza (6.
7.
8.
anni, o cosa simile), e sapendo già tanto e più di lingua da potere infilare un discorso, nondimeno sebbene sieno loquaci, anzi quanto più sono loquaci, (il che è segno di fecondità) tanto più esitano e stentano, nel fare un discorso continuato, un racconto ec.
Ho dunque notato che ciò non deriva principalmente dalla difficoltà di trovare o combinar le parole (anzi come ho detto, i più loquaci sono più soggetti a questo: i meno loquaci riescono molto meglio in un discorso abbastanza lungo e seguìto); ma dalla moltiplicità delle idee che si affollano loro in mente.
Onde non sanno scegliere, si confondono, saltano di palo in frasca, mutano anche totalmente e improvvisamente soggetto; i loro discorsi non hanno nè capo nè coda, e avendo incominciato colla testa dell'uomo, finiscono colla coda del pesce.
Quanta dunque non dev'essere l'attività interna, la moltiplicità delle occupazioni ancorchè disoccupatissimi, la facilità di distrarsi, e alleggerire o spegnere [501]i pensieri o le sensazioni dolorose, la varietà, e nel tempo stesso la vivacità delle immagini e concezioni (giacchè ciascuna è capace di strapparli intieramente da quella che presentemente gli occupa); in somma la vita dell'animo, e per conseguenza la felicità de' fanciulli anche i meno felici rispetto alle circostanze esteriori!
Alla p.497.
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Amorem sedat fames; sin minus, tempus:
Eis vero si uti non vales, laqueus.
Detto di Crate Cinico presso il Laerzio (VI.
86.
in Cratete Thebano) mentovato anche da altri scrittori, e riferito con qualche diversità da Stobeo, e da Suida.
V.
il Menagio e l'Aldobrandini.
(13.
Gen.
1821.).
Come gl'italiani per proprietà di lingua dicono muovere in maniera neutra per muoversi, andare, camminare ec.
così fra' latini, oltre i citati dal Forcellini, Floro 1.
13.
Sed quod ius apud barbaros? ferocius agunt.
Movent, et inde certamen.
Parla dei Galli Senoni conversis a Clusio, Romamque venientibus, come [502]soggiunge immediatamente.
E II.
8.
quum ingenti strepitu ac tumultu movisset ex Asia (Antiochus).
(14.
Gen.
1821.) V.
Sveton.
in D.
Julio c.60.1.
e quivi le note degli eruditi.
Come dice Dante Quinci si va, CHI vuole andar per pace, idiotismo assai comune e usitato nella nostra lingua, così anche i latini.
Floro II.
15.
sul principio: Atque SI QUIS trium temporum momenta consideret, primo commissum bellum, profligatum secundo, tertio vero confectum est.
Parla delle 3.
guerre Puniche.
(14.
Gen.
1821.).
Più manifesto, e conforme all'uso italiano è questo idiotismo (vero idiotismo, perchè non è locuzioneregolare, anzi falsa secondo la dialettica e la costruzione) in Orazio Od.
16.
l.
.2.
v.13.
VIVITUR parvo bene, CUI paternum ec.
cioè si cui (che neppur essa sarebbe locuzione regolarissima) ma è omesso il si, come appunto in italiano.
Floro II.
15.
Sed huius caussa belli (tertii Punici) (scil.
fuit), quod contra foederis legem (Carthago) adversus Numidas quidem semel parasset classem et exercitum, frequens autem Masinissae fines territabat.
Sed huic bono socioque regi favebatur.
Questa enallage o transizione da parasset a territabat qui non conviene.
Trovo però in altre edizioni territaret.
Ma di più quel quidem e quell'autem sono particelle avversative, o disgiuntive.
Ma come ora si legge, queste particelle non possono servire, ed effettivamente non servono ad altro, che a distinguere i Numidi da Massinissa.
[503]Laddove erano la stessa cosa, e contro Massinissa era stato quel preparativo di Cartagine che Floro dice contro i Numidi.
V.
gli storici.
Leggo: Masinissa (v.
però gli Storici, se ciò è vero di lui) e volentieri ancora trasferirei il quidem dopo semel.
La cagione di questa guerra fu che contro i patti Cartagine aveva una volta preparato esercito e flotta contro i Numidi.
Massinissa però frequentemente (vedete il frequens autem opposto al semel quidem, e così mi pare che debba essere in qualunque modo si voglia intendere questo luogo, perchè l'adversus Numidas quidem che opposizione o forza disgiuntiva ha con frequens autem?) infestava i di lei confini.
Ma (notate quel ma, che intendendo il luogo in altro senso, non istà convenientemente) i Romani favorivano questo buono e alleato principe.
(14.
Gen.
1821.)
In luogo che un'anima grande ceda alla necessità, non è forse cosa che tanto la conduca all'odio atroce, dichiarato, e selvaggio contro se stessa, e la vita, quanto la considerazione della necessità e irreparabilità de' suoi mali, infelicità, disgrazie [504]ec.
Soltanto l'uomo vile, o debole, o non costante, o senza forza di passioni, sia per natura, sia per abito, sia per lungo uso ed esercizio di sventure e patimenti, ed esperienza delle cose e della natura del mondo, che l'abbia domato e mansuefatto; soltanto costoro cedono alla necessità, e se ne fanno anzi un conforto nelle sventure, dicendo che sarebbe da pazzo il ripugnare e combatterla ec.
Ma gli antichi, sempre più grandi, magnanimi, e forti di noi, nell'eccesso delle sventure, e nella considerazione della necessità di esse, e della forza invincibile che li rendeva infelici e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato, e bestemmiavano gli Dei, dichiarandosi in certo modo nemici del cielo, impotenti bensì, e incapaci di vittoria o di vendetta, ma non perciò domati, nè ammansati, nè meno, anzi tanto più desiderosi di vendicarsi, quanto la miseria e la necessità era maggiore.
Di ciò si hanno molti esempi nelle storie.
Il fatto di Giuliano moribondo, non so se sia storia o favola.
Di Niobe, dopo la sua sventura, [505]si racconta, se non fallo, come bestemmiava gli Dei, e si professava vinta, ma non cedente.
Noi che non riconosciamo nè fortuna nè destino, nè forza alcuna di necessità personificata che ci costringa, non abbiamo altra persona da rivolger l'odio e il furore (se siamo magnanimi, e costanti, e incapaci di cedere) fuori di noi stessi; e quindi concepiamo contro la nostra persona un odio veramente micidiale, come del più feroce e capitale nemico, e ci compiaciamo nell'idea della morte volontaria, dello strazio di noi stessi, della medesima infelicità che ci opprime, e che arriviamo a desiderarci anche maggiore, come nell'idea della vendetta, contro un oggetto di odio e di rabbia somma.
Io ogni volta che mi persuadeva della necessità e perpetuità del mio stato infelice, e che volgendomi disperatamente e freneticamente per ogni dove, non trovava rimedio possibile, nè speranza nessuna; in luogo di cedere, o di consolarmi colla considerazione dell'impossibile, e della necessità indipendente da me, [506]concepiva un odio furioso di me stesso, giacchè l'infelicità ch'io odiava non risiedeva se non in me stesso; io dunque era il solo soggetto possibile dell'odio, non avendo nè riconoscendo esternamente altra persona colla quale potessi irritarmi de' miei mali, e quindi altro soggetto capace di essere odiato per questo motivo.
Concepiva un desiderio ardente di vendicarmi sopra me stesso e colla mia vita della mia necessaria infelicità inseparabile dall'esistenza mia, e provava una gioia feroce ma somma nell'idea del suicidio.
L'immobilità delle cose contrastando colla immobilità mia; nell'urto, non essendo io capace di cedere, ammollirmi e piegare; molto meno le cose; la vittima di questa battaglia non poteva essere se non io.
Oggidì (eccetto nei mali derivati dagli uomini) non si riconosce persona colpevole delle nostre miserie, o tale che la Religione c'impedisce in tutti i modi di creder colpevole, e quindi degna di odio.
Tuttavia anche nella Religione di oggidì, l'eccesso dell'infelicità indipendente [507]dagli uomini e dalle persone visibili, spinge talvolta all'odio e alle bestemmie degli enti invisibili e superiori: e questo, tanto più quanto più l'uomo (per altra parte costante e magnanimo) è credente e religioso.
Giobbe si rivolse a lagnarsi e quasi bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso, la sua vita, la sua nascita ec.
(15.
Gen.
1821.)
Gli adulatori e gli amici dei tiranni non guadagnano altro se non di essere esclusi dalla misericordia che le generazioni future porteranno all'età e generazioni loro.
E di partecipare all'odio senza essere stati esenti dai pericoli e dai mali, anzi tutto l'opposto, e spesso più degli altri.
(15.
Gen.
1821.)
Qual è la più grata compagnia? Quella che rileva l'idea che abbiamo di noi medesimi; quella che ci fa compiacere di noi stessi, che ci persuade di valer più che non credevamo, che ci mostra come lodevoli alcune qualità, dove non credevamo di meritar lode, o non tanta; [508]quella da cui partiamo con maggiore stima di noi, che ci lascia più soddisfatti di noi stessi.
Tutto è amor proprio nell'uomo e in qualunque vivente.
Amabile non pare e non è, se non quegli che lusinga, giova ec.
l'amor proprio degli altri.
Questa è una delle principali osservazioni ed artifizi per farsi stimare di buona compagnia, rendersi piacevole e amabile, farsi desiderare e far fortuna: nominatamente nella galanteria.
Cosa ben conosciuta dai professori di quest'ultima arte.
V.
quello che Lord Nelvil [dice] di Mad.
d'Arbigny presso la Staël nella Corinna.
Si desidera bene spesso la compagnia di qualcuno, ci si trova un pascolo un piacere nuovo e straordinario: nè si vede bene perchè, ma si attribuisce all'amabilità delle sue maniere e del suo carattere.
La ragion vera [è] ch'egli sa fare che noi ci stimiamo da più di quello che facessimo, o confermarci nella buona opinione che avevamo di noi.
(15.
Gen.
1821.)
Come noi diciamo in paragone, in comparazione per rispetto, appetto, verso, appresso, così Floro II.
15.
della terza Punica: et in comparatione priorum, [509]minimum labore.
Il Forcellini non ha esempio di questa locuzione, eccetto uno di Curzio che la contiene materialmente, ma non equivale nel senso; quas in comparatione meliorum, avaritia contempserat.
L'Appendice nulla.
(15 Gen.
1821.)
Il Petrarca nella canzone Italia mia.
Ed è questo del seme,
Per più dolor, del popol senza legge
Al qual, come si legge,
Mario aperse sì 'l fianco,
Che memoria de l'opra anco non langue,
Quando assetato e stanco,
Non più bevve del fiume acqua che sangue.
Non è stato osservato, ch'io sappia, che quest'ultima iperbole è levata di peso da Floro III.
3.
nel racconto che fa di quella medesima battaglia contro i Teutoni, della quale il Petrarca.
Ut victor Romanus de cruento flumine non plus aquae biberit quam sanguinis Barbarorum.
Giacchè l'armata Romana era assetata, e combattè quasi per l'acqua.
E forse Floro ha preso questa immagine da quel luogo di Tucidide nell'assedio di Siracusa, riferito ed esaminato da Longino.
(15.
Gen.
1821.).
V.
p.724.
principio.
[510]Floro III.
3.
Iam diem pugnae a nostro Imperatore petierunt, et sic proximum dedit.
In patentissimo, quem Raudium vocant, campo concurrere.
Leggerei: et hic p.
d..
(15.
Gen.
1821.)
Alla p.495.
Così II.
14.
vir ULTIMAE sortis Andriscus.
Così Velleio I.
II.
sect.1 qui se Philippum, regiaeque stirpis ferebat, cum esset ULTIMAE.
Del resto o sia sbaglio dei Codd.
o proprietà di Floro, e figura grammaticale a lui familiare, io trovo anche altre volte il quoque messo da lui piuttosto prima che dopo quello a cui pare che si dovrebbe effettivamente riferire, considerando il sentimento.
Così II.
14.
fine.
Sebbene quivi si potrà forse spiegare e tollerare.
Ma III.
6.
dove dice di Pompeo destinato alla guerra Piratica, Sic ille quoque ante felix, dignus nunc victoria Pompeius visus est.
Il quoque non par che si possa riportare se non all'ante e non all'ille (quantunque i pirati fossero stati già combattuti e vinti da P.
Servilio l'Isaurico) perchè la forza di questo luogo par che consista nella contrapposizione dell'ante felix, col dignus nunc victoria.
Onde pare che il luogo vada corretto.
V.
il Forcellini dove parla del quoque congiunto coll'et [511]o etiam.
V.
pure le ult.
ediz.
di Floro.
Alla p.96.
Dalla bianchezza di quella porca si crede che derivasse il nome di Alba dato alla città fondata da Ascanio, e questo pure può confermare il mio sospetto, avendola fondata Ascanio quasi nuova troia.
(15 Gen.
1821.)
In questi luoghi di Floro: Postquam rogationis dies aderat, ingenti stipatus agmine (Tib.
Gracchus) rostra conscendit: nec deerat obvia manu tota INDE (e non ha detto, nè anche accennato da che luogo) nobilitas, et tribuni in partibus (III.
14.): e: Quum se in Aventinum recepisset (C.
Gracchus), INDE quoque obvia Senatus manu, ab Opimio consule oppressus est (III.
15.) l'inde non par che si possa intendere se non per ibi o illuc, eo, ec.
E in questo senso si può paragonare l'uso di questa particella fatto da Floro, a quello che i nostri antichi fecero dell'onde, quinci, quindi.
V.
la Crusca.
e allo Spagnuolo donde che val sempre dove.
E bisogna notare che in questo senso Floro congiunge la particella inde col nome obvius.
E non perciò pare che significhi, o possa significare moto da luogo, ma stato, o moto a luogo.
(come gli antichi italiani, onde vai, per dove vai) QUO LOCO inter [512]se OBVII fuissent.
Sallust.
Cui mater MEDIÂ se se tulit OBVIA SILVÂ.
Virgil.
Questi esempi recati dal Forcellini fanno per l'uso di obvius in luogo.
Esempi di obvius unito a particelle o casi che indichino moto da luogo, non ne ha nè il Forcellini, nè l'Appendice, e in ogni modo qui non par che farebbero al caso.
Neanche ne hanno di obvius con particelle o casi indicanti moto a luogo, come illuc obvius, ovvero eo obvius, ovvero ad eum obvius o simili.
Solamente questo di Virgilio: Audeo TYRRHENOS EQUITES ire obvia CONTRA.
Del resto obvius negli esempi del Forcellini è assoluto, o unito al solito col dativo: obvius illi, mihi, ec.
Nè alla voce inde nè alla voce unde, il Forcellini o l'Appendice non hanno questi luoghi di Floro, nè altro esempio o cenno veruno nè pur lontano di questo significato.
(16.
Gen.
1821) V.
pur nella Crusca altronde per altrove, ed aggiungi questo esempio di Bernardino Baldi, egloga 10.
Melibea, verso il fine, (Versi e prose di Mons.
Bern.
Baldi.
Venetia 1590.
p.204.) Fuggiam fuggiamo altronde, Ch'a noi sen vien a volo Di vespe horrido stuolo, E sotto aurato manto il ferro asconde.
V.
nel Forc.
aliunde in un esempio per alibi.
V.
pure il Dufresne in inde, unde, aliunde, alicunde ec.
se ha nulla al caso.
V.
p.1421.
Difficilmente il dolor solo dell'animo, ha forza di uccidere, o cagionare un'estrema malattia, ed è più facile il fingere questi casi nei romanzi, che trovarne esempi reali nella vita: sebbene [513]molte volte si attribuiscono a dolor d'animo quelle infermità che vengono da tutt'altro, o almeno, anche da altre cause.
E massimamente è difficile e strano che il dolor d'animo, una sventura non corporale ec.
cagionino morte o malattia lungo tempo dopo nato, o avvenuta la detta sventura ec.
e che in somma la vita dell'uomo si vada consumando e si spenga a poco a poco per le sole malattie particolari dell'animo.
(non dico le generali, perchè certamente il cattivo stato del nostro animo influisce in genere moltissimo sulla durata della vita, la salute il vigore ec.) Qual è la cagione? Che il tempo medica tutte le piaghe dell'animo.
Ma come? Coll'assuefazione, lo so, e grandemente, ma non già con questa sola.
Una gran cagione del detto effetto, è ancora che le illusioni poco stanno a riprender possesso e riconquistare l'animo nostro, anche malgrado noi; e l'uomo (purchè viva) torna infallibilmente a sperare quella felicità che avea disperata; prova quella consolazione [514]che avea creduta e giudicata impossibile; dimentica e discrede quell'acerba verità, che avea poste nella sua mente altissime radici; e il disinganno più fermo, totale, e ripetuto, e anche giornaliero, non resiste alle forze della natura che richiama gli errori e le speranze.
(16.
Gen.
1821.)
Da fanciulli, se una veduta, una campagna, una pittura, un suono ec.
un racconto, una descrizione, una favola, un'immagine poetica, un sogno, ci piace e diletta, quel piacere e quel diletto è sempre vago e indefinito: l'idea che ci si desta è sempre indeterminata e senza limiti: ogni consolazione, ogni piacere, ogni aspettativa, ogni disegno, illusione ec.
(quasi anche ogni concezione) di quell'età tien sempre all'infinito: e ci pasce e ci riempie l'anima indicibilmente, anche mediante i minimi oggetti.
Da grandi, o siano piaceri e oggetti maggiori, o quei medesimi che ci allettavano da fanciulli, come una bella prospettiva, campagna, pittura ec.
proveremo un piacere, ma non sarà più simile in nessun modo all'infinito, o certo non sarà così intensamente, sensibilmente, durevolmente ed essenzialmente vago e indeterminato.
Il piacere di quella sensazione si determina subito e si circoscrive: appena comprendiamo [515]qual fosse la strada che prendeva l'immaginazione nostra da fanciulli, per arrivare con quegli stessi mezzi, e in quelle stesse circostanze, o anche in proporzione, all'idea ed al piacere indefinito, e dimorarvi.
Anzi osservate che forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranza della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono come un influsso e una conseguenza di lei; o in genere, o anche in ispecie; vale a dire, proviamo quella tal sensazione, idea, piacere, ec.
perchè ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sensazione immagine ec.
provata da fanciulli, e come la provammo in quelle stesse circostanze.
Così che la sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un'immagine degli oggetti, ma della immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso della immagine antica.
E ciò accade frequentissimamente.
(Così io, nel rivedere quelle stampe piaciutemi vagamente da fanciullo, [516]quei luoghi, spettacoli, incontri, ec.
nel ripensare a quei racconti, favole, letture, sogni ec.
nel risentire quelle cantilene udite nella fanciullezza o nella prima gioventù ec.) In maniera che, se non fossimo stati fanciulli, tali quali siamo ora, saremmo privi della massima parte di quelle poche sensazioni indefinite che ci restano, giacchè la proviamo se non rispetto e in virtù della fanciullezza.
E osservate che anche i sogni piacevoli nell'età nostra, sebbene ci dilettano assai più del reale, tuttavia non ci rappresentano più quel bello e quel piacevole indefinito come nell'età prima spessissimo.
(16.
Gen.
1821.)
Oltre la compassione, si può notare come indipendente affatto dall'amor proprio, un altro moto naturale, che sebbene somiglia alla compassione, non per ciò è la stessa cosa.
Ed è quella certa sensibilissima pena che noi proviamo nel vedere p.e.
un fanciullo fare una cosa la quale noi sappiamo che gli farà male: un uomo che si esponga a un manifesto pericolo; una persona vicina a cadere in qualche precipizio, senz'avvedersene.
[517]E simili.
Questo dei mali non ancora accaduti.
Allora proviamo ancora un'assoluta necessità d'impedirlo, se possiamo, e se no una pena assai maggiore.
Certo è che il veder uno che si fa male o sta per soffrire, o volontariamente, o non sapendo ec.
il vederlo, e non impedirlo, o non sentirsi accorare non potendo, è contro natura.
Nell'atto dei mali parimente, vedendo qualcuno cadere ec.
ancorchè quel male non sia degli orribili e stomachevoli all'apparenza, contuttociò ne proviamo naturalmente e indeliberatamente gran pena.
E chi osserverà bene, questi moti sono distinti dalla compassione, la quale vien dietro al male, e non lo precede, o accompagna.
Anche nelle cose inanimate, o negli esseri d'altra specie dalla nostra, vedendo a perire, o in pericolo di perire o guastarsi, un oggetto bello, prezioso, raro, utile, e che so io, un animale ec.
proviamo lo stesso sentimento doloroso, la stessa necessità di esclamare, d'impedirlo potendo.
ec.
E ciò, quantunque quella cosa [518]non appartenga a veruno in particolare, e la sua perdita o guasto non danneggi nessuno in particolare.
Così che quel sentimento dispiacevole che noi proviamo allora, si riferisce immediatamente all'oggetto paziente, forse ancora quand'esso abbia un possessore, e che questo c'interessi.
Dicono che la donna è ben forte, quando può vedere a rompere la sua porcellana senza turbarsi.
Ma non solamente le donne; anche gli uomini; e non solamente nelle cose proprie, anche nelle altrui, o comuni, o di nessuno, purch'elle sieno di un certo conto, provano nei detti casi la detta sensazione, indipendentemente dalla volontà.
La radice di questo sentimento non par che si possa trovare nell'amor proprio.
Par che la natura nostra abbia una certa cura di ciò ch'è degno di considerazione, e una certa ripugnanza a vederlo perire, sebbene affatto alieno da noi.
V.
la pagina seguente.
L'orrore della distruzione (il quale si potrebbe in ultima analisi riportare all'amor proprio) non par che [519]abbia parte in questo, almeno principalmente.
Noi vediamo perire tuttogiorno senza ripugnanza, o cura d'impedirlo, mille cose di cui non facciamo conto.
(17.
Gen.
1821.)
Alla pagina superiore.
Par ch'ella ci abbia tutti incaricati in solido, di provvedere per parte nostra alla conservazione di tutto il buono, (osservate queste parole, le quali potrebbero estender di molto questo pensiero, p.e.
al morale, al bello di ogni genere e immateriale ec.), e impedirne la distruzione, e che questa danneggi positivamente ciascuno per la sua parte.
In questo aspetto forse si potrebbe riferire alla lunga all'amor proprio, e forse no.
Alla p.468.
Oltre che nella Salita di Ciro l'autore parla di Senofonte con un tale temperamento di modestia, e di amore, col quale chiunque conosca il cuore umano, leggendo la detta opera, riconosce a prima vista che l'uomo non parla nè può parlare se non di se stesso.
(17.
Gen.
1821)
[520]L'intiera filosofia è del tutto inattiva, e un popolo di filosofi perfetti non sarebbe capace di azione.
In questo senso io sostengo che la filosofia non ha mai cagionato nè potuto cagionare alcuna rivoluzione, o movimento, o impresa ec.
pubblica o privata; anzi ha dovuto per natura sua piuttosto sopprimerli, come fra i Romani, i greci ec.
Ma la mezza filosofia è compatibile coll'azione, anzi può cagionarla.
Così la filosofia avrà potuto cagionare o immediatamente o mediatamente la rivoluzione di Francia, di Spagna ec.
perchè la moltitudine, e il comune degli uomini anche istruiti, non è stato nè in Francia nè altrove mai perfettamente filosofo, ma solo a mezzo.
Ora la mezza filosofia è madre di errori, ed errore essa stessa; non è pura verità nè ragione, la quale non potrebbe cagionar movimento.
E questi errori semifilosofici, possono esser vitali, massime sostituiti ad altri errori per loro particolar natura mortificanti, come quelli derivati da un'ignoranza barbarica e diversa dalla naturale; anzi contrari ai dettami ed alle [521]credenze della natura, o primitiva, o ridotta a stato sociale ec.
Così gli errori della mezza filosofia, possono servire di medicina ad errori più anti-vitali, sebben derivati anche questi in ultima analisi dalla filosofia, cioè dalla corruzione prodotta dall'eccesso dell'incivilimento, il quale non è mai separato dall'eccesso relativo dei lumi, dal quale anzi in gran parte deriva.
E infatti la mezza filosofia è la molla di quella poca vita e movimento popolare d'oggidì.
Trista molla, perchè, sebbene errore, e non perfettamente ragionevole, non ha la sua base nella natura, come gli errori e le molle dell'antica vita, o della fanciullesca, o selvaggia ec.: ma anzi finalmente nella ragione, nel sapere, in credenze o cognizioni non naturali e contrarie alla natura: ed è piuttosto imperfettamente ragionevole e vera, che irragionevole e falsa.
E la sua tendenza è parimente alla ragione, e quindi alla morte, alla distruzione, e all'inazione.
E presto o tardi, ci [522]deve arrivare, perchè tale è l'essenza sua, al contrario degli errori naturali.
E l'azione presente non può essere se non effimera, e finirà nell'inazione come per sua natura è sempre finito ogni impulso, ogni cangiamento operato nelle nazioni da principio e sorgente filosofica, cioè da principio di ragione e non di natura inerente sostanzialmente e primordialmente all'uomo.
Del resto la mezza filosofia, non già la perfetta filosofia, cagionava o lasciava sussistere l'amor patrio e le azioni che ne derivano, in Catone, in Cicerone in Tacito, Lucano, Trasea Peto, Elvidio Prisco, e negli altri antichi filosofi e patrioti allo stesso tempo.
Quali poi fossero gli effetti de' progressi e perfezionamento della filosofia presso i Romani è ben noto.
Osservate ancora che il movimento e il fervore cagionato oggidì dalla mezza filosofia, va perdendo di giorno in giorno necessariamente tanti fautori e promotori ec.
quanti si vanno di mano in mano perfezionando nella filosofia coll'esperienza ec.
e quanti di semifilosofi, divengono o diverranno appoco appoco filosofi.
(17.
Gen.
1821.)
Nisi quod magnae indolis signum est, sperare [523]semper.
Floro IV.
8.
Sed quanto efficacior est fortuna quam virtus! et quam verum est quod moriens (Brutus) efflavit, "non in re, sed in verbo tantum esse virtutem." Floro IV.
7.
Floro IV.
6.
Quid contra duos exercitus necesse fuit venire in cruentissimi foederis societatem? Trasponete l'interrogativo dopo exercitus.
Così vuole il contesto, e anche la semplice osservazione di questo passo, perch'io non so come il venire in foederis societatem con due eserciti (di Antonio e di Lepido), s'abbia da poter dire contra duos exercitus.
V.
le ult.
ediz.
di Floro.
(18.
Gen.
1821.)
Molto acutamente Floro dice di Antonio il triumviro: Desciscit in regem: nam aliter salvus esse non potuit, nisi confugisset ad servitutem.
(IV.
3.) Ottimamente di un uomo corrotto e depravato come Antonio: non poteva essere se non signore o servo: libero e uguale agli [524]altri, non poteva.
E così quasi tutti i Romani di quello e de' seguenti tempi: così la massima parte degli uomini d'oggidì.
Non c'è altro stato che non convenga loro, fuorchè l'uguaglianza e la libertà.
Non saprebbero se non regnare, o come fanno, servire.
Ma servendo, sarebbero più adattati al regno che alla libertà.
E tale è la natura degli uomini servi per carattere, e corrotti dall'incivilimento, spogli di virtù, di magnanimità, di entusiasmo, di sentimenti e passioni grandi forti e nobili, d'integrità, di coraggio, d'ingegno, di eroismo, capacità di sacrifizi, ec.
ec.
Tutte cose necessarie a mantenersi individualmente, e a mantenere relativamente e generalmente lo stato uguale e libero di un popolo.
In chi domina l'egoismo, non può che servire o regnare.
Così i nostri principi.
Regnano, e saprebbero servire.
(Così i nostri magistrati, ministri, grandi.
Regnano e servono.
Sanno riunir l'una cosa all'altra.
Le mettono effettivamente in opera ambedue.) Ma come sarebbero capacissimi di servitù (e perciò appunto che regnano come fanno, e che son tali signori), così sarebbero incapaci di libertà e di uguaglianza.
Questa non può nè convenire particolarmente, nè conservarsi in una nazione, senza le qualità e le forze della natura.
Un uomo o una nazione snaturata, non può esser libera, nè [525]molto meno uguale: non può se non regnare o servire.
La libertà richiede homines non mancipia, ????????????????????????, e chi è schiavo o dei padroni servendo, o di se stesso, dell'egoismo, e delle basse inclinazioni regnando, non può comportare lo stato libero, nè uguale.
L'amor di se stesso è inseparabile dall'uomo.
Questo lo porta ad innalzarsi.
Dove l'innalzamento ec.
in somma la soddisfazione dell'amor proprio è impossibile, quivi l'uomo non può vivere.
Ora nello stato di perfetta libertà ed uguaglianza, l'individuo non fa progressi senza virtù e pregi veri, perchè la sua fortuna, gli onori, le ricchezze, i vantaggi ec.
dipendono dalla moltitudine, la quale non potendo giudicare secondo gli affetti e inclinazioni particolari, perchè queste son varie e infinite, e non si accordano insieme, bisogna che giudichi secondo le regole e le opinioni universali, cioè le vere.
Chi dunque manca di virtù e pregi veri (e tali sono gli uomini corrotti), non può sopportare la libertà e l'uguaglianza, nè trovar vita in questo stato.
(18.
Gen.
1821.)
Sane quod Poematis delectari se ait, id [526]non abhorret ab huius compendii scriptore, quando stylus eius est in historia declamatorius, ac Poetico propior, adeo ut etiam hemistichia Virgilii profundat: dice G.
G.
Vossio di Floro.
(de Historic.
latt.
l.1.) Nel lib.
IV.
c.11.
dove Floro dice di Antonio il triumviro: patriae, nominis, togae, fascium oblitus, pare che questa sia un'imitazione di Orazio: (Od.
5.
l.3.
v.10.)
Anciliorum, NOMINIS et TOGAE
BLITUS aeternaeque Vestae.
(18.
Gen.
1821.).
V.
p.723.
fine.
Alla p.477.
Floro è noto per il molto che ha di poetico, non solo nell'invenzione, nell'immaginazione, evidenza, fecondità, come Livio, ma nella sentenza e nella frase, anzi non tanto nella facoltà, quanto nella maniera, nello stile, e nella volontà.
E in ogni modo Floro ha tanto di gravità, nobiltà, posatezza, ed ancora castigatezza, in somma tanto sapor di prosa, quanto non si troverà facilmente in nessun moderno, se non forse, ma dico forse, in qualcuno de' nostri cinquecentisti.
E quella stessa dose di pregi (senza [527]i quali però non ci può esser buona nè vera prosa) basterebbe per fare ammirare uno scrittore de' nostri tempi, e farlo giudicare sommo ed unico.
(Aggiungete tutto quello che spetta alla lingua: eleganza, purità sufficientissima, armonia, varietà ec.
forma de' periodi, e loro disposizione e connessione ec.) Ora i migliori e sommi prosatori francesi, in ordine a questi pregi, non sono degni di venir nemmeno in confronto con uno de' peggiori ed infimi classici latini.
(19.
Gen.
1821.)
I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto.
????????????????????????????????, ????????? ??????(? ??? ????????.
(Elegiae scriptor non satis probatus) ?I????3???.
(Ita enim se habet res) ??????? ??? ??? ????????????? ???????????, ?????????????? (si quid prosa oratione scribere velint, praestant) ?????????? ?? ???????????? ????????, ????????.
(si poeticae sibi partes vindicare velint, non assequuntur) ????? ?? ??? ?????? ????? (scil.
?? ??? ?????????) ?? ?? ?????? ?????.
Laerz.
in Xenocrate, l.4.
segm.
[528]15.
E v.
se ha nulla in questo proposito il Menagio.
(19.
Gen.
1821.)
Come i piaceri così anche i dolori sono molto più grandi nello stato primitivo e nella fanciullezza, che nella nostra età e condizione.
E ciò per le stesse ragioni per le quali è maggiore il diletto.
Primieramente (massime ne' fanciulli) manca l'assuefazione al bene e al male.
Il bene dunque e il male dev'essere molto più sensibile ed energico relativamente all'animo loro, che al nostro.
Poi (e questo è il punto principale, e comune a tutti gli uomini naturali) il dolore, la disgrazia ec.
nel fanciullo, e nel primitivo, sopravviene all'opinione della felicità possibile, o anche presente; contrasta vivissimamente coll'aspetto del bene, creduto e reale e grande, del bene o già provato, o sperato con ferma speranza, o veduto attualmente negli altri; è l'opposto e la privazione di quella felicità che si crede vera, importante, possibilissima, anzi destinata all'uomo, posseduta dagli altri, [529]e che sarebbe posseduta da noi, se quell'ostacolo non ce l'impedisse, o per ora, o per sempre.
Ed anche l'idea del male assoluto, cioè indipendentemente dalla comparazione del bene, è forse maggiore in natura, che nello stato di civiltà e di sapere.
Osservate ancora che dolor cupo e vivo sperimentavamo noi da fanciulli, terminato un divertimento, passata una giornata di festa ec.
Ed è ben naturale che il dolore seguente dovesse corrispondere all'aspettativa, al giubilo precedente.
E che il dolore della speranza delusa sia proporzionato alla misura di detta speranza.
Non dico alla misura del piacere provato, realmente, perchè infatti neanche i fanciulli provano mai soddisfazione nell'atto del piacere, non potendo nessun vivente esser soddisfatto se non da un piacere infinito, come ho detto altrove.
Anzi il nostro dolore, dopo tali circostanze, era inconsolabile, non tanto perchè il piacere fosse passato, quanto perchè non avea corrisposto alla speranza.
Dal che seguiva talvolta una specie di rimorso o pentimento, come se non avessimo goduto [530]per nostra colpa.
Giacchè l'esperienza non ci aveva ancora istruiti a sperar poco, preparati a veder la speranza delusa, assuefatti a consolarci facilmente di tali e maggiori perdite ec.
Insomma considerando in quella età le cose come importanti, o più importanti di quello che le consideriamo in altra età, (così relativamente e in particolare, come in generale e assolutamente) è naturale che come i piaceri, così i dolori di quell'età sieno maggiori in proporzione dell'importanza che gli oggetti del dolore o del piacere hanno nella nostra opinione.
Così nella speranza di qualche bene, quale non era la nostra inquietudine, i nostri timori, i nostri palpiti, le nostre angosce ad ogni piccolo ostacolo, o apparenza di difficoltà, che si opponesse al conseguimento della detta speranza!
E se poi l'oggetto stesso della speranza (ancorchè minimo, rispetto alle nostre opinioni presenti) non si conseguiva, quale non era la nostra disperazione! In maniera che forse in seguito, nelle più grandi sventure della vita, non abbiamo provato, nè proveremo mai tanto dolore e accoramento, come per quelle minime sventure fanciullesche.
[531]Lascio stare il timore e lo spavento proprio di quell'età (per mancanza di esperienza e sapere, e per forza d'immaginazione ancor vergine e fresca): timor di pericoli di ogni sorta, timore di vanità e chimere proprio solamente di quell'età, e di nessun'altra; timor delle larve, sogni, cadaveri, strepiti notturni, immagini reali, spaventose per quell'età e indifferenti poi, come maschere ec.
ec.
(V.
il Saggio sugli Errori popolari degli antichi.) Quest'ultimo timore era così terribile in quell'età, che nessuna sventura, nessuno spavento, nessun pericolo per formidabile che sia, ha forza in altra età, di produrre in noi angosce, smanie, orrori, spasimi, travaglio insomma paragonabile a quello dei detti timori fanciulleschi.
L'idea degli spettri, quel timore spirituale, soprannaturale, sacro, e di un altro mondo, che ci agitava frequentemente in quell'età, aveva un non so che di sì formidabile e smanioso, che non può esser paragonato con verun altro sentimento dispiacevole dell'uomo.
Nemmeno il timor dell'inferno in un moribondo, credo che possa essere così intimamente terribile.
Perchè la ragione e l'esperienza rendono inaccessibili a qualunque sorta di sentimento, quell'ultima e profondissima [532]parte e radice dell'animo e del cuor nostro, alla quale penetrano e arrivano, e la quale scuotono e invadono le sensazioni fanciullesche o primitive, e in ispecie il detto timore.
(20.
Gen.
1821.).
V.
p.535 capoverso 1.
Quid dulcius, quam habere, quicum omnia audeas sic loqui, ut tecum? Quis esset tantus fructus in prosperis rebus, nisi haberes, qui illis aeque, ac tu ipse, gauderet? Cic.
Lael.
sive de Amicitia.
Cap.6.
(20.
Gen.
1821.)
Il piacere umano (così probabilmente quello di ogni essere vivente, in quell'ordine di cose che noi conosciamo) si può dire ch'è sempre futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro.
L'atto proprio del piacere non si dà.
Io spero un piacere; e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere.
Io ho provato un piacere, ho avuto una buona ventura: questo non è piacevole se non perchè ci dà una buona idea del futuro; ci fa sperare qualche godimento più o meno grande; ci apre un nuovo campo di speranze; ci persuade di poter godere; ci fa conoscere la possibilità di arrivare a certi desideri; ci mette [533]in migliori circostanze pel futuro, sia riguardo al fatto e alla realtà, sia riguardo all'opinione e persuasone nostra, ai successi, alle prosperità che ci promettiamo dietro quella prova, quel saggio fattone.
ec.
Io provo un piacere: come? ciascuno individuale istante dell'atto del piacere, è relativo agl'istanti successivi; e non è piacevole se non relativamente agl'istanti che seguono, vale a dire al futuro.
In questo istante il piacere ch'io provo, non mi soddisfa, e siccome non appaga il mio desiderio, così non è ancora piacere, ma ecco che senza fallo io lo proverò immediatamente; ecco che il piacere crescerà, ed io sarò intieramente soddisfatto.
Andiamo più avanti: ancora non provo vero piacere, ma ora (chi ne dubita?) sono per provarlo.
Questo è il discorso, il cammino, l'occupazione, l'operazione, e la sensazione dell'animo nell'atto di qualunque siasi piacere.
Giunto l'ultimo istante, e terminato l'atto del piacere, l'uomo non ha provato ancora il piacere: resta dunque o scontento: o soddisfatto comunque per una opinione debole, falsa, e poco, anzi niente persuasiva, [534]di averlo provato; e va ruminando, e compiacendosi di quello che ha sentito, e provando così un altro piacere, il di cui oggetto è bensì passato, ma non il piacere (perchè come può esser passato quello che non è mai stato, e che è sempre futuro?) e l'atto di questo nuovo piacere è composto di una successione d'istanti della stessa natura che l'altro atto; e quindi parimente futuro: o finalmente resta con una certa letizia e si rallegra, perchè quantunque non possa il suo piacere riferirsi più agl'istanti successivi di quell'atto, ch'è già finito, si riferisce ad altri atti; l'idea del così detto piacere provato, gli dà un'idea di quelli ch'egli crede di poter provare; concepisce una migliore idea del futuro, una speranza, un disegno, una risoluzione o di proccurarsi altri piaceri, o qualunque ella sia.
Così prova un piacere, ma sempre ed ugualmente futuro.
Così p.e.
se tu sei stato lodato, o ti sei trovato in una occasione di brillare, di gloria, ec.
L'atto di quel piacere è stato quale l'ho descritto: ma finito l'atto, lo vai ruminando a parte a parte, e torna un altro atto di piacere composto alla stessa guisa, e fondato o sul semplice gusto della [535]ricordanza, o sulla relazione che quel preteso piacere ha col futuro, con quei piaceri o beni che tu (come credi) puoi dunque o devi provare, coll'idea che ti dà della futura vita, coi disegni, coll'idea di te stesso, delle tue forze ec.
colle speranze o reali, o rispetto all'opinione e immaginazione tua; insomma tutto futuro, tanto riguardo all'atto del nuovo piacere presente, quanto agli oggetti di esso piacere.
Così il piacere non è mai nè passato nè presente, ma sempre e solamente futuro.
E la ragione è, che non può esserci piacer vero per un essere vivente, se non è infinito; (e infinito in ciascuno istante, cioè attualmente) e infinito non può mai essere, benchè confusamente ciascuno creda che può essere, e sarà, o che anche non essendo infinito, sarà piacere: e questa credenza (naturalissima, essenziale ai viventi, e voluta dalla natura) è quello che si chiama piacere; è tutto il piacer possibile.
Quindi il piacer possibile non è altro che futuro, o relativo al futuro, e non consiste che nel futuro.
(20.
Gen.
1821.).
V.
p.612.
capoverso 1.
Alla p.532.
Questo si può osservare [536]anche negli effetti fisici o esterni delle dette sensazioni interne, sieno relativi alla salute, sieno ai moti, ai gesti, sieno alle risoluzioni e azioni alle quali strascinano i fanciulli e i primitivi, e ciò con tale irresistibilità, e violenza infallibile, quale non ha verun'altra sensazione interna nelle altre età e condizioni, ma solamente alcune delle esterne e fisiche.
Tant'è, l'immaginazione, o le sensazioni interne, hanno, si può dire nella fanciullezza, e nello stato naturale, la stessa o simile forza e certezza, delle sensazioni e forze esterne e meccaniche in quella e nelle altre età o condizioni.
(20.
Gen.
1821.)
Nihil est enim appetentius similium sui, nihil rapacius, quam natura.
Cic.
Lael.
sive de Amicit.
c.14.
(21 Gen.
1821.)
Alla p.135.
Fructus enim ingenii et virtutis, omnisque praestantiae, tum maximus capitur, cum in proximum quemque confertur.
Cic.
Lael.
sive de Amicit.
c.19.
fine.
E v.
il capoverso superiore.
(21.
Gen.
1821.)
È degna di esser veduta, consultata, e anche [537]tradotta e riportata all'occasione, la bella disputazione di Tullio (Lael.
sive de Amicitia c.13.
Nam quibusdam etc.
sino alla fine) contro quei filosofi greci i quali dicevano caput esse ad beate vivendum, securitatem; qua frui non possit animus, si tamquam parturiat unus pro pluribus: e quindi venivano a prescrivere il curam fugere, e l'honestam rem actionemve, NE SOLLICITUS SIS, aut non suscipere, aut susceptam deponere.
La qual filosofia, è presso a poco la filosofia dell'inazione e del nulla, la filosofia perfettamente ragionevole, la filosofia de' nostri giorni.
E quella disputazione di Tullio si può avere per una disputazione contro l'egoismo, sebbene, a quei tempi, ancora ignoto di nome.
Quae est enim ista securitas? dice Cicerone; e segue facendo vedere a che cosa porti.
Ma il principale è, che non solamente porta a mille assurdità e scelleraggini (secondo natura, non secondo ragione, ma Cicerone chiama la natura, optimam bene vivendi ducem.
c.5.): ma non ottiene neanche il suo fine, ch'è la felicità dell'individuo [538]in qualunque modo ottenuta.
Anzi al contrario, l'impedisce, e la toglie di natura sua, ed è contraddittoria e incompatibile colla felicità dell'individuo nello stato sociale.
Eccoci tutti seguaci di quella setta o dogma che Cicerone impugna.
Eccoci tutti filosofi a quella maniera.
Eccoci tutti egoisti.
Ebbene? siamo noi felici? che cosa godiamo noi? Tolto il bello, il grande, il nobile, la virtù dal mondo, che piacere, che vantaggio, che vita rimane? Non dico in genere, e nella società, ma in particolare, e in ciascuno.
Chi è o fu più felice? Gli antichi coi loro sacrifizi, le loro cure, le loro inquietudini, negozi, attività, imprese, pericoli: o noi colla nostra sicurezza, tranquillità, non curanza, ordine, pace, nazione, amore del nostro bene, e non curanza di quello degli altri, o del pubblico ec.? Gli antichi col loro eroismo, o noi col nostro egoismo?
(21.
Gen.
1821.).
È cosa evidente e osservata tuttogiorno, che gli uomini di maggior talento, sono i più difficili a risolversi tanto al credere, quanto all'operare; i più incerti, i più barcollanti, e temporeggianti, i più tormentati da quell'eccessiva pena dell'irresoluzione: i più inclinati e soliti a lasciar le cose [539]come stanno; i più tardi, restii, difficili a mutar nulla del presente, malgrado l'utilità o necessità conosciuta.
E quanto è maggiore l'abito di riflettere, e la profondità dell'indole, tanto è maggiore la difficoltà e l'angustia di risolvere.
(21.
Gen.
1821.)
Ma non perciò è segno di molto talento il soler sempre e subito determinarsi a non credere (come anche a non fare).
Anzi perciò appunto è indizio di piccolo spirito.
Il non credere, è una determinazione: e gli uomini veramente sapienti, e profondi, ed esperti, sanno quante cose possano essere, quanto sia difficile il negare, quanto sia vero che dall'incertezza e oscurità delle cose, dalla difficoltà di affermare, deriva necessariamente anche quella di negare, cioè affermare che una cosa non è, genere anch'esso di affermazione.
E però se una cosa non manca affatto di prova, o di prova sufficiente a muover dubbio, o s'ella non è del tutto assurda, o riconosciuta evidentemente da lui stesso per falsa o col fatto, o colla ragione; eccetto in questi casi, [540]il vero saggio e filosofo e conoscitore delle cose in quanto (sono conoscibili), ???????????????????????, e ritiene come l'assenso così anche il dissenso.
Ma uomini di non molto ingegno, bensì di molta apparenza, o desiderio di essa apparenza, credono mostrar talento quando al primo aspetto di una proposizione o cosa non ordinaria, o difficile a credere (o non concorde colle loro opinioni e principii, o non ben dimostrata o fondata), si determinano subito a non credere.
E se ne compiacciono seco stessi, e si credono forti di spirito, perchè sanno determinatamente e prontamente non credere, quando è tutto l'opposto.
E se bene in questo si mescola spesse volte l'ostentazione, non è però che non lo facciano ordinariamente di buona fede, e con verità, e che l'interno non corrisponda alle parole.
Giacchè hanno veramente questa facilità di risolversi a non credere.
Perchè appunto sono lontani dalla vera e perfetta sapienza, e cognizione delle cose.
(22.
Gen.
1821.)
Sic enim mihi perspicere videor, ita natos esse nos, [541]ut inter omnes esset societas quaedam; (ecco l'amore universale, notato anche da Cicerone, e naturale, perchè la natura, e tutti gli animali tendono più che ad altro al loro simile; preferiscono nella inclinazione, nell'amore, nella società, il loro simile, allo straniero e diverso.
Questo è il vero confine dell'amore universale secondo natura, non quelli che gli assegnano i nostri filosofi.
Ma seguitiamo) maior autem, ut quisque proxime accederet.
Itaque cives, potiores, quam peregrini; et propinqui quam alieni.
(Così che nel conflitto degl'interessi di coloro che nobis proxime accedunt, cogl'interessi degli stranieri, alieni, lontani, quelli vincono nell'animo, nella inclinazione, e nella natura nostra: e non già nella sola parità di circostanze, ma quando anche o il bene, o la salute e incolumità de' vicini, porti agli strani un danno sproporzionato; quando anche si tratti di un solo o pochi vicini, e di molti lontani; quando si tratti della sola sua patria in comparazione di tutto il mondo.
E tali sono realmente gli effetti e la misura dell'amore dei bruti verso i loro [542]figli ec.
rispetto agli altri loro simili: delle api di un alveare, rispetto alle altre ec.
E v.
il pensiero seguente.) Cum his enim amicitiam NATURA IPSA peperit.
Cic.
Lael.
sive de Amicitia c.5.
sulla fine.
(22.
Gen.
1821.)
Quapropter a natura mihi videtur potius, quam ab indigentia, orta amicitia, et applicatione magis animi cum quodam sensu amandi, quam cogitatione, quantum illa res utilitatis esset habitura.
Quod quidem quale sit, etiam in bestiis quibusdam animadverti potest; quae ex se natos ita amant ad quoddam tempus, et ab eis ita amantur, ut facile earum sensus appareat.
Quod in homine multo est evidentius.
Cic.
Lael.
sive de Amicitia c.8.
(22.
Gen.
1821.)
Della superiorità delle forze della natura, della fortuna, dello spontaneo, dell'amor naturale e fortuito (materia del pensiero precedente), sopra quelle della ragione, della provvidenza (umana), dell'arte, dell'amore ragionato e proccurato, cose sempre deboli, e più eleganti (a tutto dire) che forti e potenti; è degno di esser veduto un luogo insigne ed elegante di [543]Frontone (Ad M.
Caes.
l.1.
epist.8.
ediz.
principe.
pag.58-61.) simile in parte ad un altro nelle Lodi della Negligenza.
(p.371.).
(22.
Gen.
1821.)
La superiorità della natura su la ragione e l'arte, l'assoluta incapacità di queste a poter mai supplire a quella, la necessità della natura alla felicità dell'uomo anche sociale, e l'impossibilità precisa di rimediare alla mancanza o depravazione di lei, si può vedere anche nella considerazione dei governi.
Più si considera ed esamina a fondo la natura, le qualità, gli effetti di qualsivoglia immaginabile governo; più l'uomo è saggio, profondo, riflessivo, osservatore, istruito, esperto; più conchiude e risolve con piena certezza, che nello stato in cui l'uomo è ridotto, non già da poco, ma da lunghissimo tempo, e dall'alterazione, depravazione, e perdita della società (non dico natura) primitiva in poi, non c'è governo possibile, che non sia imperfettissimo, che non racchiuda essenzialmente i germi del male e della infelicità maggiore o minore de' popoli e degli individui: non c'è nè c'è stato [544]nè sarà mai popolo, nè forse individuo, a cui non derivino inconvenienti, incomodi, infelicità (e non poche nè leggere) dalla natura e dai difetti intrinseci e ingeniti del suo governo, qualunque sia stato, o sia, o possa essere.
Insomma la perfezione di un governo umano è cosa totalmente impossibile e disperata, e in un grado maggiore di quello che sia disperata la perfezione di ogni altra cosa umana.
Eppure è certo che, se non tutti, certo molti governi sarebbono per se stessi buoni, e possiamo dire perfetti, e l'imperfezione loro sebbene oggidì è innata ed essenziale per le qualità irrimediabili e immutabili degli uomini nelle cui mani necessariamente è riposto (giacchè il governo non può camminar da se, nè per molle e macchine, nè per ministerio d'Angeli, o per altre forze naturali o soprannaturali, ma per ministerio d'uomini); tuttavia non è imperfezione primitiva, e inerente all'idea del governo stesso, indipendentemente dalla considerazione de' suoi ministri, nè inerente alla natura dell'uomo, ancorchè ridotto in società.
Consideriamo.
[545]Il governo monarchico assoluto e dispotico, ossia giustamente e con verità, ossia che l'uomo odia naturalmente la servitù, e soffre di miglior animo i mali della cattiva e sregolata libertà; o che questo è il peccato, il flagello, il difetto, la sventura dominante del nostro secolo, e de' passati, dall'estinzione, possiamo dire, della libertà Romana, in poi: per qualunque ragione, è considerato come il più imperfetto e barbaro e contrario al buon senso, alla retta ragione, alla natura, in somma per il peggiore di tutti i governi.
Tale sarà oggidì; non mica in principio: anzi in principio, lo giudico e credo il più perfetto, e posso dire il solo perfetto, e ragionevole e naturale.
Cioè, posto che v'abbia ad essere un governo, io dico che questo, nello stato primitivo della società, non doveva nè poteva esser altro che il monarchico assoluto; e non volendo questo, non c'era ragione di volere un governo.
L'uomo per natura è libero, e uguale a qualunque altro della sua specie.
Ma nello [546]stato di società, non è così.
La ragione, il principio, lo scopo della società, non è altro che il ben comune di coloro che la compongono e si uniscono in un corpo più o meno esteso.
Senza questo fine, la società manca della sua ragione.
E siccome ella è non solamente irragionevole se non ha questo fine, ma è ancora non pure inutile ma dannosa all'uomo, se sussiste senza conseguirlo; perciò se il detto fine non si realizza, conviene sciorre la società, perchè questa per se stessa, e indipendentemente dal detto fine, porta all'uomo più nocumento che vantaggio, anzi solo nocumento.
Ora il ben commune di un corpo o società, non si può ottenere, se non per la cospirazione di tutti i membri di lei a questo fine.
Così accade in tutte le cose: che un effetto, il quale deve risultare da molte cagioni, e da molte forze, operanti ciascuna per la sua parte; non può realizzarsi senza l'accordo e cospirazione congiunta e convenevole di tutte queste forze, verso il detto effetto.
Ecco il principio d'unità: principio che risulta necessariamente dallo scopo della società, ch'è il ben comune.
E perciò, come nel ben [547]comune, e non in altro, consiste la ragione della società; così questa rinchiude essenzialmente il principio di unità.
A segno che società, considerandola bene, importa per sua natura, unità, vale a dire unione di molti: la quale unione è imperfetta, se non è perfettamente una, in quello che concerne la sua ragione e il suo scopo: giacchè nel rimanente, dove la società non ha bisogno di unità, l'uomo sebbene associato, è come fuori della società, e conserva le sue qualità naturali, vale a dire la sua libertà, la cura di se stesso, e de' suoi negozi ec.
In somma nelle altre parti indipendenti dal ben comune, la società non sussiste, e non è società, sebbene ella sussista nel medesimo tempo, in quello che spetta alla sua ragione e destinazione e scopo.
Ma le volontà degl'individui riuniti in corpo, gl'interessi, o le opinioni che ciascuno ha sopra i suoi vantaggi, e così sopra qualunque altra cosa, sono infinite, e diversissime.
Quindi le forze di ciascuno, non possono cospirare ad un solo fine, tra perchè non tutti si curano di proccurarlo; e perchè le opinioni, le volontà ec.
quando [548]anche si accordino nel cercarlo assolutamente, non si accordano relativamente nel determinarlo, sia in genere e totalmente; sia in parte, e in particolare; sia riguardo ai tempi, alle opportunità di cercarlo e proccurarlo ec.
E l'uno crede o vuole che questo sia o debba essere il fine; l'altro che sia o debba esser quello: l'uno che questo giovi al fine convenuto e stabilito; l'altro che noccia o non giovi: l'uno che bisogni cercare il detto fine, oggi, o in questa maniera; l'altro che bisogni aspettare fino a domani, o cercarlo in quest'altro modo.
E così, chi non si cura del ben comune, non corrisponde al fine della società, è inutile e dannoso alla società.
Chi se ne cura, non cospira, nè può cospirar cogli altri, sia positivamente, sia negativamente, cioè col fare, o coll'astenersi dal fare, secondo i bisogni, e i fini ec.
Dunque neppur egli corrisponde al fine della società, il quale non può risultare se non dall'accordo dei membri verso il ben comune: altrimenti ciascuno poteva senza società, proccurarlo da se; e la società era inutile.
[549]In un corpo dunque perfettamente libero e uguale, manca affatto l'unità, solo mezzo di ottenere il solo scopo della società; anzi solo costituente della società: e però in un corpo libero ed uguale, non esiste se non il nome e la sembianza della società; vale a dire che più persone si trovano insieme di luogo, ma non in società.
Come dunque lo scopo della società è il ben comune; e il mezzo di ottenerlo, è la cospirazione degl'individui al detto bene, ossia l'unità; così l'ordine, lo stato vero, la perfezione della società, non può essere se non quello che produce e cagiona perfettamente questa cospirazione e unità.
Giacchè la perfezione di qualunque cosa, non è altro che la sua intera corrispondenza al suo fine.
Come dunque riunire ad un sol centro le opinioni, gl'interessi, le volontà di molti? Non c'è altro mezzo che subordinarle, e farle dipendere e regolare da una sola opinione, volontà, interesse; vale a dire dalle opinioni, volontà, interessi di un solo.
L'unità è ottenuta; ma perch'ella sia vera unità, bisogna che questo solo, sia veramente solo; cioè possa pienamente [550]diriggere e regolare e determinare le opinioni interessi volontà di ciascuno; e disporre per conseguenza delle forze di ciascuno: in somma che tutti i membri di quella tal società, dipendano intieramente da lui solo, in tutto quello che concerne lo scopo di detta società, cioè il di lei bene comune.
Ecco dunque la monarchia assoluta e dispotica.
Eccola dimostrata, non solamente buona per se stessa, ma inerente all'essenza, alla ragione della società umana, cioè composta d'individui per se stessi discordanti.
Colla monarchia assoluta e dispotica, l'unità è, come dissi, ottenuta.
Questo è il mezzo per conseguire il bene comune.
Ma esso bene, cioè il fine, sarà ottenuto? Tanto sarà ottenuto, quanto le opinioni, le volontà di quel solo corrisponderanno e tenderanno effettivamente al detto fine; e quanto i suoi interessi saranno tutta una cosa cogl'interessi comuni.
Ecco la necessità di un principe quasi perfetto: irreprensibile nei giudizi e opinioni [551]prudenza ec.
per discernere e determinare il vero bene universale e i veri mezzi di ottenerlo; irreprensibile nelle volontà, e quindi nei costumi, nella coscienza, nelle inclinazioni, nelle opere, nella vita (in quanto concerne il detto fine), per diriggere effettivamente le sue forze e quelle de' sudditi a quel fine, nel quale egli giudica riposto il comun bene.
Se il principe non è tale, siamo da capo.
Siccome egli è divenuto l'anima e la testa, e in somma la forza movente della società, anzi si può dire che la forza attiva e negativa della società sia tutta riposta e rinchiusa in lui; così quanto egli non mira al ben comune (o per difetto di giudizio, o di volontà), tanto la società manca di nuovo della sua ragione, si allontana dal suo fine, e diventa di nuovo inutile e dannosa.
E tanto più dannosa, quanto maggiori sono i mali che derivano dalla servitù, dall'esser tutti destinati al bene di un solo, dall'impiegare le loro forze non più pel loro bene, nè pubblico, nè pure individuale, ma per li capricci, e le soddisfazioni di un solo, il quale può anche volere, e spesso vuole il danno comune, e così tutti sono obbligati non solo a non proccurare il loro bene, ma il loro [552]male.
In somma tutte le calamità che derivano dalla tirannia, stato direttamente contrario alla natura di tutti i viventi d'ogni specie, e quindi certa sorgente d'infelicità.
Così la società diviene un male infinito, diviene formalmente l'infelicità degli uomini che la compongono: infelicità maggiore o minore, in proporzione che il principe, il quale viene a racchiudere in se stesso la società, si allontana per qualunque motivo dal di lei fine, ch'è divenuto in diritto e in dovere il suo proprio fine.
Se dunque la società non può stare, anzi non esiste senza unità; e la perfetta unità non può stare senza un principe assoluto; nè questo principe corrisponde al fine di essa unità, e società, e di se stesso, se non è perfetto; perchè il governo monarchico e la società sia perfetta, è necessario che il principe sia perfetto.
Perfezione ancorchè relativa, non si dà fra gli uomini, nè fra gli animali, nè fra le cose.
Ed ecco lo stato di società necessariamente imperfetto.
Ma parlando di quella perfezione che è nell'uso e nella vita comune (Cic.
de Amicit.
c.5.); un principe [553]perfetto in questo senso si poteva trovare nei principii della società.
1.
Perchè la virtù, le illusioni che la producono e conservano, esistevano allora: oggi non più.
2.
Perchè la scelta può cadere sopra il più degno e il più capace, tanto per ingegno e giudizio, quanto per buona e retta volontà, di corrispondere al fine del principato e della società, ossia 1° di conoscere, 2° di proccurare il ben comune di quel corpo che lo sceglieva.
Se dunque i primi popoli, le prime società, scelsero al principato quell'uomo che eminebat per doti dell'animo e del corpo, vere e convenienti alla detta dignità, o piuttosto uffizio e incarico; certo i primi popoli provviddero quanto può l'uomo, al fine della società, vale a dire al bene comune; e quindi alla perfezione della società.
Se questa scelta, questo patto sociale, di ubbidire pel comune vantaggio ad un solo che fosse degno e capace di conoscerlo e proccurarlo, abbia mai avuto luogo effettivamente; non [554]appartiene al mio proposito.
Questo discorso non considera nè deve considerare altro che la ragione delle cose, e quindi come avrebbero dovuto andare, e avrebbero potuto andare da principio, e secondo natura; non come sono andate, o vanno.
Del resto negli scarsi vestigi storici che rimangono delle antichissime monarchie (e questo discorso non appartiene se non alle antichissime e primitive), non mancherebbero esempi e argomenti di effettiva e realizzata corrispondenza del primitivo governo monarchico, col pubblico bene delle rispettive società.
Così nei popoli Americani, così nei selvaggi (dove la tirannia par che s'ignori, sebbene si conosca la monarchia, o militare, o civile), così negli antichi Germani, de' quali Tacito ed altri; così fra i Celti, de' quali Ossian; così fra i greci Omerici, sebben questi appartengono precisamente a un grado di monarchia posteriore al primitivo.
Insomma considerando le storie de' primi tempi, si può vedere che l'idea della tirannia, sebbene antica, non è però antichissima: [555]bensì antichissima e primordiale nella società è l'idea della monarchia assoluta.
V.
Goguet, Origine delle scienze e delle arti.
Assoluta s'intende, non mica in modo che questa parola fosse pronunziata, e stabilita, e riconosciuta per costituente la natura di quel tale governo.
Ma senza tante definizioni, e sanzioni, e formole, e spirito geometrico, gli antichi popoli si sottomettevano col fatto al reggimento di un solo assolutamente; senza però neppur pensare ch'egli dovesse esser padrone della vita, dell'opera, e delle sostanze loro a capriccio, ma in vantaggio di tutti; giacchè le esattezze, le definizioni, le circoscrizioni, le formole chiare e precise, non sono in natura, ma inventate e rese necessarie dalla corruzione degli uomini, i quali oggidì hanno bisogno di stringere ed essere stretti con leggi, patti, obbligazioni (o morali o materiali) distintissime, minutissime, specificatissime, numerosissime, matematiche ec.
perchè si tolga alla malizia ogni sutterfugio, ogni scanso, ogni equivoco, ogni libertà, ogni campo aperto e indeterminato.
E già vengo a quesa corruzione.
[556]Essendo gli uomini quali ho detto di sopra, si poteva trovare un principe e capace e buono.
Essendo la società nello stato primitivo e naturale, senza troppe regole, senza troppa ambizione, senza impegni, senz'altre corruzioni e impedimenti; si poteva e scegliere il detto uomo, e morto, sceglierne altro similmente degno.
Ridotti gli uomini allo stato di depravazione (e il nostro discorso comprende tanto l'antica, quanto la moderna depravazione, perchè anche l'antica bastava all'effetto che dirò), non fu più possibile trovare un principe perfetto.
Quando anche si fosse trovato, non fu più possibile, ch'egli divenuto principe, si conservasse tale: sì per la corruzione individuale degli uomini; sì per la generale della società; i costumi mutati, le illusioni cominciate a scoprire, la virtù cominciata a conoscere inutile o meno utile di certi vizi, gli esempi che hanno forza di guastare qualunque divina indole.
In somma non fu più possibile che l'uomo anche più perfetto, avuto in mano il potere, non se ne abusasse.
Quando anche [557]fosse stato possibile questo ancora, la depravazione della società, la malizia nata e cresciuta, l'ambizione ec.
e quindi la necessità di regole fisse, strette, e indipendenti dall'arbitrio, rendevano impossibile la scelta del successore.
Bisognò dunque, perch'ella fosse certa e invariabile commetterla al caso, e stabilire il regno ereditario.
E dove questo non fu stabilito, non si guadagnò altro che un aumento di mali nelle turbolenze della scelta, perchè la società ridotta com'era, non poteva più scegliere nè senza turbolenza, nè un principe degno.
Dacchè il monarca non fu più o eleggibile, o bene scelto, la monarchia divenne il peggiore di tutti gli stati.
Perchè un uomo veramente perfetto per quell'incarico, essendo raro da principio, rarissimo in seguito, com'era possibile, che senza una scelta accurata, si potesse trovare quest'uomo rarissimo, capace del principato? Com'era possibile che [558]l'azzardo della nascita, o di una scelta parimente, si può dir casuale, perchè diretta da tutt'altro che dal vero, si combinasse a cadere appunto in quest'uomo sommo e quasi unico, difficilissimo a trovare anche mediante la più matura considerazione e cura? Tanto più che la corruzione della società, esigeva allora in un perfetto principe, maggiori e più difficili qualità che per l'addietro: così che non solo il buono era più straordinario di prima, ma inoltre un principe che sarebbe stato perfetto una volta, non era più sufficientemente perfetto per allora.
La perfezione dunque del principe cosa essenziale alla monarchia, non fu più nè considerata, nè possibile, nè effettiva, e non entrò più nell'ordine della società.
E siccome, oltre che la perfezione era rarissima, il principe era tale in forza non della perfezione, ma del caso, perciò, egli poteva non solo non essere il migliore, ma anche il peggiore degl'individui: e ciò non solo per accidente, ma anche perchè la natura della sua condizione, il potere, l'adulazione ec.
contribuivano [559]positivamente, definitamente, e necessariamente a farlo tale.
Da che dunque il principe fu cattivo, o non perfetto, la monarchia perdè la sua ragione, perchè non poteva più corrispondere al suo scopo, cioè al ben comune.
L'unità restava, ma non il di lei fine: anzi l'unità in vece di condurre al detto fine, era un mezzo di allontanarlo, e renderlo impossibile.
Così anche la società, perduta la sua ragione e il suo scopo, cioè il comun bene, tornava ad essere inutile e dannosa, con quel di più che risultava dall'assurdità, barbarie, e pregiudizio sommo, dell'esser tutti nelle mani di un solo, inteso a danneggiarli.
In questo stato tornava meglio, o sciorre affatto la società, o diminuire, laxare, quell'unità, ch'essendo da principio e in natura il massimo e più necessario de' beni sociali, così dopo la corruzione, è il sommo de' mali, e l'istrumento e sorgente delle più terribili infelicità.
[560]Allora fu che i popoli abbandonando, e distruggendo il loro primo, vero, e naturale governo, inerente alla vera natura della società, si rivolsero ad altri governi, alle repubbliche ec.
divisero i poteri, divisero in certo modo l'unità; ripigliando quella parte di libertà e di uguaglianza, che restava loro sotto la primitiva monarchia, andarono anche più oltre, e ne ripigliarono tanta, quanta non era compatibile colla natura e ragione della società.
Ed era ben naturale, perchè quel monarca assoluto che doveva disporre di quest'altra porzione di libertà ec.
non esistendo più pel comun bene, non doveva più sussistere, nè sussisteva.
Così le repubbliche d'ogni qualsivoglia sorta, e in ragione e in fatto sono posteriori alla monarchia assoluta, e l'idea e l'esistenza della tirannia non è antichissima, ma nella teoria, ed effettivamente nella storia, precede immediatamente l'idea e l'esistenza degli stati liberi.
Giacchè l'antichissima e primitiva forma e idea di governo, non è altra che quella dell'assoluta monarchia.
Osservate la storia greca, osservate la romana.
V.
Goguet loc.
cit.
Dovunque e sempre la monarchia [561]precede la libertà, e la libertà nasce dalla corrotta monarchia, come dalla libertà anche più corrotta successivamente, e più cattiva di quello che fosse nel suo primo rinascimento, nasce una nuova monarchia: libertà e nuova monarchia tutte due cattive, perchè tutte due derivate da cattivo principio.
Eccetto che la libertà ed uguaglianza naturale precede la monarchia primitiva, o nello stato dell'uomo insociale e solitario, o in quella prima infanzia della società, dov'ella è piuttosto un'adunanza materiale d'uomini che una società.
Riprendendo il filo del discorso: coll'influenza, la forza, la viridità, l'osservanza della natura, era finita la perfezione e l'utilità dell'assoluta monarchia: coll'assoluta monarchia era finito lo stato vero ed essenziale della società.
Lungi dunque dalla natura, e lungi dall'essenza di se stessa, la società non poteva esser più felice.
Nè vi poteva più esser governo perfetto, non solo perchè l'uomo era allontanato dalla natura, fuor della [562]quale non v'è perfezione in qualunque stato; ma anche e principalmente perchè quel solo governo che potesse da principio esser perfetto, perchè il solo conveniente all'essenza della società, era da circostanze irrimediabili e perpetue escluso per sempre dalla perfezione; ed anche (presso questo o quel popolo) escluso effettivamente ed intieramente dalla società.
La natura, sola fonte possibile di felicità anche all'uomo sociale, è sparita.
Ecco l'arte, la ragione, la meditazione, il sapere, la filosofia si fanno avanti per supplire all'assenza o corruzone della natura, rimediarci, sostituire i loro (pretesi) mezzi di felicità, ai mezzi della natura; occupare in somma il luogo da cui la natura era cacciata, e far le di lei veci; condurre l'uomo cioè a quella felicità, a cui la natura lo conduceva.
Quante forme di governo non sono state ideate! quante messe in pratica! quanti sogni, quante chimere, quante utopie ne' pensieri de' filosofi! certo essi erravano ne' principii, giacchè pretendevano d'immaginare un governo perfetto, e [563](lasciando tutto il resto, lasciando le assurdità e impossibilità nell'applicazione delle loro teoriche al fatto) la perfezione possibile del governo non è altra che quella che ho detta; perfezione semplicissima, e che non ha bisogno di studi, meditazioni, esperienze, complicazioni per esser trovata e conseguita; anzi non è perfezione se è complicata, ma non può esser altro che semplicissima.
Fra tante miserie di governi che quasi facevano a gara, qual fosse il più imperfetto e cattivo, e il meglio adattato a proccurare l'infelicità degli uomini; egli è certo ed evidente, che lo stato libero e democratico, fino a tanto che il popolo conservò tanto di natura da esser suscettibile in potenza ed in atto, di virtù di eroismo, di grandi illusioni, di forza d'animo, di buoni costumi; fu certamente il migliore di tutti.
L'uomo non era più tanto naturale, da potersi trovar uno che reggesse al dominio senza corrompersi, e senza abusarne: e dopo inventata la malizia, il potere senza limiti, non poteva più sussistere, nè per parte del principe che ne [564]abusava inevitabilmente, nè per parte del popolo.
Perchè se questo non era costretto e circoscritto da freni, da leggi, da forze, in somma da catene, non era più capace di ubbidire spontaneamente, di badare tranquillamente alla sua parte, di non usurpare, non sacrificare il vicino, o il pubblico a se stesso, non aspirare all'occasione anche al principato, in somma non era capace di non tendere alla ??????????in ogni cosa.
L'ubbidienza e sommissione totale al principe, e l'esser pronto a servirlo, non è insomma altro che un sacrifizio al ben comune, un esser pronto a sacrificarsi per gli altri, un contribuire pro virili parte al pubblico bene.
Dico quando la detta sommissione è spontanea.
Ma l'egoismo non è capace di sacrifizi.
Dunque la detta sommissione spontanea non era più da sperare; la comunione degl'interessi d'ogni individuo coll'interesse pubblico era impossibile.
Nato dunque l'egoismo, nè il popolo poteva ubbidir più se non era servo, nè il principe comandare senza esser tiranno.
(V.
p.523.
capoverso ult.) Le cose non andavano più alla buona, nè secondo natura, e questo o quello non andava in questo o quel modo, se non per una necessità certa e definita: ed era divenuta indispensabile, quella che ora lo è molto più, in proporzione della maggior corruttela, cioè la matematica delle cose, delle regole, delle forze.
[565]Ma restava ancora nel mondo tanta natura, tanta forza di credenze naturali o illusioni, da poter sostenere lo stato democratico, e conseguirne una certa felicità e perfezione di governo.
Uno stato favorevolissimo alle illusioni, all'entusiasmo ec.
uno stato che esigge grand'azione e movimento: uno stato dove ogni azione pubblica degl'individui è sottoposta al giudizio, e fatta sotto gli occhi della moltitudine, giudice, come ho detto altrove, per lo più necessariamente giusto; uno stato dove per conseguenza la virtù e il merito non poteva mancar di premio; uno stato dove anzi era d'interesse del popolo il premiare i meritevoli, giacchè questi non erano altro che servitori suoi, ed i meriti loro, non altro che benefizi fatti al popolo, il quale conveniva che incoraggisse gli altri ad imitarli; uno stato dove, se non altro, e malgrado le ultime sventure individuali, non può quasi mancare al merito, ed alle grandi azioni il premio della gloria, quel fantasma immenso, quella molla onnipotente nella società; uno stato, del [566]quale ciascuno sente di far parte, e al quale però ciascuno è affezionato, e interessato dal proprio egoismo, e come a se stesso; uno stato dove non c'è molto da invidiare, perchè tutti sono appresso a poco uguali, i vantaggi sono distribuiti equabilmente, le preminenze non sono che di merito e di gloria, cose poco soggette all'invidia, e perchè la strada per ottenerle è aperta a ciascheduno, e perchè non si ottengono se non per mezzo e volontà di ciascheduno, e perchè ridondano in vantaggio della moltitudine; in somma uno stato che sebbene non è il primitivo della società, è però il primitivo dell'uomo, naturalmente libero, e padrone di se stesso, e uguale agli altri (come ogni altro animale), e quindi moltissimo della natura sola sorgente di perfezione e felicità: un simile stato finchè restava tanta natura da sostenerlo, e quanta bastava perch'egli fosse ancora compatibile colla società; era certamente dopo la monarchia primitiva, il più conveniente all'uomo, il più fruttuoso alla vita, il più felice.
[567]Tale fu appresso a poco lo stato delle repubbliche greche fino alle guerre persiane, della romana fino alle puniche.
Ma come l'uguaglianza è incompatibile con uno stato il cui principio è l'unità, dal quale vengono necessariamente le gerarchie; così la disuguaglianza è incompatibile con quello stato, il cui principio è l'opposto dell'unità, cioè il potere diviso fra ciascheduno, ossia la libertà e democrazia.
La perfetta uguaglianza è la base necessaria della libertà.
Vale a dire, è necessario che fra quelli fra' quali il potere è diviso, non vi sia squilibrio di potere; e nessuno ne abbia più nè meno di un altro.
Perchè in questo e non in altro è riposta l'idea, l'essenza e il fondamento della libertà.
Ed oltre che senza questo, la libertà non è più vera, nè intera; non può neanche durare in questa imperfezione.
Perchè, come l'unità del potere porta il monarca ad abusarsene, e passare i limiti; così la maggioranza del potere, porta il maggiore ad abusarsene, e cercare di accrescerlo; e così le [568]democrazie vengono a ricadere nella monarchia.
Nè solamente la ??????????del potere, ma ogni sorta di ?????????, è incompatibile e mortifera alla libertà.
Nella libertà non bisogna che l'uno abbia sopra l'altro nessun avvantaggio se non di merito o di stima, in somma di cose che non possano essere nè invidiate per parte degli altri, nè abusate, e portate oltre i limiti da chi le possiede.
Altrimenti nascono le invidie negli uni, il desiderio di maggior superiorità negli altri.
Questi cercano d'innalzarsi, quelli di non restare al di sotto, o di conseguire gli stessi vantaggi.
Quindi fazioni, discordie, partiti, clientele, risse, guerre, e alla fine vittoria e preponderanza di un solo, e monarchia.
Perciò gli antichi legislatori, come Licurgo, o i savi repubblicani, come Fabrizio, Catone ec.
proibivano le ricchezze, gastigavano chi possedeva troppo più degli altri (come fece Fabrizio nella censura), proscrivevano il sapere, le scienze, le arti, la coltura dello spirito, insomma ogni sorta di ?????????.
Perciò tutte le repubbliche e democrazie vere, sono state povere e ignoranti [569]finchè ha durato il loro ben essere.
Perciò gli Ateniesi arrivavano ad esser gelosissimi anche del troppo merito, della virtù segnalata, della mera gloria, ancorchè spoglia di onori esterni; ed è osservabile che la superiorità del merito anche fra i Romani fu tanto più sfortunata, quanto la democrazia era più perfetta, cioè ne' primi tempi, come in Coriolano, in Camillo ec.
Colle ricchezze, il lusso, le aderenze, la coltura degl'ingegni, la troppa disuguaglianza delle dignità, ed onori esteriori, del potere ec.
ed anche la sola eccessiva sproporzione del merito e della pura gloria, perirono, e sempre periranno tutte le democrazie.
Ma siccome è impossibile la durevole conservazione della perfetta uguaglianza, e la perfetta uguaglianza è il fondamento essenziale, e la conservatrice sola e indispensabile della democrazia, così questo stato non può durar lungo tempo, e si risolve naturalmente nella monarchia, se non è abbastanza fortunato per cader piuttosto nell'oligarchia, o nel governo degli ottimati, cioè nell'aristocrazia, le quali [570]però non sono ordinariamente, anzi si può dir sempre, fuori che un altro gradino alla monarchia.
V.
p.608.
capoverso 1.
Il solo preservativo contro la troppa e nocevole disuguaglianza nello stato libero, è la natura, cioè le illusioni naturali, le quali diriggono l'egoismo e l'amor proprio, appunto a non voler nulla più degli altri, a sacrificarsi al comune, a mantenersi nell'uguaglianza, a difendere il presente stato di cose, e rifiutare ogni singolarità e maggioranza, eccetto quella dei sacrifizi, dei pericoli, e delle virtù conducenti alla conservazione della libertà ed uguaglianza di tutti.
Il solo rimedio contro le disuguaglianze che pur nascono, è la natura, cioè parimente le illusioni naturali, le quali fanno e che queste disuguaglianze non derivino se non dalla virtù e dal merito, e che la virtù e l'eroismo comune della nazione, le tolleri, anzi le veda di buon occhio, e senza invidia, e con piacere, come effetto del merito, e non si sforzi di arrivare a quella superiorità, se non per lo stesso mezzo della virtù e del merito.
E che quelli che hanno conseguita la detta superiorità, sia di gloria, sia di uffizi e dignità (giacchè quella di ricchezze, e altri tali vantaggi, non ha luogo finchè dura nella [571]repubblica l'influenza della natura), non se ne abusino, non cerchino di passar oltre, sieno contenti, anzi impieghino il poter loro a mantener l'uguaglianza e libertà, si comunichino agli altri, diminuiscano l'invidia de' loro vantaggi col fuggire l'orgoglio, la cupidigia, il disprezzo o l'oppressione degli inferiori ec.
ec.
ec.
E tutto questo accadeva effettivamente nei primi e migliori tempi delle antiche democrazie, cioè ne' più vicini alla natura, e per gli effetti e le opere e i costumi, e materialmente per l'età.
Ma spente le illusioni, scemata o tolta la natura, tornato in campo il basso egoismo fomentato dai vantaggi e dai mezzi d'ingrandimento nei superiori, irritato negl'inferiori dalla stessa inferiorità, aggiunte le ricchezze, il lusso, le clientele, gl'impegni, le ambitiones, la filosofia, l'eloquenza, le arti, e le altre infinite corruzioni e ?????????? della società, le democrazie s'indebolirono, crollarono e finalmente caddero.
E qui torniamo al principio del nostro discorso, [572]cioè come i governi che paiono e si trovano oggi imperfettissimi, e talora insostenibili, fossero o perfetti, o buoni, ed anche utilissimi da principio, e durante i costumi naturali.
E come non vi sia peste, nè maggiore nè più certa a qualsivoglia stato pubblico, che la corruzione, e l'estinzione della natura.
E come quei governi che durando la natura erano buoni, cessata la natura divengono senz'altro pessimi.
E come alla natura non si può supplire, e la mancanza di lei non ha rimedio nessuno; nè senza lei si può mai sperare perfezione o felicità di governo fino alla fine dei secoli; ma tutto (e sia pure il governo il più profondamente studiato, combinato, e perfettamente filosofico) sarà sempre imperfettissimo, pieno di elementi discordanti, mal adattato all'uomo (al quale nulla si può più adattare, quand'egli non è più quello che dovrebb'essere), inetto alla vera felicità; e quindi o in fatto, o certo nella vera teorica, precario, istabile, mal situato, mal piantato, barcollante, incongruente, incoerente, [573]falso ec.
Il che si potrà anche vedere da quello che segue.
Tutti i vari governi per li quali andò successivamente o simultaneamente errando o lo spirito umano, o il caso, o la forza delle circostanze particolari, non servirono ad altro che a disperare i veri filosofi (certamente pochi), convinti dall'esperienza della necessaria imperfezione, infelicità, contraddizione e sconvenienza di tutto quello che 1° mancava di natura sola norma vera e invariabile d'ogni istituzione mondana; 2° non corrispondeva all'essenza e alla ragione della società, la quale richiede la monarchia assoluta.
Quasi tutte però le diverse aberrazioni della società in ordine ai governi, vennero a ricadere in questa monarchia, stato naturale della società, e il mondo, massime in questi ultimi secoli, era divenuto, si può dir, tutto monarchico assoluto.
Specialmente poi dall'abuso e corruzione della libertà e democrazia, nata immediatamente dall'abuso e corruzione della [574]monarchia assoluta, era nata pure immediatamente una nuova monarchia assoluta.
Ma non già quella primitiva, quella ch'era buona ed utile e conveniente alla società durante l'influenza della natura, e mediante questa sola: ma quella che può essere nell'assenza della natura; cioè quella tanto essenzialmente pessima, quanto la primitiva è sostanzialmente e solamente ottima: Insomma la tirannia, perchè la monarchia assoluta senza natura, non può esser altro che tirannia, più o meno grave, e quindi forse il pessimo di tutti i governi.
E la ragione è, che tolte le credenze e illusioni naturali, non c'è ragione, non è possibile nè umano, che altri sacrifichi un suo minimo vantaggio al bene altrui, cosa essenzialmente contraria all'amor proprio, essenziale a tutti gli animali.
Sicchè gli interessi di tutti e di ciascuno, sono sempre infallibilmente posposti a quelli di un solo, quando questi ha il pieno potere di servirsi degli altri, e delle cose loro, per li vantaggi e piaceri suoi, sieno anche capricci, insomma per qualunque soddisfazione sua.
Il mondo ha marcito appresso a poco in questo stato dal principio dell'impero romano, fino al nostro secolo.
Nell'ultimo secolo, la filosofia, la cognizione delle cose, l'esperienza, lo studio, l'esame delle storie, degli uomini, i confronti, i paralelli, il commercio scambievole d'ogni sorta d'uomini, di nazioni, di costumi, le scienze d'ogni qualità, le arti ec.
ec.
hanno fatto progressi tali, che tutto il mondo rischiarato e istruito, si è rivolto a considerar se stesso, e lo stato suo, e quindi principalmente [575]alla politica ch'è la parte più interessante, più valevole, di maggiore e più generale influenza nelle cose umane.
Ecco finalmente che la filosofia, cioè la ragione umana, viene in campo con tutte le sue forze, con tutto il suo possibile potere, i suoi possibili mezzi, lumi, armi, e si pone alla grande impresa di supplire alla natura perduta, rimediare ai mali che ne son derivati, e ricondurre quella felicità ch'è sparita da secoli immemorabili insieme colla natura.
Giacchè insomma la felicità e non altro, è o dev'esser lo scopo di questa nostra oramai perfetta ragione, in qualunque sua opera: come questo è lo scopo di tutte le facoltà ed azioni umane.
Che saprà fare questa ragione umana venuta finalmente tutta intiera al paragone della natura, intorno al punto principale della società? Lascio gli esperimenti fatti in Francia negli ultimi del passato, e nei primi anni di questo secolo.
Riconosciuta per indispensabile la monarchia, e d'altronde la monarchia [576]assoluta per tutt'uno colla tirannia, la filosofia moderna s'è appigliata (e che altro poteva?) al partito di puntellare.
Non idee di perfetto governo, non ritrovati, scoperte, forme di essenziale e necessaria perfezione.
Modificazioni, aggiunte, distinzioni, accrescere da una parte, scemare dall'altra, dividere, e poi lambiccarsi il cervello per equilibrare le parti di questa divisione, toglier di qua, aggiunger di là: insomma miserabili risarcimenti, e sostegni, e rattoppature e chiavi, e ingegni d'ogni sorta, per mantenere un edifizio, che perduto il suo ben essere, e il suo stato primitivo, non si può più reggere senza artifizi che non entrano affatto nell'idea primaria della sua costruzione.
La monarchia assoluta s'è cangiata in molti paesi (ora mentre io scrivo s'aspetta che lo stesso accada in tutta Europa) in costitutiva.
Non nego che nello stato presente del mondo civile, questo non sia forse il miglior partito.
Ma insomma questa non è un'istituzione che abbia il suo fondamento e la sua ragione nell'idea e nell'essenza o della società in generale e assolutamente, o [577]del governo monarchico in particolare.
È un'istituzione arbitraria, ascitizia, derivante dagli uomini e non dalle cose: e quindi necessariamente dev'essere istabile, mutabile, incerta e nella sua forma, e nella durata, e negli effetti che ne dovrebbero emergere perch'ella corrispondesse al suo scopo, cioè alla felicità della nazione.
1° Tutto quello che non ha il suo fondamento nella natura della cosa, ha un'esistenza sostanzialmente precaria.
La cosa può restare, e la modificazione perire, alterarsi, dimenticarsi abbandonarsi, diversificarsi in mille guise, non ottenere il suo scopo, restare quanto al nome e all'apparenza, non quanto al fatto.
Insomma le convengono tutte quelle proprietà, che nelle scuole si attribuiscono all'accidente, e che lo definiscono.
Di più, ancorchè resti, e resti in tutta la sua relativa perfezione o integrità, difficilmente può giovare, e valere, e tornare in bene, non avendo la sua propria ragione nell'essenza e natura della cosa.
2° La ragione e l'essenza della monarchia consiste in questo, che alla società è necessaria [578]l'unità.
L'unità non è vera se il capo o principe non è propriamente e interamente uno.
Questo non vuol dir altro se non che essere assoluto, cioè padrone egli solo di tutto quello che concerne il suo fine, cioè il bene comune.
Quanto più si divide il potere, tanto più si pregiudica all'unità, dunque tanto più si viola, si allontana e si esclude la ragione e la perfezione e della monarchia e della società.
Così che lo stato costituzionale non corrisponde alla natura e ragione nè della società in genere, nè della monarchia in specie.
Ed è manifesto che la costituzione non è altro che una medicina a un corpo malato.
La qual medicina sarebbe aliena da quel corpo, ma questo non potrebbe vivere senza lei.
Dunque bisogna compensare l'imperfezione della malattia, con un'altra imperfezione.
E così appunto la costituzione non è altro che una necessaria imperfezione del governo.
Un male indispensabile per rimediare o impedire un maggior male.
Come un cauterio in un individuo affetto da reumi ec.
Che sebbene quell'individuo vive [579]mediante quel cauterio, altrimenti non vivrebbe; e sebbene è libero da quel male, contro il quale è diretto quel rimedio: contuttociò quello stesso rimedio è un male, un vizio, un'imperfezione: e sebbene non nuoce più il primo male, nuoce il rimedio: e quell'individuo non è mica perfetto nè sano.
Così una gamba di legno a chi ha perduto la naturale.
Il quale cammina bensì con quella gamba, che altrimenti non potrebbe sostenersi: ma non perciò resta ch'egli non sia imperfetto.
Ed ecco (per conclusione del mio discorso) come quei governi e quelle cose d'ogni genere, che da principio e secondo natura, sarebbero ed erano perfette, tolta la natura, non possono più esserlo malgrado qualunque sforzo della ragione, del sapere, dell'arte: e queste non possono mai riempiere il luogo della natura, e fare perfettamente le di lei veci: anzi rimediando a un male, ne introducono necessariamente un altro: perchè esse stesse introdotte che sono in qualunque genere di cose, ne formano un'imperfezione, e rendono quella tal cosa imperfetta per ciò solo che le contiene.
(22-29.
Gen.
1821.)
Da tutto il sopraddetto deducete questo corollario.
L'uomo è naturalmente, primitivamente, [580]ed essenzialmente libero, indipendente, uguale agli altri, e queste qualità appartengono inseparabilmente all'idea della natura e dell'essenza costitutiva dell'uomo, come degli altri animali.
La società è nello stesso modo primitivamente ed essenzialmente dipendente e disuguale, e senza queste qualità la società non è perfetta, anzi non è vera società.
Pertanto l'uomo in società bisogna che necessariamente si spogli e perda delle qualità essenziali, naturali, ingenite, costitutive, e inseparabili da se stesso.
Le quali egli può ben perdere in fatto, ma non in ragione, perchè come si può considerare un essere spoglio di una sua qualità intrinseca, costitutiva, e indipendente affatto dalle circostanze e dalle forze, o esterne o accidentali, perch'essendo primitiva e naturale, è necessaria, e durevole in ragione, quanto dura quell'essere che la contiene, e ne è composto? Sarebbe lo stesso che voler considerare un uomo senza la facoltà del pensiero, la quale è parimente indipendente dagli accidenti.
In questa ipotesi, sarà un altro [581]essere, ma non un uomo.
Dunque un uomo privo della libertà e della uguaglianza in ragione, sarebbe privo dell'essenza umana, e non sarebbe un uomo, ch'è impossibile.
Nè egli si può condannare a perdere realmente e radicalmente questa qualità, neppure spontaneamente: e nessuna promessa, contratto, volontà propria e libera, lo può mai spogliare in minima parte del diritto di seguire in tutto e per tutto la sua volontà, oggi in un modo, domani in un altro: e come egli ha potuto adesso volontariamente ubbidire, e promettere di ubbidire per sempre; così l'istante appresso egli può disubbidire in diritto, e non può non poterlo fare.
V.
p.452.
capoverso 1.
Dunque la società, spogliando l'uomo in fatto, di alcune sue qualità essenziali e naturali, è uno stato che non conviene all'uomo, non corrisponde alla sua natura; quindi essenzialmente e primitivamente imperfetto, ed alieno per conseguenza dalla sua felicità: e contraddittorio nell'ordine delle cose.
Del resto tutto quello ch'io dico della necessità dell'unità, e quindi dipendenza [582]soggezione e disuguaglianza nella società, non appartiene e non ha forza in quanto a quella società veramente primordiale, che entra nell'essenza, ordine e natura della specie umana e degli animali: società imperfetta in quanto società; perfetta in quanto all'essenza vera e primitiva dell'uomo e degli animali, e all'ordine delle cose, dove nulla è perfetto assolutamente, ma relativamente.
Volendo appurare l'idea della società, ne risulta direttamente la conseguenza che ho detto, cioè la necessità dell'unità, e quindi della monarchia ec.
Ma questi appuramenti, queste circoscrizioni, queste esattezze, queste strettezze, queste sottigliezze, queste dialettiche queste matematiche non sono in natura, e non devono entrare nella considerazione dell'ordine naturale, perchè la natura effettivamente non le ha seguite.
E non solo non è imperfetto quello che non corrisponde geometricamente alle dette idee, purchè però sia naturale; ma anzi non può esser perfetto tutto quello che vien ridotto e conformato alle dette idee, perchè non è più conforme al suo [583]stato essenziale e primitivo.
E dovunque ha luogo la perfezione matematica, ha luogo una vera imperfezione (quando anche questa rimedii ad altri più gravi inconvenienti e corruzioni), cioè discordanza dalla natura, e dall'ordine primitivo delle cose, il quale era combinato in altro modo, e fuor del quale non v'è perfezione, benchè questa non sia mai assoluta, ma relativa.
La stretta precisione entra nella ragione e deriva da lei, non entrava nel piano della natura, e non si trovava nell'effetto.
È necessaria ai nostri tempi, dove l'ordine delle cose è corrotto, ed è come degnissimo d'osservazione altrettanto evidente e osservato, che la stretta precisione delle leggi, istituzioni, statuti governi ec.
insomma delle cose, è sempre cresciuta in proporzione che gli uomini e i secoli sono stati più guasti: ed ora è venuta al colmo, perchè anche la corruzione è eccessiva, e ha passato tutti i limiti.
L'appresso a poco, il facilmente e simili altre idee, non convengono ai sistemi presenti, dove nulla è, se può non essere: convengono ottimamente [584]alla natura, dove infinite cose erano, e potevano non essere, ma la natura aveva provveduto bastantemente, quando avea provveduto che non fossero, e non erano in fatto.
Altrimenti come si sarebbe potuta corromper la natura, e l'ordine delle cose, in quel modo in cui vediamo che ha fatto? Della qual corruzione, tutti, più o meno, bisogna che convengano.
Ma ciò non avrebbe potuto accadere se tutto quello che era, non avesse potuto non essere, nè essere nè andare altrimenti.
Il qual effetto è lo scopo della ragione e de' presenti sistemi, sempre diretti a rendere impossibile il contrario, se il sistema appartiene alla pratica, e a dimostrare impossibile il contrario, se il sistema appartiene alla speculativa.
Questa pure è una gran fonte di errori ne' filosofi, massime moderni, i quali assuefatti all'esattezza e precisione matematica, tanto usuale e di moda oggidì, considerano e misurano la natura con queste norme, credono che il sistema della natura debba corrispondere a questi principii; e non credono naturale quello che non è preciso e matematicamente esatto: quando anzi per lo contrario, [585]si può dir tutto il preciso non è naturale: certo è un gran carattere del naturale il non esser preciso.
Ma il detto errore è fratello di quello che suppone nelle cose il vero, il bello, il buono, la perfezione assoluta.
Nella natura e nell'ordine delle cose bisogna considerare la disposizion primitiva, l'intenzione, il come le cose andassero da principio, il come piaccia alla natura che vadano, il come dovrebbero andare; non la necessità, nè il come non possano non andare.
Ed egli è certissimo che, sebben l'ordine delle cose andava naturalmente nell'ottimo modo possibile, e regolarissimamente, contuttociò andava alla buona; e la massima parte delle cagioni corrispondeva agli effetti sufficientemente (che questo si richiede alla provvidenza dell'effetto voluto: la sufficienza della causa), non necessariamente.
E ciò non solo negli uomini, ma negli animali, e in tutti gli altri ordini di cose.
E perciò appunto si trovano e accadono tuttogiorno nel mondo tanti inconvenienti, aberrazioni, accidenti particolari contrari all'ordine generale: e non parlo già di quelli soli che derivano da noi, ma di quelli indipendenti [586]affatto dall'azione e dall'ordine nostro.
I quali accidenti che si chiamano mali, disastri, ec.
danno tanto che fare ai filosofi, i quali non vedono come possano aver luogo nell'opera della natura: ed alcuni sono stati così temerari, che siccome la ragione nelle sue piccole opere si sforza di escludere la possibilità d'ogni accidente particolare contrario a quel tal ordine generale; così hanno creduto che se la ragione umana avesse presieduto all'opera della natura, questi accidenti non avrebbero avuto luogo.
Ma le dette imperfezioni accidentali non entrano nel piano della natura, (sebbene neppur questo possiamo dire non conoscendo l'intero ordine ed armonia delle cose): non ne sono però matematicamente e necessariamente esclusi; e sono da lei quasi permessi, in quel modo come dicono i Teologi che Dio permette il peccato, ch'è sommo male e imperfezione, ma accidentale: e in ogni modo il piano, il sistema, la macchina della natura, è composta e organizzata in altra maniera da quella della ragione, e non risponde all'esattezza matematica.
[587]Così dunque la società veramente primordiale, e naturale alla specie umana, come a quelle dei bruti, senza principato, senza soggezione, senza disuguaglianza, senza gradi, senza regole, poteva benissimo corrispondere al fine, cioè al comun bene, come vi corrisponde quella delle formiche: al qual fine non può mai corrispondere una società più stretta e formata, se manca di unità.
Ma quella primissima società camminava alla buona, e così alla buona conseguiva l'intento della natura, e la sua destinazione.
Nè per questo era necessario opporsi alla natura, e introdurre una contraddizione tra il fatto e il diritto, una contraddizione nell'ordine delle cose umane, introducendo qualità contrarie alle qualità ingenite ed essenziali dell'uomo; vale a dire la soggezione e disuguaglianza contrarie alla libertà ed uguaglianza naturale.
Che se le api hanno un capo, e quindi soggezione e disparità, questo non fa obbiezione veruna.
Tutto essendo relativo, la natura che ha fatto gli uomini liberi e uguali, e così infinite altre specie di animali; poteva far le api (e altre tali specie, [588]se ve ne ha) disuguali e soggette.
E siccome ella lo ha fatto, dando una superiorità ingenita e naturale a certi individui di quella specie, sopra gli altri individui; perciò, come lo stato dell'uomo e degli altri animali non può esser perfetto senza libertà ed uguaglianza, perchè queste sono naturali in loro; così per lo contrario lo stato delle api non è perfetto senza soggezione e disuguaglianza, perchè la loro specie è così fatta e ordinata da natura, e la perfezione consiste nello stato naturale.
Negli uomini dunque non c'è nulla di simile, nè si può dedur nulla in proposito loro, dall'esempio delle api.
Perchè le piccole (certo piccole in proporzione della disparità delle api), dico le piccole disparità o superiorità di forze, di statura, d'ingegno ec.
che s'incontrano negli uomini, sono disparità o superiorità accidentali, e provenienti da cause subalterne; come sono inferiorità accidentali quelle che vengono da malattie, da cadute, disgrazie d'ogni genere ec.
Sono dico accidentali queste o superiorità, o inferiorità, cioè non sono regolari, e non appartengono all'ordine primitivo, costante, invariabile, [589]essenzale della specie, come la disparità delle api.
Che se queste tali superiorità dessero a chi le possiede, un diritto di comandare e di essere ubbidito, 1.
dove molti le possedessero in ugual grado, o non si saprebbe a chi ubbirire, o tutti quei tali dovrebbero comandare, ed ecco svanita l'idea dell'unità: 2.
dove non ci fosse disparità nessuna, il principato non sarebbe naturale, dove ci fosse, sarebbe naturale: 3.
e di più siccome le disparità possono nascere accidentalmente in diversi tempi, perciò in una stessa società anzi generazione di uomini, oggi non sarebbe naturale il principato, domani sì: 4.
il fanciullo futuro superiore di forze ec.
siccome ancora non è tale, e forse non diverrà tale, se non per cause accidentalissime, e imprevedibili; così non avrebbe ancora nessun'ombra di quel diritto al comando, che avrà poi per natura: 5.
questo diritto supposto naturale, non dovrebbe tuttavia durare se non quanto durasse la superiorità in quello o in quei tali; sicchè questi perdendo il vigore del corpo, o dell'ingegno, o dell'animo, la virtù, il coraggio ec.
per malattie, per disgrazie, per circostanze, per cangiamento e corruzione di [590]opinioni, di costumi ec.
per abuso fatto del corpo, o in ogni modo invecchiando, il che è inevitabile; perderebbero essenzialmente non solo in fatto ma in diritto quel comando, che si suppone avessero naturalmente e per se.
V.
p.609.
capoverso 1.
Insomma gli accidenti sono del tutto fuori d'ogni considerazione, intorno all'ordine primitivo e stabile, e alla natura di qualunque cosa.
(29-31 Gen.
1821.)
Del resto quanto sia facile, ovvia, e primitiva l'idea che a qualunque società, per poco ch'ella sia formata, e che declini dalla primissima forma di società, comune si può dire a tutte le specie di viventi, è necessaria l'unità, cioè un capo, e questo veramente uno, cioè assoluto, si può vedere e nelle storie d'ogni nazione, e in ogni genere di società, pubblica, privata ec.
nelle milizie, nelle compagnie di cacciatori, o in qualunque compagnia, che abbia uno scopo comune, e sia destinata tutta insieme a un oggetto qualunque.
Io mi sono abbattuto a sentire un uomo di nessuna o coltura, o acutezza naturale d'ingegno, il quale a una compagnia di negoziatori, che si mettevano a girare il mondo, per far guadagno [591]mediante un capitale comune e indivisibile (cioè un panorama), dava questo consiglio: Sceglietevi e riconoscete un capo, e ubbiditelo in tutto.
(che altro è questo se non l'idea precisa della necessità della monarchia assoluta?) Altrimenti ciascuno cercando il suo interesse più dell'altrui, cosa contrarissima all'interesse e allo scopo comune, l'uno farà pregiudizio all'altro, e al tutto; e così ciascuno sarà pregiudicato, e la discordia (cioè il contrario dell'unità) v'impedirà di conseguire quello che cercate.
(31.
Gen.
1821.).
V.
p.598.
capoverso 1.2.3.
Quod si hoc apparet in bestiis, volucribus, nantibus, agrestibus, cicuribus, feris, primum ut se ipsae diligant; (id enim pariter cum omni animante nascitur) (dunque Cicerone riconosceva le bestie per dotate di libertà) deinde, ut requirant, atque appetant, ad quas se applicent, eiusdem generis animantes; idque faciunt cum desiderio, et cum quadam similitudine amoris humani: quanto id magis in homine fit natura, qui et se ipse diligit, et alterum anquirit, cuius animum [592]ita cum suo misceat, ut efficiat paene unum ex duobus? Cic.
Lael.
sive de Amicit.
c.21.
fine.
Della nostra naturale inclinazione di partecipare agli altri le nostre alquanto straordinarie sensazioni o piacevoli o dispiacevoli, v.
un luogo insigne di Cic.
(Lael.
sive de Amicit.
tutto il c.23.) il qual passo, io credo che sia stata la prima fonte di questa osservazione, tanto familiare e nota ai moderni.
(31.
Gen.
1821.)
Cic.
Lael.
sive de Amicit.
c.
II.
Quod si rectum statuerimus, vel concedere amicis, quidquid velint, vel impetrare ab iis, quidquid velimus, PERFECTA QUIDEM SAPIENTIA SIMUS, SI NIHIL HABEAT RES VITII; sed loquimur de iis amicis, qui ante oculos sunt, quos videmus, aut de quibus memoriam accepimus, aut quos novit vita communis.
Leggi si perfecta q.
s.
simus, nihil h.
r.
v.
come richiede evidentemente il senso, che altrimenti zoppica, e sibi non constat.
(31.
Gen.
1821.).
Communicare per particeps fieri, essere, o venire a parte, del qual significato il Forcellini [593]non reca esempi, se non tre di cattiva lega, e di bassa latinità ed autorità (l'Appendice nulla) si trova presso Cicerone: (Lael.
sive de Amicit.
c.7.) Itaque, si quando aliquod officium exstitit amici in periculis aut adeundis, aut communicandis, (cioè nel prender parte ai pericoli dell'amico) quis est, qui id non maximis efferat laudibus? V.
un non so che di simile nella Crusca.
Alla p.307.
Quid autem interest, ab iis, qui postea nascentur sermonem fore de te, cum ab iis nullus fuerit, qui ante nati sint, qui nec pauciores, et certe meliores fuerunt viri? L'Affricano maggiore al minore, presso Cicerone, Somn.
Scipion.
c.7.
V.
p.643.
capoverso 3.
Quid autem est horum in voluptate? melioremne efficit, aut laudabiliorem virum? an quisquam in potiundis voluptatibus gloriando sese, et praedicatione effert? (Cic.
Paradox.
I.
c.3.
fine) Oggi sibbene, o M.
Tullio, nè c'è maggior gloria per la gioventù, nè scopo alla carriera loro più brillantemente, manifestamente e concordemente proposto, nè mezzo di ottener lode e stima più sicuro e comune, che quello [594]di seguire e conseguire le voluttà, ed abbondarne, e ciò più degli altri.
L'oggetto delle gare ed emulazioni della più florida parte della gioventù, non è altro che la voluttà, e il trionfo e la gloria è di colui che ne conseguisce maggior porzione, e che sa e può godere e immergersi nei vili piaceri più degli altri.
Le voluttà sono lo stadio della gioventù presente: tanto che già non si cercano principalmente per se stesse, ma per la gloria che ridonda dall'averle cercate e conseguite.
E se non di tutte le voluttà si può gloriare colui che le ottiene, in quel momento medesimo, in cui le gode, (sebbene di moltissimi generi di voluttà accade tuttogiorno ancor questo) certo desidererebbe di poterlo fare, di aver testimoni del suo godimento: anzi questo godimento consiste per la massima parte nella considerazione e aspettativa del vanto che gliene risulterà: e subito dopo, non ha maggior cura, che di divulgare e vantarsi della voluttà provata; e questo anche a rischio di chiudersi l'adito a nuove voluttà; e colla certezza di nuocere, tradire, essere [595]ingiusto e ingrato verso coloro onde ha ottenuta la voluttà che cercava.
E sebbene certamente neanche oggi la voluttà rende l'uomo migliore, lo rende però più lodevole agli occhi della presente generazone, il che tu o Marco Tullio, sti mavi che non potesse avvenire.
(1 Feb.
1821.)
Quella frase o metafora nostra volgarissima e familiare di cuocere per molestare, travagliare, tormentare, e affligger l'animo (così la Crusca v.
Cuocere §.3.), fu parimente presso i latini nel verbo coquere, e ciò anche ne' più antichi.
O Tite, si quid ego adiuvero, CURAMQUE levasso,
QUAE nunc TE COQUIT, et versat in pectore fixa,
Ecquid erit pretii?
Ennio presso Cicerone (Cato maior seu de Senect.
c.1.) Il Forcellini ne porta anche altri due esempi, l'uno di Virgilio, l'altro di Stazio.
L'Appendice nulla.
???????????????????????????????????????????.
L'ignoranza fa l'uomo pronto, [596]la considerazione ritenuto; L'ignoranza fa che l'uomo si risolva facilmente, la ragione difficilmente.
In latino traducono così: Inscitia quidem audaciam, consideratio autem tarditatem fert.
Sentenza di Tucidide, lib.2.
nell'orazione funebre detta da Pericle, che incomincia, ?? ??? ?????? ??? ?????? ??? ?????????.
Sentenza celebre presso gli antichi.
Luciano: (in Epist.
ad Nigrinum, quae praemittitur Nigrino, seu de Philosophi moribus) ???????????? ?? (scamperò) ??????? ??? ?? ?????????? ????????, ??? ? ?????? ??? ???????, ???????? ?? ?? ??????????? ???????????.
Imperitia audaces, res autem considerata timidos efficit.
Plinio (Epist.
IV.
7.): Hanc ille vim, (seu quo alio nomine vocanda est intentio quicquid velis obtinendi) si ad potiora vertisset, quantum boni efficere potuisset? quamquam minor vis bonis, quam malis inest, ac sicut ?????? ??? ??????, ???????? ?? ????? ?????, ita recta ingenia debilitat verecundia, perversa [597]confirmat audacia.
S.
Girolamo: (Epist.
126.
ad Evagr.) (così è numerata nella mia ediz.
t.3.
p.31.
a.) Tuum certe spiritualem illum interpretem non recipies; qui imperitus sermone et scientia, tanto supercilio et auctoritate Melchisedek Spiritum Sanctum pronunciavit, ut illud verissimum comprobarit, quod apud Graecos canitur: imperitia confidentiam, eruditio timorem creat.
Stupeo, o stupesco, stupefacio, stupefio, stupidus, ec.
coi composti, non solo si sono conservati materialmente nel verbo stupire, stupefare, stupidire ec.
ec.
ma se ben questi sono restati nella nostra lingua seccamente e nudamente, e senza il significato etimologico (che vuol dire, diventar di stoppa), come infinite altre parole delle quali resta quasi il corpo e non l'anima, tuttavia la nostra lingua conserva ancora per altra parte quella prima metafora, diventar di stoppa, e l'usa familiarmente per istupire ec.
sebbene non sia registrata nella Crusca.
(1.
Feb.
1821.)
[598]Alla p.591 Igitur initio reges (nam in terris nomen imperii id primum fuit) (cioè, il primo governo, le premier pouvoir, come traduce Dureau-Delamalle, la più antica signoria, come traduce Alfieri, fu regia, vale a dire assoluta) diversi, pars ingenium, alii corpus exercebant: etiam tum vita hominum sine cupiditate agitabatur, sua cuique satis placebant.
(Cioè, l'egoismo non turbava l'ordine pubblico).
Sallustio, Bell.
Catilinar.
c.2.
Ius bonumque apud eos, (i romani de' primi tempi della repubblica) non legibus magis quam naturâ valebat.
Sallustio, Bell.
Catilinar.
c.9.
Regium imperium, quod initio conservandae libertatis atque augendae reipublicae fuerat.
Sallustio, Bell.
Catilinar.
c.6.
fine.
At populo romano nunquam ea copia fuit, (praeclari ingenii scriptorum) quia prudentissimus quisque (cioè, ceux qui avaient le plus de lumières, Dureau-Delamalle, qual più saggio vi era, Alfieri) negotiosus maxume erat: ingenium nemo sine corpore exercebat: (luogo degno di essere riportato qualunque volta io discorrerò di questa materia) optimus quisque facere quam dicere, [599]sua ab aliis benefacta laudari, quam ipse aliorum narrare, malebat.
Sallustio, Bell.
Catilinar.
c.8.
fine.
In hoc sumus sapientes, quod naturam optimam ducem, tanquam deum, sequimur, eique paremus...
Quid enim est aliud, gigantum modo bellare cum diis, nisi naturae repugnare? Cic.
Cato mai.
seu de Senect.
c.2.
Sentenze attissime o congiunte o separate, a servire di epigrafe o motto a qualche mio libro.
V.
p.601 capoverso 1.
Alla p.291.
margine.
Nemo enim est tam senex, qui se annum non putet posse vivere.
Cic.
Cato mai.
seu de Senect.
c.7.
fine.
E lo dice in proposito dei contadini che seminano ancorchè vecchissimi per l'anno futuro.
Qual cosa è più lontana dal noto e comune significato del verbo latino defendere, quanto il significato di proibire nel francese défendre, nello spagnuolo defender e nel difendere italiano presso gli antichi? E pure il significato proprio e primitivo del latino defendere (admodum propria et Latina huius verbi significatio, [600]ut ait Gell.
l.9.
c.1.
dice il Forcellini) è molto simile, e si accosta moltissimo alla detta significazione francese, e antica italiana: ed è questa, arceo, prohibeo, depello, propulso, come dice il Forcellini, il quale ne porta molti esempi di diverse età di scrittori.
Ora, come il verbo prohibeo, che ha questa medesima significazione, aveva ancora presso i latini espressamente quella di proibire o défendre (v.
il Forcellini) così è ben verisimile che il verbo defendere unisse (se non presso i noti scrittori, presso gli antichissimi, e presso il volgo) questo significato al sopraddetto.
In ogni modo è chiaro [che] l'uso del defendere in francese e nel vecchio italiano, per proibire, deriva dall'antichissimo, primo, e proprio significato di quel verbo latino; il quale, se anche è stato ridotto al significato di proibire, solamente nelle origini della nostra lingua, lo è stato però certo in forza della conservazione costante di quell'antichissimo significato, non più noto agli scrittori di quei tempi, e quindi necessariamente al solo volgo, e che si crederebbe perduto da lunghissimo tempo, se non [601]avessimo questa prova della sua costante conservazione fino all'ultima età della lingua latina.
(2 Feb.
1821.)
Alla p.599 Omnia vero, quae secundum naturam fiunt, sunt habenda in bonis.
Cic.
Cato mai.
seu de Senect.
c.19.
in proposito della morte dei vecchi.
(3.
Feb.
1821.)
Cic.
Cato mai.
seu de Senect.
c.23.
Et ex vita ita discedo, tamquam ex hospitio, non tamquam ex domo.
Il contesto vuol che si legga: At ex vita.
Quid enim habet vita commodi? quid non potius laboris? Sed habeat sane: habet certe tamen, aut satietatem, aut modum.
Non lubet enim mihi deplorare vitam, quod multi, et ii docti, saepe fecerunt; neque me vixisse poenitet; quoniam ita vixi, ut non frustra me natum existimem.
Cic.
Cato mai.
seu de Senect.
c.23.
in persona di Catone.
La mente nostra non può non solamente conoscere, ma neppur concepire alcuna cosa oltre i limiti della materia.
Al di là, non possiamo con qualunque possibile sforzo, immaginarci una [602]maniera di essere, una cosa diversa dal nulla.
Diciamo che l'anima nostra è spirito.
La lingua pronunzia il nome di questa sostanza, ma la mente non ne concepisce altra idea, se non questa, ch'ella ignora che cosa e quale e come sia.
Immagineremo un vento, un etere, un soffio (e questa fu la prima idea che gli antichi si formarono dello spirito, quando lo chiamarono in greco ???????da ????, e in latino spiritus da spiro: ed anche anima presso i latini si prende per vento, come presso i greci ???? derivante da ????, flo spiro, ovvero refrigero); immagineremo una fiamma; assottiglieremo l'idea della materia quanto potremo, per formarci un'immagine e una similitudine di una sostanza immateriale; ma una similitudine sola: alla sostanza medesima non arriva nè l'immaginazione, nè la concezione dei viventi, di quella medesima sostanza, che noi diciamo immateriale, giacchè finalmente è l'anima appunto e lo spirito che non può concepir se stesso.
In così perfetta oscurità pertanto ed ignoranza su tutto quello che è, o si suppone fuor della materia, con che [603]fronte, o con qual menomo fondamento ci assicuriamo noi di dire che l'anima nostra è perfettamente semplice, e indivisibile, e perciò non può perire? Chi ce l'ha detto? Noi vogliamo l'anima immateriale, perchè la materia non ci par capace di quegli effetti che notiamo e vediamo operati dall'anima.
Sia.
Ma qui finisce ogni nostro raziocinio; qui si spengono tutti i lumi.
Che vogliamo noi andar oltre, e analizzar la sostanza immateriale, che non possiamo concepir quale nè come sia, e quasi che l'avessimo sottoposta ad esperimenti chimici, pronunziare ch'ella è del tutto semplice e indivisibile e senza parti? Le parti non possono essere immateriali? Le sostanze immateriali non possono essere di diversissimi generi? E quindi esservi gli elementi immateriali de' quali sieno composte le dette sostanze, come la materia è composta di elementi materiali.
Fuor della materia non possiamo concepir nulla, la negazione e l'affermazione sono egualmente assurde: ma domando io: come dunque sappiamo che l'immateriale è indivisibile? Forse l'immateriale, e l'indivisibile nella nostra mente sono tutt'uno? sono gli attributi di una stessa idea? [604]Primieramente ho già dimostrato come l'idea delle parti non ripugni in nessun modo all'idea dell'immateriale.
Secondariamente, se l'immateriale è indivisibile e uno per essenza, non è egli diviso, non ha egli parti, quando le sostanze immateriali, ancorchè tutte uguali, sono pur molte e distinte? Dunque non vi sarà pluralità di spiriti, e tutte le anime saranno una sola.
Dopo tutto ciò, come possiamo noi dire che l'anima, posto che sia immateriale, non può perire per essenza sua propria? Se lo spirito non può perire per ciò che non si può sciogliere, così anche perchè non si può comporre, non potrà cominciare.
Meglio quei filosofi antichi i quali negando che le anime fossero composte, e potessero mai perire, negavano parimente che avessero potuto nascere, e volevano che sempre fossero state.
Il fatto sta che l'anima incomincia, e nasce evidentemente, e nasce appoco appoco, come tutte le cose composte di parti.
Oltracciò non osserviamo noi nell'anima [605]diversissime facoltà? la memoria, l'intelletto, la volontà, l'immaginazione? Delle quali l'una può scemare, o perire anche del tutto, restando le altre, restando la vita, e quindi l'anima.
Delle quali altri son più, altri meno forniti: come dunque la sostanza dell'anima è per natura, uguale tutta quanta?
Ma queste sono facoltà, non parti dell'anima.
Primo, l'anima stessa non ci è nota, se non come una facoltà.
Secondo, se l'anima è perfettamente semplice, e, per maniera di dire, in ciascheduna parte uguale alle altre parti, e a tutta se stessa, come può perdere una facoltà, una proprietà, conservando un'altra, e continuando ad essere? Come può accader questo, se noi pretendiamo cum simplex animi natura esset, neque haberet in se quidquam admistum dispar sui, atque dissimile, non posse eum dividi: quod si non possit, non posse interire? (Cic.
Cato mai.
seu de Senect.
c.21.
fine, ex Platone.) V.
p.629.
capoverso 2.
In somma fuori della espressa volontà e [606]forza di un Padrone dell'esistenza, non c'è ragione veruna perchè l'anima, o qualunque altra cosa, supposta anche e non ostante l'immaterialità debba essere immortale; non potendo noi discorrere in nessun modo della natura di quegli esseri che non possiamo concepire; e non avendo nessun possibile fondamento per attribuire ad un essere posto fuori della materia, una proprietà piuttosto che un'altra, una maniera di esistere, la semplicità o la composizione, l'incorruttibilità o la corruttibilità.
(4.
Feb.
1821.)
Cum proelium inibitis, (moneo vos ut) memineritis vos divitias, decus, gloriam, praeterea libertatem atque patriam in dextris vestris portare.
Parole che Sallustio (B.
Catilinar.
c.61 al.58.) mette in bocca a Catilina nell'esortazione ai soldati prima della battaglia.
Osservate la differenza dei tempi.
Questa è quella figura rettorica che chiamano Gradazione.
Volendo andar sempre crescendo, Sallustio mette prima le ricchezze, poi l'onore, poi la gloria, poi la libertà, [607]e finalmente la patria, come la somma e la più cara di tutte le cose.
Oggidì, volendo esortare un'armata in simili circostanze, ed usare quella figura si disporrebbero le parole al rovescio: prima la patria, che nessuno ha, ed è un puro nome; poi la libertà che il più delle persone amerebbe, anzi ama per natura, ma non è avvezzo neanche a sognarla, molto meno a darsene cura; poi la gloria, che piace all'amor proprio, ma finalmente è un vano bene; poi l'onore, del quale si suole aver molta cura, ma si sacrifica volentieri per qualche altro bene; finalmente le ricchezze, per le quali onore, gloria, libertà, patria e Dio, tutto si sacrifica e s'ha per nulla: le ricchezze, il solo bene veramente solido secondo i nostri valorosi contemporanei: il più capace anzi di tutti questi beni il solo capace di stuzzicar l'appetito, e di spinger davvero a qualche impresa anche i vili.
(4.
Feb.
1821.)
Alla p.465.
Bisogna combattere ad armi uguali, chi non vuol restare sicuramente inferiore.
Dunque [608]tutto il mondo oggidì essendo armato di egoismo, bisogna che ciascuno si provveda della medesima arma, anche i più virtuosi e magnanimi, se voglion far qualche cosa.
Alla p.570.
principio.
Perchè come gli oligarchi e gli ottimati a forza di fazioni, di clientele, di largizioni, di artifizi di ogni sorta, hanno vinto la plebe in cui risiedeva il potere, e l'hanno vinta colle forze comuni: così questi pochi nei quali risiede ora il potere; mediante l'egoismo e la ?????????, inevitabile quando la virtù e la natura è sparita dal mondo, non si accordano neppure intorno agl'interessi comuni di questa piccola società, il cui solo bene era divenuto loro scopo: e ciascuno cercando il ben proprio, si dividono di nuovo in partiti; il partito vincitore, si suddivide di nuovo per gli stessi motivi; finattanto che più presto o più tardi, la vittoria e il potere resta in mano di un solo, il quale essendo indivisibile, finalmente il governo divenuto monarchia, piglia [609]una forma stabile.
Così accadde in Roma.
Gli uomini chiari per gloria militare o domestica, per ricchezze, potere, eloquenza ec.
esercitavano già una specie di oligarchia, quando questa, abbassati tutti gli altri, si venne a ristringere nei primi Triumviri, finattanto che Cesare tolti di mezzo gli altri triumviri, ristrinse tutto in lui solo.
Così nel secondo triumvirato.
(4.
Feb.
1821.)
Alla p.590./6.
Anche durando in quel tale che si suppone monarca per diritto di natura, tutte le qualità che gli davano questo diritto; posto il caso che un altro membro di quella medesima società, arrivasse o coll'età, o coll'esercizio del corpo o dello spirito ec.
ec.
a possedere quelle stesse qualità in maggior grado, o anche maggiori, o più numerose qualità; il primo monarca perderebbe il suo diritto che si suppone naturale, alla monarchia, e non solo ancora vivendo, ma essendo ancor tale, quale incominciò a regnare, e per se medesimo in tutto e per tutto lo stesso, a ogni modo non dovrebbe più [610]regnare.
(4.
Feb.
1821.)
Neanche l'amor proprio è infinito, ma solamente indefinito.
Non è infinito, dico io non già secondo l'origine e il significato proprio di questa voce, ma secondo la forza che le sogliamo attribuire: come diciamo che Dio è infinito, perchè contiene perfettamente e realmente in se stesso tutta l'infinità.
Laddove sebbene l'uomo, e qualunque vivente, si ama senza confine veruno, e l'amor proprio non ha limiti nè misura, nè per durata nè per estensione, contuttociò l'animo umano o di qualunque vivente non è capace di un sentimento il quale contenga la totalità dell'infinito, e in questo senso dico io che l'amor proprio non è infinito: e che quantunque non abbia limiti, non deriva da questo che l'animo nostro abbia niente d'infinito, non più che quello di qualsivoglia animale.
E così non si può dedur nulla in questo proposito, dalla infinità dei nostri desideri, conseguenza della sopraddetta e spiegata [611]infinità dell'amor proprio.
Nè dalla nostra infinita, o vogliamo dire indefinita capacità di amare, cioè di essere piacevolmente affetti e inclinati verso gli oggetti; conseguenza dell'infinito amor del piacere, il quale deriva immediatamente e necessariamente dall'amor proprio infinito, o senza limiti nè misura.
(4.
Feb.
1821.)
Alla p.112.
Prima di Gesù Cristo, o fino a quel tempo, e ancor dopo, da' pagani, non si era mai considerata la società come espressamente, e per sua natura, nemica della virtù, e tale che qualunque individuo il più buono ed onesto, trovi in lei senza fallo e inevitabilmente, o la corruzione, o il sommo pericolo di corrompersi.
E infatti sino a quell'ora, la natura della società, non era stata espressamente e perfettamente tale.
Osservate gli scrittori antichi, e non ci troverete mai quest'idea del mondo nemico del bene, che si trova a ogni passo nel Vangelo, e negli scrittori moderni ancorchè profani.
Anzi (ed avevano [612]ragione in quei tempi) consideravano la società e l'esempio come naturalmente capace di stimolare alla virtù, e di rendere virtuoso anche chi non lo fosse: e in somma il buono e la società, non solo non parevano incompatibili, ma cose naturalmente amiche e compagne.
(4.
Feb.
1821.)
Alla p.535.
fine.
Così anche il piacere della speranza, non è mai piacere presente, nemmeno in quanto speranza; cioè l'atto del piacere della speranza, cammina in quel medesimo modo che ho notato nell'atto del piacere presente, o della rimembranza o considerazione del piacere passato.
(5.
Feb.
1821.)
Non è veramente furbo chi non teme, o presume e confida con certezza, di non poter essere ingannato, trappolato ec.: perchè non conosce dunque e non apprezza a dovere le forze della sua stessa furberia.
E per la stessa ragione non è sommo in veruna professione chi non è modesto; e la modestia, e lo stimarsi da non molto, e il credere intimamente e sinceramente di non aver conseguito tutto quel merito che si potrebbe e dovrebbe conseguire, questi dico sono segni e [613]distintivi dell'uomo grande, o certo sono qualità inseparabili da lui.
Perchè quanto più si possiede e si conosce a fondo una qualunque (ancorchè piccola) professione, tanto più se ne sentono e valutano le difficoltà; si conosce quanto la perfezione e la sommità sia difficile in essa: perchè le difficoltà della perfezione si sanno e si conoscono generalmente in ogni cosa, ma non si sentono così vivamente e precisamente, come in una professione intimamente posseduta: tanto più si comprende e vede e tocca con mano, quanto sia facile l'andar sempre più oltre, e il perfezionare anche ciò che si crede perfetto.
In somma quanto più l'uomo apprezza e stima una buona professione: e l'apprezza e stima quanto meglio la conosce; tanto meno apprezza se stesso.
Perchè mettendosi in confronto non già cogli altri cultori di quella professione (i quali forse gli cederanno), ma colla professione stessa; resta sempre malcontento del paragone, si trova lontano dall'uguaglianza, e riabbassa sempre più l'idea di se stesso.
(5.
Feb.
1821.)
[614]????????????? ???? ?????? ?? ??????????????, ??????? ????? ???????? ?????.
Isocrate, ???? ???????? ???? ????????? ?????.
Detto convenientissimo a quasi tutti i padri, le madri, e gli educatori de' nostri tempi.
(5.
Feb.
1821.)
È cosa notabile come l'uomo sommamente sventurato, o scoraggito della vita, e deposta già e complorata la speranza della propria felicità, ma non perciò ridotto a quella disperazione che non si acquieta se non colla morte; naturalmente, e senza veruno sforzo sia portato a servire e beneficar gli altri, anche quelli che o gli sono del tutto indifferenti, o anche odiosi.
E non già per vigore di eroismo, chè l'uomo in tale stato non è capace di nessun vigore d'animo; ma in certo modo, come non avendo più interesse nè speranza per te, trasporti l'interesse e la speranza agli affari altrui, e così cerchi di riempiere l'animo tuo, di occuparlo, e di rendergli i due sopraddetti sentimenti, cioè cura di qualche cosa, ossia scopo, e speranza, senza [615]i quali la vita non è vita, non si conosce, manca del senso di se stessa.
Il fatto sta che quando l'uomo si trova in tali circostanze, cioè disperato in maniera, non da odiarsi, (ch'è la ferocia della disperazione) ma da noncurarsi, e metter se stesso fuori della sfera de' suoi pensieri; non solo prova compiacenza nel servir gli altri, ma prende anche per gli affari loro (ancorchè, come ho detto di persone indifferenti) una certa affezione, un certo impegno, un desiderio ec.
tutto languido bensì, perchè l'animo suo non è più capace di sentimento vivo e forte, ma pur tale, ch'egli non è stato mai animato verso il bene altrui così sensibilmente.
E ciò accade anche appena l'uomo si riduce alla detta condizione, così che avviene in lui come un cangiamento improvviso: ed accade anche negli uomini stati infetti di egoismo.
In somma la persona degli altri sottentra nell'animo suo, quasi intieramente, alla persona propria, ch'è sparita, e messa in non cale e per perduta, come quella che non può più sperare, e non è più capace della felicità, senza cui la vita manca del suo fine, e scopo.
E il desiderio e la cura [616]e la speranza della felicità, che non possono più diriggersi alla felicità propria, riconosciuta impossibile, e nel cercar la quale sarebbero vane, e quindi non più sufficienti all'animo umano; si rivolgono alla felicità altrui: e ciò spontaneamente, e senz'ombra di eroismo.
E l'animo dell'uomo che mancatogli lo scopo della felicità, è moralmente morto, risorge a una languida vita, ma tuttavia risorge e vive in altrui, cioè nello scopo dell'altrui felicità, divenuto lo scopo suo.
Come quei corpi di sangue corrotto e malsano, e quindi incapaci di vita, che alcuni medici spogliavano (o proponevano di spogliare) del sangue proprio, e restituivano ad una certa salute, colla introduzione del sangue altrui, o di qualche animale; quasi cangiando la persona, e trasformando quella che non poteva più vivere, in un'altra capace di vita: e così conservando la vita di una persona, per se stessa inetta a vivere.
Ed è anche una cagione del detto effetto, quella ch'io son per dire.
L'uomo che sebbene disperato, non perciò si odia (cosa che avviene per [617]lo più, non mica, come parrebbe, prima che l'uomo cominci ad odiarsi, ma dopo che si è sommamente, ed inutilmente odiato, e così l'amor proprio, tentato ogni mezzo di soddisfarsi, resta del tutto mortificato, e l'animo esaurito d'ogni forza, si riduce alla calma, e alla quiete dello spossamento, e perde affatto la capacità di ogni sentimento vivo) l'uomo dico il quale senza odiarsi, solamente considera se stesso, e la vita sua come inutile, prova una compiacenza e soddisfazione, una (ma leggerissima) consolazione, nel trovar dove adoprare se stesso e la vita, che altrimenti non servirebbe più a nulla; e l'uso qualunque di se stesso e della vita, gittata già come cosa inutilissima, sebbene a lui non giovi nulla, sebbene egli non sia più capace d'illusioni, nè di credersi buono a gran cose; tuttavia lo conforta, rappresentandolo a se stesso, come alquanto meno inutile; o se non altro (e piuttosto) col pensiero di avere almeno adoprato, e non gittato affatto, quell'avanzo di esistenza, e di forza viva e materiale.
(5.
Feb.
1821.).
[618]Vedendosi esclusi essi dalla vita, cercano di vivere in certo modo in altrui, non per amor loro, e quasi neanche per amor proprio, ma perchè, sebben tolta la vita, resta però loro l'esistenza da occupare e da sentire in qualche maniera.
(6.
Feb.
1821.)
La disperazione della natura è sempre feroce, frenetica, sanguinaria, non cede alla necessità, alla fortuna, ma la vuol vincere in se stesso, cioè coi propri danni, colla propria morte ec.
Quella disperazione placida, tranquilla, rassegnata, colla quale l'uomo, perduta ogni speranza di felicità, o in genere per la condizione umana, o in particolare per le circostanze sue; tuttavolta si piega, e si adatta a vivere e a tollerare il tempo e gli anni; cedendo alla necessità riconosciuta; questa disperazione, sebbene deriva dalla prima, in quel modo che ho spiegato di sopra p.616.
fine, 617.
principio, tuttavia non è quasi propria se non della ragione e della filosofia, e quindi specialmente e singolarmente propria de' tempi moderni.
Ed ora infatti, si può dir che qualunque ha [619]un certo grado d'ingegno e di sentimento, fatta che ha l'esperienza del mondo, e in particolare poi tutti quelli ch'essendo tali, e giunti a un'età matura, sono sventurati; cadono e rimangono sino alla morte in questo stato di tranquilla disperazione.
Stato quasi del tutto sconosciuto agli antichi, ed anche oggi alla gioventù sensibile, magnanima, e sventurata.
Conseguenza della prima disperazione è l'odio di se stesso, (perchè resta ancora all'uomo tanta forza di amor proprio, da potersi odiare) ma cura e stima delle cose.
Della seconda, la noncuranza e il disprezzo e l'indifferenza verso le cose; verso se stesso un certo languido amore (perchè l'uomo non ha più tanto amor proprio da aver forza di odiarsi) che somiglia alla noncuranza, ma pure amore, tale però che non porta l'uomo ad angustiarsi, addolorarsi, sentir compassione delle proprie sventure, e molto meno a sforzarsi, ed intraprender nulla per se, considerando le cose come indifferenti, ed avendo quasi perduto il tatto e il senso dell'animo, e coperta di un callo tutta la facoltà sensitiva, desiderativa ec.
insomma le passioni e gli affetti d'ogni sorta; e quasi perduta per lungo uso, e forte e lunga pressione, quasi tutta l'elasticità delle [620]molle e forze dell'anima.
Ordinariamente la maggior cura di questi tali è di conservare lo stato presente, di tenere una vita metodica, e di nulla mutare o innovare, non già per indole pusillanime o inerte, che anzi ella sarà stata tutto l'opposto, ma per una timidità derivata dall'esperienza delle sciagure, la quale porta l'uomo a temere di perdere a causa delle novità, quel tal quale riposo o quiete o sonno, in cui dopo lunghi combattimenti e resistenze, l'animo suo finalmente s'è addormentato e raccolto, e quasi accovacciato.
Il mondo è pieno oggidì di disperati di questa seconda sorta (come fra gli antichi erano frequentissimi quelli della prima specie).
Quindi si può facilmente vedere quanto debba guadagnare l'attività, la varietà, la mobilità, la vita di questo mondo; quando tutti, si può dire, i migliori animi, giunti a una certa maturità, divengono incapaci di azione, ed inutili a se medesimi, e agli altri.
(6.
Feb.
1821.)
Floro IV.
12.
verso la fine: Hic finis [621]Augusto bellicorum certaminum fuit: idem rebellandi finis Hispaniae.
Certa mox fides et aeterna; CUM IPSORUM INGENIO IN PACIS PARTES PROMTIORE: tum consilio Caesaris.
Dopo aver letto tutto ciò che Floro dice delle virtù guerriere degli Spagnuoli II.
17.
18.
III.
22.
e in quel medesimo capo che ho citato, nelle cose che precedono immediatamente il riferito passo; (notate che Floro, si crede per congettura dai critici, oriundo Spagnuolo) considerando l'assedio famosissimo di Sagunto; ricordandosi di quel luogo di Velleio dove fra le altre molte cose del valore Spagnuolo, arriva a dire che la Spagna in tantum Sertorium armis extulit, ut per quinquennium dijudicari non potuerit, Hispanis Romanisne in armis plus esset roboris, et uter populus alteri pariturus foret; (II.90 sect.3.) dopo, dico, tutto questo e le altre infinite prove che si hanno del singolar valore Spagnuolo antico e moderno, fa maraviglia che Floro chiami l'indole [622]e l'ingegno degli Spagnuoli, promtius in pacis partes.
Ma questa è appunto la proprietà dei popoli meridionali, famosa presso gli scrittori filosofici moderni, massime stranieri.
Somma disposizione all'attività, ed al riposo: egualmente atti a guerreggiare valorosamente e disperatamente, ed a trovar piacevole e cara la pace, ed anche abusarne, ed esserne ridotti alla mollezza, e all'inerzia.
Tante risorse trovano questi popoli nella loro immaginazione, nel loro clima, nella loro natura, che la loro vita è occupata internamente, ancorchè neghittosa e nulla all'esterno.
Leur vie n'est qu'un rêve, dice la Staël.
Tanta è l'attività della loro anima, che questa come è capacissima di condurli ad una somma attività nel corpo (anzi alla sola vera attività esterna, perchè la sola che abbia il suo principio nell'attività interiore, come si vede nel paragone fra i soldati meridionali, e i settentrionali, che sono operosi piuttosto come macchine ubbidienti ad ogni impulso, che come viventi) così anche li dispensa dall'attività del corpo, e ne li compensa, ogni volta che questa manca: trovando essi bastante vita nel [623]loro interno, nel loro individuo.
Anzi questa proprietà, pregiudica bene spesso all'attività esterna, e per una soprabbondanza di vita interiore rende il mezzogiorno rêveur, indolente, insouciant (quantunque, offerta l'occasione, l'attività del corpo, ch'è l'effetto dell'entusiasmo e dell'immaginazione, o che allora è forte e viva, quando proviene da questi principii, prorompe vivamente; eccetto se l'assuefazione non ha di troppo intorpiditi certi popoli, come l'italiano).
Ailleurs, c'est la vie qui, telle quelle est, ne suffit pas aux facultés de l'ame; ici, (parla dei contorni di Napoli) ce sont les facultés de l'ame qui ne suffisent pas à la vie, et la surabondance des sensations inspire une rêveuse indolence dont on se rend à peine compte en l'éprouvant.
(Staël, Corinne l.
II.
ch.1.
Paris 1812.
5me édit.
t.2.
p.176.) Così infatti vediamo accaduto negl'italiani terribili anticamente, ed anche modernamente nella guerra, e oziosissimi e negligentissimi, e nulla curanti di novità e di movimento nella pace.
Così negli [624]Spagnuoli, popolo intieramente pacifico nell'ultimo secolo, e fortissimo guerriero e belligero nei due precedenti; e così anticamente bellicosissimo, o certo valorosissimo in difendersi fino ad Augusto; e da indi in poi, eternamente pacifico e fedele, come dice Floro: e similmente nel principio di questo secolo, passato in un attimo da un lunghissimo e profondissimo riposo, a una guerra possiamo dire spontanea, certo nazionale, e vivissima, e generale, ed atrocissima.
Così nei francesi valorosi in guerra, ed effeminati e molli nella pace.
Come appunto i fanciulli, giacchè anche questo effetto deriva dalle stesse cagioni, i quali sebbene attivissimi naturalmente, con tutto ciò obbligati dalle circostanze, all'inazione esterna, la suppliscono e compensano ed occupano intieramente, con una vivissima azione interna.
E per azione interna, intendo sì nei fanciulli, come nei detti popoli, anche quella che si dimostra al di fuori, ma che si occupa di bagattelle, e di nullità, ed in queste ritrova bastante pascolo e vita all'anima: e per conseguenza non deriva, [625]non si fonda, non è sufficiente all'uomo, se non in forza dell'energia, dell'immaginazione, delle facoltà insomma e della vita interna.
Tutto l'opposto accade nei Settentrionali, bisognosi di attività e di movimento e di novità e varietà esterna, se vogliono vivere, giacchè non hanno altra vita, mancando dell'interna.
E perciò in apparenza molto più attivi degli altri popoli, ma in realtà, e se vince la naturale tendenza ed indole, torpidissimi.
Gli orientali si possono, cred'io, mettere insieme coi meridionali in questo punto.
(7.
Feb.
1821.)
Lo scopo dei governi (siccome quello dell'uomo) è la felicità dei governati.
Forse che la felicità e la diuturnità della vita, sono la stessa cosa? Hanno sempre che dire delle turbolenze e pericoli degli antichi stati, e pretendono che costassero all'umanità molto più sangue e molte più vite, che non costano i governi ordinati e regolari e monarchici, ancorchè guerrieri, ancorchè tirannici.
Sia pure: che ora non voglio contrastarlo.
[626]Orsù, ragguagliamo le partite, dirò così, delle vite.
Poniamo che negli stati presenti, che si chiamano ordinati e quieti, la gente viva, un uomo per l'altro, 70 anni l'uno: negli antichi che si chiamano disordinati e turbolenti, vivessero 50 soli anni, a distribuir tutta la somma delle vite, ugualmente fra ciascheduno.
E che quei 70 anni sieno tutti pieni di noia e di miseria in qualsivoglia condizione individuale, che così pur troppo accade oggidì; quei cinquanta pieni di attività e varietà ch'è il solo mezzo di felicità per l'uomo sociale.
Domando io, quale dei due stati è il migliore? quale dei due corrisponde meglio allo scopo, che è la felicità pubblica e privata, in somma la felicità possibile degli uomini come uomini? cioè felicità relativa e reale, e adattata e realizzabile in natura, tal qual ella è, non riposta nelle chimeriche e assolute idee, di ordine, e perfezione matematica.
Oltracciò domando: la somma vera della vita, dov'è maggiore? in quello stato dove ancorchè gli uomini vivessero cent'anni l'uno, quella vita monotona e inattiva, sarebbe (com'è realmente) esistenza, ma non vita, [627]anzi nel fatto, un sinonimo di morte? ovvero in quello stato, dove l'esistenza ancorchè più breve, tutta però sarebbe vera vita? Anche ponendo dall'una parte 100 anni di esistenza, e dall'altra non più che 40, o 30 di vita, la somma della vita, non sarebbe maggiore in quest'ultima? 30 anni di vita non contengono maggior vita che 100 di morta esistenza? Questi sono i veri calcoli convenienti al filosofo, che non si contenti di misurar le cose, ma le pesi, e ne stimi il valore.
E non faccia come il secco matematico che calcola le quantità in genere e in astratto, ma relativamente alla loro sostanza, e qualità, e natura, e peso, e forza specifica e reale.
Aggiungo poi questo ancora.
Nego che la mortalità negli stati antichi fosse maggiore altro che in apparenza.
Lascio i tiranni, lascio i capricci, le passioni, le voglie de' principi, e non cerco se queste costino alla umanità più sangue, che non i disordini e le turbolenze di un popolo libero.
Dico che la vitalità negli stati antichi era tanto maggiore che nei presenti, non solo da compensare abbondantemente ogni cagione o principio di mortalità, ma da preponderare, [628]e far pendere la bilancia dalla parte della vita: brevemente, dico che la somma della vita negli stati antichi era maggiore che nei presenti; e questo non già per cause accidentali, o in maniera che potesse non essere: ma per cause essenziali, e inerenti alla natura di quegli stati; anzi tali, che tolti quegli stati, o simili a quelli, la somma della vita non può essere se non molto minore; la vitalità fuori di quelli o simili stati, non può esser tanta.
Gli esercizi e l'attività continua del corpo primieramente, e poi (che non poco, anzi sommamente contribuisce al ben essere fisico, e alla durata della vita) gli esercizi ed attività dell'anima, la varietà, il movimento, la forza delle azioni ed occupazioni, la rarità della noia, dell'inerzia ec.
conseguenze necessarie degli stati antichi, erano cause così grandi e certe di vitalità, come sono grandissime e certissime cause di mortalità (e mortalità ben più vasta, insita, e necessaria che non quella che deriva dalle turbolenze) i contrari delle predette cose, e nominatamente la mollezza, il lusso, i vizi corporali e spirituali ec.
ec.
conseguenze tutte necessarie degli stati presenti: insomma la corruzione fisica e morale, la continua noia, o mal essere [629]dell'animo ec.
Così che non è vero che le cagioni di morte (e così dico, le cagioni di miserie, di sventure, dolori ec.) fossero maggiori anticamente, anzi all'opposto sono maggiori oggidì.
Ed intendendo anche per vita, l'esistenza strettamente, si viene a conchiudere che la somma di questa, era maggiore negli antichi governi, e a causa degli antichi governi, che ne' presenti, e a causa de' presenti.
(8.
Feb.
1821.)
Alla p.476.
Vedi il ritratto di Silla in Sallustio Bell.
Iugurthin.
c.99.
Alla p.605.
fine.
Ma quando anche si supponga lo spirito, assolutamente semplice e senza parti, non segue ch'egli non possa perire.
Conosciamo noi la natura di un tal essere cosiffatto, per poter pronunziare s'egli è immortale o mortale? Non c'è che una maniera di perire, cioè il disciogliersi? Nella materia non ce n'è altra, e però noi non conosciamo se non questa maniera; ma parimente non conosciamo altra maniera d'essere che quella della materia.
Se una cosa può essere in maniera a noi del tutto [630]ignota e inconcepibile, anche può perire in maniera del tutto ignota e inconcepibile all'uomo.
Dico può perire, non dico perisce, perchè non posso, come non si può dire umanamente il contrario, non perisce, ovvero, non può perire perchè la materia perisce in altro modo, ed ella non può perire come la materia.
Dico può perire, perchè non è più difficile nè inverisimile una tal maniera di perire, che una tal maniera di essere; (una maniera, dico, inconcepibile all'uomo) una tal morte, che una tale esistenza.
Tutte due sono ugualmente fuori della nostra portata, la quale non si estende una mezza linea al di là della materia.
Vo anche più avanti, e dico, che se la semplicità è principio necessario d'immortalità, neanche la materia può perire.
Se la materia è composta, sarà composta di elementi che non sieno composti.
Non cerco ora se questi elementi sieno quelli de' chimici, o altri più remoti e primitivi; ma andiamo pur oltre quanto vogliamo, dovremo sempre arrivare e fermarci in alcune sostanze veramente semplici, e che non abbiano in se quidquam admistum dispar [631]sui, atque dissimile.
Queste sostanze dunque, se non c'è altra maniera di perire, fuorchè il risolversi, in che si risolveranno, o si possono risolvere? Dunque non potranno perire.
Direte, che anche queste, essendo pur sempre materia, hanno parti, e quindi sono divisibili e risolvibili, e possono perire, ancorchè tutte le parti sieno tra loro uguali, e di una stessa sostanza.
Bene; ma queste parti come possono perire? - Anch'esse avranno parti, finattanto che sono materia - Or via, suddividiamo queste parti, quanto mai si voglia; se non si arriverà mai a fare ch'elle non abbiano altre parti, e non sieno materia (come certo non si arriverà); neanche si arriverà a fare che la materia perisca.
Perchè questa ancorchè ridotta a menomissime parti, una di queste minime particelle, è si può dir tanto lontana dal nulla, quanto tutta la materia o qualunque altra cosa esistente, cioè tra essa e il nulla, ci corre un divario, e uno spazio infinito: chè dall'esistenza nel nulla, come dal nulla nell'esistenza, non si può andar mica per gradi, ma solamente per salto, e salto infinito.
[632]Dunque in un essere semplicissimo e senza parti, non c'è maggior principio nè ragione d'immortalità, di quello che sia nella materia, e nell'essere il più composto possibile.
Ma se per principio d'immortalità in un ente semplice e senza parti, intendono l'impossibilità di cangiar natura, e per perire non intendono l'annullarsi, giacchè neanche la materia si può naturalmente annullare, e tanta materia esiste oggi nè più nè meno, quanta è mai esistita; ma intendono il risolversi nei suoi elementi; dico io che quelle semplicissime sostanze delle quali la materia e qualunque cosa composta, deve necessariamente costare, non possono neppur esse risolversi, nè cangiar natura, ancorchè divise in quante parti, e quanto menome si voglia.
E la quantità di queste parti sarà sempre la stessa, e però di quelle primitive sostanze, ancorchè materiali ancorchè divise quanto si voglia, esisterà sempre la stessissima quantità, o divisa o congiunta che sia; e tutta questa quantità, e perciò tutta quella sostanza sarà sempre della stessissima natura.
In maniera che anche per questa parte, una sostanza supposta semplicissima e immateriale, non può contenere [633]maggiore immortalità, cioè immutabilità e incorruttibilità che i principii della materia, i quali non sono una supposizione, ma debbono necessariamente e realmente esistere.
(9.
Feb.
1821.)
Quand on est jeune, on ne songe qu'à vivre dans l'idée d'autrui: il faut établir sa réputation, et se donner une place honorable dans l'imagination des autres, et être heureux même dans leur idée: notre bonheur n'est point réel; ce n'est pas nous que nous consultons, ce sont les autres.
Dans un autre âge, nous revenons a nous; et ce retour a ses douceurs, nous commençons à nous consulter et à nous croire.
Mme.
la Marquise de Lambert, Traité de la Vieillesse, verso la fine: dans ses Oeuvres complètes, Paris 1808.
1re édit.
complète.
p.150.
Il vient un temps dans la vie qui est consacré à la vérite, qui est destiné à connoître les choses selon leur juste valeur.
La jeunesse et les passions fardent tout.
Alors nous revenons aux plaisirs simples; nous commençons à nous consulter [634]et à nous croire sur notre bonheur.
Ib.
p.153.
Queste riflessioni sono osservabili.
Non solo nella vecchiezza, ma nelle sventure, ogni volta che l'uomo si trova senza speranza, o almeno disgraziato nelle cose che dipendono dagli uomini, comincia a contentarsi di se stesso, e la sua felicità, e soddisfazione, o almeno consolazione a dipender da lui.
Questo ci accade anche in mezzo alla società, o agli affari del mondo.
Quando l'uomo vi si trova male accolto, o annoiato, o disgraziato, o in somma trova quello che non vorrebbe, ricorre a se stesso, e cerca il bene e il piacere nell'anima sua.
L'uomo sociale, finch'egli può, cerca la sua felicità e la ripone nelle cose al di fuori e appartenenti alla società, e però dipendenti dagli altri.
Questo è inevitabile.
Solamente o principalmente l'uomo sventurato, e massime quegli che lo è senza speranza, si compiace della sua compagnia, e di riporre la sua felicità nelle cose sue proprie, e indipendenti dagli altri; e insomma segregare la sua felicità, dall'opinione e dai vantaggi che ci risultano dalla società, e ch'egli non può conseguire, o sperare.
Forse per questo, o anche [635]per questo, si è detto che l'uomo che non è stato mai sventurato non sa nulla.
L'anima, i desideri, i pensieri, i trattenimenti dell'uomo felice, sono tutti al di fuori, e la solitudine non è fatta per lui: dico la solitudine o fisica, o morale e del pensiero.
Vale a dire che se anche egli si compiace nella solitudine, questo piacere, e i suoi pensieri e trattenimenti in quello stato, sono tutti in relazioni colle cose esteriori, e dipendenti dagli altri, non mai con quelle riposte in lui solo.
Non è però che la felicità o consolazione dell'uomo sventurato o vecchio, sieno riposte nella verità, e nella meditazione e cognizione di lei.
Che piacere o felicità o conforto ci può somministrare il vero, cioè il nulla? (se escludiamo la sola Religione).
Ma altre illusioni, forse più savie perchè meno dipendenti, e perciò anche più durevoli, sottentrano a quelle relative alla società.
E questo è in somma quello che si chiama contentarsi di se stesso, e omnia tua in te posita ducere, con che Cicerone (Lael.
sive de Amicit.
c.2.) definisce la sapienza.
Un sistema, [636]un complesso, un ordine, una vita d'illusioni indipendenti, e perciò stabili: non altro.
(9.
Feb.
1821.)
"La solitude" dit un grand homme, "est l'infirmerie des ames." Mme.
Lambert, lieu cité ci-dessus, p.153.
fine.
Nous ne vivons que pour perdre et pour nous détacher.
Mme Lambert, lieu cité ci-dessus, p.145.
alla metà del Traité de la Vieillesse.
Così è.
Ciascun giorno perdiamo qualche cosa, cioè perisce, o scema qualche illusione, che sono l'unico nostro avere.
L'esperienza e la verità ci spogliano alla giornata di qualche parte dei nostri possedimenti.
Non si vive se non perdendo.
L'uomo nasce ricco di tutto, crescendo impoverisce, e giunto alla vecchiezza si trova quasi senza nulla.
Il fanciullo è più ricco del giovane, anzi ha tutto; ancorchè poverissimo e nudo e sventuratissimo, ha più del giovane più fortunato; il giovane è più ricco dell'uomo maturo, la maturità più ricca della vecchiezza.
Ma Mad.
Lambert dice questo in altro senso, cioè rispetto alle perdite così dette reali, che si fanno coll'avanzar dell'età.
(9.
Feb.
1821.) Ma siccome nessuna cosa si possiede realmente, così nulla si può perdere.
Bensì quel detto è vero per quest'altra parte, relativamente alla condizione presente degli uomini, e [637]dello spirito umano, e della società.
(10.
Feb.
1821.)
Io non soglio credere alle allegorie, nè cercarle nella mitologia, o nelle invenzioni dei poeti, o credenze del volgo.
Tuttavia la favola di Psiche, cioè dell'Anima, che era felicissima senza conoscere, e contentandosi di godere, e la cui infelicità provenne dal voler conoscere, mi pare un emblema così conveniente e preciso, e nel tempo stesso così profondo, della natura dell'uomo e delle cose, della nostra destinazion vera su questa terra, del danno del sapere, della felicità che ci conveniva, che unendo questa considerazione, al manifesto significato del nome di Psiche, appena posso discredere che quella favola non sia un parto della più profonda sapienza, e cognizione della natura dell'uomo e di questo mondo.
V.
quest'allegoria notata, e sebbene non profondamente, tuttavia bastantemente spiegata nel morceau détaché di Mad.
Lambert intitolato Psyché en grec.
Ame.
(così) dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus p.284-285.
E forse l'allegoria sopraddetta sarà stata osservata anche dagli altri, e così credo.
Certo è che, o la non la significa nulla, o significa quel ch'io dico, e mostra che il mio sistema piacque agli antichissimi: con altro sistema la non si spiega.
Del resto combinando quest'osservazione, col racconto della Genesi, [638]dove l'origine immediata della infelicità e decadimento dell'uomo, si attribuisce manifestamente al sapere, come ho dimostrato altrove; mi si fa verisimile che in somma queste gran massime: l'uomo non è fatto per sapere, la cognizione del vero è nemica della felicità, la ragione è nemica della natura, ultimo frutto ed apice della più moderna e profonda, e della più perfetta o perfettibile filosofia che possa mai essere; fossero non solamente note, ma proprie, e quasi fondamentali dell'antichissima sapienza, se non altro di quella arcana e misteriosa, come l'orientale, e come l'egiziana dalla quale è chi pretende derivata, almeno in parte, la mitologia e la sapienza greca.
(10.
Feb.
1821.)
Vorranno i puristi che quando manca alla lingua nostra il vocabolo di una tal cosa, piuttosto che formarne uno nuovo, o adottarne uno straniero, o derivarne uno da lingue antiche, si usino circollocuzioni.
Lascio quanto le circollocuzioni troppo frequenti (e converrebbe che fossero frequentissime) tolgano di grazia, di forza, di proprietà, di rapidità al discorso, ed inceppino, ritardino, [639]impaccino, infastidiscano lo scrittore e il lettore, in qualunque caso.
Ma dico primieramente che si daranno infinite occorrenze, dove una di quelle cose che non hanno vocabolo italiano, accada di esprimerla frequentissimamente, tratto tratto, più volte nello stesso periodo.
Ora quando a grande stento si sarà trovata una circollocuzione che equivalga veramente, al che sarà spesso necessario ch'ella sia lunghissima, come ripeterla a ogni tratto, e in un periodo stesso più volte? come variarla, se appena se n'è trovata una che equivalga? come abbreviarla, se tolta qualche parola, ella non ha più la stessa forza, e non dice tutto, non esprime più quella tale idea, se non è tutta distesa ed intera? Una parola si adatta a prendere tutte le positure, s'introduce da per tutto, si maneggia facilmente, speditamente, e a beneplacito.
Ma una circollocuzione, un corpo grosso e disadatto, che se non ha tanto di luogo, non può entrare o giacere, come troverà sito, dirò così, in quelle pieghe, in quei cantoni, in quegli spicoli, in quegli spazietti, [640]in quei passaggetti, in quelle rivolte (rivolture, rivoltatine, che in tutti questi modi si può dire, come dice il Firenzuola, le rivolture degli orecchi) in quelle giratine, in quelle tortuosità, in quelle angustie e stretture del discorso o del periodo, così frequenti, dove spessissimo vorrà e dovrà entrare quella tale idea, ed entrerebbe la parola, la circollocuzione non già?
Dico in secondo luogo che infinite cose vi sono, le quali non si possono esprimere mediante veruna circollocuzione.
Verbigrazia quello che i francesi intendono così spesso per la parola génie (usata nello stesso senso dal Magalotti, come dice il Monti nella Biblioteca Italiana).
Come esprimere per circollocuzione quello che non si può definire? Dove manca la facoltà della definizione, manca parimente della circollocuzione.
E queste tali cose che s'intendono chiaramente, facilmente, e pienamente, per via di una parola convenuta, ma non si potrebbero nè definire adequatamente, nè dare ad intendere per nessuna circollocuzione, sono infinite in ogni genere, massimamente poi nelle materie filosofiche della natura ch'elle sono oggidì, nelle materie astratte ec.
Ed è ben naturale, [641]perchè le parole son fatte per le cose: a quella tal cosa, corrisponde quella tal parola; altre parole, ancorchè molte non corrispondono.
Sussiste la cosa, sussiste l'idea, sussiste la maniera di significarla e definirla, ma quella maniera, quel mezzo, e non altro.
Ogni volta che qualunque disciplina o cognizione, o speculazione umana, ma specialmente la filosofia, e la metafisica che considera i principii e gli elementi delle cose, i quali poco o nulla cadono nel sermone e nell'uso comune, le intimità, i secreti, le parti delle cose rimote e segregate dai sensi e dal pensiero dei più; ogni volta, dico, che questa ha ricevuto qualche incremento, o preso qualche nuovo sentiero, o cercata o trovata qualche novità, è stata necessaria, ed effettivamente adoperata la novità delle parole in qualunque lingua.
Lascio la latina che prima di Lucrezio e Cicerone era affatto impotente nelle materie filosofiche, e che tuttavolta aveva, come abbiamo noi nella francese, il sussidio e la miniera di una lingua sorella, ricchissima in questo genere, come negli altri.
La novità della filosofia di Platone, domandava la novità delle parole in quella medesima [642]lingua greca, sì ricca per ogni capo, e segnatamente nelle materie filosofiche tanto familiari alla Grecia da lunghissimo tempo.
E Platone inventava nuove parole, e tali, che in quella stessa lingua, così pieghevole, e trattabile; così non solamente ricca, ma feconda; così avvezza alle novità delle parole; così facile così suscettibile così spontaneamente adattabile alla formazione di nuove voci, riuscivano strane, assurde e ridicole ai volgari, al comune, alla gente che considera l'effetto, cioè la novità della voce, e non pesa la cagione, cioè la novità delle cose, e delle speculazioni.
Come ???????????che noi possiamo dire mensalità, e ???????? calicità.
(non c'è di meglio per esprimere in italiano questa parola: così mi sono accertato.) V.
Laerz.
(in Diog.
Cyn.
l.6.
segm.53.) e il Menag.
se ha nulla, e potrai anche riportare quel fatto che il Laerz.
riferisce in proposito.
Tanto le astrazioni ec.
sono lontane dall'uso comune.
E queste e altre tali parole le formava Platone, certo non più lodato per la sapienza di quello che fosse per la purità ed eleganza della favella Attica, e dello stile, e per tutti i pregi della eloquenza, [643]della elocuzione, e del bello scrivere e dire.
(10.
Feb.
1821.)
Non è bisogno che una lingua sia definitamente poetica, ma certo è bruttissima e inanimata quella lingua che è definitamente matematica.
La migliore di tutte le lingue è quella che può esser l'uno e l'altro, e racchiudere eziandio tutti i gradi che corrono fra questi due estremi.
(11.
Feb.
1821.)
Les enfans aiment à être traités en personnes raisonnables.
Mme.
de Lambert, Lettre à madame la supérieure de la Madeleine de Tresnel, sur l'éducation d'une jeune demoiselle; ou Lettre III.
dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, (p.633.) p.356.
Che rileva dunque che tu sia famoso tra coloro che nasceranno, se fosti ignoto a coloro che nacquero prima? (tra coloro, o quei che verranno, se fosti ignoto a coloro, o quelli che furono?) I quali non cedono alla posterità rispetto al numero, e indubitatamente la vincono rispetto alla virtù.
[644](Il numero dei quali non cede a quello de' posteri, e la virtù indubitatamente prevale, o senza fallo prevale.).
(11.
Feb.
1821.)
Non c'è forse persona tanto indifferente per te, la quale salutandoti nel partire per qualunque luogo, o lasciarti in qualsivoglia maniera, e dicendoti, non ci rivedremo mai più, per poco d'anima che tu abbia, non ti commuova, non ti produca una sensazione più o meno trista.
L'orrore e il timore che l'uomo ha, per una parte, del nulla, per l'altra, dell'eterno, si manifesta da per tutto, e quel mai più non si può udire senza un certo senso.
Gli effetti naturali bisogna ricercarli nelle persone naturali, e non ancora, o poco, o quanto meno si possa, alterate.
Tali sono i fanciulli: quasi l'unico soggetto dove si possano esplorare, notare, e notomizzare oggidì, le qualità, le inclinazioni, gli affetti veramente naturali.
Io dunque da fanciullo aveva questo costume.
Vedendo partire una persona, quantunque a me indifferentissima, considerava [645]se era possibile o probabile ch'io la rivedessi mai.
Se io giudicava di no, me le poneva intorno a riguardarla, ascoltarla, e simili cose, e la seguiva o cogli occhi o cogli orecchi quanto più poteva, rivolgendo sempre fra me stesso, e addentrandomi nell'animo, e sviluppandomi alla mente questo pensiero: ecco l'ultima volta, non lo vedrò mai più, o, forse mai più.
E così la morte di qualcuno ch'io conoscessi, e non mi avesse mai interessato in vita, mi dava una certa pena, non tanto per lui, o perch'egli mi interessasse allora dopo morte, ma per questa considerazione ch'io ruminava profondamente: è partito per sempre - per sempre? sì: tutto è finito rispetto a lui: non lo vedrò mai più: e nessuna cosa sua avrà più niente di comune colla mia vita.
E mi poneva a riandare, s'io poteva, l'ultima volta ch'io l'aveva o veduto, o ascoltato ec.
e mi doleva di non avere allora saputo che fosse l'ultima volta, e di non [646]essermi regolato secondo questo pensiero.
(11.
Feb.
1821.)
Nessun secolo de' più barbari si è creduto mai barbaro, anzi nessun secolo è stato mai, che non credesse di essere il fiore dei secoli, e l'epoca più perfetta dello spirito umano e della società.
Non ci fidiamo dunque di noi stessi nel giudicare del tempo nostro, e non consideriamo l'opinione presente, ma le cose, e quindi congetturiamo il giudizio della posterità, se questa sarà tale da poter giudicarci rettamente.
(12.
Feb.
1821.)
La somma della teoria del piacere, e si può dir anche, della natura dell'animo nostro e di qualunque vivente, è questa.
Il vivente si ama senza limite nessuno, e non cessa mai di amarsi.
Dunque non cessa mai di desiderarsi il bene, e si desidera il bene senza limiti.
Questo bene in sostanza non è altro che il piacere.
Qualunque piacere ancorchè grande, ancorchè reale, ha limiti.
Dunque nessun piacere possibile è proporzionato ed uguale alla [647]misura dell'amore che il vivente porta a se stesso.
Quindi nessun piacere può soddisfare il vivente.
Se non lo può soddisfare, nessun piacere, ancorchè reale astrattamente e assolutamente, è reale relativamente a chi lo prova.
Perchè questi desidera sempre di più, giacchè per essenza si ama, e quindi senza limiti.
Ottenuto anche di più, quel di più similmente non gli basta.
Dunque nell'atto del piacere, o nella felicità, non sentendosi soddisfatto, non sentendo pago il desiderio, il vivente non può provar pieno piacere; dunque non vero piacere, perchè inferiore al desiderio, e perchè il desiderio soprabbonda.
Ed eccoti la tendenza naturale e necessaria dell'animale all'indefinito, a un piacere senza limiti.
Quindi il piacere che deriva dall'indefinito, piacere sommo possibile, ma non pieno, perchè l'indefinito non si possiede, anzi non è.
E bisognerebbe possederlo pienamente, e al tempo stesso indefinitamente, perchè l'animale fosse pago, cioè felice, cioè l'amor proprio suo che non ha limiti, fosse definitamente soddisfatto: cosa [648]contraddittoria e impossibile.
Dunque la felicità è impossibile a chi la desidera, perchè il desiderio, sì come è desiderio assoluto di felicità, e non di una tal felicità, è senza limiti necessariamente, perchè la felicità assoluta è indefinita, e non ha limiti.
Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di non poter essere soddisfatto.
Ora questo desiderio è conseguenza necessaria, anzi si può dir tutt'uno coll'amor proprio.
E questo amore è conseguenza necessaria della vita, in quell'ordine di cose che esiste, e che noi concepiamo, e altro non possiamo concepire, ancorchè possa essere, ancorchè fosse realmente.
Dunque ogni vivente, per ciò stesso che vive (e quindi si ama, e quindi desidera assolutamente la felicità, vale a dire una felicità senza limiti, e questa è impossibile, e quindi il desiderio suo non può esser soddisfatto) perciò stesso, dico, che vive, non può essere attualmente felice.
E la felicità ed il piacere è sempre futuro, cioè non esistendo, nè potendo esistere realmente, esiste solo nel desiderio del vivente, e nella speranza, o aspettativa che ne segue.
Le [649]présent n'est jamais notre but; le passé et le présent sont nos moyens; le seul avenir est notre objet: ainsi nous ne vivons pas, mais nous espérons de vivre, dice Pascal.
Quindi segue che il più felice possibile, è il più distratto dalla intenzione della mente alla felicità assoluta.
Tali sono gli animali, tale era l'uomo in natura.
Nei quali il desiderio della felicità cangiato nei desiderii di questa o di quella felicità, o fine, e soprattutto mortificato e dissipato dall'azione continua, da' presenti bisogni ec.
non aveva e non ha tanta forza di rendere il vivente infelice.
Quindi l'attività massimamente, è il maggior mezzo di felicità possibile.
Oltre l'attività, altri mezzi meno universali o durevoli o valevoli, ma pur mezzi, sono gli altri da me notati nella teoria del piacere, p.e.
(ed è uno de' principali) lo stupore 1.
di carattere e d'indole: gli uomini così fatti sono i più felici: gli uomini incapaci di questa qualità, sono i più infelici: sii grande e infelice, detto di D'Alembert, Éloges de l'Académie Françoise (così, Françoise) dice la natura agli uomini grandi, agli uomini sensibili, passionati ec.: il senso vivo del desiderio di felicità li tormenta: questo desiderio [650]bisogna sentirlo il meno possibile, quantunque innato, e continuo necessariamente.
2.
derivato da languore o torpore ec.
artefatto, come per via dell'oppio, o proveniente da lassezza ec.
ec.
3.
derivato da impressioni straordinarie, dalla maraviglia di qualunque sorta, da avvenimenti, da cose vedute, udite ec.
insomma da sensazioni straordinarie di qualsivoglia genere: 4.
dalla immaginazione, dall'estasi che deriva dalla fantasia, da un sentimento indefinito, dalla bella natura ec.
e v.
la teoria del piacere.
Notate che l'immaginazione la vivacità, la sensibilità, le quali nocciono alla felicità per la parte dello stupore, giovano per la parte dell'attività.
E perciò sono piuttosto un dono della natura (ancorchè spesso doloroso), di quello che un danno; perchè effettivamente l'attività è il mezzo di distrazione il più facile, più sicuro e forte, più durevole, più frequente e generale e realizzabile nella vita.
(12.
Feb.
1828.).
Les passions même les plus vives ont besoin de la pudeur pour se montrer dans une forme séduisante: elle doit se répandre sur toutes vos actions; elle doit parer et embellir [651]toute votre personne.
On dit que Jupiter, en formant les passions, leur donna à chacune sa demeure; la pudeur fut oubliée, et quand elle se présenta, on ne savoit plus où la placer; on lui permit de se mêler avec toutes les autres.
Depuis ce temps-là, elle en est inséparable.
Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa fille, dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, (p.633.), p.60-61.
Che vuol dir questo, se non che niente è buono senza la naturalezza? Applicate questi detti della Marchesa anche alla letteratura, inseparabile parimente dal pudore, e a quello ch'io dico del sentimento, e del genere sentimentale nel Discorso sui romantici.
(13.
Feb.
1821.)
La curiosité est une connoissance commencée, qui vous fait aller plus loin et plus vite dans le chemin de la vérité.
Mme de Lambert, lieu cité ci-dessus, p.72.
Non intendo pienamente il sentimento della marchesa, ma il fatto è questo.
La curiosità o il desiderio di conoscere, non è per la massima parte, se non l'effetto della conoscenza.
Esaminate la natura, e [652]vedrete quanto la curiosità sia piccola, leggera e debole nell'uomo primitivo; come non gli cada mai nella testa il desiderio di saper quelle cose che non gli appartengono, o che sono state nascoste dalla natura (p.e.
le cose fisiche, astronomiche ec.
le origini i destini dell'uomo, degli animali, delle piante, del mondo); com'egli sia incapace d'intraprendere qualche seria operazione per informarsi di cosa veruna, e molto meno di cosa difficile a conoscersi (e queste sono appunto quelle che non si dovevano conoscere, e l'ignoranza delle quali, basta alla felicità dell'uomo, ancorchè informato di altre cose facili ed ovvie).
Piuttosto l'immaginazione sua supplisce, e gli fa credere di sapere una causa, che realmente non è quella ec.
In somma non è niente vero, che l'uomo sia portato irresistibilmente verso la verità e la cognizione.
La curiosità, qual è oggidì, e da gran tempo, è una di quelle qualità corrotte, con uno sviluppo e un andamento non dovuto, come tante altre qualità, passioni ec.
buone ed utili, anzi necessarie in [653]quel grado che la natura aveva dato loro, ma pessime e mortifere, quando sono passate ad altri gradi, e sviluppatesi più del dovere, e modificatesi diversamente.
Così che sebbene queste qualità e passioni sieno naturali in radice, ed umane, non perciò sono naturali, quali si trovano oggidì, nè dal loro stato presente si deve giudicare della natura e costituzione dell'uomo, nè dedurne intorno ai nostri destini quelle conseguenze che se ne deducono.
(13.
Feb.
1821.).
V.
p.657.
capoverso 1.
Les femmes apprennent volontiers l'Italien, qui me paroît dangereux, c'est la langue de l'Amour.
Les Auteurs Italiens sont peu châtiés; il règne dans leurs ouvrages un jeu de mots, une imagination sans règle, qui s'oppose à la justesse de l'esprit.
Mme Lambert, lieu cité ci-dessus, p.73-74.
(13.
Feb.
1821.)
Plus il y a de monde, (cioè, più gente ci sta d'intorno, più ci troviamo in mezzo al mondo attualmente) et plus les passions acquièrent d'autorité.
Ib.
p.81.
Un philosophe [654]assuroit: "...
que plus il avoit vu de monde, plus les passions acquéroient d'autorité..." Mme Lambert, Lettre à madame de ***, ou Lettre XV.
dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, p.395.
Così è generalmente: ma all'uomo veramente sventurato accade tutto il contrario.
Ogni volta ch'egli si presenta nel mondo, vedendosi respinto, il suo amor proprio mortificato, i suoi desideri frustrati, o contrariati, le sue speranze deluse, non solamente non concepisce veruna passione fuorchè quella della disperazione, ma per lo contrario, le sue passioni si spengono.
E nella solitudine, essendo lontane le cose e la realtà, le passioni, i desiderii, le speranze se gli ridestano.
(13.
Feb.
1821.)
Modérez votre goût pour les sciences extraordinaires, elles sont dangereuses, et elles ne donnent ordinairement que beaucoup d'orgueil; elles démontent les ressorts de l'ame...
Notre ame a bien plus de quoi jouir, qu'elle n'a de quoi connoître: (i mezzi di godere che quelli di conoscere: questo è il senso, [655]come apparisce dal contesto, e da altri luoghi delle sue opere paralleli a questo) nous avons les lumières propres et nécessaires à notre bien être; mais nous ne voulons pas nous en tenir là; nous courons après des vérités qui ne sont pas faites pour nous...
Ces réflexions dégoûtent des sciences abstraites.
Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa fille, dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, p.74-75-76.
Nous avons en nous de quoi jouir, mais nous n'avons pas de quoi connoître.
Nous avons les lumières propres et nécessaires à notre bien être; mais nous courons après des vérités qui ne sont pas faites pour nous...
Ces réflexions dégoûtent des vérités abstraites.
La même, Traité de la Vieillesse, l.
c.
p.146-147.
(13.
Feb.
1821.)
Examinez votre caractère, et mettez à profit vos défauts; il n'y en a point qui ne tienne à quelques vertus, et qui ne les favorise.
La Morale n'a pas pour objet de détruire la nature, mais de la perfectionner.
Mme Lambert, Avis d'une Mère a sa fille, lieu cité ci-dessus, p.84.
E segue mostrando con parecchi esempi, come ciascuna [656]imperfezione conduca, serva, e quasi racchiuda qualche virtù, conchiudendo: Il n'y a pas une foiblesse, dont, si vous voulez, la vertu ne puisse faire quelque usage.
ib.
p.
citée.
Da queste osservazioni fatte anche da molti altri, si può dedurre una verità molto generale ed importante, cioè con quanto leggere modificazioni quelle qualità umane che si chiamano viziose, e si presumono vizi naturali e inerenti, si riducano e si trovino, non esser altro che buone e giovevoli qualità, e come in origine e nella prima costituzione dell'uomo fosse buono ancor quello che ora pare essenzialmente e primitivamente cattivo, perciocchè essendosi facilmente corrotte quelle prime qualità naturali, e distoltesi dal loro fine, e non conoscendosi più a qual buon fine potessero esser destinate; la depravazione nostra ch'è opera dell'uomo, si prende per vizio naturale ed innato; e si confonde il mal uso delle qualità che si chiamano naturali, col buon uso a cui la natura le aveva destinate, e che ora non si scuopre più facilmente.
[657]In somma da tutto ciò si conferma la dottrina della perfezione naturale, e primitiva dell'uomo, considerando come sieno originalmente buone anche quelle qualità, che per una parte si hanno per naturali ed innate, e sono; per l'altra, si hanno per naturalmente cattive, e non sono: ma questo errore fa che la natura si creda viziosa, e bisognosa della ragione.
La qual ragione, anch'essa, abbiamo spessissimo dimostrato ch'è un sommo vizio, e contuttociò ell'è innata.
Ma tal quale era innata, non era vizio; bensì è vizio tal quale ella si trova, ed è adoperata oggidì.
(14.
Feb.
1821.)
Alla p.653.
Effettivamente la curiosità naturale, porta l'uomo, il fanciullo ec.
a voler vedere, sentire ec.
una cosa o bella, o straordinaria, o notabile relativamente all'individuo.
Ma non lo stimola mica e non lo tormenta, per saper la cagione di quel tale effetto che gli è piaciuto di vedere, udire ec.
Anzi l'uomo naturale ordinariamente, si contiene nella maraviglia, [658]gode del piacere che deriva da lei, e se ne contenta.
Così che la curiosità primitiva non porta l'uomo naturalmente, se non a desiderare e proccurarsi la cognizione di quelle cose, ch'essendo facili a conoscere (e l'uomo naturale desidera di conoscerle fino a quel punto fino al quale son facili), e quindi non essendo state nascoste dalla natura; la cognizione loro non nuoce all'ordine primitivo, non altera l'uomo, non isconviene alla sua natura, non pregiudica alla sua felicità e perfezione: non entrando quei tali oggetti nell'ordine delle cose che la natura ha voluto fossero sconosciute e ignorate.
Così si vede anche negli altri animali.
(14.
Feb.
1821.)
La ragione di quanto ho più volte osservato circa la difficoltà anzi impossibilità di riuscire in quelle cose che si fanno con troppo impegno, e tanto più quanto queste cose sono naturali, e quanto la perfezione loro consiste nella naturalezza, è questa.
Non riesce bene e secondo natura, se non quello che si fa naturalmente.
[659]Ma i detti mezzi non sono naturali, e il servirsi di essi non è secondo natura.
Dunque ec.
Non basta che un'operazione sia naturale: ma quanto più è o dev'esser naturale, tanto più bisogna farla naturalmente.
Anzi non è naturale, se non è fatta naturalmente.
(14.
Feb.
1821.)
L'invenzione e l'uso delle armi da fuoco, ha combinato perfettamente colla tendenza presa dal mondo in ordine a qualunque cosa, e derivata naturalmente dalla preponderanza della ragione e dell'arte, colla tendenza, dico, di uguagliar tutto.
Così le armi da fuoco, hanno uguagliato il forte al debole, il grande al piccolo, il valoroso al vile, l'esercitato all'inesperto, i modi di combattere delle varie nazioni: e la guerra ancor essa ha preso un equilibrio, un'uguaglianza che sembrava contraria direttamente alla sua natura.
E l'artifizio, sottentrando alla virtù, [660]ed agguagliandola, e anche superandola, e rendendola inutile, ha pareggiato gl'individui, tolta la varietà, spento quindi anche nella guerra, l'entusiasmo quasi del tutto, spenta l'emulazione, e toltale la materia, spento l'eroismo, giacchè tanto vale un soldato eroe, quanto un Martano, o se anche non l'ha spento, l'ha confuso colla viltà, e reso indistinguibile, e quindi senza eccitamento e senza premio: in fine ha contribuito sommamente anche per questa parte a mortificare il mondo e la vita.
Tanto è vero che il bello, il grande, il vario, non si trova se non che nella natura, e si perde subito appena si esce da lei, appena sottentrano l'arte e la ragione, in qualunque cosa.
(14 Feb.
1821.)
Diogene, ???????????? ????? ? ???????, ???, ????, ?????, ?? ???????? ??? ???????????; Laerz.
in Diog.
Cyn.
6.68.
Dalla nota del Menag.
si rileva ch'egli l'ha inteso della insensibilità dell'atto della morte.
[661]Delle diverse opinioni intorno alla pretesa legge naturale, v.
alcuni sentimenti e dommi di Diogene, ap.
Laert.
in Diog.
Cyn.
VI.
72-73.
e quivi il Menagio, il quale riporta in proposito alcune parole di Sesto Empirico, la cui opera Pyrronianarum Hypotyposeon, e l'altra Adversus Mathematicos, ossia adversus cuiusvis generis dogmaticos, è tutta relativa a questo argomento, ed a quello ch'io sostengo, che non c'è verità nessuna assoluta.
(14.
Feb.
1821.)
Dell'influenza del corpo sull'animo, e dell'esercizio sulla virtù, v.
le sentenze di Diogene, ap.
Laert.
in Diog.
Cyn.
VI.
70.
e quivi il Menag.
se ha nulla.
(14.
Feb.
1821.)
On aime à savoir les foiblesses des personnes estimables, non già solamente di quelle che si odiano o invidiano, ma di quelle che si amano, si ammirano, si trattano, ci obbligano e ci giovano coi loro benefizi, consigli ec.
e in questo senso lo dice Mad.
Lambert, La Femme Hermite.
Nouvelle Nouvelle.
[662]dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus (p.633.), p.229.
Tu puoi però applicarti questo pensiero, e rendertelo proprio, giacchè Mad.
lo stende, lo spiega, e l'applica in maniera ordinaria, così che il pensiero sembra comune, non fa gran colpo e non se ne osserva l'originalità.
Essa lo applica principalmente alla confidenza che ne deriva verso quelle tali persone: et j'étois trop heureuse de trouver en elle, non-seulement des conseils, mais de ces foiblesses aimables qui nous rendent plus indulgens pour celles d'autrui.
Ma si può considerare questa verità molto più in grande, dilatarla, osservarne i rapporti, applicarla anche al teatro, alla poesia, a' romanzi ec.
ed alle arti imitatrici, e confermarne quella regola di Aristotele, che il protagonista non sia perfetto.
(15.
Feb.
1821.)
Je crois que son estime (si parla di una persona amata, ma da cui non si spera nulla, e alla quale non si è mai dichiarato il proprio amore) doit être le prix de tout ce que je fais de bien; et je fais encore plus [663]grand cas d'elle (de son estime) que de tous les sentimens les plus tendres que je pourrois lui supposer.
(Quella che parla è una donna, e l'amato è un uomo).
Mme.
Lambert, Lieu cité ci-dessus, p.234.
Messer tale sentendo dire che la vita è una commedia, disse che oggidì è piuttosto una prova di commedia, ovvero una di quelle rappresentazioni, che talvolta i collegiali, o simili fanno per loro soli.
Perchè non ci sono più spettatori, tutti recitano, e la virtù e le buone qualità che si fingono, nessuno le ha, e nessuno le crede negli altri.
Anzi proponeva questo mezzo di fare che il mondo cessasse finalmente di essere un teatro, e la vita diventasse per la prima volta, almeno dopo lunghissimo tempo, un azion vera.
S'ella fu mai tale, fu perchè gli uomini, se non altro la maggior parte, erano veramente buoni, o tendevano alla virtù.
Questo ora è impossibile, e non è [664]più da sperare.
Dunque si cercasse il detto fine per un altro verso, quasi opposto.
Si riformassero il Galateo, le leggi, gl'insegnamenti pubblici e privati, l'educazione de' fanciulli, i libri di Morale, i vocabolari ec.
In maniera che quello che non è più necessario, anzi è disutile e dannoso in sostanza, non fosse più necessario neanche in apparenza.
Così si toglierebbe agli uomini la necessità di mentir sempre, e inutilmente, perchè non ingannano più nessuno; l'imbarazzo in cui questa li pone tante volte; la contraddizione fra l'esteriore, e l'interiore; la falsità ec.
si ricondurrebbe la verità nel mondo; la vita resterebbe nè più nè meno la stessa qual è oggidì, ma solamente tolto questo linguaggio e queste maniere di convenzione, e questo genere aereo ed inutile di bienséances, e di onore, e di riguardi a un pubblico che pensa ed opera come te, si toglierebbero agli uomini molti incomodi, e fatiche, e attenzioni, e sollecitudini [665]vane; e la vita sarebbe un fatto e non una rappresentazione: finalmente si concorderebbero una volta insieme quelle due cose discordi ab eterno, i detti e i fatti degli uomini.
Sperava e prognosticava che il mondo si sarebbe stancato di tante apparenze divenute inutili da che non servono più ad ingannare, e da che la commedia non è più spettacolo, e tutti sono attori.
Che avrebbe messo d'accordo la sostanza coll'apparenza, non già cambiando la sostanza, che Dio ce ne scampi, ma lasciandola intatta, e cambiando l'apparenza, les bienséances, il linguaggio ec.
cioè facendo che apparisca e si dica quello ch'è vero.
E notava che il mondo sembra che già inclini a questo, e non i fatti coi detti, ma i detti si comincino ad accomodare, ad accordare, a pacificare coi fatti; ed oramai vengano a trattato con questi loro nemici, e domandino essi le condizioni di pace.
E che forse [666]anche oggidì l'esteriore coll'interiore, i detti coi fatti sono più d'accordo che non furono da grantempo.
(16.
Feb.
1821.)
Je sentis que c'étoit quelque chose de bien douloureux, que de savoir ce que l'on aime attaché à quelque chose de parfait: (cioè la persona amata, a qualche altra persona perfetta, e degna dell'amor suo: e in questo senso lo dice Mad.
Lambert) mais loin que mon intérêt ait pris sur la justice que je devois à mon amie, (amata da colui ch'era amato dalla persona che parla, ed è una donna) ma délicatesse et la crainte de lui manquer ont augmenté son mérite à mes yeux.
Mme.
de Lambert lieu cité ci-dessus, (p.661.
fine), p.265.
fine.
Elle (l'imagination) nous donne de ces joies sérieuses qui ne font rire que l'esprit.
(cioè, il bello spirito, il bell'umore).
Mme de Lambert, Réflexions nouvelles sur les [667]femmes, dans ses Oeuvres complètes citées ci-dessus, (p.633.), p.166.
(16.
Feb.
1821.)
Quello che ho detto in altro pensiero intorno all'idea che i fanciulli si formano dei nomi, si deve estendere assai, perchè ordinariamente e generalmente, il fanciullo dal primo individuo che vede, si forma l'idea di tutta la specie o genere, in ogni sorta di cose; dal primo soldato, l'idea di tutti i soldati, dal primo tempio, l'idea di tutti i tempii ec.
E se la forma vivamente e durevolmente, se però altri individui della stessa specie, non vengono frequentemente o nella stessa fanciullezza, o poi, a scancellare l'idea concepita sul primo individuo.
Senza ciò, e massimamente se le idee di altri individui non sottentrano a quella del primo durante la fanciullezza, l'idea del primo si conserva per lunghissimo tempo anche nelle altre età, e serve nella nostra mente di tipo, a tutti gli altri individui della stessa specie di cui ci dobbiamo formare un'idea per relazione o cosa tale, e che non ci cadono sotto i sensi.
P.e.
avendo io di due anni veduto un colonnello, l'idea [668]ch'io mi formo naturalmente della persona di questo o di quel colonnello, ch'io non conosco di veduta, e in astratto, del colonnello, è ancora modellata su quella figura, quelle maniere ec.
Anche da ciò si deve inferire quanto sieno importanti le benchè minime impressioni della fanciullezza, e quanto gran parte della vita dipenda da quell'età; e quanto sia probabile che i caratteri degli uomini, le loro inclinazioni, questa o quell'altra azione ec.
derivino bene spesso da minutissime circostanze della loro fanciullezza, e come i caratteri ec.
e le opinioni massimamente (dalle quali poi dipendono le azioni, e quasi tutta la vita) si diversifichino bene spesso per quelle minime circostanze, e accidenti, e differenze appartenenti alla fanciullezza, mentre se ne cercherà la cagione e l'origine in tutt'altro, anche dai maggiori conoscitori dell'uomo.
(16.
Feb.
1821.).
V.
p.675.
principio
Quella maravigliosa facilità che hanno [669]i fanciulli di passare immediatamente dal più profondo dolore alla gioia, dal pianto al riso ec.
e viceversa, e ciò per minime cagioni; questa somma volubilità e versatilità d'indole e d'immaginazione, non dev'ella esser causa di una molto maggiore felicità, o molto minore miseria che nelle altre età?
(16.
Feb.
1821.)
L'orgueil nous sépare de la société: notre amour-propre nous donne un rang à part qui nous est toujours disputé: l'estime de soi-même qui se fait trop sentir est presque toujours punie par le mépris universel.
Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa fille, dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, (p.633.), p.99.
fine.
Così è naturalmente nella società, così porta la natura di questa istituzione umana, la quale essendo diretta al comun bene e piacere, non sussiste veramente, se l'individuo non accomuna [670]più o meno cogli altri la sua stima, i suoi interessi, i suoi fini, pensieri, opinioni, sentimenti ed affetti, inclinazioni, ed azioni; e se tutto questo non è diretto se non a se stesso.
Quanto più si trova nell'individuo il se stesso, tanto meno esiste veramente la società.
Così se l'egoismo è intero, la società non esiste se non di nome.
Perchè ciascun individuo non avendo per fine se non se medesimo, non curando affatto il ben comune, e nessun pensiero o azione sua essendo diretta al bene o piacere altrui, ciascuno individuo forma da se solo una società a parte, ed intera, e perfettamente distinta, giacchè è perfettamente distinto il suo fine; e così il mondo torna qual era da principio, e innanzi all'origine della società, la quale resta sciolta quanto al fatto e alla sostanza, e quanto alla ragione ed essenza sua.
Perciò l'egoismo è sempre stata la peste della società, e quanto è stato maggiore, tanto peggiore è stata [671]la condizione della società; e quindi tanto peggiori essenzialmente quelle istituzioni che maggiormente lo favoriscono o direttamente o indirettamente, come fa soprattutto il dispotismo.
(Sotto il quale stato la Francia era divenuta la patria del più pestifero egoismo, mitigato assai dalla rivoluzione, non ostante gl'immensi suoi danni, come è stato osservato da tutti i filosofi.) L'egoismo è inseparabile dall'uomo, cioè l'amor proprio, ma per egoismo, s'intende più propriamente un amor proprio mal diretto, male impiegato, rivolto ai propri vantaggi reali, e non a quelli che derivano dall'eroismo, dai sacrifizi, dalle virtù, dall'onore, dall'amicizia ec.
Quando dunque questo egoismo è giunto al colmo, per intensità, e per universalità; e quando a motivo e dell'intensità, e massime dell'universalità si è levata la maschera (la quale non serve più a nasconderlo, perchè troppo vivo, e perchè tutti sono animati dallo stesso sentimento), allora la natura del commercio sociale (sia relativo alla conversazione, [672]sia generalmente alla vita) cangia quasi intieramente.
Perchè ciascuno pensando per se (tanto per sua propria inclinazione, quanto perchè nessun altro vi pensa più, e perchè il bene di ciascheduno è confidato a lui solo), si superano tutti i riguardi, l'uno toglie la preda dalla bocca e dalle unghie dell'altro; gl'individui di quella che si chiama società, sono ciascuno in guerra più o meno aperta, con ciascun altro, e con tutti insieme; il più forte sotto qualunque riguardo, la vince; il cedere agli altri qualsivoglia cosa, o per creanza, o per virtù, onore ec.
è inutile, dannoso e pazzo, perchè gli altri non ti son grati, non ti rendono nulla, e di quanto tu cedi loro, o di quella minore resistenza che opponi loro, profittano in loro vantaggio solamente, e quindi in danno tuo.
E così, per togliere un esempio dal passo cit.
di Mad.
di Lambert, si vede nel fatto che oggidì, il disprezzo degli altri, e la stima aperta e ostentata di se stesso, non solamente non è più così dannosa come [673]una volta, ma bene spesso è necessaria, e chi non sa farne uso non guadagna nulla in questo mondo presente.
Perchè gli altri non sono disposti ad accordarti spontaneamente, e in forza del vero, e del merito nulla, come di nessuna altra cosa, così neanche di stima, e bisogna quindi che tu la conquisti come per forza, e con guerra aperta e ostilmente, mostrandoti persuasissimo del tuo merito, ad onta di chicchessia, disprezzando e calpestando gli altri, deridendoli, profittando d'ogni menomo loro difetto, rinfacciandolo loro, non perdonando nulla agli altri, cercando in somma di abbassarli e di renderteli inferiori, o nella conversazione o dovunque con tutti i mezzi più forti.
Che se oggidì ti vuoi procacciare la stima degli altri, col rispetto, buona maniera verso loro, col lusingare il loro amor proprio, dissimulare i loro difetti ec.
e quanto a te, colla modestia, col silenzio ec.
ti succede tutto l'opposto.
Essi profittano di te e de' tuoi riguardi verso loro, per innalzarsi, e della tua poca resistenza quanto a te, per deprimerti.
Quello che concedi [674]loro, l'adoprano in loro mero vantaggio, e danno tuo; quello che non ti arroghi o non pretendi, o quel merito che tu dissimuli, te lo negano e tolgono, per vederti inferiore ec.
Così, nel modo che ho detto ritornano effettivamente nel mondo i costumi selvaggi, e di quella prima età, quando la società non esistendo, ciascuno era amico di se solo, e nemico di tutti gli altri esseri o dissimili o simili suoi, in quanto si opponevano a qualunque suo menomo interesse o desiderio, o in quanto egli poteva godere a spese loro.
Costumi che nello stato di società son barbari, perchè distruttivi della società, e contrari direttamente all'essenza ragione, e scopo suo.
Quindi si veda quanto sia vero, che lo stato presente del mondo, è propriamente barbarie, o vicino alla barbarie quanto mai fosse.
Ogni così detta società dominata dall'egoismo individuale, è barbara, e barbara della maggior barbarie.
(17.
Feb.
1821.)
[675]Alla pag.668.
fine.
E questa non è forse una delle minime cagioni di quella verità Quot homines, tot sententiae, detto di Terenzio, (Phorm.
Act.
2.
sc.4.
ver.14.) Quot homines, tot sententiae: suus cuique mos.
(Negli adagi del Manuzio questo proverbio è riportato così, quot homines, non capita.) E similmente Oraz.
(Sat.
l.2.
sat.1.
v.27-28.) Quot capitum vivunt, totidem studiorum Millia.
Ed Euripide (in Phoenissis):
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Cunctis idem si pulchrum, et egregium foret,
Nulla esset anceps hominibus contentio.
At nunc simile nil, nil idem mortalibus:
Nisi verba forsan inter istos concinunt,
At re tamen, factisque convenit nihil.
[676]E Cicerone (de Fin.
bon.
et mal.
c.5.
verso il fine): sed quot homines, tot sententiae: falli igitur possumus.
Luogo omesso dal Manuzio.
Riferite le dette sentenze alla opinione comune, che si dia verità assoluta, anche tra gli uomini.
(17.
Feb.
1821.)
Non siamo dunque nati fuorchè per sentire, qual felicità sarebbe stata se non fossimo nati?
(18.
Feb.
1821.)
ENFIN ELLES AIMENT L'AMOUR, ET NON PAS L'AMANT.
Ces personnes se livrent à toutes les passions les plus ardentes.
Vous les voyez occupées du jeu, de la table: tout ce qui porte la livrée du plaisir est bien reçu.
Parla di quelle donne galanti qui ne cherchent et ne veulent que les plaisirs de l'amour, di quelle che ne cherchent dans l'amour que les plaisirs des sens, (o della galanteria dell'ambizione ec.) que celui d'être fortement occupées et entraînées, et que celui d'être aimées; di quelle che [677]possono associer d'autres passions à l'amour, e lasciare du vide dans (leur) son coeur, e che après avoir tout donné, possono non essere uniquement (occupées) occupé de ce qu'on aime; di quelle che se font une habitude de galanterie, et NE SAVENT POINT JOINDRE LA QUALITÉ D'AMIE A CELLE D'AMANT; di quelle che NE CHERCHENT QUE LES PLAISIRS, ET NON PAS L'UNION DES COEURS, e conseguentemente ÉCHAPPENT A TOUS LES DEVOIRS DE L'AMITIÉ: in somma delle donne d'oggidì tutte quante, e in fatti ancor ella sebbene distingue le donne amanti in tre specie, conchiude il discorso di questa specie, così: Voilà l'amour d'usage et d'à-présent, et où les conduit une vie frivole e dissipée.
Mme.
de Lambert, Réflexions nouvelles sur les femmes, dans ses oeuvres complètes, citées ci-dessus (p.633.) p.179.
(18.
Febbraio 1821.)
[678]Il faut convenir que les femmes sont plus délicates que les hommes en fait d'attachement.
Il n'appartient qu'à elles de faire sentir par un seul mot, par un seul regard, tout un sentiment.
Mme.
de Lambert, lieu cité ci-dessus, p.187.
Gli esercizi della persona che egli faceva in compagnia di cotali gentili uomini, non solamente per allora li furon cagione della fermezza e gagliardìa del corpo, ma eziandio dell'animo.
- Lo dice di Antonio Giacomini Tebalducci Malespini, famoso militare fiorentino, ancor giovane, Jacopo Nardi, Vita d'Antonio Giacomini Tebalducci Malespini, ediz.
di Lucca, Francesco Bertini, 1818.
[in] 8.
p.19..
(18 Feb.
1821.)
Nous n'avons qu'une portion d'attention et de sentiment; dès que nous nous livrons aux objets extérieurs, le sentiment dominant s'affoiblit: nos desirs ne sont-ils pas plus vifs et plus forts dans la retraite? Mme.
de Lambert, lieu cité ci-derrière (p.677.
fine) p.188.
[679]La solitudine è lo stato naturale di gran parte, o piuttosto del più degli animali, e probabilmente dell'uomo ancora.
Quindi non è maraviglia se nello stato naturale, egli ritrovava la sua maggior felicità nella solitudine, e neanche se ora ci trova un conforto, giacchè il maggior bene degli uomini deriva dall'ubbidire alla natura, e secondare quanto oggi si possa, il nostro primo destino.
Ma anche per altra cagione la solitudine è oggi un conforto all'uomo nello stato sociale al quale è ridotto.
Non mai per la cognizione del vero in quanto vero.
Questa non sarà mai sorgente di felicità, nè oggi; nè era allora quando l'uomo primitivo se la passava in solitudine, ben lontano certamente dalle meditazioni filosofiche; nè agli animali la felicità della solitudine deriva dalla cognizione del vero.
Ma anzi per lo contrario questa consolazione della solitudine deriva all'uomo oggidì, e derivava primitivamente dalle illusioni.
Come ciò fosse primitivamente, in quella vita occupata o da continua [680]sebben solitaria azione, o da continua attività interna e successione d'immagini disegni ec.
ec.
e come questo accada parimente ne' fanciulli, l'ho già spiegato più volte.
Come poi accada negli uomini oggidì, eccolo.
La società manca affatto di cose che realizzino le illusioni per quanto sono realizzabili.
Non così anticamente, e anticamente la vita solitaria fra le nazioni civili, o non esisteva, o era ben rara.
Ed osservate che quanto si racconta de' famosi solitari cristiani, cade appunto in quell'epoca, dove la vita, l'energia, la forza, la varietà originata dalle antiche forme di reggimento e di stato pubblico, e in somma di società, erano svanite o sommamente illanguidite, col cadere del mondo sotto il despotismo.
Così dunque torna per altra cagione ad esser proprio degli stati e popoli corrotti, quello ch'era proprio dell'uomo primitivo, dico la tendenza dell'uomo alla solitudine: tendenza stata interrotta dalla prima energia della vita sociale.
Perchè oggidì è così la cosa.
La presenza e l'atto della società spegne le illusioni, [681]laddove anticamente le fomentava e accendeva, e la solitudine le fomenta o le risveglia, laddove non primitivamente, ma anticamente le sopiva.
Il giovanetto ancora chiuso fra le mura domestiche, o in casa di educazione, o soggetto all'altrui comando, è felice nella solitudine per le illusioni, i disegni, le speranze di quelle cose che poi troverà vane o acerbe: e questo ancorchè egli sia d'ingegno penetrante, e istruito, ed anche, quanto alla ragione, persuaso della nullità del mondo.
L'uomo disingannato, stanco, esperto, esaurito di tutti i desideri, nella solitudine appoco appoco si rifà, ricupera se stesso, ripiglia quasi carne e lena, e più o meno vivamente, a ogni modo risorge, ancorchè penetrantissimo d'ingegno, e sventuratissimo.
Come questo? forse per la cognizione del vero? Anzi per la dimenticanza del vero, pel diverso e più vago aspetto che prendono per lui, quelle cose già sperimentate e vedute, ma che ora essendo lontane dai sensi e dall'intelletto, tornano a passare per la immaginazione sua, e quindi abbellirsi.
Ed egli torna a sperare [682]e desiderare, e vivere, per poi tutto riperdere, e morire di nuovo, ma più presto assai di prima, se rientra nel mondo.
Dalle dette considerazioni segue che oggi l'uomo quanto è più savio e sapiente, cioè quanto più conosce, e sente l'infelicità del vero, tanto più ama la solitudine che glielo fa dimenticare, o glielo toglie dagli occhi, laddove nello stato primitivo l'uomo amava tanto più la solitudine, quanto maggiormente era ignorante ed incolto.
E così l'ama oggidì, quanto più è sventurato, laddove anticamente, e primitivamente la sventura spingeva a cercare la conversazione degli uomini, per fuggire se stesso.
La qual fuga di se stesso oggi è impossibile nella società all'uomo profondamente sventurato, e profondamente sensibile, e conoscente; perchè la presenza della società, non è altro che la presenza della miseria, e del vuoto.
Perchè il vuoto non potendo essere riempiuto mai se non dalle illusioni, e queste non trovandosi nella società quale è oggi, resta che sia meglio riempiuto dalla solitudine, dove le illusioni [683]sono oggi più facili per la lontananza delle cose, divenute loro contrarie e mortifere, all'opposto di quello ch'erano anticamente.
(20.
Feb.
1821.)
La sua compagnia (di Antonio Giacomini) ne' collegi de' magistrati fu qualche volta ad alcuni non molto gioconda.
Nondimeno il suo parere le più volte prevaleva agli altri, e specialmente nel consiglio degli ottanta e de' richiesti e pratiche, nelle quali PIÙ LARGHE consultazioni l'autorità de' PARTICOLARI cittadini cede e dà luogo alle vere e ferme ragioni molto più facilmente, che non fa ne' magistrati DI MINOR NUMERO D'UOMINI.
Jacopo Nardi, Vita d'Antonio Giacomini.
Lucca per Francesco Bertini 1818.
p.85-86.
(22.
Feb.
1821.)
Nardi ec.
l.
cit.
qui sopra p.83.
Di quelle doti e di quelle virtù che o per natura o per instituto e lezione tutte furono sue.
Che ha da far qui la lezione? oltre che lo stesso Nardi p.102.
dice ch'egli non aveva dato opera alle scienze.
Leggi ed elezione, opposto a natura.
Ma v.
l'altra ediz.
del 1597.
Firenze, Sermartelli, in 4°
(23.
Feb.
1821.)
[684]Lorenzo de' Medici, Apologia ec.
nel fine: Non mi sarebbe TANTA fatica.
Leggi STATA.
L'errore è nell'ediz.
di Lucca per Francesco Bertini dietro il Nardi, Vita del Giacomini, p.
ult.
136.
Non so delle altre stampe.
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Aristofane, Pluto, o la Ricchezza, Atto 4.
Scena 3.
(23.
Feb.
1821.).
Alla p.241 ...che il mondo, o qualche buona parte del mondo sia quello che in greco si dice diglottos, e noi possiamo dire bilingue.
Come veramente oggidì quasi tutto il mondo civile è bilingue, cioè parla tanto le sue lingue particolari, quanto, al bisogno, la francese.
Eccettuato la stessa Francia, la quale non è bilingue, non solamente rispetto al grosso della nazione, ma anche de' letterati e dotti, pochi sono [685]quelli che intendono bene, o sanno veramente parlare altra lingua fuori della propria loro.
Il che se derivi da superbia nazionale, o da questo che usandosi la loro favella per tutto il mondo, non hanno bisogno d'altra per ispiegarsi con chicchessia, o vero, quanto alla intelligenza ed uso de' libri forestieri, dalla facilità e copia delle traduzioni che hanno, questo non è luogo da ricercarlo.
(23.
Feb.
1821.)
La lingua italiana porta pericolo, non solo quanto alle voci o locuzioni o modi forestieri, e a tutto quello ch'è barbaro, ma anche, (e questo è il principale) di cadere in quella timidità povertà, impotenza, secchezza, geometricità, regolarità eccessiva che abbiamo considerata più volte nella lingua francese.
In fatti da un secolo e più, ella ha perduto, non solamente l'uso, ma quasi anche la memoria di quei tanti e tanti idiotismi, e irregolarità felicissime della lingua nostra, nelle quali principalmente consisteva la facilità, l'onnipotenza, la varietà, [686]la volubilità, la forza, la naturalezza, la bellezza, il genio, il gusto la proprietà ((((((((), la pieghevolezza sua.
Non parlo mica di quelle inversioni e trasposizioni di parole, e intralciamenti di periodi alla latina, sconvenientissimi alla lingua nostra, e che dal Boccaccio e dal Bembo in fuori, e più moderatamente dal Casa, non trovo che sieno stati adoperati e riconosciuti da nessun buono scrittore italiano.
Ma parlo di quella libertà, di quelle tanto e diversissime figure della dizione, per le quali la lingua nostra si diversificava dalla francese dell'Accademia, era suscettibile di tutti gli stili, era così lontana dal pericolo di cadere nell'arido, nel monotono, nel matematico, e in somma di quelle che la rendevano similissima nel genio, nell'indole, nella facoltà, nel pregio alle lingue antiche, e specificatamente alla greca, alla quale si accostava da vicino anche nelle forme particolari e speciali, cioè non solamente nel genere, ma anche nella specie: siccome alla latina si accosta sommamente per la qualità individuale de' vocaboli e delle frasi.
Ma oggidì ella va a perdere, anzi ha già perduto presso [687]il più degli scrittori, le dette qualità che sono sue vere, proprie, intime, e native; e dico anche presso quegli scrittori che a gran fatica arrivano pure a preservarsi dai barbarismi.
(e qui riferite quello che ho detto altrove, come in detti scrittori facciano pessima comparsa le parole e modi italiani, in una tessitura di lingua che per quanto non sia barbara, non è l'italiana: e gli antichi accidenti in una sostanza tutta moderna e diversa.) E così anche la lingua nostra si riduceva ad essere una processione di collegiali, come diceva, se non erro, il Fénélon, della francese.
Del che mi pare che bisogni stare in somma guardia, tanto più, quanto la inclinazione, lo spirito, l'andamento dei tempi, essendo tutto geometrico, la lingua nostra corre presentissimo rischio di geometrizzarsi stabilmente e per sempre, di inaridirsi, di perdere ogni grazia nativa (ancorchè conservi le parole e i modi, e scacci i barbarismi), di diventare unica come la francese, laddove ora ella si può chiamare un aggregato di più lingue, ciascuna adattata al suo soggetto, o anche a questo [688]e a quello scrittore; e così divenuta impotente, in luogo di contenere virtualmente tutti gli stili (secondo la sua natura, e quella di tutte le belle e naturali lingue, come le antiche, non puramente ragionevoli), ne contenga uno solo, cioè il linguaggio magrissimo ed asciuttissimo della ragione, e delle scienze che si chiamano esatte, e non sia veramente adattata se non a queste, che tale infatti ella va ad essere, e lo possiamo vedere in ogni sorta di soggetti, e fino nella poesia italiana moderna de' volgari poeti.
Come appunto è accaduto alla lingua francese, perchè ancor ella da principio, ed innanzi all'Accademia, e massime al secolo di Luigi 14.
non era punto unica, ma l'indole sua primitiva e propria somigliava moltissimo all'indole della vera lingua italiana, e delle antiche; era piena d'idiotismi, e di belle e naturalissime irregolarità; piena di varietà; subordinatissima allo scrittore (notate questo, che forma la difficoltà dello scrivere, come pure dell'intendere la nostra lingua a differenza della francese) e suscettibile di prendere quella forma e quell'abito che il soggetto richiedesse, o il carattere dello scrittore, o che questi volesse darle; adattata [689]a diversissimi stili; piena di nerbo, o di grazia, di verità, di proprietà, di evidenza, di espressione; coraggiosa; niente schiva degli ardiri com'è poi divenuta; parlante ai sensi ed alla immaginativa, e non solamente, come oggi, all'intelletto; (sebbene anche al solo intelletto può parlare la lingua italiana, se vuole) pieghevole, robusta, o delicata secondo l'occorrenza; piena di sève, di sangue e di colorito ec.
ec.
Delle quali proprietà qualche avanzo se ne può notare nella Sévigné, e nel Bossuet e in altri scrittori di quel tempo.
Talmente che s'ella fosse rimasta quale ho detto, non sarebbe mai stata universale, con che vengo a dir tutto.
E s'ella prima della sua mortifera riforma, avesse avuto tanto numero di cultori quanto n'ebbe l'italiana, che l'avessero condotta secondo il suo carattere primitivo, e d'allora, alla perfezione, come fu condotta la nostra, sarebbe anche più evidente questo ch'io dico [690]della prima e originale natura della lingua francese, la quale ben si congettura efficacemente dalla considerazione de' loro antichi scrittori, ma non si può pienamente sentire perch'ella non ebbe scrittore perfetto in quel primo genere, o non ne ebbe quanto basta.
Nè quel primo genere prese mai stabilità, ma quando le fu data forma stabile e universale nella nazione, fu ridotta, quale oggi si trova, ad essere in ogni possibile genere di scrittura, piuttosto una serie di sentenze e di pensieri esattissimamente esposti e ordinati, che un discorso.
Dove l'intelletto e l'utilità non desidera nulla, ma l'immaginazione il bello, il dilettevole la natura, i sensi ec.
desiderano tutto.
(24.
Feb.
1821.)
Il secolo del cinquecento è il vero e solo secolo aureo e della nostra lingua e della nostra letteratura.
Quanto alla lingua moltissimi disconvengono da questo ch'io dico, volendo che il suo vero secol d'oro, fosse il trecento.
Ma osservino.
Quasi tutti gli scrittori del cinquecento, toscani o non toscani, hanno bene e convenientemente [691]adoperata la nostra lingua, e tutti più o meno possono servire di norma al bello scrivere, e sarebbe ammirato e studiato uno scrittore d'oggidì che avesse tanti pregi di lingua quanto l'infimo de' mediocri scrittori di quel tempo.
Questo è ben altro che ammirare la felicità della Francia dove tutti appresso a poco scrivono bene quanto alla lingua.
Considerate quello che ho detto altrove del sommo divario fra la nostra lingua e la francese, e non vi parrà poca meraviglia che una lingua così difficile, varia, ricca, immensa, pieghevole e subordinata allo scrittore, come l'italiana, trovasse un secolo, dove tutti o la massima parte la scrivessero bene, e questo in ogni sorta di soggetti e di stili, in ogni qualità di scrittori, e anche in quelle cose che si scrivevano e si scrivono correntemente e senza studio, come lettere e cose tali, dove il cinquecento è sempre quasi [692]perfetto modello della buona lingua italiana a tutti i secoli.
Diranno che anche nel trecento accadeva lo stesso.
Voglio lasciar passare questa proposizione, che ben considerata parrà forse falsissima.
Ma supponendo che sia verissima, che maraviglia che scriva bene, chi in questo medesimo, che egli scrive, porta inseparabilmente la ragione dello scriver bene? Giacchè noi diciamo che i trecentisti scrivevano bene, perciò appunto ch'erano trecentisti; e indistintamente tutto quello ch'è del trecento, o imita e somiglia la scrittura di quel secolo, si approva e si dice bene scritto, perchè appartiene al trecento.
E si dà a quel secolo autorità di regolare il nostro giudizio intorno alla bella lingua italiana, non a noi di giudicare se quel secolo usasse una bella lingua.
Io so e dico che la usava bellissima, e do ragione e lodo quelli che colle debite restrizioni e condizioni fanno degli scrittori del trecento i modelli [693]o il fondamento e la sorgente della buona lingua italiana di tutti i secoli.
Quest'autorità l'hanno avuta tutti i padri di tutte le buone e belle lingue (come della latina ec.): e l'hanno avuta non già per capriccio o pregiudicata opinione de' successori, ma per la forza della natura che operava in quei padri effettivamente, e perchè la natura è la massima fonte del bello.
Ma non perciò le dette qualità derivavano in quei padri da merito loro, nè essi ponevano (eccetto pochissimi) veruno studio alla bellezza e all'ordine della lingua.
Nel modo che Omero certamente non sudava per seguire e praticare le regole del poema epico, le quali non esistevano, anzi sono derivate dal suo poema, e quella maniera ch'egli ha tenuto è poi divenuta regola.
Ma Omero come ingegno sovrano ch'egli era, studiava la natura e gli uomini e il bello per creare le regole che ancora non esistevano: laddove i trecentisti erano quasi tutti uomini da poco e ignorantissimi, e scrivevano quello che veniva loro nella [694]penna.
E quanto è venuto loro nella penna, tanto si è giudicato che fosse il più bel fiore della nostra lingua, non dico ingiustamente, ma certo senza merito loro.
V.
p.705.
Aggiungete che fuori de' Toscani, pochissimi in quel secolo scrivevano la lingua nostra in modo che si potesse sopportare, all'opposto del cinquecento dove tutta l'Italia scriveva correttamente e leggiadramente, così che il trecento, quando anche non valessero le suddette ragioni, non si potrebbe riputare il migliore della nostra lingua, nè paragonare al cinquecento se non quanto alla Toscana.
Quanto alla letteratura nessuno disconviene da quello ch'io dico, perchè il trecento ebbe tre o quattro letterati famosi, ma nel resto ebbe non letteratura ma ignoranza.
Quello però ch'io dico, sarebbe molto più riconosciuto in Italia e fuori, e si giudicherebbe meglio, e con maggiore convincimento, quanto sia vero che il cinquecento [695]sia l'ottimo ed aureo secolo della letteratura italiana, anzi in questo pregio superi non solo tutti gli altri secoli italiani, ma anche tutti i migliori secoli delle letterature straniere; se si ponesse mente a questo ch'io son per dire.
Primieramente la stessa universalità che ho notata in quel secolo rispetto alla buona lingua, si deve anche notare rispetto al buono stile: e ciò in tutti i generi e di soggetti, e di scrittori nelle scritture più familiari e usuali ec.
insomma con tutte quelle particolarità che ho notate quanto alla lingua p.691.
Collo studio, e la giusta applicazione delle norme greche e latine, lo stile del cinquecento generalmente aveva acquistato tal nobiltà e dignità, e tant'altra copia di pregi, che quasi era venuto alla perfezione, eccetto principalmente una certa oscurità ed intralciamento, derivante in gran parte dalla troppa lunghezza de' periodi, e dalla troppa copia [696]delle figure di dizione, e dall'eccessivo ed eccessivamente continuato concatenamento delle sentenze; vizio tutto proprio di quel secolo, il quale voleva forse con ciò dare al discorso quella gravità che ammirava ne' latini, ma che si doveva conseguire con altri mezzi (quali sono quegli altri molti che lo stesso secolo ha ottimamente adoperati): vizio ignoto si può dire al trecento, e a tutti gli altri secoli ancorchè viziosissimi: vizio provenuto anche dal soverchio studio dei latini, la cui imitazione è pericolosa per questa parte ancora, come per le trasposizioni; vizio che avrebbe potuto molto correggersi con un maggiore studio de' greci, ma principalmente degli ottimi e primi, perchè i più moderni declinarono anch'essi (sebbene valenti) a questo difetto, e ad un'indole di scrittura più latina che greca: vizio che non saprei se appartenga più allo stile ovvero alla lingua: vizio finalmente che se non togliere, certo si può moltissimo [697]alleggerire con una diversa punteggiatura, come si è fatto da molti presso i latini, i quali pure ne avevano gran bisogno, tanto per la lunghezza de' periodi talvolta, i quali si sono divisi col mezzo de' punti, quanto massimamente e sempre per la qualità della loro costruzione.
La detta perfezione prima o dopo quel secolo non si è mai veduta in nessunissimo stile nè italiano nè forestiero, dai latini in poi (dico quanto allo stile non ai pensieri): nessun'altra nazione ci è pervenuta in veruno de' suoi migliori secoli; e forse quello stesso maggior grado di perfezione che lo stile forestiero ha conseguito ne' suoi secoli d'oro, non si troverà che fosse così universale negli scrittori nazionali di quel tempo, com'era la detta perfezione in Italia nel cinquecento.
Secondariamente il pregio letterario del cinquecento è meno [698]conosciuto, e stimato assai meno del vero, perchè non si conosce la somma e singolare ricchezza di quel secolo.
Eccetto gli scrittori toscani registrati in buona parte dalla Crusca fra' testi di lingua, e perciò ricercati per farne serie, e per lusso, e simili motivi, e ristampati per uso di lingua, gli altri toscani, non adoperati dall'antica Crusca, e la massima parte de' cinquecentisti non toscani, non sono letti quasi da nessuno, conosciuti di pregio da pochissimi dotti, di nome solo da pochissimi altri, e ignorati di nome e di tutto dalla moltitudine dei letterati, da tutto il resto degli odierni italiani, e da tutti quanti gli stranieri.
E tuttavia è somma la copia di quegli scrittori che essendo così ignorati, sono tuttavia o più degli altri, o quanto gli altri che si conoscono, pregevolissimi e degnissimi di considerazione, di studio, e d'immortalità.
E giacciono in quelle vecchie stampe, in preda ai tarli, e alla polvere [699](se però sono stati mai stampati, come p.e.
la storia del Baldi, di cui parla il Perticari, è ms.), in fondo alle librerie, scorrettissimamente, e sordidamente stampati, senza veruno che si curi di guardarli.
Da quelle poche operette insigni del cinquecento ristampate in questi ultimi anni, e da quelle che si è proposto di ristampare, e che si è veduto come non cedano forse a veruna delle già note e famose, si può conoscere quanta ricchezza di quel secolo, quanta gloria nostra, sia oscurata e sepolta dalla dimenticanza, dall'ignoranza, dalla pigrizia, dalla noncuranza di questo secolo.
Che se porrete mente quanto minore sia il numero de' buoni cinquecentisti noti alla universalità degl'italiani, rispetto a quelli conosciuti dai letterati, i quali pur tanti ne ignorano; e quanto pochi fra quei medesimi conosciuti universalmente fra noi, si conoscano fuori d'Italia; non vi farete più maraviglia se la fama del [700]cinquecento letterato è oramai nell'Europa, piuttosto nome che fatto; piuttosto un avanzo di antica tradizione, che opinione presente; potendosi contar sulle dita i cinquecentisti noti fuori d'Italia.
E così dico proporzionatamente di tutta l'altra nostra letteratura.
Ma gli stranieri hanno ben ragione, se non ne sanno più, di quello che ne sappiamo noi stessi, i quali generalmente ci troviamo appresso a poco nel medesimo caso.
Del resto quello ch'io dico della perfezione di stile nei cinquecentisti si deve intendere dei prosatori, non dei poeti.
Anzi io mi maraviglio come quella tanta gravità e dignità che risplende ne' prosatori, si cerchi invano in quasi tutti i poeti di quel secolo, e bene spesso anche negli ottimi.
I difetti dello stile poetico di quel secolo, anche negli ottimi, sono infiniti, massime la ridondanza, gli epiteti, i sinonimi accumulati (al contrario delle prose) ec.
lasciando i più essenziali difetti di arguzie, insipidezze ec.
anche nell'Ariosto e nel Tasso.
E non è dubbio che Dante e Petrarca (sebbene non senza gran difetti di stile) furono nello stile più vicini alla [701]perfezione che i cinquecentisti, e così lo stile poetico del trecento (riguardo a questi due poeti) è superiore al cinquecento: (tanto è vero che la poesia migliore è la più antica, all'opposto della prosa, dove l'arte può aver più luogo).
E dal trecento in poi lo stil poetico italiano non è stato richiamato agli antichi esemplari, massime latini, nè ridotto a una forma perfetta e finita, prima del Parini e del Monti.
V.
gli altri miei pensieri in questo proposito.
Parlo però del stile poetico, perchè nel resto se si eccettuano quanto agli affetti il Metastasio e l'Alfieri (il quale però fu piuttosto filosofo che poeta), quanto ad alcune (e di rado nuove) immagini il Parini e il Monti (i quali sono piuttosto letterati di finissimo giudizio, che poeti); l'Italia dal cinquecento in poi non solo non ha guadagnato in poesia, ma ha avuto solamente [702]versi senza poesia.
Anzi la vera poetica facoltà creatrice, sia quella del cuore o quella della immaginativa, si può dire che dal cinquecento in qua non si sia più veduta in Italia; e che un uomo degno del nome di poeta (se non forse il Metastasio) non sia nato in Italia dopo il Tasso.
(27.
Feb.
1821.)
Camillo Porzio, La congiura de' Baroni del Regno di Napoli contra il Re Ferdinando I.
ediz.
terza, cioè Lucca 1816.
per Franc.
Bertini, p.23.
E vedeva ciascuno che indugiava più l'occasione che il lor animo, ad offendersi, e che con ogni picciola scintilla di fuoco infra di loro si poteva eccitare grandissimo incendio.
Che vuol dire, l'occasione indugiava ad offenderti? oltre che il lor animo era già offeso, e gravissimamente, come viene dal dire.
Leggi ad accendersi, lezione confermata ancora dal seguito del surriferito passo.
Ivi, p.24.
Affermando il Re essergli stato rimesso da' suoi predecessori (il tributo alla Chiesa) [703]e che si doveva per il regno di Napoli e di Sicilia; ma che egli allora solo quello di Napoli possedeva.
Rimesso potrebbe valer condonato, e predecessori riferirsi al Papa: potrebbe valer mandato, e predecessori riferirsi al Re.
Senso sempre oscurissimo.
Io leggerei: predecessori che e' o ch'e'.
V.
p.708.
capoverso 2.
Ivi, p.37.
Suavissima riputo e verissima la sentenza che c'insegna li costumi de' soggetti andar sempre dietro all'usanze de' dominatori.
Leggi savissima.
(27.
Feb.
1821.)
Non possiamo nè contare tutti gli sventurati, nè piangerne uno solo degnamente.
Allo sviluppo ed esercizio della immaginazione è necessaria la felicità o abituale o presente e momentanea; del sentimento, la sventura.
Esempio me stesso: e il mio passaggio dalla facoltà immaginativa, alla sensitiva, essendo quella in me presso ch'estinta.
(28.
Feb.
1821.)
[704]L'uomo dev'esser libero e franco nel maneggiare la sua lingua, non come i plebei si contengono liberalmente e disinvoltamente nelle piazze, per non sapere stare decentemente e con garbo, ma come quegli ch'essendo esperto ed avvezzo al commercio civile, si diporta francamente e scioltamente nelle compagnie, per cagione di questa medesima esperienza e cognizione.
Laonde la libertà nella lingua dee venire dalla perfetta scienza e non dall'ignoranza.
La quale debita e conveniente libertà manca oggigiorno in quasi tutti gli scrittori.
Perchè quelli che vogliono seguire la purità e l'indole e le leggi della lingua, non si portano liberamente, anzi da schiavi.
Perchè non possedendola intieramente e fortemente, e sempre sospettosi di offendere, vanno così legati che pare che camminino fra le uova.
E quelli che si portano liberamente, hanno quella libertà de' plebei, che deriva dall'ignoranza della lingua, dal non saperla maneggiare, e dal non curarsene.
E questi in comparazione [705]degli altri sopraddetti, si lodano bene spesso come scrittori senza presunzione.
Quasi che da un lato fosse presunzione lo scriver bene (e quindi anche l'operar bene, e tutto quello che si vuol fare convenientemente, fosse presunzione); dall'altro lato scrivesse bene chi ne dimostra presunzione.
Quando anzi il dimostrarla, non solamente in ordine alla buona lingua, ma a qualunque altra dote della scrittura, è il massimo vizio nel quale scrivendo si possa incorrere.
Perchè in somma è la stessa cosa che l'affettazione; e l'affettazione è la peste d'ogni bellezza e d'ogni bontà, perciò appunto che la prima e più necessaria dote sì dello scrivere, come di tutti gli atti della vita umana, è la naturalezza.
(28.
Feb.
1821.)
Alla p.694.
Perchè la lingua non era ancora formata nè stabilita, nè il suo corpo ordinato, e neppure la sua gramatica.
Essi la formavano, ma per forza del tempo, e [706]di circostanze accidentali ed estrinseche, non come Omero per forza del suo proprio ingegno formava l'Epopea.
(Eccettuo però Dante Petrarca e il Boccaccio: e nel secondo massimamente ritrovo una forma ammirabilmente stabile, completa, ordinata, adulta, uguale, e quasi perfetta di lingua, degnissima di servire di modello a tutti i secoli quasi in ogni parte.) Quindi non è maraviglia se quel trecentista andava per una strada, quest'altro per un'altra; se non ci è maggiore difficoltà che mettergli d'accordo tra loro, e coll'ordine della lingua, anche in cose essenziali, e ordinare la forma e i precetti della lingua sopra i trecentisti; se formicano d'imperfezioni e di scorrezioni; se non sono uguali neppure, nè in verun modo a se stessi ec.
ec.
ec.
Formata che fu la lingua, allora divenne possibile, necessaria e difficilissima la perfezion sua: la qual perfezione da nessun secolo è stata portata nè in così alto grado, nè in tanta universalità come nel cinquecento.
[707]Ed ecco in qual senso e per quali ragioni io dico che il cinquecento fu il vero ed unico secol d'oro della nostra lingua; cioè rispetto all'adoprarla, dove che il trecento l'avea preparata; rispetto allo spendere quel tesoro che il trecento avea magnificamente e larghissimamente accumulato; e in tal maniera che della lingua sarà sempre poverissimo chi non si provvederà immediatamente a quel tesoro: essendo veramente il trecento la sorgente ricchissima inesausta e perenne della nostra lingua; sorgente aperta e necessaria a tutti i secoli.
(28.
Feb.
1821.)
Perchè in fatti il secol d'oro di una lingua o di qualunque altra disciplina, non è quello che la prepara, ma quello che l'adopra, la compone de' materiali già pronti, e la forma; giacchè realmente quel secolo che formò e determinò la lingua italiana fu più veramente il cinquecento che il trecento, lasciando stare che i primi precetti della lingua nostra furono dati, s'io non erro, in quel secolo, dal Bembo.
Ma il cinquecento [708]formò e determinò la lingua italiana in maniera ch'ella guadagnando nella coltura e nell'ordine, non perdè nulla affatto nella naturalezza, nella copia, nella varietà, nella forza, e neanche nella libertà, (quanta è compatibile colla chiarezza e bellezza, e colla necessità di essere intesi, e quindi convenientemente ordinati nel favellare): in somma e soprattutto, non mutò in verun conto l'indole e natura sua primitiva, come la cambiò interamente la francese, nella formazione e determinazione fattane dall'Accademia e dal secolo di Luigi 14.
(1.
Marzo 1821.)
Camillo Porzio l.
cit.
(p.702.) p.80.
In un tratto di ciascuno il sacco, il fuoco e la morte si temeva.
Leggi da ciascuno.
(1 Marzo 1821.).
Alla p.703.
Che se rimesso in questo senso (di traditum che in latino viene e metaforicamente, e quasi anche propriamente a dire la stessa cosa) paresse strano, questo non avverrà se non a coloro che non conosceranno l'usanza [709]e lo stile di questo scrittore.
(2.
Marzo 1821.)
Alla p.120.
Aggiungete che nelle monarchie, o reggimenti di un solo o di pochi (che reggimento di pochi si può veramente chiamare ogni monarchia, dove non è possibile che tutto effettivamente dipenda, derivi, e si regoli secondo la volontà di uno solo, massime quanto più ella è grande) le cagioni degli avvenimenti sono molto più menome e moltiplici che negli stati liberi e popolari, ancorchè paia l'opposto.
Perchè le cagioni che operano in tutto un popolo, o nella massima, o in buona parte di quello, o in somma in molti, non sono nè così piccole, nè tante, nè così varie, nè così difficili a congetturare, quando anche fossero nascoste, come quelle che operano in uno o in diversi individui particolarmente.
E si vede in fatti, chi conosce un tantino la storia de' regni, come i massimi avvenimenti sieno spesso derivati da piccolissimi affettacci di quel re, di quel ministro ec.
da menome circostanze, da una passioncella, da una parola, da una ricordanza, da un'assuefazione individuale, [710]da un carattere particolare, da inclinazioni; da qualità, accidenti della vita, amicizie o nimicizie ec.
contratte dal principe o dal ministro ec.
nello stato privato.
Quindi si può vedere, quanto la storia oggidì sia oscura e difficile allo scrittore, e come spesso debba riuscire in gran parte falsa, e quindi inutile ai lettori; consistendo la chiave di sommi avvenimenti, la spiegazione di somme maraviglie, nella cognizione di aneddoti sempre difficili, spesso impossibili a sapere.
E così oggi gli scrittori di aneddoti e bazzecole di corte, sono più benemeriti forse della storia, che i sommi storici, e scrittori delle massime cose.
(2.
Marzo 1821.)
Alla p.81.
fine.
L'uomo in tanto è malvagio nè più nè meno, in quanto le azioni sue contrastano co' suoi principii.
Quanto più dunque da un lato i principii 1.
sono meglio stabiliti, definiti, divulgati, chiariti, specificati, e formati; 2.
l'uomo n'è imbevuto profondamente, e radicatamente persuaso: dall'altro lato quanto più le opere contrastano a questi principii; [711]tanto più l'uomo è malvagio.
E tanto peggiori realmente sono i popoli e i secoli, quanto più le dette circostanze e de' principii, e delle azioni sono universali, come per mezzo del Cristianesimo, e ne' suoi primi secoli massimamente.
Questa è la misura con cui bisogna definire la malvagità degl'individui, e delle nazioni e de' tempi; e considerare l'odio che meritano e che realmente ispirano.
E per questa parte il nostro secolo si può giudicare meno malvagio.
(2.
Marzo 1821.)
Lettere diverse da quelle del nostro alfabeto sono pure il ?????greco, e la zediglia spagnuola, analoghe fra loro, ma che non si possono confondere col nostro z, o t, o s, e si pronunziano con una conformazione di organi appropriata loro.
E si troverà più differenza tra questa conformazione di organi, e quella che si richiede per la pronunzia del nostro z, o t, o s, di quella che si possa trovare fra la conformazione di organi nella pronunzia del d, e l'altra nella pronunzia del t: le quali però nessuno dubita [712]che non sieno lettere diverse, benchè la lingua e i denti le producano ambedue, con leggerissimo e quasi insensibile divario di collocazione.
Così che dalla piccola differenza di collocazione non si può dedurre che due o più lettere sieno le stesse, perchè basta un nulla a diversificarle, come se ne potrebbero addurre altri esempi.
Del resto dico lo stesso del thau ebraico, e del th inglese.
(3.
Marzo 1821.)
Non vale il dire che i piaceri, i beni, le felicità di questo mondo, sono tutti inganni.
Che resta levati via questi inganni? E chi per le sue sventure manca di questi benchè ingannosi piaceri e beni, che altro gode o spera quaggiù? In somma l'infelice è veramente e positivamente infelice; quando anche il suo male non consista che in assenza di beni; laddove è pur troppo vero che non si dà vera nè soda felicità, e che l'uomo felice, non è veramente tale.
(3.
Marzo 1821.)
Alla p.370.
Ma osservate che spessissime volte questa impazienza pregiudica al fine.
Perchè tu, volendo veder l'esito in qualunque [713]modo, per liberarti dal timore di non ottenere il tuo fine, perdi quello che avresti conseguito se non avessi temuto, e se quindi ti fossi diportato più quietamente, con meno confusione ec.
Insomma avessi sostenuto di aspettare che la cosa andasse come doveva, e nel tempo conveniente ec.
Insomma spessissimo nei negozi dubbi, ancorchè non di somma importanza, affrettando l'esito, non tanto per ismania di conseguire, quanto per impazienza di dubitare, perdiamo il nostro intento: e questo ci accade anche nelle menome e giornaliere e materiali operazioni della vita.
Notate quelle parole non tanto per ismania ec.
nelle quali consiste la novità e proprietà di questo pensiero, perchè il detto effetto dell'impazienza è comunemente notato, ma si attribuisce all'impazienza di conseguire.
(3.
Marzo 1821.)
[714]Spesse volte il troppo o l'eccesso è padre del nulla.
Avvertono anche i dialettici che quello che prova troppo non prova niente.
Ma questa proprietà dell'eccesso si può notare ordinariamente nella vita.
L'eccesso delle sensazioni o la soprabbondanza loro, si converte in insensibilità.
Ella produce l'indolenza e l'inazione, anzi l'abito ancora dell'inattività negl'individui e ne' popoli; e vedi in questo proposito quello che ho notato con Mad.
di Staël, Floro ec.
p.620 fine - 625 principio.
Il poeta nel colmo dell'entusiasmo della passione ec.
non è poeta, cioè non è in grado di poetare.
All'aspetto della natura, mentre tutta l'anima sua è occupata dall'immagine dell'infinito, mentre le idee segli affollano al pensiero, egli non è capace di distinguere, di scegliere, di afferrarne veruna: in somma non è capace di nulla, nè di cavare nessun frutto dalle sue sensazioni: dico nessun frutto o di considerazione e di massima, ovvero di uso e di scrittura; di teoria nè di pratica.
L'infinito non si [715]può esprimere se non quando non si sente: bensì dopo sentito: e quando i sommi poeti scrivevano quelle cose che ci destano le ammirabili sensazioni dell'infinito, l'animo loro non era occupato da veruna sensazione infinita; e dipingendo l'infinito non lo sentiva.
I sommi dolori corporali non si sentono, perchè o fanno svenire, o uccidono.
Il sommo dolore non si sente, cioè finattanto ch'egli è sommo; ma la sua proprietà, è di render l'uomo attonito, confondergli, sommergergli, oscurargli l'animo in guisa, ch'egli non conosce nè se stesso, nè la passione che prova, nè l'oggetto di essa; rimane immobile, e senza azione esteriore, nè si può dire, interiore.
E perciò i sommi dolori non si sentono nei primi momenti, nè tutti interi, ma nel successo dello spazio e de' momenti, e per parti, come ho detto p.366-368.
Anzi non solo il sommo dolore, ma ogni somma passione, ed anche ogni sensazione, ancorchè non somma, tuttavia tanto straordinaria, e, per qualunque verso, grande, che l'animo nostro non sia capace di contenerla [716]tutta intera simultaneamente.
Così sarebbe anche la somma gioia.
Ma bisogna osservare che di rado avviene che la gioia ancorchè grande e straordinaria, ci renda attoniti, e quasi senza senso, e che la sua grandezza ne renda impossibile il pieno e distinto sentimento.
Questo ci accadeva forse e senza forse da fanciulli, e sarà pure senza fallo avvenuto negli uomini primitivi; ma oggidì per poco che l'uomo abbia di esperienza e di cognizione, è ben difficile che sia suscettibile di una gioia, la quale sia tanta da non poter essere contenuta pienamente nell'animo suo, e da ridondare.
Bensì egli è suscettibilissimo (almeno il più degli uomini) di un tal dolore.
Ma la somma gioia dell'uomo di oggidì, è sempre o certo ordinariamente tale che l'animo n'è capacissimo; e questo, non ostante ch'egli vi debba necessariamente esser poco assuefatto, laddove quanto al dolore o a qualunque passione dispiacevole, non è così.
Ma il fatto [717]sta che il male, soggetto del dolore e delle passioni dispiacevoli, è reale; il bene, soggetto della gioia, non è altro che immaginario: e perchè la gioia fosse tale da superare la capacità dell'animo nostro, si richiederebbe, come ne' fanciulli e ne' primitivi, una forza e freschezza d'immaginazione persuasiva, e d'illusione, che non è più compatibile colla vita di oggidì.
(4.
Marzo 1821.)
Porzio l.
cit.
(p.702.) p.126.
E se egli ec.
a cui fa dubbio che ec.
non l'abbia ad osservare? Leggi a cui fia.
Ivi, p.134.
ed i Principi allora affermano di aver perdonato i falli quando han potere di castigargli; ma se sopraffatti da' pericoli maggiori differiscono la vendetta, non perciò la cancellano.
Non c'è senso.
Leggi quando non han potere.
(4.
Marzo 1821.).
Nunquam minus solus quam cum solus.
Ottimamente vero: ma (contro quello che si usa [718]credere e dire) perchè oggidì colui che si trova in compagnia degli uomini, si trova in compagnia del vero (cioè del nulla, e quindi non c'è maggior solitudine); chi lontano dagli uomini, in compagnia del falso.
Laonde questo detto sebbene antico e riferito al sapiente, conviene molto più a' nostri secoli, e non al sapiente solo, ma alla universalità degli uomini, e massime agli sventurati.
(4.
Marzo 1821.)
L'uomo d'immaginazione di sentimento e di entusiasmo, privo della bellezza del corpo, è verso la natura appresso a poco quello ch'è verso l'amata un amante ardentissimo e sincerissimo, non corrisposto nell'amore.
Egli si slancia fervidamente verso la natura, ne sente profondissimamente tutta la forza, tutto l'incanto, tutte le attrattive, tutta la bellezza, l'ama con ogni trasporto, ma quasi che egli non fosse punto corrisposto, sente ch'egli non è partecipe di questo bello che ama ed ammira, si vede fuor della sfera della bellezza, come l'amante [719]escluso dal cuore, dalle tenerezze, dalle compagnie dell'amata.
Nella considerazione e nel sentimento della natura e del bello, il ritorno sopra se stesso gli è sempre penoso.
Egli sente subito e continuamente che quel bello, quella cosa ch'egli ammira ed ama e sente, non gli appartiene.
Egli prova quello stesso dolore che si prova nel considerare o nel vedere l'amata nelle braccia di un altro, o innamorata di un altro, e del tutto noncurante di voi.
Egli sente quasi che il bello e la natura non è fatta per lui, ma per altri (e questi, cosa molto più acerba a considerare, meno degni di lui, anzi indegnissimi del godimento del bello e della natura, incapaci di sentirla e di conoscerla ec.): e prova quello stesso disgusto e finissimo dolore di un povero affamato, che vede altri cibarsi dilicatamente, largamente, e saporitamente, senza speranza nessuna di poter mai gustare altrettanto.
Egli insomma [720]si vede e conosce escluso senza speranza, e non partecipe dei favori di quella divinità che non solamente, ma gli è anzi così presente così vicina, ch'egli la sente come dentro se stesso, e vi s'immedesima, dico la bellezza astratta, e la natura.
(5.
Marzo 1821.)
Oggidì i viaggi più curiosi e più interessanti che si possono fare in Europa cioè nel paese incivilito, sono quelli de' paesi meno inciviliti, cioè la Svizzera, la Spagna e simili, che tuttavia conservano qualche natura e proprietà.
Le descrizioni de' costumi, de' caratteri, delle opinioni, delle usanze di questi paesi hanno sempre della varietà, della singolarità, della importanza, della curiosità.
Quelle degli altri paesi Europei (salvo nelle usanze, costumi, opinioni popolari, come ho detto in altro pensiero p.147.
perchè il popolo è sempre più tenace della natura) i quali non hanno oramai proprietà, cioè carattere proprio, si rassomigliano tutte fra loro, e col carattere de' costumi, [721]opinioni ec.
di quella tal nazione, alla quale quelle altre si descrivono, così che pochissimo possono aver di curioso, eccetto nelle minute particolarità di usanze sociali, ec.
nelle quali l'incivilimento e il commercio universale, non è per anche arrivato ad agguagliare interamente il mondo.
Ma in grosso, e nella sostanza, e nelle cose principali, e per natura loro, non per capriccio, importanti, possiamo oramai dire, che di queste tali nazioni, conosciuta una, son conosciute tutte.
(5.
Marzo 1820.).
Dovunque l'arte tiene la principal parte in luogo della natura, manca la varietà, sebbene sottentri una sterile curiosità.
P.e.
gli Stati uniti si diversificano molto dal governo, costumi ec.
degli altri paesi civili, ma quella è una differenza d'arte, non di natura, è parto della ragione, della filosofia del sapere, è cosa artifiziale, non naturale.
[722]Quindi la curiosità che ne deriva, è una curiosità secca, e quella varietà, è quasi falsa, ascitizia, non propria delle cose, non sostanziale, non inerente alla nazione, e alla natura di lei, e per così dire, una varietà monotona.
Al contrario di quella curiosità e varietà che deriva dalla considerazione della Svizzera, della Spagna ec.
curiosità e varietà, naturale, propria, innata.
V.
il pensiero precedente.
(5.
Marzo 1821.)
Lo sventurato non bello, e maggiormente se vecchio, potrà esser compatito, ma difficilmente pianto.
Così nelle tragedie, ne' poemi, ne' romanzi ec.
come nella vita.
(6.
Marzo 1821.)
Porzio l.
cit.
(p.702.) p.145.
principio.
ciascun vedeva che quella prima dell'altre gli anderebbe ad oppugnare.
Leggi egli anderebbe, altrimenti non regge il senso.
Ivi p.155.
Che se nell'altre rocche [723]de' Baroni fusse stata la metà di provvisione ec.
Manca una qualche parola, come di detta, di questa, di tale provvisione, conforme apparisce dagli antecedenti, dove riferisce le provvisioni che si trovarono nel castello di Sarno, quando fu avuto dal Re.
(6.
Marzo 1821.)
Post ignem aetheria domo
Subductum, macies, et nova febrium
Terris incubuit cohors,
Semotique prius tarda necessitas
Leti corripuit gradum.
Orazio, od.3.
v.29-33.
l.
I.
Questo effetto, attribuendolo Orazio favolosamente alla violazione delle leggi degli Dei, ed alla temerità degli uomini verso il cielo, viene ad attribuirlo nel vero significato, alla violazione e corruzione delle leggi naturali e della natura; verissima cagione dell'incremento che l'imperio della morte ha guadagnato sopra gli uomini.
(7.
Marzo 1821.)
Alla p.526.
Florum, perpetuum Horatii imitatorem observat Rosellus Baumon in Massoni Hist.
Critica Rei literar.
Tom.14.
p.222.
Fabricio, B.
Lat.
l.2.
c.23.
§.2.
t.1.
p.626.
[724]Alla p.509.
Da questa osservazione deducete che Floro, stampato la prima volta in 4.
a Parigi in Sorbonae domo, senza nota di anno o di luogo, ma circa il 1470.
(Fabric.) era uno de' non molti classici conosciuti e letti al tempo del Petrarca.
(7.
Marzo 1821.)
L'uomo è così inclinato alla lode, che anche in quelle cose dov'egli non ha mai nè cercato nè curato di esser lodevole, e ch'egli stima di nessun pregio, ancora in queste l'esser lodato lo compiace.
Anzi spesso lo indurrà a cercar di rialzare presso se stesso il pregio e l'opinione di quella tal cosa minima nella quale è stato lodato; e a persuadersi che essa, o l'essere lodevole in essa, non sia del tutto minimo nell'opinione altrui.
(7.
Marzo 1821.)
I poeti, oratori, storici, scrittori in somma di bella letteratura, oggidì in Italia, non manifestano mai, si può dire, la menoma forza d'animo (vires animi, e non intendo dire la magnanimità), ancorchè il soggetto, o l'occasione ec.
contenga [725]grandissima forza, sia per [se] stesso fortissimo, abbia gran vita, grande sprone.
Ma tutte le opere letterarie italiane d'oggidì sono inanimate, esangui, senza moto, senza calore, senza vita (se non altrui).
Il più che si possa trovar di vita in qualcuno, come in qualche poeta, è un poco d'immaginazione.
Tale è il pregio del Monti, e dopo il Monti, ma in assai minor grado, dell'Arici.
Ma oltre che questo pregio è rarissimo nei nostri odierni o poeti o scrittori, oltre che in questi rarissimi è anche scarso (perchè il più de' loro pregi appartengono allo stile), osservo inoltre che non è veramente spontaneo nè di vena, e soggiungo che non solamente non è, ma non può essere, se non in qualche singolarissima indole.
La forza creatrice dell'animo appartenente alla immaginazione, è esclusivamente propria degli antichi.
Dopo che l'uomo è divenuto stabilmente infelice, e, che peggio è, l'ha conosciuto, [726]e così ha realizzata e confermata la sua infelicità; inoltre dopo ch'egli ha conosciuto se stesso e le cose, tanto più addentro che non doveva, e dopo che il mondo è divenuto filosofo, l'immaginazione veramente forte, verde, feconda, creatrice, fruttuosa, non è più propria se non de' fanciulli, o al più de' poco esperti e poco istruiti, che son fuori del nostro caso.
L'animo del poeta o scrittore ancorchè nato pieno di entusiasmo di genio e di fantasia, non si piega più alla creazaone delle immagini, se non di mala voglia, e contro la sottentrata o vogliamo dire la rinnuovata natura sua.
Quando vi si pieghi, vi si piega ex instituto, ????????, per forza di volontà, non d'inclinazione, per forza estrinseca alla facoltà immaginativa, e non intima sua.
La forza di un tal animo ogni volta che si abbandona all'entusiasmo (il che non è più così frequente) si rivolge all'affetto, [727]al sentimento, alla malinconia, al dolore.
Un Omero, un Ariosto non sono per li nostri tempi, nè, credo, per gli avvenire.
Quindi molto e giudiziosamente e naturalmente le altre nazioni hanno rivolto il nervo e il forte e il principale della poesia dalla immaginazione all'affetto, cangiamento necessario, e derivante per se stesso dal cangiamento dell'uomo.
Così accadde proporzionatamente anche ai latini, eccetto Ovidio.
E anche l'Italia ne' principii della sua poesia, cioè quando ebbe veri poeti, Dante, il Petrarca, il Tasso, (eccetto l'Ariosto) sentì e seguì questo cangiamento, anzi ne diede l'esempio alle altre nazioni.
Perchè dunque ora torna indietro? Vorrei che anche i tempi ritornassero indietro.
Ma la nostra infelicità, e la cognizione che abbiamo, e non dovremmo aver, delle cose, in vece di scemare, si accresce.
Che smania è questa dunque di voler fare quello stesso che facevano i nostri avoli, quando noi siamo così mutati? di ripugnare alla natura delle cose? di voler fingere una [728]facoltà che non abbiamo, o abbiamo perduta, cioè l'andamento delle cose ce l'ha renduta infruttuosa e sterile, e inabile a creare? di voler essere Omeri, in tanta diversità di tempi? Facciamo dunque quello che si faceva ai tempi di Omero, viviamo in quello stesso modo, ignoriamo quello che allora s'ignorava, proviamoci a quelle fatiche a quegli esercizi corporali che si usavano in quei tempi.
E se tutto questo ci è impossibile, impariamo che insieme colla vita e col corpo, è cambiato anche l'animo, e che la mutazione di questo è un effetto necessario, perpetuo, e immancabile della mutazione di quelli.
Diranno che gl'italiani sono per clima e natura più immaginosi delle altre nazioni, e che perciò la facoltà creatrice della immaginativa, ancorchè quasi spenta negli altri, vive in loro.
Vorrei che così fosse, come sento in me dalla fanciullezza e dalla prima giovanezza in poi, e vedo negli [729]altri, anche ne' poeti più riputati, che questo non è vero.
Se anche gli stranieri l'affermano, o s'ingannano, come in cose lontane, e come il lontano suol parere bellissimo o notabilissimo; ovvero intendono solamente di parlare in proporzione degli altri popoli, non mai nè assolutamente, nè in comparazione degli antichi, perchè anche l'immaginativa italiana, in vigore dell'andamento universale delle cose umane, è illanguidita e spossata in maniera, che per quel che spetta al creare, non ha quasi più se non quella disposizione che gli deriva dalla volontà e dal comando dell'uomo, non da sua propria ed intrinseca virtù, ed inclinazione.
Ma la vera causa per cui gl'italiani, a differenza di tutti gli altri, non conoscono oggidì altra poesia che la immaginativa, e della sentimentale sono affatto digiuni, ve la dirò io.
In quest'ozio, in [730]questa noia, in questa frivolezza di occupazioni, o piuttosto dissipazioni, senza scopo, senza vita, in somma senza nè patria nè guerre nè carriere civili o letterarie nè altro oggetto di azioni o di pensieri costanti, l'italiano non è capace di sentir nulla profondamente, nè difatto egli sente nulla.
Tutto il mondo essendo filosofo, anche l'italiano ha tanto di filosofia che basta e per farlo sempre più infelice, e per ispegnergli o vero intorpidirgli l'immaginazione, di cui la natura l'avrebbe dotato; ma non quanta si richiede a conoscere intimamente le passioni, gli affetti, il cuore umano, e dipingerlo al vivo; oltre che quando anche potesse conoscergli, non saprebbe dipingergli, giacchè bisogna convenire che all'italiano d'oggidì manca la massima parte di quello studio ch'è duopo per iscriver cose, come son queste, difficilissime.
Sicchè l'italiano, ancorchè si metta a scrivere col cuore profondamente commosso, o sullo stesso incominciare non trova più nulla, e non sapendo che si dire, ricorre ai generali; [731]ovvero volendo esprimere proprio quello ch'ei sente, non sa farlo, e scrive come un fanciullo.
Per tutte queste ragioni dunque l'italiano non essendo oggidì capace di poesia affettuosa, ricorre e si dedica interamente alla immaginosa, non per natura o per vocazione, ma per volontà ed elezione.
E appunto perciò o non vi riesce punto, o solamente coll'imitare, e tener dietro agli antichi, come un fanciullo alla mamma; nel modo che (sia detto fra noi) ha fatto il Monti: il quale non è poeta, ma uno squisitissimo traduttore, se ruba ai latini o greci; se agl'italiani, come a Dante, uno avvedutissimo e finissimo rimodernatore del vecchio stile e della vecchia lingua.
Ma gl'italiani contuttociò, e contro la natura de' tempi e della poesia, si gittano ad un genere che oggi non può essere se non o forzato o imitativo, e lo fanno perchè questo riesce loro molto più facile del sentimentale.
[732]1.
nessuno dubita che l'imitare a certi ingegni massimamente, che hanno pochissima o forza, o abitudine ed esercizio di forza, e d'impazienza e di calore ec.
non sia molto più facile che il creare.
E gl'italiani d'oggidì, poetando, appresso a poco, sempre imitano, anche quando non trascrivono, come spesso fanno, e come fa l'Arici, che quello si chiama copiare.
2.
Come è più facile un racconto che un dramma, perchè nel dramma ogni errore d'imitazione è palese, e si richiede una molto più esatta corrispondenza alla natura ed al vero; così agl'italiani d'oggidì, persone, come ho detto, che non sentono, e non hanno bastante cognizione del cuore umano, è molto più facile il genere immaginativo, che alla fine è cosa arbitraria, e dove si può anche abbagliare, come ha fatto l'Ariosto, di quello che il sentimentale dove bisogna seguire esattamente e passo passo la natura ed il vero, e dove il cuor di ciascuno, è prontissimo [733]e acutissimo e rigoroso giudice della verità o falsità, della proprietà o improprietà, della naturalezza, o forzatura, della efficacia o languidezza ec.
delle invenzioni, delle situazioni de' sentimenti, delle sentenze, delle espressioni ec.
E la facoltà immaginativa si può in qualche modo fingere, o forzare, o almeno comandare: la sensitiva non mai.
E perciò non è maraviglia se quei moderni italiani i quali, nelle circostanze che ho esposte di sopra, hanno pur voluto pubblicare opere sentimentali, sono stati fischiati, o degni di esserlo.
Tanto più che la imitazione, (e questi tali si son dati tutti e totalmente alla imitazione degli stranieri) se disdice all'immaginativo, molto più al sentimentale, per la stessa ragione per cui il sentimento non si può nè fingere nè proccurare, almeno forzatamente.
E così tutti i sensati italiani e forestieri, si accordano in dire che l'Italia manca del genere sentimentale.
[734]Ma non osservano che con ciò vengono a dire e confessare che l'odierna Italia manca di letteratura, certo di poesia.
Quasi che il detto genere fosse proprio di questa o quella nazione, e non del tempo.
Quasi che oggidì la condizione generale degli uomini ammettesse altro genere di poesia, e che il mancare di questo genere non fosse lo stesso che mancar di poesia.
La poesia sentimentale è unicamente ed esclusivamente propria di questo secolo, come la vera e semplice (voglio dire non mista) poesia immaginativa fu unicamente ed esclusivamente propria de' secoli Omerici, o simili a quelli in altre nazioni.
Dal che si può ben concludere che la poesia non è quasi propria de' nostri tempi, e non farsi maraviglia, s'ella ora langue come vediamo, e se è così raro non dico un vero poeta, ma una vera poesia.
Giacchè il sentimentale è fondato e sgorga dalla filosofia, dall'esperienza, dalla cognizione [735]dell'uomo e delle cose, in somma dal vero, laddove era della primitiva essenza della poesia l'essere ispirata dal falso.
E considerando la poesia in quel senso nel quale da prima si usurpava, appena si può dire che la sentimentale sia poesia, ma piuttosto una filosofia, un'eloquenza, se non quanto è più splendida, più ornata della filosofia ed eloquenza della prosa.
Può anche esser più sublime e più bella, ma non per altro mezzo che d'illusioni, alle quali non è dubbio che anche in questo genere di poesia si potrebbe molto concedere, e più di quello che facciano gli stranieri.
(8.
Marzo 1821.)
La lingua greca da' suoi principii fino alla fine, non lasciò mai di arricchirsi, e acquistar sempre, massimamente nuovi vocaboli.
Non è quasi scrittor greco di qualsivoglia secolo, che venga nuovamente in luce, il quale non possa servire ad impinguare il vocabolario greco di qualche novità.
[736]Non è secolo della buona lingua greca (la quale si stende molto innanzi, cioè almeno a Costantino, giacchè credo che S.
Basilio e S.
Crisostomo si citino nel Glossario sebbene anche nel Vocabolario) ne' cui scrittori la lingua non si trovi arricchita di nuove voci e anche modi, che non si osservano ne' più antichi.
E questi incrementi erano tutti della propria sostanza e del proprio fondo, giacchè la lingua greca fu oltremodo schiva d'ogni cosa forestiera, ma trovava nelle sue radici e nella immensa facilità e copia de' suoi composti, la facoltà di dir tutto quello che bisognava, e di conformare la novità delle parole alla novità delle cose, senza ricorrere ad aiuti stranieri.
Insomma il tesoro e la natura, e non solamente ricchezza, ma fertilità naturale e propria della lingua greca, era tale da bastare da per se sola, a tutte le novità che occorresse di esprimere, come un paese così fertile che fosse sufficiente ad alimentare [737]qualunque numero di nuovi abitatori o di forestieri.
E questo si può vedere manifestamente anche per quello che interviene oggidì.
Giacchè in tanta diversità di tempi e di costumi e di opinioni, in tanta novità di conoscenze e di ritrovati, e fino d'intere scienze e dottrine, qualunque novità massimamente scientifica occorra di significare e denominare, si ha ricorso alla lingua greca.
Nessuna lingua viva, ancorchè pure le lingue vive sieno contemporanee alle nostre cognizioni e scoperte, si stima in grado di bastare a questo effetto, e s'invoca una lingua morta e antichissima per servire alla significazione ed enunziazione di quelle cose a cui le lingue viventi e fiorenti non arrivano.
La rivoluzione francese, richiedendosi alla novità delle cose, la novità delle parole, ha popolato il vocabolario francese ed anche europeo di nuove voci greche.
La fisica, la Chimica, la storia naturale, le matematiche, [738]l'arte militare, la nautica, la medicina, la metafisica, la politica, ogni sorta di scienze o discipline, ancorchè rinnovellate e diversissime da quelle che si usavano o conoscevano dagli antichi greci, ancorchè nuove di pianta, hanno trovato in quella lingua il capitale sufficiente ai bisogni delle loro nomenclature.
Ogni scienza o disciplina nuova, comincia subito dal trarre il suo nome dal greco.
E questa lingua ancorchè da tanti secoli spenta, resta sempre inesauribile, e provvede a tutto, e si può dire che prima mancherà all'uomo la facoltà di sapere di conoscere e di scoprire, prima saranno esaurite tutte le fonti dello scibile, di quello che manchi alla lingua greca la facoltà di esprimerlo, e sia inaridita la fonte delle sue denominazioni e parole.
Il qual uso, ancorchè io lo biasimi e condanni per le ragioni che ho dette altrove, non è però che non renda evidente e palpabile l'onnipotenza immortale di quella lingua.
[739]Così la lingua greca che non avea nè Accademie nè Vocabolari, senza perder mai la facoltà di arricchirsi, e di far fruttare il suo terreno ubertosissimo, costantemente però e tenacemente nemica delle merci straniere (o per carattere nazionale, o per la stessa ricchezza sua che bastava a tutto) si mantenne sempre come fertile e prolifica e viva e vegeta e copiosa, così pura e sincera, fino ai tempi che Costantino trasportando quasi l'Italia nella Grecia, e l'occidente in oriente, con quella infinita e subitanea novità di costumi, di abitatori, di corte, ec.
introducendo e stabilendo, ed erigendo per così dire la lingua latina nel bel mezzo delle provincie greche e della lingua greca, forzò quell'idioma per sì lungo spazio indomito e vittorioso di tutti gli assalti forestieri, e illeso fra tutti i pericoli di barbarie che aveva incontrati, a ricevere voci straniere, e mescolarle colle proprie (non per bisogno, ma per uso e [740]commercio quotidiano, e presenza di gente straniera, e questa numerosa, e padrona) e finalmente imbarbarire suo malgrado e a viva forza.
V.
p.981.
capoverso 1.
La qual mescolanza e quasi fusione di usi costumi opinioni linguaggi occidentali e orientali, sebbene il mondo inclinava già fortemente alla barbarie, anzi vi aveva già messo il piede, tuttavia credo che contribuisse ancor ella ad imbarbarire scambievolmente, le une colle altre nazioni, inducendole e forzandole a guastare, o dismettere i loro primitivi istituti e costumi, assai più di quello che avessero fatto per l'addietro, il quale allontanamento e declinazione dal primitivo, è l'ordinaria e certa sorgente di barbarie e di corruzione fra gli uomini.
Della lingua latina non si può dire la stessa cosa che ho detto della greca.
E tuttavia mi par di vedere che la primitiva proprietà, natura, essenza ed organizzazione della lingua latina, fosse ottimamente ordinata e disposta a produrre lo stesso effetto.
Ma questo [741]non seguì per le ragioni che son per dire.
Non andrò ora cercando se le radici latine (dico primitive e pure latine) sieno così copiose come le greche.
Il commercio e la diffusione dei greci, il molto maggior tempo ch'essi durarono e con essi i loro studi, e la loro lingua, li pose in grado di accrescer le loro cognizioni, e quindi le loro radici, molto più che i latini, popolo ristretto in brevi limiti finattanto che col resto del mondo non conquistò anche la Grecia: ma allora i progressi delle sue cognizioni, del suo dominio, del suo commercio, non giovarono a quello delle sue radici; certamente questo non corrispose a quell'altro, per la ragione che dirò poi.
V.
in questo proposito Senofonte ????????????????????????????????.
Lasciando le radici, osserverò che la stessa immensa facoltà dei composti che si ammira, e rende più che altra cosa inesauribile la lingua greca, l'aveva ancora ne' suoi principii la lingua latina, e l'ebbe per lungo tempo, cioè per lo meno sino a Cicerone il quale principalmente [742]fissò, ordinò, stabilì, compose, formò e determinò la lingua latina.
Ponete mente a ciascuna delle antiche e primitive radici latine, e vedrete in quante maniere, con quanto piccole giunte e variazioni, sieno ridotte a significare diversissime cose per mezzo di composti, sopraccomposti, ossia decomposti, e derivati, o di metafore, nello stesso modo appunto che la lingua greca per gli stessi mezzi si rende atta a dir tutto e chiaramente e propriamente e puramente e facilissimamente.
Osservate per esempio il verbo duco o facio e consideratelo in tutti i suoi derivati o composti, e sopraccomposti, e in tutti i loro e suoi significati ed usi o propri o metaforici, ma però sempre così usitati, che benchè metaforici, son come propri.
Con ogni esame mi sono accertato che il verbo duco e il verbo facio per la copia de' composti, sopraccomposti, con preposizione e senza, derivati e loro composti, significati ed usi propri e traslati, tanto di questi che suoi, è adattattissimo a servire di esempio.
(Ludifico, carnifex, sacrificium, labefacto ed altri infiniti sono i composti del verbo facere senza preposizione nè particelle ec.
ma con altri nomi, alla greca.) E con queste considerazioni vedrete quanto la primitiva natura della lingua latina fosse disposta, a somiglianza della greca, alla onnipotenza di esprimer tutto facilmente, e tutto del suo ed a sue spese; alla pieghevolezza, trattabilità, duttilità ec.
Come questa facoltà di servirsi così bene delle sue radici, di estendersi, dilatarsi guadagnare conquistare con sì [743]poca fatica, metter così bene e a sì gran frutto il suo proprio capitale, coltivare con sì gran profitto il proprio terreno; questa facoltà dico, che nella lingua greca durò sino alla fine, come venisse così presto a mancare nella lingua latina, alla quale abbiamo veduto ch'era non meno naturale e caratteristica che alla greca, a cui poi si attribuì e si attribuisce come esclusivamente sua, verrò esponendolo e assegnandone le ragioni che mi parranno verisimili.
La lingua greca nel tempo in cui ella pigliava forma, consistenza, ordine, e stabilità (giacchè prima o dopo questo tempo la cosa non avrebbe avuto lo stesso effetto) non ebbe uno scrittore nel quale per la copia, varietà, importanza, pregio e fama singolarissima degli scritti, si riputasse che la lingua tutta fosse contenuta.
L'ebbe la lingua latina, l'ebbe appunto nel tempo che ho detto, e l'ebbe in Cicerone.
Questi per tutte le dette condizioni, per l'eminenza del suo ingegno, e lo splendore [744]delle sue gesta, del suo grado, della sua vita, e di tutta la sua fama, per aver non solo introdotta ma formata e perfezionata non solo la lingua, ma la letteratura, l'eloquenza, la filosofia latina, trasportando il tutto dalla Grecia, per essere in somma senza contrasto il primo il sommo letterato e scrittore latino in quasi tutti i generi, soprastava tanto agli altri, che la lingua latina scritta, si riputò tutta chiusa nelle sue opere, queste tennero luogo di Accademia e di Vocabolario, l'autorità e l'esempio suo presso i successori, non si limitò ad insegnare, e servir di norma e di modello, ma, come accade, a circoscrivere; la lingua si riputò giunta al suo termine; gl'incrementi di essa si stimarono già finiti; si credè giunto il colmo del suo accrescimento; si temè la novità; si ebbe dubbio e scrupolo di guastare e far degenerare in luogo di arricchire; le fonti della ricchezza della lingua si stimarono chiuse.
ec.
E così Cicerone fra gl'infiniti benefizi fatti alla sua [745]lingua, gli fece anche indirettamente per la troppa superiorità e misura della sua fama e merito, troppo soverchiante e primeggiante, questo danno di arrestarla, come arrivata già alla perfezione, e come in pericolo di degenerare se fosse passata oltre: e quindi togliergli l'ardire, la forza generativa, e produttrice, la fertilità, e inaridirla.
Nello stesso modo che avvenne alla eloquenza e letteratura latina, per lo stesso motivo, e per la stessa persona (v.
Velleio nel fine del 1mo libro).
Che siccome per la letteratura si stimò quasi giunta l'ora del riposo, tanto egli l'aveva perfezionata (v.
p.801.
fine) (cosa che non accadde mai nella Grecia, giacchè a nessuno scrittore in particolare competeva questa qualità, e la perfezione di un secolo il quale s'intreccia e addentella col seguente, non ispaventa tanto quanto quella di un solo, che in se stesso racchiude e definisce e circoscrive la perfezione) così appunto intervenne anche alla lingua, la quale similmente, [746]come già matura e perfetta, cessò di crescere e isterilì.
Questa può essere una ragione.
Quest'altra mi sembra la principale.
Da qualunque origine derivasse la lingua e la letteratura e filosofia e sapienza greca, certo è che la Grecia, se non fu l'inventrice delle sue lettere, scienze, ed arti, le ricevè informi, ed instabili, e imperfette, e indeterminate, e così ricevute, le formò, stabilì, perfezionò, determinò essa medesima, e nel suo proprio seno, e di sua propria mano ed ingegno, così che vennero la sua letteratura ed il suo sapere ad essere sue proprie, ed opera si può dir sua: quindi non ebbe bisogno di ricorrere ad altre lingue per esprimere le sue cognizioni (se non se, come tutte le lingue, nei primordi, e nelle primissime derivazioni delle sue radici, giacchè nessuna lingua è nata coll'uomo, ma derivata l'una dall'altra più o meno anticamente, finchè si arriva ad una lingua assolutamente madre e primitiva, che nessuno conosce): non ebbe dico bisogno di queste, ma formando le sue cognizioni, formò insieme la lingua; e [747]quindi pose sempre a frutto, e coltivò il suo proprio fondo, e trasse da se stessa tutto il tesoro della favella.
Ma ai latini non accadde lo stesso.
La loro letteratura, le loro arti, le loro scienze vennero dalla Grecia, e tutto in un tratto, e belle e formate.
Essi le ricevettero già ordinate, composte, determinate, provvedute intieramente del loro linguaggio, trattate da scrittori famosissimi: in somma i latini non ebbero e non fecero altra opera che traspiantare di netto le scienze, arti, lettere greche nel loro terreno.
Quindi era ben naturale che quelle discipline ch'essi non avevano formate, portassero seco anche un linguaggio non latino, perchè dovunque le discipline si formano, e ricevono ordine e corpo stabile e determinato, quivi se ne forma il linguaggio, e questo passa naturalmente alle altre nazioni insieme con esse discipline.
Non avendole dunque i latini nè create nè formate, ma ricevute quasi per manus belle e fatte, neanche ne crearono nè formarono, [748]ma riceverono parimente il linguaggio.
Lucrezio volendo trattar materie filosofiche s'era lagnato della novità delle cose e della povertà della lingua, come potremmo far noi oggidì, volendo trattare la moderna filosofia.
Cicerone, da grande e avveduto uomo, il quale benchè gelosissimo della purità della favella, conosceva che alla novità delle cose era necessaria la novità delle parole, e che queste non sarebbero 1.
intese e chiare, 2.
inaffettate e naturali, se non fossero appresso a poco quelle medesime che erano in comune e confermato uso in quelle tali discipline; fu ardito, e trattando materie si può dir greche popolò il latino di parole greche, certo di essere inteso, e di non riuscire affettato, perchè la lingua greca era divulgatissima e familiare fra' suoi, come appunto oggi la francese, e quelle parole notissime, e usitatissime anzi proprie di quelle discipline, come oggi le francesi nelle moderne materie filosofiche e simili.
E di più erano necessarie.
Così dunque la lingua latina si pose in grado di discorrer delle [749]cose, e di essere scritta, ma vi si pose per mezzi alieni e non propri.
Bisogna anche osservare che non questa o quella disciplina, ma si può dir tutte le discipline, e cognizioni umane, tutto quello che scrivendo si può trattare, anzi anche conversando urbanamente, cioè tutta la coltura tutti i soggetti regolati e ordinati, erano venuti dalla Grecia in Roma, immediatamente e interamente.
Quindi successe quel che doveva, che la lingua latina, affogata ed oppressa tutto in un tratto dalla copia delle cose nuove, disperata di poterla subito (come sarebbe bisognato) pareggiare colla novità delle parole tirate dal proprio fondo, abbandonò il suo terreno, abbracciò la suppellettile straniera di linguaggio, che trovava già pronta, e da tutti intesa ed usata: e così la facoltà generativa della lingua latina, rimase o estinta o indebolita, e si trasformò nella facoltà adottiva.
Cicerone ne aveva usato [750]da suo pari con discrezione e finissimo giudizio e gusto, non lasciando in nessun modo di coltivare il fondo della sua lingua, di accrescerla, e di cavarne quanto era possibile in quella strettezza, in quella tanta copia di nuove cose, accompagnate da parole straniere già divulgate ed usitate.
Ma dopo Cicerone si passarono i limiti: parte perch'essendo (com'è oggi relativamente al francese) molto più facile il tirar dalla lingua greca già ben provveduta di tutto, e a tutti nota, le parole e modi occorrenti, di quello che dalla latina che non le dava senza studio, e profonda cognizione di tutte le sue risorse; quelli che non erano così periti della loro lingua (perizia ben rara e difficile trattandosi di una tal lingua, come della nostra oggidì: e pochi o nessuno la possedè così a fondo come Cicerone) senza troppo curare di accertarsi s'ella avesse o non avesse come esprimere convenientemente e pianamente il bisognevole, [751]davan sacco alla lingua greca che l'aveva tutto alla mano.
Parte perchè non la sola necessità, o la difficoltà dell'uso del latino in quei casi, o finalmente l'ignoranza della propria lingua, ma anche il vezzo spingeva i romani (come oggi ec.) ad usare le parole e modi greci in iscambio delle parole e modi latini, e mescolarli insieme, come che quelli dessero grazia e spirito alla favella gentile, e in somma ci entrò di mezzo oltre la letteratura e la filosofia, anche la moda.
Orazio già avea dato poco buon esempio.
Uomo in ogni cosa libertino e damerino e cortigiano, in somma tutto l'opposto del carattere Romano, e nelle opere tanto seguace della sapienza fra' cortigiani, quanto Federigo II tra i re.
Non è maraviglia se la lingua romana gli parve inferiore alla sua propria eleganza e galanteria.
Sono noti e famosi quei versi della poetica, dov'egli difende e ragiona su questo suo costume.
Egli però come uomo di basso ma sottile ingegno, se nocque coll'esempio, non pregiudicò grandemente colla pratica; anzi io non voglio contendere s'egli, quanto a se, giovasse piuttosto o pregiudicasse alla sua lingua, perchè i suoi ardimenti paiono a tutti, e li credo anch'io, se non altro, in massima parte, felicissimi; ma poco [752]tempo dopo la sua morte, cioè al tempo di Seneca ec.
per ambedue le dette ragioni la cosa era ita tant'oltre che la lingua latina impoveriva dall'un canto e dall'altro imbarbariva effettivamente per grecismo come oggi l'italiana per francesismo.
Ed è curioso come tristo l'osservare che siccome la lingua latina rendè poi con usura il contraccambio di questo danno e di questa barbarie alla greca, quando già mezzo barbara le si riversò tutta, per così dire, nel seno, sotto Costantino e successori, così oggidì la lingua francese rende con eccessiva usura alla nostra quella corruttela che ne ricevè al tempo dei Medici in Francia ec.
La lingua latina fu (per poco spazio) restituita, se non all'antica indole, certo a uno splendore somigliante all'antico (insieme colla letteratura parimente corrotta) da parecchi scrittori del secolo tra Nerva e Marcaurelio, fra' quali Tacito ec.
del che non è ora luogo a parlare.
Solamente noterò per incidenza, e perchè fa a questo discorso delle lingue, un parallelo curiosissimo che si può fare tra Frontone e i presenti ristoratori della lingua italiana.
[753]Il qual Frontone, come apparisce ora dalle reliquie de' suoi scritti ultimamente scoperte, merita un posto distinto, fra i ristauratori e zelatori della purità come della letteratura così della lingua latina.
Nel qual pregio egli forse e senza forse, cred'io, è l'ultimo di tempo, che si conosca, o abbia almeno qualche distinta rinomanza.
Ma egli (colpa della nostra natura) volendo riformare il troppo libertinaggio, e castigare la viziosa novità della lingua, cadde, come appunto gran parte de' nostri, nell'eccesso contrario.
Giacchè una riforma di questa natura, deve consistere nel mondar la lingua dalle brutture, distoglierla dal cattivo cammino, e rimetterla sul buono.
Non già ricondurla a' suoi principii, e molto meno voler che di quivi non si muova.
Perchè la lingua e naturalmente e ragionevolmente cammina sempre finch'è viva, e come è assurdissimo il voler ch'ella stia ferma, contra la natura delle cose, così è pregiudizievole e porta discapito il volerla riporre più indietro che non bisogna, e obbligarla a rifare quel cammino [754]che avea già fatto dirittamente e debitamente.
Laddove bisogna riporla nè più nè meno in quel luogo che conviene al tempo e alle circostanze, osservando solamente che questo luogo sia proprio suo e conveniente alla sua natura.
Ma Frontone in luogo di purificare la lingua, la volle antiquare, richiamando in uso parole e modi, per necessaria vicenda delle cose umane, dimenticati, ignorati e stantii, e fino come pare, l'antica ortografia, volendo quasi immedesimare, in dispetto della natura e del vero, il suo tempo coll'antico.
Come che quei secoli che son passati, e quelle mutazioni che sono accadute e nella lingua, e in tutto quello che la modifica, dipendesse dalla volontà dell'uomo il fare che non fossero passati e non fossero accadute, e il cancellare tutto l'intervallo di tempo ed altro che sta fra il presente e l'antico.
Nè osservò che siccome la lingua cammina sempre, perch'ella segue le cose le quali sono istabilissime e variabilissime, così ogni secolo anche il più buono e casto ha la sua lingua modificata in una maniera propria, la quale allora solo è cattiva, [755]quando è contraria all'indole della lingua, scema o distrugge 1.
la sua potenza e facoltà, 2.
la sua bellezza e bontà naturale e propria, altera perde guasta la sua proprietà, la sua natura, il suo carattere, la sua essenziale struttura e forma ec.
Fuori di questo, com'è altrettanto vano, che dannoso e micidiale l'assunto d'impedire ch'ella si arricchisca, così è impossibile e dannoso l'impedire che si modifichi secondo i tempi e gli uomini e le cose, dalle quali la lingua dipende e per le quali è fatta, non per qualche ente immaginario, come la virtù o la giustizia ch'è immutabile o si suppone.
E perchè Cicerone non iscrisse come il vecchio Catone ec.
non perciò resta ch'egli non sia, come in ordine a tutto il rimanente, così pure alla lingua, il sommo scrittor latino: nè che Virgilio non sia il primo poeta latino, e limpidissimo specchio di latinità (riconosciuto dallo stesso Frontone negli Exempla elocutionum), perciò che la sua lingua è ben diversa [756]da quella di Ennio di Livio Andronico, ec.
e anche di Lucrezio.
Bisogna però ch'io renda giustizia a Frontone, perchè se egli cadde in quel difetto che ho notato, vi cadde con molto più discrezione giudizio e discernimento sì nelle massime o nella ragione, che nella pratica, di quello che facciano molti degli odierni italiani, avendo anche molto riguardo a fuggir l'affettazione, per la quale massimamente e per la oscurità si rende assurdo e barbaro l'uso di molte parole antiquate; e possedendo la sua lingua veramente, e quindi, sebben peccasse nella troppa imitazione degli antichi, non però cercando, come fanno i nostri, di dar colore di antichità a' suoi scritti, col solo materiale e parziale uso delle parole e modi vecchi, senza osservare se la scrittura sapesse poi veramente di antico, e se quelle parole e modi vi cadessero acconciamente e naturalmente, o forzatamente, e dissonando dal corpo della composizione.
Frontone non sognò neppure la massima di vietare la conveniente e giudiziosa novità e formazione delle parole o modi, anzi egli stesso ne dà esempio di tratto in tratto.
Il che [757]fanno i nostri per impotenza, ignoranza, povertà, e niun possesso di lingua; credendo di esser buoni scrittori italiani quando hanno imparato e usato a sproposito e come capita, un certo numero di parole e modi antichi, non curandosi poi, o non sapendo vedere se corrispondano al resto e all'insieme del colorito e dell'andamento, e testura del discorso, ovvero sieno come un ritaglio di porpora cucito sopra un panno vile, o certo d'altro colore ed opera.
Ma conviene ch'io dica quello ch'è vero, che non mi è riuscito mai di trovare negli antichi scrittori latini o greci, per difettosi che sieno, tanta goffaggine, e incapacità, e piccolezza di giudizio, e debolezza e scarsezza di mezzi, e decisa insufficienza alle imprese, agli assunti ec.
quanto negli odierni italiani: e Frontone del resto non fu niente povero d'ingegno.
Il suo peccato si può ridurre all'aver considerato come modelli di buona lingua, piuttosto Ennio che Virgilio e che lo stesso Lucrezio (che tanto l'arricchì nella parte filosofica) piuttosto Catone che Tullio; all'aver creduto che in quelli e non in questi fosse la perfezione della lingua latina, all'avere attinto più da quelli che da questi, e consideratili come fonti più ricchi o più sicuri ec.; o certo aver loro attribuita senza veruna ragione (conforme però all'ordinario rispetto per l'antico) maggiore autorità in fatto di lingua.
ec.
ec.
Questo sia detto in trascorso e per digressione.
Tornando al proposito, cioè all'arricchire [758]la lingua del prodotto delle sue proprie sostanze, e dalla greca e latina, passando alle vive, questa è sempre stata e sarà sempre facoltà inseparabile dalla vita delle lingue, e da non finire se non colla loro morte.
Tutte le lingue vive la conservano, eccetto quelli che vorrebbero che la italiana la deponesse.
La francese, la quale a differenza dell'italiana, si è spogliata della facoltà di usare quelle delle sue parole e modi antichi e primitivi, che le potessero tornare in acconcio (come ho detto altrove); parimente a differenza di ciò che si esigerebbe dalla italiana, ha conservato sempre ed usato la facoltà di mettere a frutto e moltiplico il suo presente tesoro.
E la stessa lingua latina, la quale per le ragioni che ho detto, perdè in parte questa facoltà dopo Cicerone, non la perdè, se non in quanto a quella felicissima ed immensa facoltà di composti e sopraccomposti o con preposizione o particella, ovvero di più parole insieme; facoltà che la metteva quasi [759](cioè in proporzione della quantità delle radici e de' semplici) al paro della greca; facoltà che si può vedere e nelle primitive parole latine composte nei detti modi, o con avverbi (come propemodum e mille altre), in somma come le greche, e che sono durate nell'uso della latinità sino alla fine, ma non però imitate nè accresciute; e in quelle che poi caddero dall'uso, e si possono veder ne' più antichi latini (come in Plauto lectisterniator, legirupus, lucrifugae e mille altre, e prendo le primissime che ho incontrate subito), e servono a far conoscere la primitiva costituzione, forma, usanza, e potenza di quella lingua: facoltà in fine, ch'è la massima e più ricca sorgente della copia delle parole, e della onnipotenza di tutto esprimere, ancorchè nuovissimo; il che si ammira nel greco, e si potè una volta notare anche nel latino.
I primi scrittori latini, il loro linguaggio sacro o governativo ec.
antico (come lectisternium antica festa romana) abbondano siffattamente di parole composte alla greca di due o più voci, che non si può forse leggere un passo di detti autori ec.
senza trovarne, ma la più parte andate in disuso.
Spesso eran proprie di quel solo che le inventava.
Talvolta anche di eccessiva lunghezza, come clamydeclupetrabracchium parola di antico poeta riferita da Varrone (De L.
L.
lib.4.) (p.3.
della mia ediz.
del 400.) Quest'uso ottimo e felicissimo, e questa facoltà, fu o trascurata, o comunque [760]lasciata trasandare, abbandonare, dismettere, dimenticare alla lingua latina, che era per forza d'essa facoltà così bene istradata alla onnipotenza, ne' suoi principii.
Ma la facoltà di arricchire la propria lingua col prodotto delle sue proprie radici in ogni altro genere, coi derivati ec.
non fu mai abbandonata finch'ella visse, e non poteva esserlo, stante ch'ella vivesse.
Non solamente i cattivi o mediocri, ma anche i buoni ed ottimi scrittori dopo Cicerone, se ne prevalsero tutti, e tutti scrivendo aumentarono il tesoro della lingua, e questa non lasciò mai di far buoni e dovuti progressi, finchè fu adoperata da buoni e degni scrittori.
Così deve tenersi per fermissimo, ch'è indispensabile di fare a tutte le lingue finch'elle vivono.
La facoltà de' composti pur troppo non è propria delle nostre lingue.
Colpa non già di esse lingue, ma principalmente dell'uso che non li sopporta, non riconosce nelle nostre lingue meridionali [761](delle settentrionali non so) questa facoltà, delle orecchie o non mai assuefatteci, o dissuefattene da lungo tempo.
Perchè del resto 1.
le nostre preposizioni, massimamente nella lingua italiana, sarebbero per la più parte, appresso a poco non meno atte alla composizione di quello che fossero le greche e latine, e noi non manchiamo di particelle attissime allo stesso uso, anzi molte ritrovate espressamente per esso (come ri, o re, tra o stra, arci, dis, o s, in negativo o privativo, e affermativo, mis, di, de ec.
E di queste abbondiamo anzi più de' latini, e forse anche dei greci stessi, e credo certo anche de' francesi e degli spagnuoli.) V.
il Monti, Proposta alla voce Nonuso, e se vuoi p.2078.
2.
anche ai composti di più parole la lingua massimamente italiana, sarebbe dispostissima, come già si può vedere in alcuni ch'ella usa comunemente (valentuomo, passatempo, tuttavolta, capomorto, capogatto, tagliaborse, beccafico, falegname, granciporro, e molti e molti altri); v.
p.1076.
e Monti, Proposta ec.
v.
guardamacchie ed anche la lingua francese (emportepièce, gobemouche, fainéant coi derivati ec.) 3.
non manchiamo neppure di avverbi atti a servire alla composizione.
4.
la nostra lingua benchè non si pieghi e non ami in questo genere la novità, ha però non poco in questo genere, come i composti colla preposizione in, tra, fra, oltra, [762]sopra, su, sotto, contra, anzi ec.
ec.
e Dante fra gli altri antichi aveva introdotto subito nel quasi creare la nostra lingua, la facoltà, il coraggio, ed anche l'ardire de' composti, de' quali egli abbonda (come indiare, intuare, immiare, disguardare ec.
ec.) massime con preposizioni avverbi, e particelle.
E così gli altri antichi nostri.
Ma a noi pure è avvenuto, come ai latini, che questa onnipotente facoltà, propria della primitiva natura della nostra lingua, (sebbene allora pure in minor grado che, non solo della greca, ma anche della latina) s'è lasciata malamente e sfortunatamente perdere quasi del tutto, ancorchè si conservino buona parte di quelli che si sono trovati in uso, e si adoprino come recentissimi, attestando continuamente la primiera facoltà e natura della nostra lingua; ma de' veramente nuovi e recenti non si gradiscono.
E tutto questo appresso a poco è avvenuto anche alla lingua francese.
V.
p.805.
Dei composti dunque, gli scrittori di oggidì non hanno gran facoltà, ma non però nessuna (tanto in italiano che in francese): anzi ce ne resta ancor tanta da potere, senza [763]la menoma affettazione formare e introdurre molti nuovi composti chiarissimi, facilissimi, naturalissimi, mollissimi per l'una parte; e per l'altra utilissimi; specialmente con preposizioni e particelle ec.
Quanto poi ai derivati d'ogni specie (purchè sieno secondo l'indole e le regole della lingua, e non riescano nè oscuri nè affettati) e a qualunque parola nuova che si possa cavare dalle esistenti nella nostra lingua, che stoltezza è questa di presumere che una parola di origine e d'indole italianissima, di significazione chiarissima, di uso non affettata nè strana ma naturalissima, di suono finalmente non disgrata all'orecchio, non sia italiana ma barbara, e non si possa nè pronunziare ne scrivere, per questo solo, che non è registrata nel Vocabolario? (E quello che dico delle parole dico anche delle locuzioni e modi, e dei nuovi usi qualunque delle parole o frasi ec.
già correnti, purchè questi abbiano le dette condizioni.) Quasi che la lingua italiana sola, a differenza di tutte le altre esistenti, e di qualunque ha mai esistito, si debba, mentre ancor vive nell'uso quotidiano della nazione, considerar come morta e morire vivendo, ed essere a un tempo viva e morta.
Converrebbe che anche questa nazione vivesse come morta, cioè che nella sua esistenza non [764]accadesse mai novità, divario, mutazione veruna, nè di opinioni, nè di usi, nè di cognizioni (come, e più di quello che si dice della China, la cui lingua in tal caso potrà essere immobile): e di più che sia in tutto e per tutto conforme alla vita e alle condizioni de' nostri antichi, e di que' secoli dopo i quali non vogliono che sia più lecita la novità delle parole.
E infatti che differenza troveremo fra la lingua italiana viva, e le morte, ammesso questo pazzo principio? Che libertà che facoltà avremo noi nello scrivere la lingua nostra presente, più di quello che nell'adoprare la greca e latina che sono antiche ed altrui? e le cui fonti sono disseccate e chiuse da gran tempo, restando solo quel tanto ch'elle versarono mentre furono aperte, e quelle lingue vissero.
Anzi io tengo per fermo che quegli scrittori italiani i quali nel cinquecento maneggiarono la lingua latina in maniera da far quasi dubbio se ella fosse loro artifiziale o naturale, furono assai meno superstiziosi di quello che molti vorrebbero che fossimo noi trattando la lingua nostra.
E noi medesimi oggidì (parlo degli scienziati o letterati di tutta Europa) derivando, come facciamo spessissimo, [765]dal greco le parole che ci occorrono per li nostri usi presenti, e per novità di cose ignotissime ai parlatori di quella lingua, non formiamo voci parimente ignote all'antica lingua greca? Ci facciamo scrupolo se non sono registrate nel Lessico, o se non hanno per se l'autorità degli antichi scrittori? Non innuoviamo noi in una lingua morta, stranierissima, e al tutto fuori d'ogni nostro diritto? Il che, sebbene si facesse con buon giudizio, e coi dovuti rispetti all'indole di quella lingua (al che per verità pochi hanno l'occhio nella formazione di tali voci), a ogni modo vi si potrebbe sofisticar sopra, e dire che la eredità che ci è pervenuta delle antiche lingue, è come di beni infruttiferi, dai quali non si può nè ricavare nè pretendere altro servigio che dell'usarli identicamente.
Ma la nostra lingua propria è un'eredità, un capitale fruttifero, che abbiamo ricevuto da' nostri maggiori, i quali come l'hanno fatto fruttare, così ce l'hanno [766]trasmesso perchè facessimo altrettanto, e non mica perchè lo seppellissimo come il talento del Vangelo, ne abbandonassimo affatto la coltivazione, credessimo di custodirlo, e difenderlo, quando gli avessimo impedito ogni prodotto, la vegetazione, il prolificare; lo considerassimo e ce ne servissimo come di un capitale morto ec.
Osservo anche questo.
Noi ci vantiamo con ragione della somma ricchezza, copia, varietà, potenza della nostra lingua, della sua pieghevolezza, trattabilità, attitudine a rivestirsi di tutte le forme, prender abito diversissimo secondo qualunque soggetto che in essa si voglia trattare, adattarsi a tutti gli stili; insomma della quasi moltiplicità di lingue contenute o possibili a contenersi nella nostra favella.
Ma da che cosa stimiamo noi che sieno derivate in lei queste qualità? Forse dalla sua primitiva ed ingenita natura ed essenza? Così ordinariamente si dice, ma c'inganniamo di gran lunga.
Le dette qualità, le lingue non [767]le hanno mai per origine nè per natura.
Tutte a presso a poco sono disposte ad acquistarle, e possono non acquistarle mai, e restarsene poverissime e debolissime, e impotentissime, e uniformi, cioè senza nè ricchezza, nè copia, nè varietà.
Tale sarebbe restata la lingua nostra, senza quello ch'io dirò.
Tutte lo sono nei loro principii, e non intendo mica nei loro primissimi nascimenti, ma finattanto che non sono coltivate, e con molto studio ed impegno, e da molti, e assiduamente, e per molto tempo.
Quello che proccura alle lingue le dette facoltà e buone qualità, è principalmente (lasciando l'estensione, il commercio, la mobilità, l'energia, la vivacità, gli avvenimenti, le vicende, la civiltà, le cognizioni, le circostanze politiche, morali, fisiche delle nazioni che le parlano) è, dico, principalmente e più stabilmente e durevolmente che qualunque altra cosa, la copia e la varietà degli scrittori che l'adoprano e coltivano.
(V.
p.1202.) Questa siccome, per ragione della maggior durata, e di altre molte circostanze, fu maggiore nella Grecia che nel Lazio, perciò la lingua greca possedè le dette [768]qualità, in maggior grado che la latina; ma non prima le possedè che fosse coltivata e adoperata da buon numero di scrittori, e sempre (come accade universalmente) in proporzione che il detto numero e la varietà o de' soggetti o degli stili o degl'ingegni degli scrittori, fu maggiore, e s'accrebbe.
La lingua latina similmente non le possedè (sebben meno della greca, pure in alto grado) se non quando ebbe copia e varietà di scrittori.
Tutte le lingue antiche e moderne che hanno mancato di questo mezzo, hanno anche mancato di queste qualità.
Per portare un esempio (oltre le lingue Europee meno colte) la lingua Spagnuola, nobilissima, e di genio al tutto classico, e somigliantissima poi alla nostra particolarmente, sì per lo genio, come per molti altri capi, e sorella nostra non meno di ragione che di fatto, e di nascita che di sembianza, costume, indole, non è inferiore alla nostra nelle dette qualità, se non perchè l'è inferiore principalmente nella copia e varietà degli scrittori.
Se la lingua francese, non ostante la gran quantità degli scrittori, e degli [769]ottimi scrittori, si giudica ed è tuttavolta inferiore alla nostra ed alle antiche per questo verso, ciò è avvenuto per le ragioni particolari che ho più volte accennate.
La riforma di essa lingua, la regolarità prescrittale, la figura datale, avendo uniformato tutti gli stili, la poesia alla prosa; impedita la varietà e moltiplicità della lingua, secondo i vari soggetti e i vari ingegni; tolta la libertà, e la facoltà inventiva agli scrittori, in questo particolare; tolto loro l'ardire, anzi rendutinegli affatto schivi e timidi ec.
ec.
la Francia è venuta a mancare della varietà degli scrittori, non ostante che n'abbia la copia, ed abbia la varietà de' soggetti, perchè tutti i soggetti da tutti gl'ingegni si trattano, possiamo dire, in un solo modo.
E ciò deriva anche dalla natura e forza della eccessiva civiltà di quella nazione, e della influenza della società: così stretta e legata, che tutti gl'individui francesi fanno quasi un solo individuo.
E laddove [770]nelle altre nazioni, si cerca ed è pregio il distinguersi, in quello è pregio e necessità il rassomigliarsi anzi l'uguagliarsi agli altri, e ciascuno a tutti e tutti a ciascuno.
Queste ragioni rendendogli timidi dell'opinione del ridicolo ec.
e scrupolosi osservatori delle norme prescritte e comuni nella vita, li rende anche superstiziosi, timidi, schivi affatto di novità nella lingua.
Ma tutto ciò quanto alle sole forme e modi, perchè questi soli, sono stati fra loro determinati, e prescritti i termini (assai ristretti) dentro i quali convenga contenersi, e fuor de' quali sia interdetto ogni menomo passo.
E così quanto allo stile uniforme si può dire in tutti, e in tutti i generi di scrittura, anche nelle traduzioni ec.
tirate per forza allo stile comune francese, ancorchè dallo stile il più renitente e disperato; e quanto in somma all'unità del loro stile, e del loro linguaggio che ho notata altrove.
Ma non quanto alle parole, nelle quali, restata libera in Francia la facoltà inventiva, e il derivare novellamente dalle proprie fonti, sempre aperte sinchè la lingua vive; la lingua francese cresce di parole ogni giorno e crescerà.
Che se le cavassero sempre dalle proprie fonti, o con quei rispetti che si dovrebbe, non avrei luogo a riprenderli, come ho fatto altrove, e della corruzione e dell'aridità a cui vanno portando la loro lingua.
[771]La quale inoltre, da principio, era, come la nostra, attissima alla novità ed al bell'ardire, anche nei modi, secondo che ho detto altrove.
La lingua tedesca, rimasa per tanti secoli impotente ed umile, ancorchè parlata da tanta e sì estesa moltitudine di popoli, non per altro che per avere avuto nell'ultimo secolo e ne' pochi anni di questo, immensa copia e varietà di scrittori, è sorta a sì alto grado di facoltà e di ricchezza e potenza.
La lingua italiana dunque, scritta per sei secoli fino al 18vo.
inclusivamente, e scritta da una infinità di autori d'ogni soggetto, d'ogni stile, d'ogni carattere, d'ogni ingegno, oltracciò abbondantissima, quanto e più, certo prima di qualunque altra lingua viva, non solo di scrittori comunque, ma scrittori peritissimi nel linguaggio, coltivatori assidui, ed espressamente dedicati allo studio della lingua, maestri e modelli del bel parlare, studiosissimi delle lingue antiche per derivarne nella nostra tutto il buono e l'adattato, liberi, coraggiosi, e felicemente arditi nell'uso della lingua; questa lingua [772]dico, da piccoli anzi vili e rozzi e informi principii, come tutte le altre, e da barbare origini; di più, cresciuta e fatta se non matura certo adulta e vigorosissima fra le tenebre dell'ignoranza, della superstizione, degli errori della barbarie; non per altro che per li detti motivi, e prima e sola fra le viventi, è venuta in tal fiore di bellezza, di forza, di copia, di varietà, ec.
che giunge quasi a pareggiare le due grandi antiche (chi bene ed intimamente e in tutta la sua estensione la conosce), non avendo rivale fra le moderne.
Se dunque abbiamo veduto come le doti delle lingue, e in ispecie la copia e la varietà, non derivano principalmente se non dalla copia e varietà degli scrittori, e non da natura di essa; ne segue che quando gli scrittori lasceranno per trascuraggine o ignoranza, di arricchirla, e peggio se saranno impediti di farlo, la lingua non arricchirà, non crescerà, non monterà più, e siccome le cose umane, non si fermano mai in un punto, ma vanno sempre innanzi o retrocedono, così la lingua non avanzando più, retrocederà, [773]e dopo essere isterilita, impoverirà ancora, perderà quello che avea guadagnato, e finalmente si ridurrà a tal grado di miseria e d'impotenza, che non sarà più sufficiente all'uso e al bisogno, e allora sì che le converrà domandare soccorso alle lingue straniere e imbarbarire del tutto, per quel motivo appunto il quale si credeva doverla preservare dalla corruzione, e mantenerla pura e sana.
Forse che non vediamo già accadere tutto questo? Quante ricchezze delle già guadagnate, e per così dire, incamerate, ha ella perduto quasi e senza quasi del tutto! Ma di questo dirò poi.
Vogliamo noi dunque ridurre la lingua italiana e nelle parole e nei modi, a quella stessa paura, scrupolosità, superstizione, schiavitù, grettezza, uniformità della lingua francese nei soli modi? Almeno i francesi hanno una scusa nella natura della loro nazione, a cui la società è vita, alimento, diletto, e spavento, sanguisuga, tormento, morte.
[774]A noi manca questa scusa, se già non vogliamo infrancesire interamente anche nei costumi, usi, vita, gusti, idee, inclinazioni ec.
e perdere fino alla sembianza, aspetto, forma d'italiani, come abbiamo più che incominciato.
Diranno che la lingua, benchè per lo mezzo, e l'ardire e libertà degli scrittori, è giunta però a quella perfezione, la quale non possa oltrepassare senza guastarsi.
Vi giunse, cred'io, nè più nè meno in quel punto in cui finì di pubblicarsi l'ultimo Vocabolario della Crusca, giacchè in questo o certo nei precedenti, sono riportate moltissime parole coll'autorità di scrittori ancora viventi e scriventi.
Anzi il Buonarroti scrisse la Fiera appostatamente per somministrar parole al Vocabolario.
L'ultimo tomo dunque di questo, e quell'anno, quel mese, quel giorno in cui fu pubblicato chiuse per sempre le fonti della lingua italiana, state aperte da cinque secoli.
Ma lasciando le burle, do e non concedo che la lingua italiana, sia stata già [775]portata dagli scrittori a quella somma perfezione a cui possa pervenire in ordine a tutte le altre qualità, (errore manifestissimo, ma lasciamolo passare).
Nella ricchezza, copia, e varietà nego che veruna lingua del mondo, o attuale o possibile, possa mai essere perfetta finchè non muore.
E ciò nasce che le cose ancora vivono sempre, e si modificano sempre novellamente, e si moltiplicano le conosciute: ora una lingua non è mai perfettamente ricca, anzi perfettamente fornita del necessario, finch'ella non può esprimere perfettamente, e convenientemente tutte le cose, e tutte le possibili modificazioni delle cose di questo mondo.
Sicchè una lingua non avrà più mestieri di accrescimento, allora solo quando o essa o il mondo sarà finito.
Quali effetti produca poi, e quanto sia pericoloso il volere arrestare una lingua, come già perfetta, e lo scoraggirsi di accrescerla, per la persuasione [776]che ciò non sia più necessario, nè lecito e giovevole, nè possibile, si può vedere in quello che ho detto della lingua latina.
E prima di partire da questo soggetto della ricchezza e copia e bontà generale e potenza delle lingue proccurata principalmente dalla copia e varietà ed ingegno degli scrittori, osserverò che quella medesima superiorità di circostanza ch'ebbe la lingua greca sulla latina, e che fu seguita dall'effetto di restarle realmente e sempre superiore nella sostanza, l'abbiamo noi pure sopra tutte le altre lingue viventi, e colte.
Perchè siccome la coltura della lingua greca, e gli scrittori suoi, incominciati assai per tempo, abbracciarono lunghissimo spazio, e il loro numero fu grande in ciascun tempo; e siccome in proporzione di questo spazio e di questo numero, la ricchezza e varietà e potenza della lingua greca, crebbe in modo che non potè mai essere agguagliata dalla latina: così la lingua italiana [777]scritta già come ho detto da sei secoli in qua, e, si può dire, in ciascun secolo, abbondantissima di diversissimi scrittori e cultori, ha su tutte le altre lingue moderne e colte quello stesso vantaggio di circostanza ch'ebbe la greca sulla latina.
Vantaggio che per nessuno ingegno e nessuno sforzo e studio di nessuna nazione ci potrà mai esser levato, se noi non vorremo.
Ma ecco che noi siamo fermati, e la lingua nostra non fa più progressi.
La lingua francese infaticabilmente si accresce di tutte le parole che le occorrono.
La lingua tedesca avanza e precipita come un torrente, e guadagna tuttogiorno vastissimi spazi, in ogni genere di accrescimento.
Noi da qualche tempo arrestati, neghittosi, ed immobili, manchiamo del bisognevole per esprimere e per trattare la massima parte delle cognizioni e delle discipline e dottrine moderne, ed usi e opinioni ec.
ec.
oggi più rapide nel crescere e propagarsi, e variare ec.
di quello che mai [778]fossero, e in proporzione che la nostra indolenza e infingardaggine presente, è opposta alla energia ed attività passata.
Così la lingua italiana perde il vantaggio dello spazio che avea guadagnato per valore de' suoi antichi e primi padri, sopra le altre lingue, e queste correndo più velocemente che mai, fra tanto che la nostra siede e dorme, riguadagneranno tutto lo spazio perduto per la inerzia de' loro antichi, arriveranno ben presto la nostra e la passeranno.
E la nostra non solo non sarà più nè superiore nè uguale alle altre colte moderne, ma tanto inferiore, che divenuta impotente, e buona solo a parlare o scrivere ai bisavoli; o non saprà esprimer niente del bisognevole, nè parlare e scrivere in nessun modo ai contemporanei; o lo farà (come già lo fa per quel poco che parla e scrive delle cose e cognizioni moderne, o per quello che ne dice non del suo, ma copiando o seguendo gli stranieri) invocando l'altrui soccorso, servendosi degl'istrumenti e mezzi altrui, e quasi trasformandosi [779]in un'altra, o vogliamo dire, facendosi provincia e suddita di un regno straniero (come i piccoli e deboli confederati de' grandi e potenti) essa ch'era capo di tutte le lingue viventi.
Laddove siccome le altre lingue (come anche le altre letterature, e repubbliche scientifiche) raddoppiano l'energia e la veemenza e gagliardia del loro corso, così che in breve riguadagneranno lo spazio perduto da' loro maggiori in confronto nostro, e, se noi non ci moviamo, ci pareggeranno finalmente ben presto, e poi ci passeranno (che in quanto a moltissimi rami del sapere è già accaduto): così conviene che ancor noi pareggiamo i nostri ai loro sforzi, e così non perdendo il vantaggio acquistato, restiamo perpetuamente superiori a tutti, se non nel presente valore, certo pel detto vantaggio acquistato dagli avi, e mantenuto da noi.
Conchiuderò con una osservazione che benchè fatta, io credo, da altri, tuttavia merita di essere ripetuta, perchè sia sempre più [780]considerata e sempre meglio svolta.
Non solamente i bisogni della lingua aumentano e si rinnuovano tuttogiorno, ma i mezzi della lingua, senza la novità delle parole, tuttogiorno diminuiscono.
Quante voci e modi e frasi che una volta erano e usitatissime, e naturalissime, e chiarissime, e comunissime, ed utilissime efficacissime espressivissime frequentissime nel discorso, ora per essere antiquate, o non son chiare, o anche potendosi intendere, anche essendo chiarissime, non si debbono nè possono usare perchè non riescono e non cadono naturalmente, e manifestano e sentono quello che sopra ogni cosa si deve occultare, lo studio e la fatica dello scrittore.
Questo accade in ogni lingua; tutte si vanno rinnovando, cioè dismettendo delle vecchie, e adottando delle nuove voci e locuzioni.
Se questa seconda parte viene a mancare, la lingua non solamente col tempo non crescerà nè acquisterà, come hanno sempre fatto tutte le lingue colte o non colte, e come si è sempre inculcato a tutte le lingue [781]colte, ma per lo contrario perderà continuamente, e scemerà, e finalmente si ridurrà così piccola e povera e debole, che o non saprà più parlare nè bastare ai bisogni, o ricorrerà alle straniere; ed eccoti per un altro verso che quello stesso preteso preservativo contro la barbarie, cioè la intolleranza della giudiziosa novità, la condurrebbe alla barbarie a dirittura.
E per parlare particolarmente della lingua italiana non vediamo noi negli effetti 1.
quanto le lingue sieno soggette a perdere delle ricchezze loro: 2.
come perdendo da una parte e non guadagnando dall'altra, la lingua non più per vezzo (che oramai il vezzo del francesismo è fuggito, anzi temutone da tutti gli scrittori italiani il biasimo e il ridicolo) ma per decisa povertà e necessità imbarbarisca? Prendiamoci il piacere di leggere a caso un foglio qualunque del Vocabolario e notiamo tutte quelle parole e frasi ec.
che sono uscite fuor d'uso, e che non si potrebbero usare, o non senza difficoltà.
Io credo che nè meno due terzi del vocabolario [782]sieno più adoperabili effettivamente nè servibili in nessuna occasione, nè merce mai più realizzabile.
Queste perdute, infinite altre che sebbene dimenticate e fuor d'uso, sono però ricchezza viva e realissima (come spesso necessarissima) perchè chiare a chiunque, e ricevute facilmente e naturalmente dal discorso e dagli orecchi di chi si voglia, ma tuttavia sono abbandonate e dismesse per ignoranza della lingua (la quale in chi maggiore in chi minore, in quasi tutti si trova, perchè il pieno possesso dell'immenso tesoro della lingua non appartiene oggi a nessuno neanche de' più stimati per questo); finalmente la mancanza delle voci nuove adatte e necessarie alla novità delle cose, costringono gli scrittori d'oggidì a ricorrere alla barbarie, trovando la lingua loro del tutto insufficiente ai loro concetti, benchè sempre poverissimi, triti, ordinari, triviali, ristrettissimi, scarsissimi; e benchè spesso anzi per lo più vecchissimi e canuti.
Conchiudo che la giudiziosa novità, (e massime tutta quella che si può derivare dalle nostre stesse fonti) l'arruolare al nostro esercito [783]nuove truppe, l'accrescere la nostra città di nuove cittadinanze, in luogo che pregiudichi per natura sua, e quando si faccia nei debiti modi, alla purità della lingua, è anzi l'unico mezzo sufficiente di difesa, di far testa, di resistere alla irruzione della barbarie, la quale sovrasta inevitabilmente a tutte le lingue che mentre il mondo, e le cose, e gli uomini, e i suoi stessi parlatori camminano, e avanzano, o certo si muovono; non vogliono più, o sono impedite di più camminare nè progredire, nè muoversi in verun lato o modo: e vogliono, o son forzate a volere (inutilmente) quella stabilità, che non ebbero mai nè avranno gli uomini e le cose umane, al cui servigio elle son destinate, e al cui seguito le costringe in ogni modo la natura.
Conchiudo che impedire alle lingue la giudiziosa e conveniente novità, non è preservarle, ma tutt'uno col guidarle per mano, e condannarle, e strascinarle forzatamente alla barbarie.
(8-14.
Marzo 1821.)
[784]Da torvo parola italianissima e di Crusca, il Caro nell'Eneide (l.2.
dove parla del simulacro di Pallade) fece torvamente, parola che non si trova nel Vocabolario.
Ci può esser voce più chiara, più naturale, e ad un tempo più italiana di questa? Ma perchè non istà scritta nella Crusca, e perchè a quegli Accademici non piacque di porre la famosissima Eneide del Caro fra i testi, avendoci messo tanti libracci, però quella voce non si potrà usare? Questo lo dico per un esempio, ?? ?? ????.
Del resto questo è un derivato senza ardire nessuno, e sebbene anche di questa specie se ne danno infiniti, e così anche giovano moltissimo alla lingua, sì per la moltitudine, sì anche individualmente; nondimeno sono forse di maggior utile i derivati, o usi nuovi di parole o modi già correnti, fatti con un certo ardire.
Ma ho portato questo esempio per dimostrare come si possano far nuovi derivati dalle nostre proprie radici, che sebbene nuovi, abbiano lo stessissimo aspetto delle parole vecchie e usitate, sì per la chiarezza che per la naturalezza, per la forma, suono ec.
e quindi sieno tanto italiane quanto la stessa Italia.
Del qual genere se ne danno, come ho detto, infiniti a ogni passo.
(15.
Marzo 1821.)
[785]Tutto quello che ho detto della derivazione di nuove parole o modi ec.
dalle proprie radici, o dei nuovi usi delle parole o modi già correnti, lo voglio estendere anche alle nuove radici, non già straniere, non già prese dalle lingue madri, ma italiane, e non già d'invenzione dello scrittore, ma venute in uso nel linguaggio della nazione, o anche nelle scritture anche più rozze ed impure, purchè quelle tali radici abbiano le condizioni dette di sopra in ordine ai nuovi derivati ec.
E queste nuove radici possono esser nuove in due sensi, o nuove nella scrittura, ma antiche nell'uso quotidiano; o nuove ancora in questo.
V.
p.800.
fine.
Qui non voglio entrare nelle antichissime quistioni, qual popolo d'Italia, qual classe ec.
abbia diritto di somministrar nuovi incrementi alla lingua degli scrittori.
Osserverò solamente 1.
quel luogo di Senofonte circa la lingua attica che ho citato p.741.
in marg.
notando che la Grecia si trovava appunto nella circostanza dell'Italia per la varietà dei dialetti, e che quello che prevalse [786]fu quello che tutti gli abbracciò (come dice quivi Senofonte) cioè l'attico, come quello che fra noi si chiama propriamente italiano.
Giacchè c'è gran differenza tra quell'attico usitato da' buoni scrittori greci, divulgato per tutto, quello di cui parla Senofonte ec.
ec.
e l'attico proprio.
Nello stesso modo fra il toscano proprio, e il toscano sinonimo d'italiano.
V.
p.961.
capoverso 1.
2.
Che senza entrare in discussioni è ben facile il distinguere (almeno agli uomini giudiziosi, perchè già senza buon giudizio non si scriverà mai bene per nessun verso) se una parola usitata in questa o quella parte d'Italia, non però ammessa ancora o nelle scritture o nel vocabolario, ec.
abbia le dette condizioni, cioè sia chiara, facile, inaffettata, di sapore di suono di forma italiana.
(Giacchè di origine italiana, è sempre ch'ella è usata in Italia da molti, purchè non sia manifestamente straniera, e questo di recente venuta; mentre infinite sono le antiche parole straniere domiciliate, e fatte cittadine della nostra lingua.) In questo caso qualunque sia la parte d'Italia che la usa, una voce, una frase qualsivoglia sarà sempre [787]italiana, e salva quanto alla purità, restando che per usarla nelle scritture si considerino le altre qualità necessarie oltre la purità ad una voce o frase per essere ammessa nelle scritture, e in questo o quel genere di scrittura, in questa o quella occasione ec.
3.
Che tutte le lingue crescono in questo modo, cioè coll'accogliere, e porre nel loro tesoro le nuove voci create dall'uso della nazione; e che come quest'uso è sempre fecondo, così le porte della scrittura e della cittadinanza, sono sempre aperte, per diritto naturale, a' suoi novelli parti, in tutte le lingue, fuorchè nella nostra, secondo i pedanti.
E questa è una delle massime, e più naturali e legittime e ragionevoli fonti, della novità, e degl'incrementi necessari della favella.
Perchè cogl'incrementi delle cognizioni, e col successivo variar degli usi, opinioni, idee, circostanze intrinseche o estrinseche ec.
ec.
crescono le parole e il tesoro della lingua nell'uso quotidiano, e da quest'uso debbono passare nella scrittura, se questa ha da parlare ai contemporanei, e da contemporanea, e delle cose del tempo ec.
Così cresce ogni momento di parole proprissime e francesissime [788]la lingua francese, mediante quel fervore e quella continua vita di società e di conversazione, che non lascia esser cosa bisognosa di nome, senza nominarla; massime se appartiene all'uso del viver civile, o alle comuni cognizioni della parte colta della nazione: e per l'altra parte mediante quella debita e necessaria libertà, che non fa loro riguardare come illecita una parola in ogni altro riguardo buona, e francese, ed utile, e necessaria, per questo solo che non è registrata nel vocabolario, o non anche adoperata sia nelle scritture in genere, sia nelle riputate e classiche.
4.
Ripeterò quello che ho detto della necessità di ammettere la giudiziosa novità a fine appunto di impedire che la lingua non diventi barbara.
Perchè la novità delle cose necessitando la novità delle parole, quegli che non avrà parole proprie e riconosciute dalla sua lingua, per esprimerle; forzato dall'imperioso bisogno ricorrerà alle straniere, e appoco appoco si romperà ogni riguardo, e trascurata la purità della lingua, si cadrà del tutto nella barbarie.
[789]Il che si può vedere, oltre l'esempio nostro, per quello della lingua latina, perchè questa parimente, dopo Cicerone, mancata, o per trascuraggine e ignoranza, come ho detto altrove, e per non trovarsi nè così perfetti possessori, e assoluti padroni della lingua, nè così industriosi, oculati, giudiziosi, solerti, artifiziosi coltivatori del di lei fondo, e negoziatori della sua merce e capitali, come Cicerone; o per timidità, scoraggimento, falsa e dannosa opinione che la ricchezza della lingua fosse già perfetta, o ch'ella in quanto a se non fosse più da crescere nè da muovere, nè da toccare; o per superstizione di pedanti che sbandissero le nuove voci tratte dall'uso, o dalle radici della lingua, come mancanti di autorità competente di scrittori (il che veramente accadeva, come si vede in Gellio); o anche per falsa opinione che le radici o l'uso, o insomma il capitale proprio della lingua non avessero effettivamente più nulla da dare, che facesse al caso, o convenisse alle scritture ec.
ec.: mancata dico per tutte queste ragioni alla lingua latina la debita libertà, e la [790]giudiziosa novità, ebbe ricorso, per bisogno, allo straniero, e degenerò in barbaro grecismo.
E come, per fuggir questo male, è necessario dar giusta e ragionata (non precipitata, e illegittima, e ingiudicata e anarchica) cittadinanza anche alle parole straniere, se sono necessarie, molto più bisogna e ricercare con ogni diligenza, e trovate accogliere con buon viso, e ricevere nel tesoro della buona e scrivibile e legittima favella, sì i derivati delle buone e già riconosciute radici, sì le radici che non essendo ancora riconosciute, vanno così vagando per l'uso della nazione, senza studio nè osservazione, di chi le fermi, le cerchi, le chiami, le inviti, e le introduca a far parte delle voci o modi riconosciuti, e a partecipare degli onori dovuti ai cittadini della buona lingua.
5.
In ultimo osserverò che non si hanno da avere per forestiere quelle voci o frasi, che benchè tali di origine hanno acquistato già stabile e comune domicilio nell'uso quotidiano, e molto più se nelle scritture di vaglia.
Queste voci o frasi sono [791]come naturalizzate, e debbono partecipare ai diritti e alle considerazioni delle sopraddette.
Altrimenti siamo da capo, perchè una grandissima parte delle nuove voci e frasi di cui s'accresce l'uso quotidiano, vengono dallo straniero.
E tutte le lingue ancorchè ottime, ancorchè conservate nella loro purità, ancorchè ricchissime, si accrescono col commercio degli stranieri, e per conseguenza con una moderata partecipazione delle loro lingue.
Le cognizioni, le cose di qualunque genere che ci vengono dall'estero, e accrescono il numero degli oggetti che cadono nel discorso, o scritto o no, e quindi i bisogni della denominazione e della favella, portano naturalmente con se, i nomi che hanno presso quella nazione da cui vengono, e da cui le riceviamo.
Come elle son nuove, così nella lingua nostra, non si trova bene spesso come esprimerle appositamente e adequatamente in nessun modo.
L'inventar di pianta nuove radici nella nostra lingua, è impossibile all'individuo, e difficilissimamente e rarissimamente accade nella nazione, come si può facilmente osservare: [792]e questo in tutte le lingue, perchè ogni nuova parola deve aver qualche immediata e precisa ragione per venire in uso, e per esser tale e non altra, e per esser subito e generalmente e facilmente intesa e applicata a quel tale oggetto, e ricevuta in quella tal significazione; il che non può avvenire mediante il capriccio di un'invenzione arbitraria.
Di più, c'è forse lingua che ne' suoi principii e di mano in mano non sia stata composta di voci straniere e d'altre lingue? Quante ne ha la lingua nostra prese dal francese, dallo spagnuolo, dalle lingue settentrionali, e tuttavia riconosciute, e necessariamente, e legittimamente divenute da gran tempo italiane? Come in fatti si formerebbe una lingua senza ciò? colla sola invenzione a capriccio, o mediante un trattato, un accordo fatto espressamente, e individuo per individuo, da tutta la nazione? Perchè dunque quello ch'era lecito anzi necessario ne' principii e dopo, non sarà lecito ora nel caso della stessa necessità relativamente a questa o quella parola? Così fa tuttogiorno la lingua francese, così [793]hanno fatto e fanno necessariamente e per natura tutte le lingue antiche e moderne.
E sebbene la lingua greca fosse così schiva d'ogni foresteria, anche per carattere nazionale, come si è veduto dall'aver essa mantenuta la sua purità forse più lungo tempo di tutte le altre, e anche in mezzo alla corruzione totale della sua letteratura, ec.
e alla schiavitù straniera della nazione, al commercio ai viaggi antichi e moderni, alla dimora di tanti suoi nazionali in Roma ec.
ec.
(come Plutarco) nondimeno la lingua attica, riconosciuta più universalmente di qualunque altra dagli scrittori per lingua propriamente greca, e fra le greche elegantissima, bellissima e purissima, attesta Senofonte nel luogo citato da me p.741.
ch'era un misto non solo di ogni sorta di voci greche, ma anche prese da ogni sorta di barbari, mediante il commercio marittimo degli Ateniesi, e la cognizione ed uso di oggetti stranieri, che questo commercio proccurava loro, come dice pure Senofonte.
Che se la necessità, naturale come ho [794]detto, e comune a tutte le lingue, porta a ricevere per buone anche le voci straniere, entrate recentemente nell'uso quotidiano, o non ancora entratevi nemmeno (purchè siano intelligibili), tanto più quelle che colla molta dimora fra noi, si sono familiarizzate e domesticate co' nostri orecchi, ed hanno quasi perduto l'abito, e il portamento, e la sembianza, e il costume straniero, o certo l'opinione di straniere.
Anzi queste pure vanno cercate sollecitamente, ed accolte, e preferite, per sostituirle, quanto sia possibile alle intieramente estranee.
Giacchè ripeto che con ogni cura bisogna arricchir la lingua del bisognevole, e farlo con buon giudizio, ed esplorate le circostanze e la necessità ec.
ec.
acciocchè non sia fatto senza giudizio, e senza previo esame, ma alla ventura e illegittimamente; perocchè quella lingua che non si accresce, mentre i soggetti della lingua moltiplicano, cade inevitabilmente, e a corto andare nella barbarie.
Per aver poco bisogno [795]di voci straniere, è necessario che una nazione, non solo abbia coltivatori di ogni sorta di cognizioni e nel tempo stesso diligenti, studiosi e coltivatori della lingua, ed in se stessa una vita piena di varietà, di azione, di movimento ec.
ec.
ma ancora ch'ella sia l'inventrice o di tutte o di quasi tutte le cognizioni, e di tutti gli oggetti della vita che cadono nella lingua, e non solo pura inventrice, ma anche perfezionatrice, perchè dove le discipline, e le cose s'inventano, si formano, si perfezionano, quivi se ne creano i vocaboli, e questi con quelle discipline e con quegli oggetti, passano agli stranieri.
Così appunto è avvenuto alla Grecia, e però appunto la sua lingua si fe' così ricca, e potè mantenersi così pura, a differenza della latina.
Perchè la greca abbisognava di poco dagli stranieri, da' quali poche notizie e nessuna disciplina (si può dire) ricevea (eccetto negli antichissimi tempi, cioè intanto che la lingua diveniva tale): la latina viceversa.
All'Italia da principio veniva ad accader quasi lo stesso, essendo ella inventrice di tutte quasi le discipline che si conobbero in quei tempi, [796]abbondandone nel suo seno i coltivatori, e questi diligenti, studiosi e padroni della lingua; ed avendo anche molta vita e varietà e riputazione al di fuori, e spirito patriotico, sebben disunito, pure e forse anche più valevole, a fornirla di molti oggetti di lingua.
Ma essendosi fermata nel momento che le discipline e sono cresciute di numero, e tutte portate a un perfezionamento rapidissimo, e vastissimo; non essendo intervenuta per nessuna parte ai travagli immensi di questi ultimi secoli, tanto nel perfezionamento delle cognizioni, quanto nel resto; di più avendo nello stesso tempo per diverse cagioni, trascurata affatto la sua lingua, in maniera che anche quegli italiani scrittori che hanno cooperato alquanto (e ben poco, e pochi) col resto dell'Europa, al progresso ultimo delle cognizioni, non hanno niente accresciuta la lingua del suo, avendo scritto non italiano, ma barbaro, ed avendo adottate di pianta le rispettive nomenclature o linguaggi che aveano trovate presso gli stranieri nello stesso genere, o in generi simili al loro (se per avventura essi ne fossero stati gl'inventori): è doloroso, ma necessario il dire, che s'ella d'ora innanzi non vuol esser la sola parte d'Europa meramente ascoltatrice, o ignorare affatto le nuove universalissime cognizioni, s'ella vuol parlare a' contemporanei, e di cose adattate al tempo, come tutti i buoni scrittori han fatto, e come bisogna pur fare in ogni modo; le conviene ricevere [797]nella cittadinanza della lingua (bisogna pur dirlo) non poche, anzi buona quantità di parole affatto straniere.
Si consoli però che tutte le nazioni, quando più quando meno hanno avuto il medesimo bisogno, quale in un tempo, quale in un altro; l'ha avuto anche la sua antica lingua, cioè la latina; l'abbiamo avuto noi stessi nei principii della nostra lingua (e se ora ci bisogna ritornare a quella necessità che si prova nei principii, nostra colpa): e non creda di diventar barbara, se saprà far quello ch'io dico con retto e maturo e accurato e posato giudizio.
Anzi si dia fretta a introdurre e scegliere queste medesime voci straniere se non vuole che la lingua imbarbarisca del tutto, e senza rimedio.
Perchè l'unica via di arrestare i progressi della corruttela è questa.
Proclamare lo studio profondo e vasto della lingua, e nel tempo stesso la libertà che ciascun scrittore impadronitosi bene della lingua e conosciutone a fondo l'indole e le risorse, usi il suo giudizio nell'introdurre, e impiegare e spendere la novità necessaria, anche straniera.
Finchè uno scrittore qualunque (che non sia da bisavoli) [798]sarà privo di questa libertà, sarà stimato impuro se vorrà usare la necessaria novità si vedrà costretto a scegliere fra quella che si chiama e se le presenta e prescrive come purità di lingua, e tra la facoltà di trattare il suo soggetto e di esprimere i suoi pensieri (originali e propri, o no, ma solamente moderni): disperando di una purità nella quale sia non solamente difficile, (come sempre sarà ed in ogni caso) ma del tutto impossibile di esprimere i suoi pensieri, la trascurerà affatto, e diverrà (malgrado ancora la buona intenzione) colpevole per la forza del bisogno, ricorrendo a quella barbarie la quale sola gli fornirà il modo di farsi intendere e di scrivere.
Ovvero al più seguirà quella miserabile separazione fra gli scrittori vuotissimi e nulli ma puri, e fra gli scrittori di cose ma barbari; quando nessun de' due può mai sperare l'immortalità, ma molto meno i primi, senza riunire le due qualità e i due pregi che consistono nelle parole e nelle cose.
Disordini però tutti già tanto inoltrati in Italia, e bisognosi di sì lunga opera, e di tanto ingegno e [799]giudizio, e di tanta difficoltà a ripararli, che io con dolore predico che non se ne verrà certo a capo in questa generazione, e chi sa quando.
(Giacchè per rimetter davvero in piedi la lingua italiana, bisognerebbe prima in somma rimettere in piedi l'Italia, e gl'italiani, e rifare le teste e gl'ingegni loro, come lo stesso bisognerebbe per la letteratura, e per tutti gli altri pregi e parti di una buona e brava e valorosa nazione; che con questi ingegni, con queste razze di giudizi e di critica, faremo altro che ristaurare la lingua.) Perchè se si presume di averlo conseguito collo sbandire e interdire e precludere affatto la novità delle cose e del pensiero, lasciando stare che in fatti non si è conseguito un fico, perchè eccetto pochissimi i più puri e vuoti scrivono barbarissimamente, dico, non ostante l'amore ch'io porto a questa purità, e lo stimarla necessarissima, che il rimedio è peggio del male.
Vero è che da gran tempo gli scrittori italiani puri ed impuri si sono egualmente dispensati dal pensare, e anche dal [800]dire, talmente che se alcuno de' nostri scritti ci fosse pericolo che potesse passare di là da' monti o dal mare, gli stranieri si maraviglierebbero sodamente come, in questo secolo, in una nazione posta nel mezzo d'Europa si possa scrivere in modo, che l'aver letto, si può dire, qualunque de' libri italiani che ora vengono in luce, sia lo stesso nè più nè meno che non aver letto nulla.
Del resto il punto sta che la novità ch'io dico (e parlo in particolare della straniera) si sappia convenevolmente introdurre.
Perchè tutte le lingue antiche e moderne sono composte di elementi stranieri, e pur tutte hanno avuto il tempo della loro purità e naturalezza; e potrà riaverlo anche l'italiana, non ostante l'aggiunta de' molti nuovi e necessari elementi stranieri, purchè si sappia fare, e non si trascuri, anzi si coltivi profondamente, e sempre più il proprio terreno.
(16.
Marzo 1820.)
Alla p.785.
Oltre di queste due sorte di novità ce ne sono altre simili delle quali intendo pur di parlare.
Cioè una voce italianissima e di buona lega può esser nuova per questo [801]solo, che non si trova nel vocabolario trovandosi ne' testi; o non trovarsi nè in questi nè in quello, ma bensì ne' buoni libri di lingua non citati (che sono infiniti, massime de' buoni tempi ed hanno in diritto la stessissima autorità che i citati) o finalmente trovarsi solo nelle scritture mediocri o pessime in lingua, ma pure aver tutte le condizioni richieste per esser legittima.
E di queste parole o frasi ce ne ha moltissime.
Massimamente poi se si trovino nelle scritture non buone de' buoni tempi, dove a ogni modo la natura e l'indole vera e prima della lingua italiana la conosceva e la sentiva ciascun italiano molto meglio che oggidì, e l'Italia aveva la mente e le orecchie molto meno inclinate e meno avvezze alle parole ai modi al genio straniero delle lingue.
(16.
Marzo 1821.)
Alla p.745.
Difficilmente si vedrà che una qualunque nazione una qualunque letteratura abbia avuto in due diversi tempi (eccetto se il tempo e la nazione è del tutto rinnuovata, come l'italiana rispetto alla latina) due scrittori eccellenti e sommi in [802]uno stesso genere.
Da che quel genere ne ha avuto uno perfetto, e riguardato come perpetuo modello, sebbene quel genere possa avere diverse specie, gl'ingegni grandi e superiori, o sdegnando di non poter essere se non uguali a quello, e di dovere avere un compagno, o per la naturale modestia e diffidenza di chi conosce bene e sente la difficoltà delle imprese, temendo di restare inferiori in un assunto, di cui già è manifesta, sperimentata, conseguita, la perfezione, e posta negli occhi di tutti e nei propri loro; si sono sempre rivolti ad altro, e solamente i piccoli ingegni de' quali è propria la confidenza e temerità sono entrati nell'arringo, spronati dalle lodi di quell'eccellente, e dalla gola di quella celebrità, quasi fosse facile a conseguire, e misurando l'impresa non da se stessa e dalla sua difficoltà, ma dal loro desiderio di riuscirci, e dal premio che era proposto al buon successo.
Un'altra ragione, e fortissima è, che quando il genere ha già avuto uno sommo, il genere non è più nuovo; non vi si può più essere originale, senza che, è impossibile esser sommo.
O se vi si potrebbe pur essere originale, v'è quella eterna difficoltà, che anche gl'ingegni sommi, vedendo una strada già fatta, in un modo o in un altro s'imbattono in quella; o confondono il genere con quella tale strada, quasi fosse l'unica a convenirgli, benchè mille ve ne siano da poter fare, e forse migliori assai.
La stessa Grecia in tanta copia di scrittori e poeti d'ogni genere, [803]e di buoni secoli letterati dopo Omero, e, quel ch'è forse più, in tanta distanza da lui, non ebbe mai più nessun epico, se non dappoco, come Apollonio Rodio.
E lo stesso Omero (se è vero che l'Odissea è posteriore all'Iliade, come dice Longino) non aggiunse niente alla sua fama pubblicando l'Odissea.
Sebbene, chiunque si fosse quest'Omero, io congetturo e credo che l'Iliade e l'Odissea non sieno di uno stesso autore, ma questa imitata dallo stile, dalla lingua, dal fare, e dall'Argomento di quella, con quel languore, e sovente noia che ognuno può vedere.
La qual congettura io rimetto a quei critici che sono profondamente versati nelle antichità omeriche, e di quei tempi antichissimi, e conoscono intimamente i due poemi: purchè oltre a questo, siano anche persone di buon gusto e giudizio.
Taccio de' latini e degl'infelici loro tentativi di Epopea dopo Virgilio, così prestante ed eminente in essa fra loro, come Cicerone nell'eloquenza.
Sebbene il Tasso non si può veramente nel [804]suo genere dire perfetto, neppur sommo come Omero (che sommo fu egli, ma non il suo poema, nè egli quivi), contuttociò l'Italia dopo lui non ebbe poema epico degno di memoria, sebbene molti o piccoli o mediocri ingegni, tentassero la stessa carriera.
Anzi quantunque vi sia tanta differenza fra il genere del poema dell'Ariosto e quello del Tasso, pure sembrò strano ch'egli si accingesse a quel travaglio dopo l'Ariosto, e pubblicata la Gerusalemme, i suoi nemici non mancarono di paragonarla all'Orlando, di posporla, di accusare il Tasso di temerità ec.
Dopo Molière la Francia non ha avuto grandi comici, nè l'Italia dopo Goldoni.
Tutto questo, sebbene apparisca forse principalmente nella letteratura, tuttavia si può applicare a molti altri rami del sapere, o di altri pregi umani.
Si possono però citare in contrario il Racine dopo il Corneille, e il Voltaire dopo lui, e qualche tragico inglese dopo Shakespeare, ma nessuno però di quella eccellenza e fama.
La quale per cadere nel mio discorso, dev'essere assolutamente prestante, sorpassante e somma sì nel modello, come nel successore o successori.
(17.
Marzo 1821.).
V.
p.810.
capoverso 1.
[805]Alla p.762.
Per poco che si osservi facilmente si scuopre che tutte le lingue colte, da principio hanno avuto e adoperato estesamente la facoltà dei composti, come poi tutte, cred'io, (eccetto la greca che la conservò fino alla fine) l'hanno quale in maggiore quale in minor parte perduta.
Tutte però hanno conservato o tutti, o maggiore o minor parte dei loro primi composti, divenuti bene spesso così familiari, che han preso come apparenza e opinione di radici, e forse così hanno servito di materia essi stessi a nuove composizioni.
La lingua Spagnuola ha composti, e derivati da' composti (come pure le altre lingue, chè anche questi derivati sono un bellissimo e fecondissimo genere di parole): ed alcuni bellissimi e utilissimi e felicissimi altrettanto che arditi, come tamaño, demàs, e da questo ademàs, demasìa, demasiado, demasiadamente, sinrazon, sinjusticia, sinsabor, pordiosear cioè limosinare, e pordioseria mendicità, ec.
che sono di grande uso e servigio.
Tutte le lingue colte hanno ancora avuto delle particelle destinate espressamente alla composizione e che non si trovano fuor de' composti.
Così la greca, così la latina, così la francese, la spagnuola (des ec.
ec.), l'inglese [806](mis ec.
ec.) ec.
Ed è tanta la necessità de' composti che senza questi nessuna lingua sarebbe mai pervenuta a quello che si chiama o ricchezza, o coltura, o anche semplice potenza di discorrere di molte cose, o di alcune cose particolarmente e specificatamente.
Perchè le radici converrebbe che fossero infinite per esprimere e tutte le cose occorrenti, e tutte le piccole gradazioni, e differenze e nuances e accidenti di una cosa, per ciascuna delle quali gradazioncelle si richiederebbe una diversa radice, altrimenti il discorso non sarà mai nè espressivo nè proprio, e neanche chiaro, anzi per lo più equivoco, improprio, dubbio, oscuro, generico, indeterminato.
Così appunto avviene alla lingua ebraica (la quale non par che si possa mettere fra le colte) perchè con bastanti radici e derivati, è priva di composti: o quasi priva: non avendo che fare i suoi suffissi ed affissi colla composizione, ma essendo come casi o inflessioni o accidenti o affezioni (????) de' nomi e de' verbi, o segnacasi ec.
e non variando punto il significato essenziale, nè la sostanza della parola; come presso noi batterlo, uccidermi, dargli, andarvi, uscirne ec.
che non si chiamano, nè sono composti nel nostro senso.
Dal che segue ch'ella ed è soggetta alle dette difficoltà, e disordini; e resta poverissima; ed io dico che tale ci parrebbe eziandio quando anche in quella lingua esistessero altri libri, oltre la Bibbia, se però questi libri mancassero parimente de' composti.
Ci vorrebbero, ho detto, infinite radici.
Ora [807]una più che tanta moltitudine di radici, è difficilissima per natura, giacchè un composto, subito s'intende, ma perchè una radice, sia subito e comunissimamente intesa (com'è necessario), e passi nell'uso universale, ci vuol ben altro.
Perciò la invenzione delle radici in qualunque società d'uomini parlanti, o primitiva o no, è sempre naturalmente scarsa, e povera quella lingua che non può esprimersi senza radici, perch'ella non si esprimerà mai se non indefinitamente, ed ogni parola (come accade nell'Ebraico) avrà una quantità di significati.
V.
se vuoi, Soave, append.
al Capo 1.
Lib.3.
del Compendio di Locke, Venezia 37a ediz.
1794.
t.2.
p.12.
fine-13.
e Scelta di opusc.
interess.
Milano 1775.
volume 4.
p.54.
e questi pensieri p.1070.
capoverso ult.
E se, volete vedere facilmente, perchè una lingua appena è cominciata a divenire un poco colta, e ad aver bisogno di esprimere molte cose, e queste specificatamente e chiaramente e distintamente e le loro differenze ec.
perchè, dico, abbia subito avuto ricorso e trovati i composti, osservate.
Che sarebbe l'aritmetica se ogni numero si dovesse significare con cifra diversa, e non colla diversa composizione di pochi elementi? Che sarebbe la scrittura se ogni parola dovesse esprimersi colla sua cifra o figura particolare, come dicono della scrittura Cinese? La stessa [808]facilità e semplicità di metodo, e nel tempo stesso fecondità anzi infinità di risultati e combinazioni, che deriva dall'uso degli elementi nella scrittura e nell'aritmetica, anzi in tutte le operazioni della vita umana, anzi pure della natura (giacchè, secondo i chimici tutto il mondo e tutti i diversissimi corpi si compongono di un certo tal numero di elementi diversamente combinati, e noi medesimi siamo così composti e fatti anche nell'ordine morale come ho dimostrato in molti pensieri sulla semplicità del sistema dell'uomo); deriva anche dall'uso degli elementi nella lingua.
Al che si ponga mente per giudicarne quanto sia necessario anche oggidì ritenere più che si possa, e nella nostra e in qualunque lingua, la facoltà de' nuovi composti, atteso l'immenso numero delle nuove cose bisognose di denominazione (massime nella lingua nostra); numero che ogni giorno necessariamente e naturalmente si accresce: e d'altra parte l'impossibilità della troppa moltiplicità delle radici, sì al fatto, o all'invenzione, sì all'uso, intelligenza, e diffusione, sì anche alle facoltà della memoria e dell'intelletto umano, ed alla chiarezza delle idee che debbono risultare dalla parola, chiarezza quasi incompatibile colle nuove radici (v.
p.951.), e compatibilissima coi nuovi composti; oltre alla mancanza di gusto che deriva dalle nuove radici, le quali sono sempre termini, come ho spiegato altrove: non così i composti derivati dalla propria lingua.
Lo dico senza dubitare.
La lingua più ricca sarà sempre quella che avrà conservata [809]più lungamente, e più largamente adoperata la facoltà dei composti, e oggidì quella che la conserverà maggiore, e maggiormente l'adoprerà.
L'esempio della lingua greca, ricchissima fra quante furono sono e saranno, anzi sempre e anche oggi inesauribile, conferma abbondantemente col fatto questa mia sentenza, già sì evidente in ragione.
E d'altra parte la mia teoria serve a spiegare il secreto e il fenomeno di una tal lingua sempre uguale alla copia qualunque delle cose.
Se dunque vogliamo che una lingua sia veramente onnipotente quanto alle parole, conserviamole o rendiamole, e se è possibile, accresciamole la facoltà de' nuovi composti e derivati, cioè l'uso degli elementi ch'essa ha, e il modo, la facoltà di combinarli quanto più diversamente, e moltiplicemente si possa.
Questo, e non la moltiplicità degli elementi forma la vera e sostanziale ricchezza copia e onnipotenza delle lingue (quanto alle parole) come la forma di tutte le altre cose umane e naturali.
Generalizziamo un [810]poco le nostre idee, e facilmente ci persuaderemo di questo ch'io dico, e come, per natura universale delle cose umane, la detta facoltà sia non solo la principale e fondamentale, ma necessaria e indispensabile sorgente della ricchezza copia e potenza di qualunque lingua, e della proprietà, definitezza, e chiarezza dell'espressione: dico quanto alle parole.
(18.
Marzo 1821.)
Alla p.804.
Bisogna osservare che quanto agli autori drammatici la cosa va diversamente, sì perchè infinite e diversissime sono le circostanze che decidono de' successi del teatro, massime in certe nazioni, e secondo la differenza di queste; sì massimamente perchè il teatro di qualunque nazione benchè abbia già il suo sommo drammatico, vuol sempre novità, anzi non domanda tanto la perfezione quanto la novità degli scritti; questa richiede sopra ogni altra cosa, a questa fa bene spesso più plauso che ai capi d'opera dei sommi autori già conosciuti.
Così che ad un drammatico resta sempre [811]il suo posto da guadagnarsi, la sua parte di lode da proccurarsi, il suo eccitamento all'impresa, e il suo premio proposto al buon successo, e tutte queste cose son tali, che anche un autore di grande ingegno ne può essere soddisfatto e stimolato: oltre ai piccoli incidenti di società che eccitano a composizioni teatrali, oltre coloro che per mestiere ed interesse ricercano e stimolano scrittori di tal genere, oltre gl'interessi o i bisogni degli autori, gl'impegni, il desiderio di certe lodi di certi successi diremo così cittadineschi, o di partito, o di conversazione, e di amici ec.
oltre massimamente la varietà successiva de' costumi e delle usanze non meno teatrali e appartenenti alle rappresentazione quanto di quelle che occorrono nella vita e nelle cose da rappresentarsi.
Così che allo scrittore drammatico, resta sempre un campo sufficiente.
E la gran fama di Sofocle non impedì che gli succedesse un Euripide.
La differenza tra questo e gli altri generi di componimento, consiste che gli effetti, l'uso, la destinazione di questo è come viva, [812]e sempre viva, e cammina, laddove degli altri è come morta ed immobile.
Non sarebbe così se esistessero come anticamente quelle radunanze del popolo, dove Erodoto leggeva la sua storia, e se le poesie fossero scritte come i poemi d'Omero per esser cantati alla nazione, e se i tempi de' Tirtei e de' Bardi non fossero svaniti.
Perchè tali componimenti non essendo più di uso, ci contentiamo di quello che in quel tal genere è già perfetto, e appena desideriamo altro nuovo modello di perfezione.
Altrimenti accade di quello che è sempre di uso vivo, e se tale avesse continuato ad essere l'eloquenza latina dopo Cicerone ella avrebbe forse avuto nuovi sommi oratori.
(18.
Marzo 1821)
In quelle parole che incominciano per s impura, la lingua par che abbia bisogno di un appoggio avanti la s, ossia avanti la parola.
La lingua francese e la spagnuola amano questo appoggio nelle così fatte parole che hanno ricevute da' latini o da chicchessia, ovvero formate da loro.
E la spagnuola principalmente che non ha se non pochissime parole cominciate da s impura.
[813](Il Franciosini ne riporta solo 16, e tutte cominciate da sc con dietro varie vocali).
Ora dovendo dare alla lingua questo appoggio di una vocale non si è scelta altra che la e.
Così da sperare gli spagnuoli hanno fatto esperar, i francesi espérer, da species gli spagnuoli especie, i francesi espèce, da spiritus gli spagnuoli espiritu i francesi esprit, da studium gli spagnuoli estudio i francesi estude che poi tolta via la s hanno fatto étude, da scribere gli spagnuoli escrivir, gli antichi francesi escrire, da stomachus estomago estomac ec.
ec.
Tanto è vero che dove la lingua ha bisogno di un appoggio o gradisce un appoggio per pronunziare una consonante, e riposarla nella vocale, senza che questa sia determinata, la lingua sceglie naturalmente e cade e si riposa nella e.
E così anche, come si vede per la detta osservazione, quando questa vocale le ha da servire come di gradino alla pronunzia di consonanti.
L'Italia quanto alla s impura non è stata più delicata dei latini e de' latini.
[814]Vero è però che quando la s impura, sarebbe preceduta da consonante, l'Italia per usanza non naturale, ma gramaticale, artifiziale, acquisita, e particolare sua, v'interpone la i non la e (in ispirito ec.).
Credo però che il contrario facessero scrivendo i primi italiani.
Del resto riferite alla suddetta osservazione il nostro dire ef el ec.
e non if il.
(18.
Marzo 1821.)
La nostra condizione oggidì è peggiore di quella de' bruti anche per questa parte.
Nessun bruto desidera certamente la fine della sua vita, nessuno per infelice che possa essere, o pensa a torsi dalla infelicità colla morte, o avrebbe il coraggio di proccurarsela.
La natura che in loro conserva tutta la sua primitiva forza, li tiene ben lontani da tutto ciò.
Ma se qualcuno di essi potesse desiderar mai di morire, nessuna cosa gl'impedirebbe questo desiderio.
Noi siamo del tutto alienati dalla natura, e quindi infelicissimi.
Noi desideriamo bene spesso la morte, e ardentemente, e come unico evidente e calcolato rimedio delle nostre infelicità, in maniera che noi la desideriamo spesso, e con piena ragione, e siamo costretti a desiderarla [815]e considerarla come il sommo nostro bene.
Ora stando così la cosa ed essendo noi ridotti a questo punto, e non per errore, ma per forza di verità, qual maggior miseria che il trovarsi impediti di morire, e di conseguire quel bene che siccome è sommo, così d'altra parte sarebbe intieramente in nostra mano; impediti, dico, o dalla Religione, o dall'inespugnabile, invincibile, inesorabile, inevitabile incertezza della nostra origine, destino, ultimo fine, e di quello che ci possa attendere dopo la morte? Io so bene che la natura ripugna con tutte le sue forze al suicidio, so che questo rompe tutte le di lei leggi più gravemente che qualunque altra colpa umana; ma da che la natura è del tutto alterata, da che la nostra vita ha cessato di esser naturale, da che la felicità che la natura ci avea destinata è fuggita per sempre, e noi siam fatti incurabilmente infelici, da che quel desiderio della morte, che non dovevamo mai, secondo natura, neppur concepire, in dispetto della natura, e per forza di ragione, s'è anzi impossessato di noi; [816]perchè questa stessa ragione c'impedisce di soddisfarlo, e di riparare nell'unico modo possibile ai danni ch'ella stessa e sola ci ha fatti? Se il nostro stato è cambiato, se le leggi stabilite dalla natura non hanno più forza su di noi, perchè non seguendole in nessuna di quelle cose dov'elle ci avrebbero giovato e felicitato, dobbiamo seguirle in quella dove oggidì ci nocciono, e sommamente? Perchè dopo che la ragione ha combattuta e sconfitta la natura per farci infelici, stringe poi seco alleanza, per porre il colmo all'infelicità nostra, coll'impedirci di condurla a quel fine che sarebbe in nostra mano? Perchè la ragione va d'accordo colla natura in questo solo, che forma l'estremo delle nostre disgrazie? La ripugnanza naturale alla morte è distrutta negli estremamente infelici, quasi del tutto.
Perchè dunque debbono astenersi dal morire per ubbidienza alla natura? Il fatto è questo.
Se la Religione non è vera, s'ella non è se non un'idea concepita dalla [817]nostra misera ragione, quest'idea è la più barbara cosa che possa esser nata nella mente dell'uomo: è il parto mostruoso della ragione il più spietato; è il massimo dei danni di questa nostra capitale nemica, dico la ragione, la quale avendo scancellato dalla mente dall'immaginativa e dal cuor nostro tutte le illusioni che ci avrebbero fatti e ci faceano beati; questa sola ne conserva, questa sola non potrà mai cancellare se non con un intiero dubbio (che è tutt'uno, e ragionevolmente deve produrre in tutta la vita umana gli stessi effetti nè più nè meno che la certezza), questa sola che mette il colmo alla disperata disperazione dell'infelice.
La nostra sventura il nostro fato ci fa miseri, ma non ci toglie, anzi ci lascia nelle mani il finir la miseria nostra quando ci piaccia.
L'idea della religione ce lo vieta, e ce lo vieta inesorabilmente, e irrimediabilmente, perchè nata una volta quest'idea nella mente nostra, come [818]accertarsi che sia falsa? e anche nel menomo dubbio come arrischiare l'infinito contro il finito? Non è mai paragonabile la sproporzione che è tra il dubbio e il certo con quella che è tra l'infinito e il finito, ancorchè questo certo, e quello quanto si voglia dubbio.
Così che siccome l'infelicità per quanto sia grave, nondimeno si misura principalmente dalla durata, essendo sempre piccola cosa quella che può durare, volendo, un momento solo, e di più servendo infinitamente ad alleggerire qualunque male il saper di certo ch'è in nostra mano il sottrarcene ogni volta che ci piaccia; così possiamo dire che oggi in ultima analisi la cagione della infelicità dell'uomo misero, ma non istupido nè codardo, è l'idea della Religione, e che questa, se non è vera, è finalmente il più gran male dell'uomo, e il sommo danno che gli abbiano fatto le sue disgraziate ricerche e ragionamenti e meditazione; o i suoi pregiudizi.
(19.
Marzo 1821.)
[819]Che cosa è barbarie in una lingua? Forse quello che si oppone all'uso corrente di essa? Dunque una lingua non imbarbarisce mai, perchè ogni volta ch'ella imbarbarisse, quella barbarie non potendo essere in altro che nell'uso corrente (altrimenti sarà barbarie parziale di questo o di quello, e non della lingua), non sarebbe barbarie essendo conforme all'uso.
Barbaro nella lingua non è dunque altro se non quello che si oppone all'indole sua primitiva: e chiunque ponga mente, converrà in questo: giacchè in fatti una parola, uno scrittore barbaro ordinarissimamente sono conformi all'uso di quel tempo, lo seguono, ne derivano, e così accade oggidì nella lingua italiana.
Di più, nessun secolo sarebbe mai, o sarebbe [820]mai stato barbaro per nessuna lingua.
Al più si potrebbe dire se quella lingua di quel tal secolo fosse più o meno bella, ricca, buona, ec.
confrontando fra loro i secoli di una stessa lingua, come si confrontano le diverse lingue fra loro, delle quali se questa o quella si giudica men pregevole, non perciò si giudica barbara.
Anzi si chiamerebbe barbara se contro l'indole sua, volesse adottare e accomodarsi all'andamento di una lingua migliore più bella ec.
come se la lingua inglese volesse adottare le forme della greca ec.
Insomma barbarie in qualunque lingua non è nè la mancanza di qualsivoglia pregio, nè quello che contraddice all'uso corrente, ma quello solo che contraddice all'indole sua primitiva, per conservar la quale ella deve conservarsi anche meno pregevole, se tale è la sua natura, perchè i pregi essendo relativi, sarebbe vizio e bruttezza in lei, quello ch'è virtù e bellezza in un'altra, se si oppone alla sua natura in cui consiste la perfezion vera [821](benchè relativa) non solo di una llngua, ma di ciascuna cosa che sia.
Da queste osservazioni particolari; facili, chiare, e di cui tutti convengono, salite dunque ad una più generale, ma tanto vera quanto le precedenti, e che non si può negare se queste si riconoscono, e concedono.
Che cosa è barbarie nell'uomo? Quello che si oppone all'uso corrente? Dunque nessun popolo, nessun secolo barbaro.
Barbarie è quel solo che si oppone alla natura primitiva dell'uomo.
Ora domando io se i nostri costumi, istituti, opinioni ec.
presenti sarebbero stati compatibili colla nostra prima natura.
Come potevano esserlo, quando anzi la natura ci ha posti evidentemente i possibili ostacoli? Che non siano compatibili colla nostra primitiva natura, è così manifesto, anche per la osservazione sì di ciascuno di noi, sì de' fanciulli, selvaggi, ignoranti ec.
ec.
che non ha bisogno di dimostrazione.
Dunque se non sono compatibili, è quanto dire che le ripugnano e contrastano.
Dunque? dunque son barbari.
[822]Che sieno conformi all'uso e all'abitudine, non val più di quello che vaglia la stessa circostanza a scusare un secolo depravato nella lingua.
Che si stimino buoni assolutamente, e più buoni de' naturali e primitivi, primieramente non val più di quello che vaglia nella lingua, come ho detto; poi, siccome nella lingua, questa opinione è erronea, e deriva dall'inganno parte dell'abitudine, parte della immaginaria perfezione assoluta, là dove è sostanzialmente imperfezione e vizio tutto ciò che si oppone all'indole e natura particolare e primitiva di una specie, quando anche questo medesimo sia virtù e perfezione in altra specie.
(20.
Marzo 1821.)
Non solamente ciascuna specie di bruti stima o esplicitamente e distintamente, o certo implicitamente e confusamente, di esser la prima e più perfetta nella natura, e nell'ordine delle cose, e che tutto sia fatto per lei, ma anche nello stesso modo ciascun individuo.
E così accade tra gli uomini, che implicitamente [823]e naturalmente ciascuno si persuade la stessa cosa.
Parimente non v'è popolo sì barbaro che non si creda implicitamente migliore, più perfetto, superiore a qualunque altro, e non si stimi il modello delle nazioni.
Parimente non v'è stato secolo sì guasto e depravato, che non si sia creduto nel colmo della civiltà, della perfezione sociale, l'esemplare degli altri secoli, e massimamente superiore per ogni verso a tutti i secoli passati, e nell'ultimo punto dello spazio percorso fino allora dallo spirito umano.
Con questa differenza però, che sebbene tutto è relativo in natura, è relativo peraltro alle specie, così che le idee che una specie ha della perfezione ec.
appresso a poco sono comuni agl'individui tutti di essa (massime se sono le idee naturali alla specie).
Quindi è naturale e conseguente che un individuo, sebben portato naturalmente a credersi superiore al resto della sua specie, e tutto il mondo destinato all'uso [824]e vantaggio suo, contuttociò con poco di raziocinio facilmente possa riconoscere la superiorità di altri individui della stessa specie, e credere il mondo avere per fine la sua specie intera, e questa essere tutta la più perfetta delle cose esistenti, e l'apice della natura.
Quindi parimente un popolo, un secolo (ho parlato e parlo degli uomini, e si può applicare proporzionatamente agli altri viventi) o qualche individuo in essi, possono ben riconoscere la superiorità di altri popoli e secoli, perchè le idee relative del bello e del buono sono però, almeno in gran parte, generali in ciascuna specie, quando non derivino da pregiudizi, da circostanze particolari, o da alterazione qualunque di questa o di quella parte della specie, com'è avvenuto fra gli uomini, essendo alterata la loro natura, e diversamente alterata, e quindi anche alterate le idee naturali, e diversificate le opinioni ec.
Questo, dico, accade facilmente all'individuo umano, rispettivamente alla sua propria specie.
Ma rispetto ad un'altra specie non [825]così.
1.
Perchè le idee che son vere relativamente alla specie nostra, noi (e così ciascuna specie di viventi) le crediamo (e ciò per natura) vere assolutamente: quello ch'è buono e perfetto per noi, lo crediamo buono e perfetto assolutamente; e quindi misurando le altre specie sulla nostra misura, le stimiamo tutte inferiori d'assai; nè possiamo mai credere che in una specie diversa dalla nostra ci sia tanta bontà e perfezione quanta in essa nostra, perchè la perfezione essendo relativa e particolare, noi la crediamo assoluta, e norma universale.
2.
Perchè non ci possiamo mai porre nei piedi e nella mente di un'altra specie (come nessun bruto), per concepire le idee ch'essa ha del buono, del bello, del perfetto, e misurare quella specie secondo queste idee, le quali sono diversissime dalle nostre, e non entrano nella capacità della nostra natura, e nel genere della nostra facoltà nè intellettiva, nè immaginativa, nè ragionatrice, nè concettiva [826]ec.
ec.
(20.
Marzo 1821.)
An censes (ut de me ipso aliquid more senum glorier) me tantos labores diurnos nocturnosque domi militiaeque suscepturum fuisse, si iisdem finibus gloriam meam, quibus vitam, essem terminaturus? nonne melius multo fuisset, otiosam aetatem, et quietam, sine ullo labore et contentione traducere? SED, NESCIO QUOMODO, ANIMUS ERIGENS SE, POSTERITATEM SEMPER ITA PROSPICIEBAT, QUASI, CUM EXCESSISSET E VITA, TUM DENIQUE VICTURUS ESSET; quod quidem ni ita se haberet, ut animi immortales essent, haud optimi cuiusque animus maxime ad immortalitatem gloriae niteretar.
Catone maggiore appresso Cic.
Cato maior seu de Senect.
c.
ult.
23.
Tanto è vero che il piacere è sempre futuro, e non mai presente, come ho detto in altri pensieri.
Con la quale osservazione io spiego questo che Cicerone dice, e quello che vediamo negli uomini di certa fruttuosa ambizione; dico quella speranza riposta [827]nella posterità, quel riguardare, quel proporsi per fine delle azioni dei desideri delle speranze nostre la lode ec.
di coloro che verranno dopo di noi.
L'uomo da principio desidera il piacer della gloria nella sua vita, cioè presso a' contemporanei.
Ottenutala, anche interissima e somma, sperimentato che questo che si credeva piacere, non solo è inferiore alla speranza (quando anche la gloria in effetto fosse stata maggiore della speranza), ma non piacere, e trovatosi non solo non soddisfatto, ma come non avendo ottenuto nulla, e come se il suo fine restasse ancora da conseguire (cioè il piacere, infatti non ottenuto, perchè non è mai se non futuro, non mai presente); allora l'animo suo erigens se quasi fuori di questa vita, posteritatem respicit, come che dopo morte tum denique victurus sit, cioè debba conseguire il fine, il complemento essenziale della vita, che è la felicità, vale a dire il piacere, non conseguito ancora, e già troppo evidentemente non conseguibile da lui in questa vita; allora la speranza del piacere, non avendo [828]più luogo dove posarsi, nè oggetto al quale indirizzarsi dentro a' confini di questa vita, passa finalmente al di là, e si ferma ne' posteri, sperando l'uomo da loro e dopo morte quel piacere, che vede sempre fuggire, sempre ritrarsi, sempre impossibile e disperato di conseguire, di afferrare in questa vita.
E si riduce l'uomo a questo estremo, perchè come il fine della vita è la felicità, e questa qui non si può conseguire, ma d'altra parte una cosa non può mancare di tendere al suo fine necessario, e mancherebbe se mancasse del tutto la speranza, così questa non trovando più dimora in questa vita arriva finalmente a collocarsi al di là di lei, colla illusione della posterità.
Illusione appunto più comune negli uomini grandi, perchè laddove gli altri, conoscendo meno le cose, o ragionando meno, ed essendo meno conseguenti, dopo infiniti parziali disinganni e delusioni, continuano pure a sperare dentro i limiti della lor vita; essi al contrario ben persuasi, e ben presto, cioè con poche esperienze, disperati dell'attuale e vero piacere in questa vita, e d'altronde [829]bisognosi di scopo, e quindi della speranza di conseguirlo, e spronati pure dall'animo alle grandi azioni, ripongono il loro scopo, e speranza, al di là dell'esistenza, e si sostentano con questa ultima illusione.
Quantunque non solo dopo morte o non saremo capaci di felicità nessuna, o di tutt'altra da quella che possa derivare dai posteri; ma quando anche fossimo allora tanto capaci di godere della fama nostra appo i futuri, quanto siamo ora di quella appo i contemporanei, quella fama (durando le stesse condizioni dell'animo nostro e del piacere) ci riuscirebbe, siccome questa presente, del tutto insipida, e vuota, e incapace di soddisfare, e proccurare un piacere altro che futuro, dico un piacere attuale e presente.
(20.
Marzo 1821.).
Applicate questi pensieri alla speranza di felicità futura in un altro mondo.
La ingiuria eccita in tutti gli animi il desiderio di vederla punita, ma negli alti il desiderio di punirla.
(20.
Marzo 1821.)
Desiderar la vita, in qualunque caso, e in tutta l'estensione di questo desiderio, [830]non è insomma altro che desiderare l'infelicità; desiderar di vivere è quanto desiderare di essere infelice.
(20.
Marzo 1821.)
Non solamente è ridicolo che si pretenda la perfettibilità dell'uomo, in quanto alla mente, o a quello che vi ha riguardo, come ho detto in altro pensiero, ma anche in quanto ai comodi corporali6.
Paiono oggi così necessari quelli che sono in uso, che si crede quasi impossibile la vita umana, senza di questi, o certo molto più misera, e si stimano i ritrovamenti di tali comodità, tanti passi verso la perfezione e la felicità della nostra specie, massime di certe comodità che sebbene lontanissime dalla natura, contuttociò si stimano essenziali e indispensabili all'uomo.
Ora io non domanderò a costoro come abbian fatto gli uomini a viver tanto tempo privi di cose indispensabili; come facciano oggi tanti popoli di selvaggi; parecchi ancora de' nostrali e sotto a' nostri occhi, tuttogiorno.
(anzi ancora quegli stessi più che mai assuefatti a tali cose pretese indispensabili, quando per mille diversità di accidenti, si trovano in circostanza di mancarne, alle volte anche volontariamente.) I quali tutti, in luogo di accorgersi della loro infelicità, hanno anzi creduto [831]e credono e si accorgono molto meno di essere infelici, di quello che noi facciamo a riguardo nostro: e molto meno lo erano e lo sono, sì per questa credenza, come anche indipendentemente.
Non chiamerò in mio favore la setta cinica, e l'esempio e l'istituto loro, diretto a mostrare col fatto, di quanto poco, e di quante poche invenzioni e sottigliezze abbisogni la vita naturale dell'uomo.
Non ripeterò che, siccome l'abitudine è una seconda natura, così noi crediamo primitivo quel bisogno che deriva dalla nostra corruzione.
E che molti anzi infiniti bisogni nostri sono oggi reali, non solamente per l'assuefazione, la quale, com'è noto, dà o toglie la capacità di questo o di quello, e di astenersi da questo o da quello; ma anche senza essa per lo indebolimento ed alterazione formale delle generazioni umane, divenute oggidì bisognose di certi aiuti, soggette a certi inconvenienti, e quindi necessitose di certi rimedi, che non avevano alcun luogo nella umanità primitiva.
Così la medicina, così l'uso di certi cibi, di vesti diversificate secondo le stagioni, di [832]preservativi contra il caldo, il freddo ec.
di chirurgia ec.
ec.
Lascerò tutte queste cose e perchè sono state dette da altri, e perchè potrebbero deridermi come partigiano dell'uomo a quattro gambe.
Solamente ripeterò quel ragionamento che ho usato nella materia della perfettibilità mentale.
Dunque se tutto questo era necessario o conveniente alla perfezione e felicità dell'uomo, come mai la natura tanto accurata e finita maestra in tutto, glielo ha non solo lasciato ignorare, ma nascosto, quanto era in lei? Diranno che la natura avendo dato a un vivente le facoltà necessarie, ha lasciato a lui che con queste facoltà ritrovasse e si procacciasse il bisognevole, e che all'uomo ha lasciato più che al bruto, perchè a lui diede maggiori facoltà, e così proporzionatamente ha fatto secondo le maggiori o minori facoltà negli altri bruti.
Altro è questo, altro è mettere una specie di viventi in una infinita distanza da quello che si suppone necessario al suo ben essere, e alla perfezione della sua esistenza.
Altro è permettere anzi volere e disporre che infinito [833]numero, che moltissime generazioni di questi viventi restassero prive o affatto o in massima parte di cose necessarie alla loro perfezione.
Altro è mettere nel mondo il detto vivente tutto nudo, tutto povero, tutto infelice e misero, col solo compenso di certe facoltà, per le quali, solamente dopo un gran numero di secoli, sarebbe arrivato a conseguire qualche parte del bisognevole a minorare l'infelicità di una vita il cui scopo non è assolutamente altro che la felicità.
Altro è ordinare le cose in modo che gran parte di questa specie (come tanti selvaggi poco fa scoperti, o da scoprirsi) dovesse restare fino al tempo nostro, e chi sa fino a quando, appresso a poco nella stessa imperfezione e infelicità primitiva (il che si può applicare anche alla pretesa perfettibilità della mente e delle varie facoltà dell'uomo).
E tutto ciò in una specie privilegiata, e che si suppone la prima nell'ordine di tutti gli esseri.
Bel privilegio davvero, ch'è quello di veder tutti gli altri viventi conseguire immediatamente la loro relativa perfezione [834]e felicità, senza stenti, nè sbagli, ed essa intanto per conseguire la propria, stentare, tentare mille strade, sbagliare mille volte, e tornare indietro, e finalmente dovere aspettare lunghissimo ordine di secoli, per conseguire in parte il detto fine.
Osserviamo quanti studi, quante invenzioni, quante ricerche, quanti viaggi per terra e per mare a remotissime parti, e combattendo infiniti ostacoli, sì della fortuna, sì (ch'è più notabile) e massimamente della natura, per ridurci, quanto al corpo, nello stato presente, e proccurarci di quelle stesse cose che ora si stimano essenziali alla nostra vita.
Osserviamo quante di queste, ancorchè già ritrovate, abbiano bisogno ancora dei medesimi travagli infiniti per esserci procacciate.
Osserviamo quanto ancora ci manchi, quanto sia di scoperta recentissima o assolutamente o in comparazione dell'antichità della specie umana; quanto ogni giorno si ritrovi, e quanto si accrescano le cognizioni pretese utili alla vita, anche delle più essenziali (come in chirurgia, medicina ec.); quante cose si ritroveranno e verranno poi in uso, che a noi avranno mancato, e che i nostri [835]posteri giudicheranno tanto indispensabili, quanto noi giudichiamo quelle che abbiamo.
Domando se tutta questa serie di difficilissimi mezzi conducenti al fine primario della natura ch'è la felicità e perfezione delle cose esistenti e il loro ben essere, e massime de' viventi, e de' primi tra' viventi, entravano nel sistema, nel disegno, nel piano della natura, nell'ordine delle cose, nella primordiale disposizione e calcolo relativamente alla specie umana.
Domando se nel piano nell'ordine nel calcolo de' mezzi conducenti al fine essenziale e primario, ch'è la felicità e perfezione, mezzi per conseguenza necessari ancor essi, v'entrava anche il caso.
Ora è noto quante scoperte delle più sostanziali in questo genere, e dell'uso il più quotidiano, e di effetti e applicazioni rilevantissime, non le debba l'uomo se non al puro e semplice caso.
Dunque il puro e semplice caso entrava nel sistema primordiale della natura; dunque ella lo ha calcolato come mezzo necessario; dunque [836]ella ne ha fatto dipendere il fine essenziale e primario; dunque si è contentata che non accadendo il tale e tale altro caso, o non accadendo in quel tal modo ec.
ec.
o accadendo bensì quello ma non questo ec.
la specie umana, la maggiore delle sue opere, restasse imperfetta e infelice, e priva del fine della sua esistenza, e similmente tutte quelle parti dell'ordine delle cose che dipendono o hanno stretta connessione colla specie umana.
Bisogna osservare che la sfera del caso si stende molto più che non si crede.
Un'invenzione venuta dall'ingegno e meditazione di un uomo profondo, non si considera come accidentale.
Ma quante circostanze accidentalissime sono bisognate perchè quell'uomo arrivasse a quella capacità.
Circostanze relative alla coltura dell'ingegno suo; relative alla nascita, agli studi, ai mezzi estrinseci d'infiniti generi, che colla loro combinazione l'han fatto tale, e mancando lo avrebbero reso diversissimo (onde è stato detto che l'uomo è opera del caso); relative alle scoperte e cognizioni acquistate da altri prima [837]di lui, acquistate colle medesime accidentalità, ma senza le quali egli non sarebbe giunto a quel fine; relative all'applicazione determinata della sua mente a quel tale individuato oggetto ec.
ec.
ec.
Nello stessissimo modo discorrete di una scoperta fatta p.e.
mediante un viaggio, mediante un'Accademia, una intrapresa pubblica, o regia ec.
la quale scoperta si suol mettere del tutto fuori della sfera degli accidenti.
E vedrete che siccome da una parte la sfera del caso, in tutte le cose, massime umane, si stende assai più che non si crede, così d'altra parte, o tutte o il più di quelle invenzioni ec.
che ora sono d'uso creduto di prima necessità, ed essenziale alla vita umana, sono effettivamente dovute al caso.
Paragonate ora questa incredibile negligenza della natura, nell'abbandonare a un mezzo sì incerto lo scopo primario della primaria specie di viventi, cioè la felicità dell'uomo; con quella certezza e immancabilità di mezzi che la natura ha adoperata per tutti gli altri suoi fini, ancorchè di minore importanza: e giudicate se si possa mai supporre [838]per vera.
(21.
Marzo 1821.).
V.
p.870.
fine.
Quanto più l'indole, la struttura, l'andamento di una lingua, è conforme alle regole naturali, semplice, diritto ec.
tanto più quella lingua è adattata alla universalità.
E per lo contrario tanto meno, quanto più ella è figurata, composta, contorta, quanto più v'ha nella sua forma di arbitrario, di particolare e proprio suo, o de' suoi scrittori ec.
non della natura comune delle cose.
Le prime qualità spettano per eccellenza alla lingua francese, quantunque la lingua italiana le possieda molto più della latina, anzi senza confronto; tuttavia in esse (e felicemente) cede alla francese, come tutte le lingue moderne Europee, quantunque nessuna di queste ceda in esse qualità alla latina, anzi la vinca di gran lunga, e neppure alla greca.
Come queste qualità giovino alla universalità di una lingua, è manifesto già per se stesso, ma lo sarà anche più per le segg.
considerazioni.
Un effetto naturale di dette qualità, è che il linguaggio degli scrittori, o nulla [839][o] poco differisca dal familiare, e comune alla nazione.
Così accade alla Francia, il contrario in Italia, il contrarissimo nel latino.
Questo effetto cagiona che, quella stessa lingua che si parla trovandosi scritta, 1.
se ne dimezzi per così dire la difficoltà: 2.
le persone volgari, o la conversazione qualunque alta o bassa dei parlatori di quella lingua, sia tanto buona maestra e propagatrice di essa presso gli stranieri, fuori o dentro il paese, come lo possano essere gli scrittori: 3.
e per lo contrario gli scrittori lo siano tanto, quanto i negozianti, i viaggiatori, e chiunque parla quella lingua cogli stranieri, sì nel suo proprio paese come fuori: 4.
quindi e i parlatori e gli scrittori propaghino tutti unitamente una sola e stessa lingua ovvero linguaggio; o vogliamo dire due linguaggi così poco differenti, che inteso qualsivoglia de' due, senza nessuna fatica s'intenda e si parli anche l'altro.
Effetto notabilissimo: perchè l'influenza degli scrittori è somma nel propagare una lingua; ma d'altra parte per mezzo degli scrittori, non può mai divenire [840]universale, se da essi non s'impara a parlarla cioè usarla; ed allora potrà esser divulgata per solo studio e ornamento, com'era una volta l'italiana: l'influenza de' parlatori è somma, ma minore assai, se non cospira con quella degli scrittori, se per mezzo di essa non si viene a capo di mettersi in relazione col resto della nazione, colla totalità per così dire di essa, il che non si può fare se non per mezzo degli scrittori, e tanto più, quanto più questi sono divulgati intesi e letti dalla totalità della nazione, e non dalla sola classe letterata.
La unione di queste due influenze, partorisce dunque un effetto massimo.
Lo straniero di qualunque condizione, per qualunque circostanza, per qualunque inclinazione, per qualunque professione, per qualunque mezzo, per qualunque fine, abbia dovuto, abbia voluto, si sia abbattuto ad apprendere quella lingua, è padrone di tutta quanta ella è, di parlarla e intender chi la parla, di leggerla, di scriverla, di usarla comunque le aggrada, nella conversazione, nel commercio, e al tavolino; di mettersi in communicazione con tutta [841]quella nazione che la parla o scrive, e con tutti quegli stranieri che l'adoprano in qualunque modo e per qualunque motivo.
Il letterato che l'ha appresa per istruirsi, e per conoscere quella letteratura; il negoziante che l'ha appresa per usi di mercatura; quegli che l'ha appresa senza studio, e per sola pratica o de' nazionali, o de' forestieri ec.
ec.
tutti sono appresso a poco nello stesso grado, ed hanno gli stessi vantaggi.
Questi effetti risultano dalla parità di linguaggio fra gli scrittori e la nazione, e risultano in maggiore o minor grado, in proporzione che la causa è maggiore o minore.
In Francia è grandissima, e non solo la detta parità di linguaggio, ma anche la effettiva popolarità e nazionalità degli scrittori e della letteratura.
In Italia oggidì (che nel trecento era tutto l'opposto) la lingua scritta degli scrittori, sebbene differisca dalla parlata molto meno che fra' latini, tuttavia differisce, credo, più che in qualunque altro paese culto, certamente Europeo.
[842]E questo forse in parte cagiona la nessuna popolarità della nostra letteratura, e l'essere gli ottimi libri nelle mani di una sola classe, e destinati a lei sola, ancorchè pel soggetto non abbiano a far niente con lei.
Il che però deriva ancora dalla nessuna coltura, e letteratura, e dalla intera noncuranza degli studi anche piacevoli, che regna nelle altre classi d'Italia; noncuranza che deriva finalmente dal mancare in Italia ogni vita, ogni spirito di nazione, ogni attività, ed anche dalla nessuna libertà, e quindi nessuna originalità degli scrittori ec.
Queste cagioni influiscono parimente l'una sull'altra, e nominatamente sulla disparità della lingua scritta e parlata, e tutte con iscambievoli effetti contribuiscono sì a tener lontano dall'Italia ogni spirito di patria, ogni vita, ogni azione; sì ad impedire ogni originalità degli scrittori; sì finalmente a mantenere la intera divisione che sussiste fra la classe letterata e le altre, fra la letteratura e la nazione italiana.
Nel cinquecento, e anche durante il seicento, sebbene la lingua scritta italiana, si [843]fosse allontanata dalla parlata, molto più che nel trecento (non però quanto oggidì), tuttavia la letteratura continuava ancora in grandissima relazione colle classi, se non volgari, certo non di professione letterata, e quindi anche passava agli stranieri.
E ciò, parte perchè la nazione conservava ancora un sentimento, uno spirito patrio, un'azione, una vita, e gli scrittori bastante libertà ed originalità; parte perchè l'italiano che si parlava, era italiano ancora, più o meno, e non barbaro, come oggidì, che volendo scrivere come si parla, non si scriverebbe italiano, anzi appena si riuscirebbe a farsi intendere alla stessa nazione.
Ed allora lo studio della lingua era più diffuso, e la letteratura parimente, e più viva e in movimento, e maggiore il numero dei letterati di professione, e degli scrittori buoni, e di quelli che senza esser letterati, aveano tanta letteratura quanto basta per essere buon lettore, e per curarsi di leggere.
E gli argomenti che si trattavano erano più nazionali, più importanti, più nuovi, [844]più propri dello scrittore ec.
brevemente c'era un altro spirito letterario e negli scrittori e nella nazione.
Dall'applicazione di questi principii alle lingue moderne, passiamo alle lingue antiche.
Che la forma e struttura di una lingua fosse così ragionevole, così conforme alla stretta verità ed ordine delle cose, come lo può essere in qualche lingua moderna, non era possibile fra gli antichi, dove regnava molto più l'immaginazione, che la secca e infelice ragione.
Non bisogna dunque nelle ragioni della universalità di una lingua antica, ricercar troppa conformità, con quelle che richiedonsi allo stesso effetto in una lingua moderna.
Una lingua antica poteva essere adattata alla universalità fino a un certo segno, e conseguirla, ma non mai quanto una moderna.
La lingua greca sebbene più figurata non solo della francese, ma della italiana (dico della italiana che non pecchi di troppa, e a lei non naturale conformità col latino andamento, come peccò alle volte nel 500.
al contrario [845]del 300, e della sua vera indole) contuttociò era nella sua primitiva qualità, di una forma, se non ragionevole, naturalissima però, e semplicissima, e facilissima.
Sino a tanto ch'ella mantenne il suo vero genio, mantenne anche queste proprietà.
Le mantenne in Erodoto, in Senofonte, negli Oratori Attici, e generalmente più o meno in tutti gli scrittori degli ottimi suoi secoli sempre appresso a poco, in proporzione dell'antichità rispettiva.
Gli scrittori che successero a questi, benchè buoni ancor essi, benchè lontani dalla turgidezza, dall'arguzia, dalla decisa oscurità, dalla soverchia intralciatura, dalla immodestia dello stile e della lingua, allontanarono però moltissimo la lingua greca, da quella nativa, nuda, schietta, spontanea, facile bellezza e grazia de' suoi ottimi e primi scrittori, e sforzarono la sua primitiva natura ed indole, accostandola piuttosto alla struttura latina, che alla propria sua.
Questo si nota in Polibio, in Dionigi d'Alicarnasso, ma molto più ne' susseguenti, come in Luciano, molto più e soprattutto in Longino.
Scrittori elegantissimi, [846]di eleganza non affettata, non impura, non corrotta, non malsana, ma diversa da quella semplicissima eleganza dell'antica lingua greca, e se non contraria e ripugnante, certo rimota dall'indole e dal costume suo primitivo: nello stesso modo che si può dire di alcuni cinquecentisti modellatisi forse troppo sui latini, e non perciò corrotti, nè affettati, nè ripugnanti all'indole della lingua italiana, ma diversi dal di lei primitivo costume manifestato nei trecentisti; appresso i quali la lingua italiana, come somiglia moltissimo nell'andamento alla greca, così ebbe poi a patire quella stessa, benchè per se medesima non cattiva, diversificazione che patì, come ho detto, la lingua greca; e come questa, cessare appoco appoco da quella parità di linguaggio ch'era tra gli scrittori e la nazione, nell'una e nell'altra lingua, come della greca lo dirò poi.
Di facilissima ch'era l'antica scrittura greca, divenne appoco a poco, se non oscura, certo difficile, essendo declinata in quell'idioma lavorato ed ornato, che o nello stesso [847]tempo, o poco prima o dopo, divenne proprio de' latini, da' quali io non discrederei che fosse passato quel costume e quel gusto ai greci (ma bisognerebbe esaminare gli scrittori greci intermedii fra Demostene, e quelli che furono ai tempi Romani); sebben potesse molto naturalmente nascere dallo studio, dagli Atticisti che uscivan fuori, dal ridursi la cosa a regola, e la eleganza a misura e meditazione, e ricerca ec.
Longino, sebbene fioritissimo delle possibili eleganze e gentilezze della lingua greca, le ricerca tanto, e le accumola (senza però affettazione), che si trovano più frasi e modi figurati in lui che in dieci antichi greci tutti insieme; e sì per questo sì per la struttura intrecciata, composta, manipolata dell'orazione; la lunghezza, e strettissima e fortissima legatura de' periodi, le ambagi ec.
riesce tanto difficile quanto i più difficili e lavorati scrittori latini.
Ai quali egli somiglia tanto, che, massime vedendolo studioso di Cicerone, non dubito, quanto a lui, che quello scrivere non gli sia derivato dai latini, e ch'egli non abbia o voluto trasportare, [848]o (come si fosse) trasportato l'indole e gli spiriti latini nella lingua greca, quanto però questa lo comportava; perchè a ogni modo, come faranno sempre tutte le lingue, ella conserva anche presso lui, il suo sembiante diverso dall'altrui.
Non dirò niente de' Sofisti, e degli altri scrittori dell'infima letteratura greca, anche di quella letteratura già moriente e disperata (come ai tempi di Teofilatto Arcivescovo di Bulgaria).
I quali quando volevano stare davvero sull'attillato, scrivevano in modo che unita alla viziosa e corrotta ricercatezza, arguzia, e oscurità dello stile, la ricercatezza, e attortigliamento, e tortuosità della lingua, sono di tanta difficoltà ad intenderli, di quanto poco uso ad averli intesi.
Questa declinazione della lingua greca dal suo primo sentiero, e costume ed indole, si può far manifesto ancora considerando la lingua d'Isocrate.
Il quale è tanto famoso per la delicatissima cura che poneva nella scelta e collocazione delle parole, nella struttura ed armonia de' periodi, che si potrebbe credere ch'egli, quantunque pel tempo appartenga a quegli [849]antichi scrittori ch'io ho distinto da' più moderni, pel carattere però della sua lingua appartenesse piuttosto a quegli ultimi.
E pure la sua cura, qualunque fosse, è così nascosta, la sua lingua, la collocazione e l'ordine delle sue parole, la struttura de' periodi, e dell'orazione, così facile, piana, semplice, naturale, spontanea, che non solo non si allontana dalla primitiva indole della sua lingua, ma riesce anche più chiaro e facile e stralciato di parecchi altri degli ottimi; e certo non meno di veruno di essi.
Tanto che a paragonare Isocrate stimato l'elegantissimo e l'accuratissimo degli ottimi scrittori greci, col meno elegante e lavorato de' buoni, si troverà questo, molto più difficile, e men piano e svolto di lui.
Sicchè, come da Senofonte ed Erodoto conosciamo qual fosse la semplicità e la soavità, da Tucidide e Demostene la forza e il nervo di quella antica lingua greca, così da Isocrate conosciamo qual ne fosse la eleganza, e la galanteria; e quanto diversa da quella che sotto questo nome fu introdotta [850]ne' secoli e dagli scrittori ancor buoni e notabilissimi, ma non ottimi, della greca letteratura.
Finchè questa dunque durò nel suo primo ed ottimo stato, la diversità fra la lingua parlata e scritta, fu piccola, e, credo io, non molto maggiore di quella che ora sia in Francia.
Prova ne può essere fra le altre molte l'aver letto Erodoto la sua storia al popolo, e averne riscosso quegli applausi nazionali che tutti sanno.
Cosa che non sarebbe avvenuta, se (posta nel rimanente la parità delle circostanze) il Guicciardini avesse letta la sua storia alla moltitudine.
E se T.
Livio o Tacito avessero fatto lo stesso, non al cospetto di giudici scelti e intelligenti, ma avendo per giudice, o anche avendo ad esser giudicati da alcuni pochi, ma applauditi però con entusiasmo dalla moltitudine, crediamo noi che vi sarebbero riusciti? Quanto alle Orazioni de' famosi oratori latini, dette nella concione, ognuno sa, che le scritte erano diverse dalle recitate, e però da quelle che abbiamo di Cicerone non possiamo argomentare che [851]quello stesso linguaggio egli usasse col popolo.
Sì dunque la naturalezza, semplicità e facilità di forma della lingua greca, tanto negli antichi scrittori, quanto nella nazione; sì la quasi uniformità di linguaggio che ne seguiva fra i detti scrittori, e il popolo, come questa era effetto di quella, così ambedue unitamente contribuivano a rendere la lingua greca adattata alla universalità; adattata dico in proporzione dei tempi, non quanto bisognerebbe esserlo oggidì, nè quanto lo è la francese, chè oggidì una lingua per essere universale, ha bisogno di essere arida e geometrica, e la greca era floridissima e naturalissima; di essere ristretta, e la greca era larghissima e ricchissima; di essere non bella, e la greca era bellissima.
Perciò la greca non era, e nessuna bella e naturale lingua lo potrà esser mai, pienamente nè stabilmente universale; ma, sì per le dette ragioni, sì per le recate in altro pensiero, serviva a quella universalità lassamente [852]considerata, e non assolutamente, che poteva convenire ad un tempo, dove nè la ragione, nè le cognizioni esatte, nè la filosofia, nè l'esattezza assolutamente, nè il commercio scambievole delle nazioni, e de' loro individui fra essi, avevano fatto progressi paragonabili in grandezza nè in estensione agli odierni.
E si può anche notare, che siccome erano ancora i tempi della immaginazione e non della ragione, così (sebben quella è varia, e questa monotona, e uniforme dappertutto) contuttociò quella stessa immaginazione che regolava quella lingua fra i greci, poneva anche gli altri popoli, ancora governati dalla immaginazione, in grado di adattarsi senza troppa difficoltà a quella lingua, come conforme al carattere di que' secoli, e di trovare corrispondente alla propria inclinazione, la naturalezza di quella lingua (parola che io intendo qui di opporre alla ragionevolezza e geometria, e di adoperarla in questo senso).
Egli è evidente che quanto più l'andamento di una lingua è naturale semplice facile, e non capriccioso presso gli scrittori, [853]tanto più si conforma al carattere della favella usuale e popolare.
E che siccome queste qualità di una lingua, la rendono più o meno atta alla universalità, così anche alla detta conformità fra il parlato e lo scritto, conformità dalla quale di nuovo nasce una grande attitudine alla universalità.
Perchè la favella del popolo, sebbene immaginosa ordinariamente e in qualunque nazione, è però sempre semplice, piana, facile, o inclina sempre a queste qualità, ed alla naturalezza dell'ordine, e si allontana dal lavorato, dall'arbitrario, da tutto quello che deriva puramente dall'individuo o da una data classe d'individui, e non dalla natura e delle cose e del popolo: natura che sebben diversa dalla ragione, e molto più varia e copiosa e rigogliosa della ragione; tuttavia presso a poco si rassomiglia da per tutto e in tutti i popoli.
Onde il linguaggio comune di qualunque popolo, massime relativamente a quelle nazioni che appartengono ad una stessa classe (come le nazioni colte di Europa) e formano quasi una famiglia; un tal linguaggio [854], dich'io, per lo meno dentro i limiti di quella tal famiglia di nazioni, è sempre per se medesimo, e astraendo dalle circostanze particolari, adattato più o meno alla universalità.
Non così quello degli scrittori, i quali bene spesso allontanandosi appoco appoco dall'andamento popolare della loro lingua, si allontanano altresì dal carattere universale.
E così la lingua scritta di questa o quella nazione, prendendo appoco appoco un andamento proprio, e qualità proprie e speciali, per questa proprietà e specialità, si viene allontanando più o meno dalla linea universalmente riconosciuta, ed allontana dalla universalità la loro lingua che vi era naturalmente adattata.
Giacchè siccome la lingua della nazione influisce su quella dello scrittore, così anche la scritta sulla parlata.
Talmente che anche la lingua popolare di una nazione, sebbene senza fallo adattata da principio alla universalità, può e viene effettivamente perdendo più o meno, o scemando la sua disposizione a questa qualità.
[855]Il detto effetto degli scrittori, e diversificazione della lingua scritta, dall'andamento naturale della lingua, accadde in Grecia, ma tardi, e dopo i loro sommi scrittori.
Non è accaduto in Francia.
È seguito in Italia dal cinquecento in poi.
Seguì in Roma, nella prima stabile formazione della lingua latina scritta, e per opera de' primi veramente classici di quella nazione.
Del che resta a parlare.
I primi scrittori latini, ancorchè perduti, pur si conosce dai loro frammenti, o da quel poco che ne resta comunque, che, al pari di tutti i primi scrittori di qualunque lingua, avevano un andamento naturale e semplice, che si accosta al vero e antico genio della lingua greca, a quello dell'antica lingua italiana, ossia del trecento; e per conseguenza anche al loro linguaggio nazionale e parlato.
Il che si dimostra anche per altre ragioni, quando non bastasse la semplice e facile loro andatura per convincere che non si scostavano molto dal latino volgare.
[856]Una delle quali ragioni, o argomenti e conghietture (giacchè del latino non ci resta il parlato, ma il solo scritto), si è il trovare in essi buon numero di parole, modi, forme, che non si trovano negli autori dell'aurea latinità, e che pure son passate, o somigliano alle passate nella nostra lingua, derivata in gran parte (come con grandi ragioni si prova) dal volgare latino.
E in genere si trova ne' detti antichi latini gran conformità (anche in piccole minuzie e materialità, fino di ortografia) coll'italiano, e molto maggiore, che ne' seguenti latini scrittori.
Ma o provenisse dalla differenza dei tempi fra l'ottima letteratura greca e la latina (che certo la greca venne a tempi di maggior naturalezza, anzi gli ottimi suoi secoli furono compagni degli ottimi tempi della greca repubblica, laddove quelli della latina furono contemporanei precisamente della declinazione e corruzione morale e politica del popolo romano, avvenuta per l'eccesso di civiltà, e questo per l'eccesso di potere); o provenisse da [857]questo che i greci formarono da se la loro letteratura e il loro gusto, e quindi più naturalmente, laddove i latini la formarono sopra quella dei greci (onde ella fu tutto parto di studio, trovò al suo stesso nascere l'arte già formata e insignorita dello scrivere, e fece per l'aiuto l'esempio, e l'insegnamento di una nazione straniera, così rapidi progressi, che la natura appena ebbe scarsissimo tempo di precedere l'arte, e la letteratura latina fu subito e intieramente in balia delle regole, e dichiaratamente artifiziale, e polita: oltre che la stessa arte anche in Grecia, piuttosto declinava già all'eccessivo, di quello che lasciasse più niente alla natura: onde la letteratura latina superò immantinente a gran distanza, quella della Grecia contemporanea, com'è naturale che in un paese dove la letteratura è recente, ella non declini prima di essere stata ottima, e l'eccesso dell'arte non abbia luogo, prima [858]che lo abbia avuto il di lei giusto grado: nel quale però durò poco appo i latini, e la loro letteratura come fu rapida in salire, così nello scendere: e ciò per la condizione de' tempi già precipitanti lungi dalla natura, il torrente della civiltà che ingrossava e tagliava i nervi alla grandezza e alla forza della specie umana; il contagio dell'arte già passata nella Grecia al di là della maturità, sì nel resto, come nello scrivere; e la circostanza che la letteratura latina tardò tanto da cominciare quando restava poco tempo a poter durare in buon essere, poco tempo alla forza alla grandezza, alla vera vita degli uomini, poco tempo all'imperio della natura, e delle facoltà vitali dell'uomo, quando era imminente la corruzione e il precipizio della società, di Roma, delle nazioni civili, della libertà, del mondo) da quale di queste cagioni provenisse, o da ambedue insieme, il fatto sta che appena la lingua latina scritta prese forma stabile, e acquistò [859]perfezione, si allontanò dalla parlata più di quello che mai facesse lingua colta del mondo; pose e creò una somma distinzione fra la lingua degli scrittori, e quella del popolo; si allontanò quanto mai si possa dire dall'andamento e struttura naturale e comune e universale del discorso (senza però opporsi alla natura): e per tutte queste ragioni la lingua latina, non ostante l'estesissima diffusion della nazione, divenne la meno adattata alla universalità che mai si vedesse: e non ottenne, seppur vogliamo credere o dire che mai l'ottenesse, questa universalità, se non quando fu imbarbarita; e perduta la sua proprietà, la lingua scritta si confuse un'altra volta colla parlata, prese tante forme e caratteri, quanti popoli e scrittori l'adoperarono, e divenne piuttosto una famiglia di lingue tutte barbare, che una lingua universale nè colta.
Il che presto accadde, e durò fino al nascere [860]delle sue figlie, o piuttosto fino al crescere che queste fecero, e al separarsi da lei, perchè per lungo tempo (siccome accade in tutte le lingue figlie) non si poterono considerare se non come parte di quella famiglia di lingue barbare contenute nella latina, smembrandosi questa e facendosi in brani, come il grande imperio della sua nazione, e contemporaneamente al di lui misero diflusso.
Del resto la lingua latina scritta ne' primi veri e formati classici di essa, fu ridotta a tale artifizio, squisitezza, tortuosità, intrecciatura, composizione, lavoro, circuito, tessitura di periodi, obliquità di costruzione ec.; acquistò subito così stretta proprietà di modi, di frasi, di voci, proprietà inviolabile senza offesa formale della lingua; tanto precisa distinzione nell'uso de' suoi sinonimi, ossia delle innumerabili voci destinate alla significazione delle nuances di uno stesso oggetto; che quella lingua contenne il più di eleganza arbitraria che mai si vedesse, fu opera espressa dello scrittore più che qualunque altra; abbisognò di sì [861]profonda, sottile, minuta, esatta, e determinata cognizione non solo della sua indole, ma di ciascun modo, frase, parola, a volerla trattare senza offendere la sua sì propria e individuale e arbitraria altrettanto che definita proprietà; che allontanandosi estremamente dal volgare, e formando subito due lingue separate, cioè la scritta e la parlata, s'impossibilitò ancora, sì per questa, sì per quelle ragioni, alla universalità.
Alcuni scrittori latini, che anche nel tempo della perfezionata loro lingua letterata, si accostarono un poco più degli altri ai loro antichi scrittori, o al popolo, e conservarono maggiormente l'antico carattere della lingua; si accostarono altresì più degli altri agli ottimi greci, furono più semplici, più facili e piani, meno contorti e lavorati ec.
e si avvicinarono ancora al genio futuro della lingua italiana.
Tali furono Cesare, Cornelio Nipote, e sopra tutti Celso, del quale vedi quello che ho notato altrove, [862]della gran somiglianza che ha, sì col greco, sì massimamente coll'italiano, tanto nell'andamento, come nelle minute forme, frasi, voci.
E dovunque si trova nei latini scrittori, un tantino di quel candore e di quella grazia nativa, che non fu mai proprio della loro letteratura (eccetto i primi e non perfetti scrittori); si trova altresì maggiore e notabile somiglianza col carattere della lingua greca, e della nostra, e quindi anche del volgare latino, da cui la nostra è derivata, e a cui non dubito che Celso non si accostasse notabilmente, e più che ogni altro Classico conosciuto del secolo d'oro o d'argento.
Tuttavia anche in questi scrittori medesimi, si trova sempre un'aria di maggior coltura, una lingua più lavorata, più nitida, meno semplice, meno piana e naturale che quella degli ottimi greci, anzi in tal grado che non è possibile mai di confonderli con questi.
E certo quel candore, quella nuda venustà de' greci, e anche [863](ma quanto alla sola lingua) de' nostri trecentisti, non fu mai propria della scrittura e letteratura latina, se non forse della primitiva.
E verisimilmente non la comportava il carattere della nazione romana, assai più grave che graziosa, e quantunque naturale e semplice anch'essa (come tutte le antiche, non ancora, o non del tutto corrotte, e massime come tutte le nazioni libere e forti e grandi) tuttavia, padrona piuttosto della natura, di quello che amante e vagheggiatrice, come la nazione greca.
(21-24.
Marzo 1821.)
Come la proprietà delle parole è ben altro che la secchezza e nudità di ciascuna, così anche la semplicità e naturalezza e facilità della struttura di una lingua e di un discorso, è ben altro che l'aridità e geometrica esattezza di esso.
Così distinguete il carattere dell'ottima e antica scrittura greca da quello della moderna e riformata francese.
Così quello dell'ottima e antica e propria lingua e scrittura italiana, sì da quello della [864]francese, sì da quello dell'odierna italiana.
La quale quando anche non fosse barbara per le parole, modi ec.
è barbara pel geometrico, sterile, secco, esatto dell'andamento e del carattere.
Barbara per questo, tanto assolutamente, quanto relativamente all'essere del tutto straniera e francese, e diversa dall'indole della nostra lingua; ben altra cosa che lo straniero de' vocaboli o frasi, le quali ancorchè straniere non sono essenzialmente inammissibili, nè cagione assoluta di barbarie; bensì l'indole straniera in qualunque lingua è sostanzialmente barbara, e la vera cagione della barbarie di una lingua, che non può non esser barbara, quando si allontana, non dalle frasi o parole, ma dal carattere e dall'indole sua.
E tanto più barbaro è l'odierno italiano scritto, quanto il sapore italiano di certi vocaboli e modi per lo più ricercati ed antichi, e la cui italianità risalta e dà negli occhi; contrasta colla innazionalità ed anche coll'assoluta differenza del carattere totale della scrittura.
(24.
Marzo 1821.)
[865]Lodo che si distornino gl'italiani dal cieco amore e imitazione delle cose straniere, e molto più che si richiamino e invitino a servirsi e a considerare le proprie; lodo che si proccuri ridestare in loro quello spirito nazionale, senza cui non v'è stata mai grandezza a questo mondo, non solo grandezza nazionale, ma appena grandezza individuale; ma non posso lodare che le nostre cose presenti, e parlando di studi, la nostra presente letteratura, la massima parte de' nostri scrittori, ec.
ec.
si celebrino, si esaltino tutto giorno quasi superiori a tutti i sommi stranieri, quando sono inferiori agli ultimi: che ci si propongano per modelli; e che alla fine quasi ci s'inculchi di seguire quella strada in cui ci troviamo.
Se noi dobbiamo risvegliarci una volta, e riprendere lo spirito di nazione, il primo nostro moto dev'essere, non la superbia nè la stima delle nostre cose presenti, ma la vergogna.
E questa ci deve spronare a cangiare strada del tutto, e rinnovellare ogni cosa.
Senza ciò non faremo [866]mai nulla.
Commemorare le nostre glorie passate, è stimolo alla virtù, ma mentire e fingere le presenti è conforto all'ignavia, e argomento di rimanersi contenti in questa vilissima condizione.
Oltre che questo serve ancora ad alimentare e confermare e mantenere quella miseria di giudizio, o piuttosto quella incapacità d'ogni retto giudizio, e mancanza d'ogni arte critica, di cui lagnavasi l'Alfieri (nella sua vita) rispetto all'Italia, e che oggidì è così evidente per la continua esperienza sì delle grandi scempiaggini lodate, sì dei pregi (se qualcuno per miracolo ne occorre) o sconosciuti, o trascurati, o negati, o biasimati.
(24.
Marzo 1821.)
Che vuol dire che i così detti barbari, o popoli non ancora arrivati se non ad una mezza o anche inferiore civiltà, hanno sempre trionfato de' popoli civili, e del mondo? I Persiani degli Assiri inciviliti, i greci de' Persiani già corrotti, i Romani de' greci giunti al colmo della civiltà, i settentrionali de' Romani nello [867]stesso caso? Anzi che vuol dire che i Romani non furono grandi se non fino a tanto che furono quasi barbari? Vuol dire che tutte le forze dell'uomo sono nella natura e illusioni; che la civiltà, la scienza ec.
e l'impotenza sono compagne inseparabili; vuol dire che il fare non è proprio nè facoltà che della natura, e non della ragione; e siccome quegli che fa è sempre signore di chi solamente pensa, così i popoli o naturali o barbari che si vogliano chiamare, saranno sempre signori dei civili, per qualunque motivo e scopo agiscano.
Non dubito di pronosticarlo.
L'Europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi barbari che la minacciano dai fondi del Settentrione; e quando questi di conquistatori diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare.
Ma finattanto però che resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene e persuasive, e costanti, e non ragionate, e grandi illusioni, i popoli civili saranno lor preda.
Dopo quel tempo, quando à son tour la civiltà divenuta oggi sì rapida vasta e potente conquistatrice, non avrà più nulla da conquistare, allora o si tornerà alla barbarie, e se sarà possibile, alla natura per una nuova strada, e tutta opposta al naturale, cioè la strada dell'universale corruzione come ne' bassi tempi; o io non so pronosticare più oltre quello che si dovrà aspettare.
Il mondo allora comincerà un altro andamento, e quasi un'altra essenza ed esistenza.
(24.
Marzo 1821.)
[868]Quella sentenza che gli uomini sono sempre i medesimi in tutti i tempi e paesi, non è vera se non in questo senso.
I periodi che l'uomo percorre, e quelli di ciascuna nazione paragonati insieme, come i periodi de' tempi fra loro, sono sempre appresso a poco uguali o somigliantissimi; ma le diverse epoche che compongono questi periodi, sono fra loro diversissime, e quindi anche gli uomini di quest'epoca, rispetto a quelli di quell'altra, e questa nazione oggi trovandosi in un'epoca, rispetto a quell'altra nazione che si trova in altra epoca.
Come chi dicesse che l'orbita de' pianeti è sempre la stessa, non però verrebbe a dire che il punto, l'apparenza in cui essi si trovano, fosse sempre una.
I periodi della società si rassomigliano in tutti i tempi.
Questo è un vero assioma.
E l'eccessiva civiltà avendo sempre condotto i popoli alla barbarie, anzi precedutala immediatamente, anzi partecipato di essa; così accadrà anche ora, o il detto assioma riuscirà falso per la prima volta.
Del resto che gli uomini sieno gli stessi in tutti i tempi, a non volerlo intendere, o emendare come io dico, è proposizione o falsa o ridicola.
Falsa se si vuole estendere agli effetti delle facoltà umane, che ora sviluppate, ora [869]no, ora più, ora meno, ora attivissime, ora così sepolte nel fondo dell'animo da non lasciarsi scoprire nemmeno ai filosofi (come p.e.
la sensibilità odierna negli antichi, e peggio ne' primitivi, la ragione ec.
ec.), hanno diversificato la faccia del mondo in maniera infinita, e in moltissime guise.
Domando io se questi italiani d'oggi sono o paiono i medesimi che gli antichi; se il secolo presente si rassomiglia a quello delle guerre Persiane, o peggio, della Troiana.
Domando se i selvaggi si rassomigliano ai francesi, se Adamo ci riconoscerebbe per uomini, e suoi discendenti ec.
Ridicola se non vuole significare fuorchè questo, che l'uomo fu sempre composto degli stessi elementi e fisici e morali in tutti i tempi.
(ma elementi diversamente sviluppati e combinati, come i fisici, così i morali).
Cosa che tutti sanno.
Le qualità essenziali non sono mutate, nè mutabili, dal principio della natura in poi, in nessuna creatura, bensì le accidentali, e queste per la diversa disposizione delle essenziali, che partorisce una diversità [870]rilevantissima, e quanto possa esser, notabile, in quelle cose, che sole naturalmente, possono variare.
Questa proposizione dunque in quest'ultimo senso, sarebbe tanto importante quanto il dire che il mare, il sole, la luna sono le stesse in tutti i tempi ec.
(lasciando ora una fisica trascendente che potrebbe negarlo, e ponendolo per vero, com'è conforme all'opinione universale).
(25.
Marzo 1821.)
Intorno alla ragione proclamata, e alla tentata geometrizzazione del mondo, nella rivoluzione francese v.
anche parecchie cose notabili, e qualche notizia e fatto nell'Essai sur l'indifférence en matière de Religion nell'ultima parte del capo 10.
(che abbraccierà una 20na di pagg.) dove riduce le dottrine che ha esposte, all'esempio formale della rivoluzione francese, da quel periodo che incomincia Esisteva, sono già trent'anni, una nazione governata da una stirpe antica di re ec.
sino alla fine del capo.
(26.
Marzo 1821.)
Alla p.838.
principio.
Osservate ancora [871]quanti di quei mestieri che servono alla preparazione di cose anche usualissime, e stimate necessarie alla vita oggidì, sieno per natura loro nocivi alla salute e alla vita di coloro che gli esercitano.
Che ve ne pare? Che la natura abbia molte volte disposto alla sussistenza o al comodo di una specie, la distruzione o il danno di un'altra specie, o parte di lei, questo è vero, ed evidente nella storia naturale.
Ma che abbia disposta ed ordinata precisamente la distruzione di una parte della stessa specie, al comodo, anzi alla perfezione essenziale dell'altra parte (certo niente più nobile per natura, ma uguale in tutto e per tutto alla parte sopraddetta), questo chi si potrà indurre a crederlo? E questi tali mestieri, ancorchè usualissimi, e comunissimi, e riputati necessari alla vita, non saranno barbari, essendo manifestamente contro natura? E quella vita che li richiede e li suppone, ancorchè comoda, e stimata civilissima, non verrà dunque ella pure ad essere evidentemente contro natura? Non sarà dunque barbara?
(30.
Marzo 1821.)
Alla p.499.
fine.
A quello che ho detto della derivazione di favellare ec.
da fabulari ec.
aggiungete lo spagnuolo hablar, habla ec.
cioè fablar, [872]fabla ec.
da fabula ec.
secondo il costume spagnuolo di scambiare la f nell'h, come in herir per ferir, in hembra per fembra, in hazer o hacer per facer, e mille altre parole.
(30.
Marzo 1821.)
L'amor proprio dell'uomo, e di qualunque individuo di qualunque specie, è un amore di preferenza.
Cioè l'individuo amandosi naturalmente quanto può amarsi, si preferisce dunque agli altri, dunque cerca di soverchiarli in quanto può, dunque effettivamente l'individuo odia l'altro individuo, e l'odio degli altri è una conseguenza necessaria ed immediata dell'amore di se stesso, il quale essendo innato, anche l'odio degli altri viene ad essere innato in ogni vivente.
V.
p.926.
capoverso 1.
Dal che segue per primo corollario, che dunque nessun vivente, è destinato precisamente alla società, il cui scopo non può essere se non il ben comune degl'individui che la compongono: cosa opposta all'amore esclusivo e di preferenza, che ciascuno inseparabilmente [873]ed essenzialmente porta a se stesso, ed all'odio degli altri, che ne deriva immediatamente, e che distrugge per essenza la società.
Così che la natura non può nel suo primitivo disegno aver considerata, nè ordinata altra società nella specie umana, se non simile più o meno a quella che ha posta in altre specie, vale a dire una società accidentale, e nata e formata dalla passeggera identità d'interessi, e sciolta col mancare di questa; ovvero durevole, ma lassa o vogliamo dir larga e poco ristretta, cioè di tal natura che giovando agli interessi di ciascuno individuo in quello che hanno tutti di comune, non pregiudichi agl'interessi o inclinazioni particolari in quello che si oppongono ai generali.
Cosa che accade nelle società de' bruti, e non può mai accadere in una società, così unita, ristretta, precisa, e determinata da tutte le parti, come è quella degli uomini.
È cosa notabilissima che la società tanto più per una parte si è allargata, quanto più si è ristretta, dico fra gli uomini.
E quanto più si è ristretta, tanto più è mancato [874]il suo scopo, cioè il ben comune, e il suo mezzo, cioè la cospirazione di ciascuno individuo al detto fine.
Conseguenza naturale, ma niente osservata, del corollario precedente, e della proposizione da cui questo deriva.
Osservate.
Ridotto l'uomo dallo stato solitario a quello di società, le prime società furono larghissime.
Poco ristrette fra gl'individui di ciascuna società, e scarse nella rispettiva estensione e numero; niente o pochissimo ristrette fra le diverse società.
Ma in questo modo il ben comune di ciascuna società era effettivamente cercato dagl'individui, perchè da un lato non pregiudicava, dall'altro favoriva, anzi spesso costituiva il ben proprio.
E il ben comune risultava effettivamente da dette società, simili più o meno alle naturali, e conforme alle considerazioni fatte nel precedente corollario.
Le società si sono ristrette di mano in mano che veniamo giù discendendo dai tempi naturali; e ristrette per due capi: 1.
tra gl'individui di una stessa società: 2.
tra le diverse società.
Oggi questa ristrettezza è al colmo in tutti due questi capi.
Ciascuna società è così vincolata 1.
dall'obbedienza che deve per tutti i versi, in tutte le minuzie, con ogni matematica esattezza al suo capo, o governo, 2.
dall'esattissimo [875]regolamento, determinazione, precisazione di tutti i doveri e osservanze, morali, politiche, religiose, civili, pubbliche, private, domestiche ec.
che legano l'individuo agli altri individui; è, dico, tanto vincolata, e stretta e circoscritta, che maggior precisione e strettezza non si potrebbe forse immaginare per questa parte.
Le diverse società poi, sono così strette fra loro (dico le civili massimamente, ma non solamente), che l'Europa forma una sola famiglia, tanto nel fatto, quanto rispetto all'opinione, e ai portamenti rispettivi de' governi, delle nazioni, e degl'individui delle diverse nazioni.
In questo momento poi, l'Europa è piuttosto una nazione governata da una dieta assoluta; o vogliamo dire sottoposta ad una quasi perfetta oligarchia; o vogliamo dire comandati da diversi governatori, la cui potestà e facoltà deriva e risiede nel corpo intero di essi ec.
di quello che si possa chiamare composta di diverse nazioni.
Che è derivato e deriva da tutto ciò? [876]1.
L'incamminamento espresso della società ad un senso tutto e diametralmente opposto al sopraddetto, cioè ad allargarsi tanto anzi sciogliersi per una parte, ch'è la più importante, quanto per l'altra si stringe.
Cosa ch'è sempre accaduta dal principio della società in poi, in proporzione del maggiore stringimento di essa.
Considerate le antiche lassissime società, e vedrete che amor di patria, ossia di essa società, si trovava in ciascun individuo, che calore in difenderla, in proccurare il suo bene, in sacrificarsi per gli altri ec.
Venite giù di mano in mano, e troverete le società sempre più ristrette e legate in proporzione dell'incivilimento.
Ma che? Osservate i nostri tempi.
Non solo non c'è più amor patrio, ma neanche patria.
Anzi neppur famiglia.
L'uomo, in quanto allo scopo, è tornato alla solitudine primitiva.
L'individuo solo, forma tutta la sua società.
Perchè trovandosi in gravissimo conflitto gl'interessi e le passioni, a causa della strettezza e vicinanza, svanisce l'utile della società in massima parte; resta il danno, cioè il detto conflitto, nel quale l'uno individuo, e gl'interessi [877]suoi, nocciono a quelli dell'altro, e non essendo possibile che l'uomo sacrifichi intieramente e perpetuamente se stesso ad altrui, (cosa che ora si richiederebbe per conservare la società) e prevalendo naturalmente l'amor proprio, questo si converte in egoismo, e l'odio verso gli altri, figlio naturale dell'amor proprio, diventa nella gran copia di occasioni che ha, più intenso, e più attivo.
2.
Si è perduto in gran parte e si va sempre perdendo lo scopo della società, ch'è il bene comune, e ciò per la stessa ragione per cui se n'è perduto il mezzo, cioè la cospirazione degl'individui al detto fine.
Dilatiamo ora queste considerazioni, e seguendo ad applicarle ai fatti, ed alla storia dell'uomo, paragoniamo principalmente gli antichi coi moderni, cioè la società poco stretta e legata, e poco grande, cioè di pochi, con la società strettissima, e grandissima, cioè di moltissimi.
Ho detto che l'amor proprio è inseparabile [878]dall'uomo, e così l'odio verso gli altri ch'è inseparabile da esso, e che per conseguenza esclude primitivamente ed essenzialmente la stretta comunione e società sì degli uomini, che degli altri viventi.
Ma siccome l'amor proprio può prendere diversissimi aspetti, in maniera, ch'essendo egli l'unico motore delle azioni animali, esso stesso che è ora egoismo, un tempo fu eroismo, e da lui derivano tutte le virtù non meno che tutti i vizi; così nelle antiche e poche ristrette società (come pure accade anche oggi in parecchie delle popolazioni selvagge che si scoprono, o quando furono scoperte, come alcune Americane) l'amor proprio fu ridotto ad amore di quella società dove l'individuo si trovava, ch'è quanto dire amor di corpo o di patria.
Cosa ben naturale, perchè quella società giovava effettivamente all'individuo, e tendeva formalmente al suo scopo vero e dovuto, così che l'individuo se le affezionava, e trasformando se stesso in lei, trasformava l'amor di se stesso nell'amore di lei.
Come appunto accade nei partiti, nelle congregazioni, negli ordini ec.
massime quando sono nel primitivo [879]vigore, e conservano la prima lor forma.
Nel qual tempo gl'individui che compongono quel tal corpo, fanno causa comune con lui, e considerano i suoi vantaggi, gloria, progressi, interessi ec.
come propri: e quindi amandolo, amano se stessi, e lo favoriscono come se stessi.
Che questo in ultima analisi è l'unico principio dell'amor di corpo, di patria, di Religione, universale o dell'umanità, e di qualunque possibile amore in qualunque animale.
Dunque l'amor proprio si trasformava in amor di patria.
E l'odio verso gli altri individui? Non già spariva, ch'è sempre ed eternamente inseparabile dall'amor proprio, e quindi dal vivente: ma si trasformava in odio verso le altre società o nazioni.
Cosa naturale e conseguente, se quella tal società o patria, era per ciascuno individuo come un altro se stesso.
Quindi desiderio di soverchiarle, invidia de' loro beni, passione di render la propria patria signora delle altre nazioni, ingordigia altresì de' loro beni e robe, e finalmente odio ed astio dichiarato; tutte cose che nell'individuo trovandosi verso gli altri individui, lo rendono per natura, [880]incompatibile colla società.
Dovunque si è trovato amor vero di patria, si è trovato odio dello straniero: dovunque lo straniero non si odia come straniero, la patria non si ama.
Lo vediamo anche presentemente in quelle nazioni, dove resta un avanzo dell'antico patriotismo.
Ma quest'odio accadeva massimamente nelle nazioni libere.
Una nazione serva al di dentro, non ha vero amor di patria, o solamente inattivo e debole, perchè l'individuo non fa parte della nazione se non materialmente.
L'opposto succede nelle nazioni libere, dove ciascuno considerandosi come immedesimato e quasi tutt'uno colla patria, odiava personalmente gli stranieri sì in massa, come uno per uno.
Con queste osservazioni spiegate la gran differenza che si scorge nella maniera antica di considerare gli stranieri, e di operare verso le altre nazioni, paragonata colla maniera moderna.
Lo straniero non aveva nessun diritto sopra l'opinione, l'amore, il favore degli antichi.
E parlo degli antichi nelle nazioni più colte e civili, e in queste, degli uomini più grandi, colti, ed anche illuminati e filosofi.
Anzi la filosofia di allora (che dava molto più nel segno della presente) insegnava e inculcava l'odio nazionale e individuale dello straniero, come di prima necessità alla conservazione [881]dello stato, della indipendenza, e della grandezza della patria.
Lo straniero non era considerato come proprio simile.
La sfera dei prossimi, la sfera dei doveri, della giustizia, dell'onesto, delle virtù, dell'onore, della gloria stessa, e dell'ambizione; delle leggi ec.
tutto era rinchiuso dentro i limiti della propria patria, e questa sovente non si estendeva più che una città.
Il diritto delle genti non esisteva, o in piccolissima parte, e per certi rapporti necessari, e dove il danno sarebbe stato comune se non avesse esistito.
La nazione Ebrea così giusta, anzi scrupolosa nell'interno, e rispetto a' suoi, vediamo nella scrittura come si portasse verso gli stranieri.
Verso questi ella non avea legge; i precetti del Decalogo non la obbligavano se non verso gli Ebrei: ingannare, conquistare, opprimere, uccidere, sterminare, derubare lo straniero, erano oggetti di valore e di gloria in quella nazione, come in tutte le altre; anzi era oggetto anche di legge, giacchè si sa che la conquista di Canaan fu fatta per ordine Divino, e così cento altre guerre, spesso nell'apparenza ingiuste, co' forestieri.
Ed anche oggidì gli Ebrei conservano, e con ragione e congruenza, questa opinione, che non sia peccato l'ingannare, o far male comunque all'esterno, che chiamano (e specialmente il Cristiano) Goi ywg [882]ossia gentile, e che presso loro suona lo stesso che ai greci barbaro: (v.
il Zanolini, il quale dice che, nel plurale però si deve intendere, chiamano oggi i Cristiani \ywg goiìm) riputando peccato, solamente il far male a' loro nazionali.
E con queste osservazioni si deve spiegare una cosa che può far maraviglia nella Ciropedia.
Dove Senofonte vuol dare certamente il modello del buon re, piuttosto che un'esatta istoria di Ciro.
E nondimeno questo buon re, dopo conquistato l'impero Assirio, diventa modello e maestro della più fina, fredda, e cupa tirannide.
Ma bisogna notare che questo è verso gli Assiri, laddove verso i suoi Persiani, Senofonte lo fa sempre umanissimo e liberalissimo.
Ma egli stima che sia tanto da buon re l'opprimere lo straniero, e l'assicurarsi in tutti i modi della sua soggezione, come il conservare una giusta libertà a' nazionali.
Senza la qual distinzione e osservazione, si potrebbe quasi confondere Senofonte con Machiavello, e prendere un grosso abbaglio intorno alla sua vera intenzione, e all'idea ch'egli ebbe del buon Principe.
Nel qual proposito osserverò che la regola e il metodo di Ciro (o di Senofonte) di preferire in tutto e per tutto i Persiani ai nuovi sudditi, e dichiarare per tutti i versi, quella, [883]nazion dominante, e queste, soggette e dipendenti, non fu seguito da Alessandro, il quale anzi a costo d'inimicarsi i Macedoni, pare che tra' suoi sudditi di qualunque nazione volesse stabilire una perfetta uguaglianza, e quasi preferir fino i conquistati adottando le vesti e le usanze loro.
Il suo scopo fu certo quello di conservarli piuttosto coll'amore che col timore, e colla forza: e non li stimò schiavi (secondo il costume di quei tempi), ma sudditi.
E quanto ai Romani, vedi in questo particolare la fine del Capo 6.
di Montesquieu, Grandeur etc.
Oltre che i Romani accordando la cittadinanza a ogni sorta di stranieri conquistati, gli agguagliavano più che mai potessero ai cittadini e compatrioti: ma questa cosa non riuscì loro niente bene, com'è noto, e come ho detto in altro pensiero p.457.
Tornando al proposito, Platone nella Repubblica l.5.
(vedilo) dice: i Greci non distruggeranno certo i greci, non li faranno schiavi, non desoleranno le campagne, nè bruceranno le case loro; ma in quella vece faranno tutto questo ai Barbari.
E le Orazioni d'Isocrate tutte piene di misericordia verso i mali de' Greci, sono spietate verso i barbari, o Persiani, ed esortano continuamente la nazione e Filippo, a sterminarli.
Sono notabilissime in questo proposito le sue due Orazioni ???????????, e ???? ????????, dove inculca di proposito l'odio de' Barbari nello stesso tempo e per le stesse ragioni che l'amore dei greci, e come conseguenza di questo.
V.
specialmente quel luogo del panegirico, che comincia ?????????? ?? ??? ???????, e finisce ??? ????? ????? ???????? ??????????, dove parla di Omero e de' Troiani, p.175-176.
della ediz.
del Battie, Cambridge 1729.
molto dopo la metà dell'orazione ma ancor lungi dal fine.
E questa opposizione di misericordia e giustizia verso i propri, e fierezza e ingiustizia verso gli stranieri, è il [884]carattere costante di tutti gli antichi greci e romani, e massime de' più cittadini, e assolutamente de' più grandi e famosi: nominatamente poi degli scrittori, anche i più misericordiosi, umani e civili.
È insigne a questo proposito un luogo di Temistio nell'Orazione scoperta dal Mai ???????? ????????????? ??? ?? ???????? ??? ????? In eos a quibus ob praefecturam susceptam fuerat vituperatus cap.25.
Eccolo ??? ?????? ?? ??? ?? ???? ????????? ??? ??????????? ??????.
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(regium dominatum exercuit.
Maius.) ??????????? ?? ????? ??? ???????? ?????, ? ????? ????? ????? ?? ???????? ? ????????????????? (qui clementia indiget.
Maius.) ??? ?? ?? ?????? ? ?????????, ? ?? ??? ?? ?????????? (Mediol.
regiis typis.
1816.
inventore et interprete Angelo Maio p.66.
V.
tutto quel capo, e parte del resto, che tutto fa a questo proposito, ma, il luogo riferito principalmente, e dà gran luce e tutta appropriata, al mio discorso.
V.
anche l'oraz.10.
di Temistio dell'ediz.
Harduin.
p.132.
B-C.
e l'Oraz.
1.
p.[885]6.
B.
citt.
qui in margine dal Mai, come contenenti luoghi paralleli al riportato.) Così egli lodando Teodosio magno.
E infatti la filantropia, o amore universale e della umanità, non fu proprio mai nè dell'uomo nè de' grandi uomini, e non si nominò se non dopo che parte a causa del Cristianesimo, parte del naturale andamento dei tempi, sparito affatto l'amor di patria, e sottentrato il sogno dell'amore universale, (ch'è la teoria del non far bene a nessuno) l'uomo non amò veruno fuorchè se stesso, ed odiò meno le nazioni straniere, per odiar molto più i vicini e compagni, in confronto dei quali lo straniero gli dovea naturalmente essere (com'è oggi) meno odioso, perchè si oppone meno a' suoi interessi, e perch'egli non ha interesse di soverchiare, invidiare ec.
i lontani, quanto i vicini.
Da tutte queste osservazioni e fatti, risulta un'altra osservazione e un altro fatto conosciutissimo, e caratteristico dell'antichità; o piuttosto risulta la spiegazione di questo fatto.
Perchè amando l'individuo la patria sua, e conseguentemente odiando gli stranieri, ne seguiva che le guerre fossero sempre nazionali.
E tanto più accanite, quanto l'individuo era da ambe le parti più infiammato della sua causa, cioè dell'amor patrio.
Massimamente dunque lo erano quelle de' popoli liberi, o fatte a un popolo libero, [886]per la stessa ragione, per cui, come ho detto, un popolo libero ama maggiormente la patria, e maggiormente odia lo straniero.
Così che sì la nazione e l'armata straniera, sì l'individuo straniero, era come nemico privato dell'individuo che combatteva pel suo popolo libero, e per la sua patria.
E questa è una delle principali e più manifeste ragioni per cui i popoli più amanti della patria loro, e fra questi i liberi, sono stati sempre i più forti, i più formidabili al di fuori, i più bellicosi, i più intrepidi, i più atti alle conquiste, ed effettivamente, per così dire, i più conquistatori.
Dall'esser le guerre, nazionali, dovea risultare quest'altro effetto, che avea luogo realmente fra gli antichi, ed ha luogo in tutte le nazioni selvagge, e proporzionatamente in quelle che conservano maggiore spirito di nazione, e maggior primitivo, come gli Spagnuoli.
Cioè le guerre dovevano essere, a morte, e senza perdono (giacchè tutti e ciascuno erano nimici fra loro), senza distinzione ec.
E l'effetto della vittoria doveva essere il cattivare intieramente non solo il governo, ma la nazione intiera; (come si vide principalmente in Asia a tempo de' monarchi Assiri nelle lor guerre co' Giudei ec.
e al tempo di Tito Vespasiano) [887]o certo spogliarla de' costumi, leggi, governatori propri, dei tempii, de' sepolcri, della roba, del danaio, delle proprietà, delle mogli, dei figli ec.
e ridurla se non in ischiavitù, come si costumò antichissimamente, spogliando il vinto anche del suo paese; certo però in servitù: e considerarla come nazione dipendente, soggiogata, non partecipe di nessun vantaggio della nazion dominante, e non appartenente a lei, se non come suddita, nè avente con lei altro di comune, nè diritti, nè ec.
come se fosse di altra razza d'uomini.
E conseguentemente e congruentemente: perchè insomma tutta quanta la nazione essendo stata ed essendo nemica del vincitore, tutta si trattava come nemica vinta e domata, e tutta era preda del nemico trionfante.
Quindi la disperazione delle guerre l'ostinazione delle resistenze le più inutili, lo scannarsi scambievolmente le popolazioni intiere, piuttosto che aprir le porte al nemico, perchè in fatti il vinto andava nelle mani e nell'assoluta balìa di un nemico mortale, com'egli lo era del vincitore.
Quindi anche il combattere le nazioni intere, e l'essere tutti soldati, quanti potevano portar armi, e ciò sempre: cioè tanto in guerra quanto (se non in atto certo in potenza e disposizione) nel tempo di pace.
Perchè le nazioni, massime vicine, erano sempre in istato di guerra, odiandosi tutte scambievolmente, e cercando l'una di sorpassar l'altra in [888]qualunque modo per conseguenza necessaria del vero amor patrio.
(V.
in questo proposito, se però vuoi, l'Essai sur l'indifférence en matière de Religion ch.10.
dove discorre di proposito in questa materia, sebbene in senso opposto al mio, durante 9.
pagg.
della traduz.
di Bigoni cioè dalla p.160.
alla 169.
ossia dal periodo che comincia: Ma questo non è tutto ancora.
Quando i rapporti sociali ec.
sino a quello che incomincia: INCEDO PER IGNES.
Egli trova anche una conformità di quest'ultimo costume nella moltitudine delle armate odierne, che fa derivare dalla nazionalità delle guerre di questi ultimi anni.
Osservo però che questo derivò in principio dalla sola ambizione e dispotismo di Luigi 14.)
Conchiudo che l'indipendenza, la libertà, l'uguaglianza di un popolo antico, non solo non importava l'indipendenza, la libertà, l'uguaglianza degli altri popoli, rispetto a lui, e per quanto era in lui; ma per lo contrario importava la soggezione e servitù degli altri popoli, massime vicini, e l'obbedienza de' più deboli.
E un popolo libero al di dentro era sempre tiranno al di fuori, se aveva forze per esserlo, e questa forza nasceva sovente dalla sua libertà.
Nel modo stesso che un principe, per esser egli indipendente e libero, e non aver legami nè ostacoli alla sua volontà, non perciò lascia di tiranneggiare il suo popolo.
Anzi quanto più è geloso della sua libertà, tanto più ne toglie a' sudditi, o a' più deboli di lui.
Così quanto [889]più una nazione sentiva ed amava se stessa, che avviene massimamente ai popoli liberi, tanto più era nemica delle straniere, e desiderosa di elevarsi sopra loro, di farsene ubbidire, e conquistate, opprimerle; tanto più invidiosa de' loro beni, ingorda del loro ec.
effetto naturale dell'amor nazionale, come lo è dell'amor proprio rispetto agl'individui: essendo insomma l'amor patrio, non altro che egoismo nazionale, e rispetto alla nazione intera, egoismo della nazione.
E così dite di qualunque amore o spirito di corpo, di parte ec.
Quella nazione dove regna fortemente e vivacemente ed efficacemente l'amor nazionale, è come un grande individuo: e alla maniera dell'individuo, amando se stessa, si ama di preferenza, e desidera, e cerca di superare le altre in qualunque modo.
E quanto all'essere un popolo tanto più tiranno di fuori, quanto più geloso della libertà propria, e nemico della tirannia di dentro, v.
l'esempio moderno, che pare all'autore dell'Essai ec.
di vedere nell'Inghilterra rispetto a' suoi stabilimenti fuor d'Europa.
Vedilo, dico, al luogo citato nella pagina precedente.
Questi quadri paiono non solamente disgustosi, anzi terribili, ma tali che nessun male, nessun cattivo stato si possa paragonare col detto stato delle nazioni antiche.
E ciò avverrà massimamente a quelli che considerano la vita come un bene per se stessa, qualunque ella sia.
Ma passiamo ora ai moderni, e consideriamo il rovescio della medaglia.
1.
L'uomo non si potrà mai (come nessun vivente) spogliare dell'amor di se stesso, nè questo dell'odio verso [890]altrui.
Riconcentrato il potere, tolto agl'individui quasi del tutto il far parte della nazione, di più, spente le illusioni, l'individuo ha trovato e veduto il ben comune come diviso e differente dal ben proprio.
Dovendo scegliere, non ha esitato a lasciar quello per questo.
E non poteva altrimenti, essendo uomo, e vivendo.
Sparite effettivamente le nazioni, e l'amor nazionale, s'è spento anche l'odio nazionale, e l'essere straniero non è più colpa agli occhi dell'uomo.
S'è perciò spento l'odio verso altrui, l'amor proprio? allora si spegnerà quando la natura farà un altro ordine di cose e di viventi.
La fola dell'amore universale, del bene universale, col qual bene ed interesse, non può mai congiungersi il bene e l'interesse dell'individuo, che travagliando per tutti non travaglierebbe per se, nè per superar nessuno, come la natura vuol ch'ei travagli; ha prodotto l'egoismo universale.
Non si odia più lo straniero? ma si odia il compagno, il concittadino, l'amico, il padre, il figlio; ma l'amore è sparito affatto dal mondo, sparita la fede, la giustizia, l'amicizia, l'eroismo, ogni virtù, fuorchè l'amor di se stesso.
Non si hanno più nemici nazionali? ma si hanno nemici privati, e tanti quanti son gli uomini; ma non si hanno più amici di sorta alcuna, nè doveri se non verso se stesso.
Le nazioni sono in pace al di fuori? [891]ma in guerra al di dentro, e in guerra senza tregua, e in guerra d'ogni giorno, ora, momento, e in guerra di ciascuno contro ciascuno, e senza neppur l'apparenza della giustizia, e senz'ombra di magnanimità, o almeno di valore, insomma senz'una goccia di virtù qualunque, e senz'altro che vizio e viltà; in guerra senza quartiere; in guerra tanto più atroce e terribile, quanto è più sorda, muta, nascosta; in guerra perpetua e senza speranza di pace.
Non si odiano, non si opprimono i lontani e gli alieni? ma si odiano, si perseguitano, si sterminano a tutto potere i vicini, gli amici, i parenti; si calpestano i vincoli più sacri; e la guerra essendo fra persone che convivono, non c'è un istante di calma, nè di sicurezza per nessuno.
Qual nemicizia dunque è più terribile? Quella che si ha co' lontani, e che si esercita solo nelle occasioni, certo non giornaliere; o quella ch'essendo co' vicini si esercita sempre e del continuo, perchè continue sono le occasioni? Quale è più contraria alla natura, alla morale, alla società? Gl'interessi de' lontani non sono in tanta opposizione coi nostri (e per quanto lo sono, si odia adesso il lontano, come e più che anticamente, bensì meno apertamente e più vilmente).
Ma gl'interessi de' vicini essendo co' nostri in continuo urto, la guerra più terribile è quella che deriva dall'egoismo, e dall'odio naturale verso altrui, rivolto non più verso lo straniero, [892]ma verso il concittadino, il compagno ec.
2.
Per qual cagione l'amore universale sia un sogno, non mai realizzabile, risulta dalle cose dette in questo discorso, e l'ho esposto già in altri pensieri.
Ora non potendo il vivente senza cessar di vivere, spogliarsi nè dell'amor proprio, nè dell'odio verso altrui, resta che queste passioni prendano un aspetto, quanto si può migliore; resta che l'amor proprio dilati quanto più può il suo oggetto (ma non può troppo dilatarlo senza perdersi il se stesso ch'è indivisibile dall'uomo, e quindi ricadere inevitabilmente nell'amor di se solo); e che l'odio verso altrui si allontani quanto più si può, cioè scelga uno scopo lontano.
Questo avviene per la prima parte, quando l'individuo trova una comunione e medesimezza d'interesse con quelli che lo circondano; e per la seconda, quando egli non trova la principale opposizione a questo interesse se non ne' lontani.
Ecco dunque l'amor patrio, e l'odio degli stranieri.
E per tutte queste ragioni, io dico, che stante l'amor proprio, e l'odio naturale dell'uomo verso altrui, passioni che lo rendono per natura indisposto alla società, una società non può sussistere veramente, cioè essere effettivamente ordinata al suo scopo ch'è il ben comune di tutta lei, se le dette passioni non prendono il detto aspetto; cioè: la società non può sussistere senz'amor patrio, ed odio degli stranieri.
Ed essendo l'uomo essenzialmente ed [893]eternamente egoista, la società per conseguenza, non può essere ordinata al ben comune, cioè sussistere con verità, se l'uomo non diventa egoista di essa società, cioè della sua nazione o patria, e quindi naturalmente nemico delle altre.
E per tutte queste ragioni, ed altre che ho spiegato altrove, dico, e segue evidentemente, che la società ed esisteva fra gli antichi, ed oggi non esiste.
3.
Come senz'amor patrio non c'è società, dico ancora che senz'amor patrio non c'è virtù, se non altro, grande, e di grande utilità.
La virtù non è altro in somma, che l'applicazione e ordinazione dell'amor proprio (solo mobile possibile delle azioni e desiderii dell'uomo e del vivente) al bene altrui, considerato quanto più si possa come altrui, perchè in ultima analisi, l'uomo non lo cerca o desidera, nè lo può cercare o desiderare se non come bene proprio.
Ora se questo bene altrui, è il bene assolutamente di tutti, non confondendosi questo mai col ben proprio, l'uomo non lo può cercare.
Se è il bene di pochi, l'uomo può cercarlo, ma allora la virtù ha poca estensione, poca influenza, poca utilità, poco splendore, poca grandezza.
Di più, e per queste stesse ragioni, poco eccitamento e premio, così che è rara e difficile; giacchè siamo da capo, mancando allora o essendo poco efficace lo sprone che muove l'uomo ad abbracciar la virtù, cioè il ben proprio.
Talchè anche per questo capo [894]è dannosa la soverchia ristrettezza e piccolezza, o poca importanza e pregio delle società, dei corpi, dei partiti ec.
E riguardo all'altro capo, cioè la poca utilità delle virtù che si rapportano al bene o agl'interessi qualunque di pochi, o poco importanti ec.
questa è la ragione per cui non sono lodevoli, anzi spesso dannosi i piccoli corpi, società, ordini, partiti, corporazioni, e l'amore e spirito di questi negl'individui.
Giacchè le virtù e i sacrifizi a cui questi amori conducono l'individuo, sono piccoli, ristretti, bassi, umili, e di poca importanza, vantaggio, ed entità.
In oltre nuocono alla società maggiore, perchè siccome l'amor di patria produce il desiderio e la cura di soverchiare lo straniero, così l'amore de' piccoli corpi, essendo parimente di preferenza, produce la cattiva disposizione degl'individui verso quelli che non appartengono a quella tal corporazione, e il desiderio di superarli in qualunque modo.
Così che nasce la solita disunione d'interessi, e quindi di scopo, e così queste piccole società, distruggono le grandi, e dividono i cittadini dai cittadini, e i nazionali dai nazionali, restando tra loro la società sola di nome.
Dal che potete intendere il danno delle sette, sì di qualunque genere, come particolarmente di queste famose moderne e presenti, le quali ancorchè studiose o in apparenza, o, poniamo anche, in sostanza del bene di tutta la patria, si vede per esperienza, che non hanno mai fatto alcun bene, e sempre gran male, e maggiore ne farebbero, se arrivassero a prevalere, e conseguire i loro intenti; e ciò per le dette ragioni, e perchè l'amor della setta (fosse pur questa purissima) nuoce all'amore della nazione ec.
V.
p.1092.
principio.
Resta dunque che l'egoismo sociale, abbia per oggetto una società di tal grandezza ed estensione, che senza cadere negl'inconvenienti delle piccole, non sia tanto grande, che l'uomo per cercare il di lei bene, sia costretto a perdere di vista se stesso; [895]il che egli non potendo fare mentre vive, ricadrebbe nell'egoismo individuale.
L'egoismo universale (giacchè anche questo non potrebb'essere altro che egoismo, come tutte le passioni e tutti gli amori dei viventi) è contraddittorio nella sua stessa nozione, giacchè l'egoismo è un amore di preferenza, che si applica a se stesso, o a chi si considera come se stesso: e l'universale esclude l'idea della preferenza.
Molto più poi è stravagante l'amore sognato da molti filosofi, non solo di tutti gli uomini, ma di tutti i viventi, e quanto si possa, di tutto l'esistente: cosa contraddittoria alla natura, che ha congiunto indissolubilmente all'amor proprio una qualità esclusiva, per cui l'individuo si antepone agli altri, e desidera esser più felice degli altri, e da cui nasce l'odio, passione così naturale e indistruggibile in tutti i viventi, come l'amor proprio.
Ma tornando al proposito, la detta società di mezzana grandezza, non è altro che una nazione.
Perchè l'amore delle particolari città native è dannoso oggi, come l'amore de' piccoli corpi, non producendo niente di grande, come non dà eccitamento nè premio a virtù grandi; e d'altra parte, staccando l'individuo dalla società nazionale, e dividendo le nazioni in tante parti, tutte intente a superarsi l'una coll'altra, e quindi nemiche scambievoli.
Del che non si può dare maggior pregiudizio.
Le città antiche, se anche erano piccole come le moderne, e tuttavia servivano [896]di patria, erano però più importanti assai, per la somma forza d'illusioni che vi regnava, e che somministrando grandi eccitamenti, e premi grandi ancorchè illusorii, bastava alle grandi virtù.
Ma questa forza d'illusioni non è propria se non degli antichi, che come il fanciullo, sapevano trar vita vera da tutto, ancorchè menomo.
La patria moderna dev'essere abbastanza grande, ma non tanto che la comunione d'interessi non vi si possa trovare, come chi ci volesse dare per patria l'Europa.
La propria nazione, coi suoi confini segnati dalla natura, è la società che ci conviene.
E conchiudo che senza amor nazionale non si dà virtù grande.
Da tutto ciò deducete il gran vantaggio del moderno stato, che ha tolto assolutamente il fondamento, anzi la possibilità della virtù, certo della virtù grande, e grandemente utile; della virtù stabile e solida, e che abbia una base e una fonte durevole e ricca.
4.
Lascio la gran vita che nasce dall'amor patrio, e in proporzione della sua forza, ch'è massima ne' popoli liberi, e che gli antichi godevano mediante questo; e la morte del mondo, sparito che sia l'amor patrio, morte che noi sperimentiamo da gran tempo.
5.
Le guerre moderne sono certo meno accanite delle antiche, e la vittoria meno terribile e dannosa al vinto.
Questo è naturalissimo.
Non esistendo più nazioni, [897]e quindi nemicizie nazionali, nessun popolo è vinto, nessuno vincitore.
Chi vince non vince quel tal popolo, ma quel tal governo.
I soli governi sono nemici fra loro.
Dunque la vittoria non si esercita sopra la nazione (la quale come l'asino di Fedro cambia solamente la soma, o l'asinaio); ma sopra il solo governo.
Una nazione conquistata perde il suo governo, e ne riceve un altro che presso a poco è il medesimo.
Non essendo nemica della conquistatrice, non avendo avuto guerra con essa, nè questa con lei, partecipa ai di lei vantaggi, alle cariche pubbliche ec.
Non perde le proprietà, nè la libertà civile, nè i costumi ec.
(Alle volte non perderà neppure le sue leggi).
Ma come tutto il suo, non era suo, ma del suo padrone, così tutto questo, senza nuovo danno de' suoi individui, come presso gli antichi, passa di peso e senza scomporsi ad essere di un altro padrone.
Anticamente il privato perdeva individualmente le sue proprietà perchè individualmente ne aveva.
Ora non egli che non le ha individualmente, e non le può perdere, ma il suo principe vinto perde tutte insieme le proprietà de' suoi sudditi, ch'erano generalmente ed unitamente sue; e questo per conseguenza accade senza cangiamenti nello stato de' particolari, e senza nuove violazioni de' diritti privati e individuali.
S'ella diviene dipendente al di fuori, lo era già al di dentro.
La sua dipendenza non è nuova se non di nome, perchè la sua indipendenza era pur tale.
E se ora dipende dallo straniero, lo straniero è per lei tutt'uno che il nazionale; perchè la nazione non esisteva neppur prima della conquista; ed ella non amando se stessa, non avendo amor patrio, non odia dunque lo straniero, se non come il nazionale, e come l'uomo odia l'altro uomo.
Il diritto delle nazioni [898]è nato dopo che non vi sono state più nazioni.
Ella dunque gode gli stessi diritti, che godeva prima della conquista, e gli gode ora come la conquistatrice.
Quanto alle guerre, elle non sono già nè meno frequenti, nè meno ingiuste delle antiche.
Perchè la sorgente delle guerre, che una volta era l'egoismo nazionale, ora è l'egoismo individuale di chi comanda alle nazioni, anzi costituisce le nazioni.
E questo egoismo, non è nè meno cupido, nè meno ingiusto di quello.
Dunque, come quello, misura i suoi desiderii dalle sue forze; (spesso anche oltre le forze) e la forza è l'arbitra del mondo oggidì, come anticamente, non già la giustizia, perchè la natura degli uomini non si cambia, ma solo gli accidenti.
Questi che esagerano l'ingiustizia e frequenza delle guerre antiche prima del Cristianesimo, del diritto delle genti, e del preteso amore universale; mostra che abbiano bensì letto la storia antica, ma non quella de' secoli Cristiani fino a noi.
Quella storia e questa presentano appuntino le stesse ingiustizie, le stesse guerre, lo stesso trionfo della forza ec.
nè il Cristianesimo ha migliorato in ciò il mondo di un punto; colla differenza che allora le esercitavano, allora combattevano le nazioni, ora gl'individui, o vogliamo dire i governi; allora per conseguenza i combattenti o gl'ingiusti, erano giusti e virtuosi verso qualcuno, cioè verso i proprii, adesso verso nessuno; allora le nimicizie [899]partorivano le grandi virtù, e l'eroismo in ciascuna nazione, adesso i grandi vizi e la viltà; allora una nazione opprimeva l'altra, adesso tutte sono oppresse, la vinta come la vincitrice; allora serviva il vinto, adesso la servitù è comune a lui col vincitore; allora i vinti erano miseri e schiavi, cosa naturalissima in tutte le specie di viventi, oggi lo sono nè più nè meno anche i vincitori e fortunati, cosa barbara e assurda; allora chi moveva la guerra, era spesso ingiusto colla nazione a cui la moveva, adesso chi la muove è ingiusto, appresso a poco, tanto con quella a cui la move, quanto con quella per cui mezzo e forza la muove: e ciò tanto nel muoverla, quanto in tutto il resto delle sue azioni pubbliche.
E i governi oggi tra loro, sono in istato di guerra (o aperta o no) tanto continua, quanto le nazioni anticamente.
Lascio le atrocità commesse anche ne' primi e più fervorosi tempi Cristiani sopra i Capi delle nazioni vinte: cosa conseguente, perch'essi erano i vinti, e non le nazioni.
E così costumavasi, per naturale effetto, anche anticamente, nella vittoria di nazioni serve al di dentro e monarchiche.
Nè mancano esempi più recenti nelle storie, di questa naturale conseguenza dello stato presente dei popoli, cioè dell'odio privato o pubblico fra' loro capi, e delle sevizie usate sopra i principi vinti o prigioni ec.
Vengo all'atto della guerra.
Anticamente, dicono, combattevano le nazioni intere: le guerre de' tempi [900]Cristiani fatte con piccoli eserciti, hanno meno sangue, e meno danni.
Ma anticamente combatteva il nemico contro il nemico, oggi l'indifferente coll'indifferente, forse anche coll'amico, il compagno, il parente; anticamente nessuno era che non combattesse per la causa propria, oggi nessuno che non combatta per causa altrui; anticamente il vantaggio della vittoria era di chi avea combattuto, oggi di chi ha ordinato che si combatta.
È in natura che il nemico combatta il suo nemico, e per li suoi vantaggi; e ciò si vede anche nei bruti, certo non corrotti, anche dentro la loro propria specie, e co' loro simili.
Ma non è cosa tanto opposta alla natura, quanto che un individuo senza nè odio abituale, nè ira attuale, con nessuno o quasi nessuno vantaggio ed interesse suo, per comando di persona che certo non ama gran fatto, e probabilmente non conosce, uccide un suo simile che non l'ha offeso in nessuna maniera, e che, per dir poco, non conosce neppure e non è conosciuto dall'uccisore.
Anzi di più, un individuo ch'egli odia per lo più molto meno di quello che gli comanda di ucciderlo, e certo molto meno di gran parte fra' suoi stessi compagni d'arme, e fra' suoi concittadini.
Perchè oggi gli odi, le invidie, le nimicizie, si esercitano coi vicini, e nulla ordinariamente coi lontani: l'egoismo individuale ci [901]fa nemici di quelli che ci circondano, o che noi conosciamo, ed hanno attenenza con noi; e massime di quelli che battono la nostra stessa carriera, e aspirano allo stesso scopo che noi cerchiamo, e dove vorremmo esser preferiti; di quelli che essendo più elevati di noi, destano per conseguenza l'invidia nostra, e pungono il nostro amor proprio.
Lo straniero al contrario ci è per lo meno indifferente, e spesso più stimato dei conoscenti, perchè la stima ec.
è fomentata dalla lontananza, e dalla ignoranza della realtà, e dallo immaginario che ne deriva: ed infatti in un paese dove non regni amor patrio, il forestiero è sempre gradito, e i costumi, i modi ec.
ec.
tanto suoi, come di qualunque nazione straniera, sono sempre preferiti ai nazionali, ed egli lo è parimente.
Così che il soldato oggidì è molto più nemico sì di quelli in cui compagnia combatte, sì di quelli in cui vantaggio, per cui volere, sotto di cui combatte, che di coloro ch'egli combatte ed uccide.
E tutto ciò per natura delle cose, e non per capriccio.
Talchè, se vorremo una volta considerar bene le cose, non le apparenze, troveremo molta più barbarie oggidì nella uccisione di un nemico solo, che anticamente nel guasto di un popolo: perchè questo era del tutto secondo natura; quello è per tutti i versi contrario alla natura.
[902]Voglio andare anche più avanti, e mostrare che questo preteso vantaggio del poco numero de' combattenti, ha sussistito finora non per altro se non perchè le nazioni hanno conservato qualche cosa di antico, e continuato ad essere in qualche modo nazioni; e che ora che hanno cessato affatto di esserlo, il detto vantaggio non può più sussistere.
Certo che le nazioni non essendo più nemiche l'una dell'altra, e gli eserciti essendo come truppe di operai pagati perchè lavorino il campo del padrone, e il numero di un esercito non richiedendosi che sia se non quanto è quello dell'altro, le guerre si potrebbero sbrigare con pochissimo numero di combattenti, e anche con un compromesso, dove due sole persone pagate combattessero insieme per decider la causa.
Ma l'egoismo dell'uomo porta ch'egli impieghi ad ottenere il suo fine tutte quante le forze ch'egli può impiegare a tale effetto.
Un grand'esercito, sì per se stesso, sì per le imposte che bisognano a mantenerlo, non si mantiene senza incomodo e danno e spesa dei sudditi.
Finchè i sudditi non sono stati affatto servi, finchè la moltitudine è stata qualche cosa, finchè la voce della nazione si è fatta sentire, finchè la carne umana, eccetto quella di un solo per nazione, non è stata ad intierissima disposizione di questo solo che comanda, e come la carne, così tutto il resto, e la nazione per tutti i versi; fino, dico, [903]ad un tal punto, il principe non potendo adoperare la nazione a' suoi propri fini, se non sino ad un certo segno, le armate non furono più che tanto numerose.
La nazione, che era ancora in qualche modo nazione, non tollerava facilmente 1.
di guerreggiare pel puro capriccio del suo capo, e in bene di lui solo, 2.
le leve forzate, o almeno eccessive, 3.
l'eccesso delle imposte per far la guerra.
Non tollerava, dico, tutto questo, o poneva il principe in gravissimi pericoli e disturbi al di dentro.
Così che era dell'interesse del principe di risparmiare la nazione, che ancora tanto o quanto esisteva, e risparmiarla, sì nelle altre cose, sì massimamente dove si trattava del suo sangue, e delle sue proprietà più care, che sono i figli, i congiunti ec.
Dal tempo della distruzione della libertà, fino ai principii o alla metà del seicento, i sovrani se anche erano più tiranni d'oggidì, cioè più violenti e sanguinarii, appunto per l'urto in cui erano colla nazione, non sono stati però mai padroni così assoluti de' popoli, come in appresso.
Basta legger le storie e vedere come fossero frequenti e facili e pericolose in quei tempi le sedizioni, i tumulti popolari ec.
che per qualunque cagione nascessero, mostravano pur certo che la nazione era ancor viva, ed esisteva.
E non era strano in quei tempi, come dopo, [904]il vedere scorrere il sangue de' principi per mano de' suoi soggetti.
Di più il potere era assai più diviso, tanto colle baronie, signorie, feudi, ch'era il sistema monarchico d'allora, quanto colle particolari legislazioni, privilegii, governi in parte indipendenti delle città o provincie componenti le monarchie.
Così che il re, non trovando tutto a sua sola disposizioine, e non potendo servirsi della nazione per le sue voglie, se non con molti ostacoli, le armate venivano ad esser necessariamente piccole: ed è cosa manifesta che quando la signoria di una nazione è divisa in molte signorie, il signore di tutte, non può prendere da ciascuna se non poco, e infinitamente meno di quello che prenderebbe s'egli fosse il signore immediato, e se tutto dipendesse intieramente dall'arbitrio suo.
Cosa dimostrata dalla storia, ed osservata dai politici.
Ed anche per questo si stima nella guerra come principalissimo vantaggio, l'assoluta padronanza di un solo, e la intera monarchia, come quella di Macedonia in mezzo alla Grecia divisa ne' suoi poteri.
(Il che però ne' miei principii si deve intendere solamente nel caso che quelle nazioni combattute da una potenza dispotica non siano dominate da vero amor di patria, o meno, se è possibile, di quella nazione soggetta al dispotismo.
E tale era la Grecia ai tempi Macedonici, laddove la sola Atene aveva una volta resistito alla potenza dispotica della Persia, e vintala.
Perchè del resto è certo che un solo vero soldato della patria, val più di dieci soldati di un despota, se in quella nazione monarchica non esiste altrettanto o simile patriotismo.
E appunto nella battaglia di Maratona, uno si trovò contro dieci, cioè 10.m contro 100.m e vinsero.) Sono anche note le costituzioni di quei tempi, le carte nazionali, l'uso degli stati generali, corti ec.
come in Francia, in Ispagna ec.
con che o la moltitudine faceva ancora sentir la sua voce, o certo il potere restava meno indipendente ed uno, e il monarca più legato.
[905]Ma da che il progresso dell'incivilimento o sia corruzione, e le altre cause che ho tante volte esposte, hanno estinto affatto il popolo e la moltitudine, fatto sparire le nazioni, tolta loro ogni voce, ogni forza, ogni senso di se stesse, e per conseguenza concentrato il potere intierissimamente nel monarca, e messo tutti i sudditi e ciascuno di essi, e tutto quello che loro in qualunque modo appartiene, in piena disposizione del principe; allora e le guerre son divenute più arbitrarie, e le armate immediatamente cresciute.
Ed è cosa ben naturale, e non già casuale, ma conseguenza immancabile e diretta della natura delle cose e dell'uomo.
Perchè quanto un uomo può adoperare in vantaggio suo, tanto adopera; ed ora che il principe può adoperare al suo qualunque scopo o desiderio, tutta quanta è, e tutto quanto può la nazione, segue ch'egli l'adopri effettivamente senz'altri limiti che quelli di lei stessa, e delle sue possibili forze.
Il fatto lo prova.
Luigi 14.
o primo, o uno de' primi di quei regnanti che appartengono all'epoca della perfezione del dispotismo, diede subito l'esempio al mondo, della moltitudine delle armate.
Dato che sia questo esempio il seguirlo è necessario.
Perchè siccome oggi la grandezza di un'armata è arbitraria bensì, ma dipende, e deve corrispondere quanto si possa a quella del nemico, [906]così se quella del nemico è grande, bisogna che ancor voi, se potete, ancorchè non voleste, facciate che la vostra sia grande, e superi, potendo, in grandezza la nemica; nello stesso modo che la potreste far piccola, anzi menomissima per le stesse ragioni, nel caso opposto, come ho detto p.902.
Infatti l'esempio di Luigi 14.
fu seguito sì da' principi suoi nemici, sì da Federico secondo, il filosofo despota, e l'autore di molti nuovi progressi del despotismo, da lui felicemente coltivato e promosso.
Ed egli parimente obbligò alla stessa cosa i suoi nemici.
Finalmente la cosa è stata portata all'eccesso da Napoleone, per ciò appunto ch'egli è stato l'esemplare della forse ultima perfezione del despotismo.
Non però quest'eccesso è l'ultimo a cui vedremo naturalmente e inevitabilmente arrivare la cosa.
Dico inevitabilmente, supposti i progressi o la durata del dispotismo, e del presente stato delle nazioni, le quali due cose, secondo l'andamento dei tempi, il sapere che regna ec.
non pare che per ora, possano far altro che nuovi progressi, o pigliar nuove radici.
E in questo caso, dico inevitabilmente, sì per l'egoismo naturale dell'uomo, e conseguentemente del principe, egoismo il cui effetto è sempre necessariamente proporzionato al potere dell'egoista; sì ancora perchè dato che sia l'esempio, e preso il costume questo andamento, la cosa si rende necessaria anche a chi non la volesse.
E [907]che ciò sia vero, osservate.
Come si potrebbe rimediare a questo costume, ancorchè egli sia in ultima analisi arbitrario e dipendente dalla volontà? Con un accordo generale dei principi, di tutti coloro che possono mai guerreggiare? Non ignoro che questo accordo si tentò, o si suppose che si tentasse o proponesse al Congresso di Vienna.
E certo l'occasione era l'ottima che potesse mai darsi, ed altra migliore non si darà mai.
So però che nulla se n'è fatto.
Forse avranno conosciuta l'impossibilità, che realmente vi si oppone.
Primo, qual è oggi la guarentia de' trattati, se non la forza o l'interesse? Qual forza dunque o quale interesse vi può costringere a non cercare il vostro interesse con tutte le forze che potete? Secondo, (e questo prova più immediatamente che, anche volendo, non si può rimediare) chi si fida di un trattato precedente, in tempo di guerra? Chi non conosce quello che ho detto qui sopra nel primo luogo? e generalmente, chi non conosce la natura universale e immutabile dell'uomo? Se dunque il principe conosce tutto ciò, dunque sospetta del suo nemico; dunque anche non volendo, è obbligato a tenersi e provvedersi in modo ch'egli sappia resistere quanto più si può, a qualunque forza che il nemico voglia impiegare per attaccarlo.
Chi è colui che possa levar mille uomini, e ne levi cento, non sapendo se il nemico l'assalterà [908]con cento o con mille, anzi avendo più da creder questo che quello? E quando si fosse fatto l'accordo generale, e osservatolo per lungo tempo, tanto maggiore sarebbe il vantaggio proposto a chi improvvisamente rompesse il patto: e quindi presto o tardi questo tale non mancherebbe.
Ciò lo metterebbe in pieno possesso del suo nemico, e dopo un esempio solo di questa sorta, ognuno diffiderebbe, nessuno vorrebbe sull'incertezza arrischiare il tutto, e tutti ritornerebbero al primo costume.
E ciò si deve intendere non meno in tempo di guerra che di pace, essendo sempre continuo il pericolo che i governi portano l'uno dall'altro.
E ciò ancora è manifesto dal fatto, e dalle grandi forze che si tengono ora in tempo di pace, così che non c'è ora un tempo dove un paese resti disarmato, anzi non bene armato, a differenza sì de' tempi antichi, sì de' secoli cristiani anteriori a questi ultimi.
Da tutto ciò segue che le armate non solo non iscemeranno più, ma cresceranno sempre, cercando naturalmente ciascuno di superare l'altro con tutte le sue forze, e le sue forze stendendosi quanto quelle della nazione: che quindi le nazioni intiere, come fra gli antichi, si scanneranno scambievolmente, ma non, come fra gli antichi, spontaneamente, e di piena volonterosità, anzi vi saranno cacciate per marcia forza; non odiandosi scambievolmente, anzi essendo in piena indifferenza, e forse anche bramando di esser vinte (perchè, ed anche questo è notabile, perduto l'amor di patria, e l'indipendenza interna, la novità del padrone, e delle leggi, governo ec.
non solo non è odiata nè temuta, ma spesso desiderata e preferita) non per il proprio bene, ma per l'altrui; non per il ben comune, ma di uno solo; anzi di quei soli che abborriranno più di qualunque altro, [909]e più assai di chi combatteranno; insomma non secondo natura, nè per effetto naturale, ma contro natura assolutamente.
E lo stesso dite di tutte le altre conseguenze del dispotismo, sì rispetto alla guerra, come indipendentemente da essa.
Cioè i popoli, sì per causa delle proprie e delle altrui armate, sì astraendo da ciò, saranno smunti, impoveriti, disanguati, privati delle loro comodità, impedita o illanguidita l'agricoltura, collo strapparle i coltivatori, e collo spogliarla del prodotto delle sue fatiche; inceppato e scoraggiato il commercio e l'industria, collo impadronirsi che farà del loro frutto, il sempre crescente dispotismo ec.
ec.
ec.
In somma le nazioni, senza odiarsi come anticamente, saranno però come anticamente desolate, benchè senza tumulto, e senza violenza straordinaria; lo saranno dall'interno più che dall'estero, e da questo ancora, secondo le circostanze ec.
ec.
E tutto ciò non già verisimilmente, o senza una stabile e necessaria cagione, ma per conseguenza immancabile della natura umana, la quale non perchè sia diversa e peggiore ne' principi, ma semplicemente come natura umana, li porterà inevitabilmente a tutto questo; e il fatto già lo dimostra in moltissime e grandissime parti.
E tutto ciò senza ricavarne quell'entusiasmo, quel movimento, quelle virtù, quel valore, quel coraggio, quella tolleranza dei mali e delle fatiche, quella costanza, quella forza, quella vita pubblica e individuale, che derivava agli antichi anche dalle stesse grandi calamità: anzi per lo contrario, crescendo in proporzione delle moderne calamità, [910]il torpore, la freddezza, l'inazione, la viltà, i vizi, la monotonia, il tedio, lo stato di morte individuale, e generale delle nazioni.
Ecco i vantaggi dell'incivilimento, dello spirito filosofico e di umanità, del diritto delle genti creato, dell'amore universale immaginato, dell'odio scambievole delle nazioni distrutto, dell'antica barbarie abolita.
Queste mie osservazioni sono in senso tutto contrario a quello dell'Essai ec.
loc.
cit.
da me p.888.
il quale fa derivare la moltitudine delle armate moderne dallo spirito ed odio nazionale, ed egoismo delle nazioni, ed io (credo molto più giustamente) dalla totale ed ultima estinzione di questo spirito, e quindi di quest'odio, e di questo egoismo.
6.
Non solamente le virtù pubbliche, come ho dimostrato, ma anche le private, e la morale e i costumi delle nazioni, sono distrutti dal loro stato presente.
Dovunque ha esistito vero e caldo amor di patria, e massime dove più, cioè ne' popoli liberi, i costumi sono stati sempre quanto fieri, altrettanto gravi, fermi, nobili, virtuosi, onesti, e pieni d'integrità.
Quest'è una conseguenza naturale dell'amor patrio, del sentimento che le nazioni, e quindi gl'individui hanno di se stessi, della libertà, del valore, della forza delle nazioni, della rivalità che hanno colle straniere, e di quelle illusioni grandi e costanti e persuasive che nascono da tutto ciò, e che vicendevolmente lo producono: ed ella è cosa evidente che la virtù non ha fondamento se non se nelle illusioni, e che dove mancano le illusioni, manca la virtù, e regna il vizio, nello stesso modo che la dappocaggine e la viltà.
Queste son cose evidenti nelle storie, ed osservate da tutti i filosofi, e politici.
Ed è tanto vero; che le virtù private si trovano sempre in proporzione coll'amor patrio, e colla forza e magnanimità di una nazione; e l'indebolimento di queste [911]cose, colla corruttela dei costumi; e la perdita della morale si trova nella storia sempre compagna della perdita dell'amor patrio, della indipendenza, delle nazioni, della libertà interna, e di tutte le antiche e moderne repubbliche: influendo sommamente e con perfetta scambievolezza, la morale e le illusioni che la producono, sull'amor patrio, e l'amor patrio sulle illusioni e sulla morale.
È cosa troppo nota qual fosse la depravazione interna de' costumi in Francia da Luigi 14.
il cui secolo, come ho detto, fu la prima epoca vera della perfezione del dispotismo, ed estinzione e nullità delle nazioni e della moltitudine, sino alla rivoluzione.
La quale tutti notano che ha molto giovato alla perduta morale francese, quanto era possibile 1.
in questo secolo così illuminato, e munito contro le illusioni, e quindi contro le virtù: 2.
in tanta, e tanto radicata e vecchia depravazione, a cui la Francia era assuefatta: 3.
in una nazione particolarmente ch'è centro dell'incivilimento, e quindi del vizio: 4.
col mezzo di una rivoluzione operata in gran parte dalla filosofia, che volere o non volere, in ultima analisi è nemica mortale della virtù, perch'è amica anzi quasi la stessa cosa colla ragione, ch'è nemica della natura, sola sorgente della virtù.
(30.
Marzo-4.
Aprile 1821.)
Analogo al pensiero precedente è questo che segue.
[912]È cosa osservata dai filosofi e da' pubblicisti che la libertà vera e perfetta di un popolo non si può mantenere, anzi non può sussistere senza l'uso della schiavitù interna.
(Così il Linguet, credo anche il Rousseau, Contrat social l.3.
ch.15.
ed altri.
Puoi vedere anche l'Essai sur l'indifférence en matière de Religion, ch.10.
nel passo dove cita in nota il detto luogo di Rousseau insieme con due righe di questo autore.) Dal che deducono che l'abolizione della libertà è derivata dall'abolizione della schiavitù, e che se non vi sono popoli liberi, questo accade perchè non vi sono più schiavi.
Cosa, che strettamente presa, è falsa, perchè la libertà s'è perduta per ben altre ragioni, che tutti sanno, e che ha toccate in cento luoghi.
Con molto maggior verità si potrebbe dire che l'abolizione della schiavitù è provenuta dall'abolizione della libertà; o vogliamo, che tutte due son provenute dalle stesse cause, ma però in maniera che questa ha preceduto quella e per ragione e per fatto.
La conseguenza, dico, è falsa: ma il principio della necessità della schiavitù ne' popoli precisamente liberi, è verissimo.
Ecco in ristretto il fondamento e la sostanza di questa proposizione.
L'uomo nasce libero ed uguale agli altri, e tale egli è per natura, e nella stato primitivo.
Non così nello [913]stato di società.
Perchè in quello di natura, ciascuno provvede a ciascuno de' suoi bisogni e presta a se medesimo quegli ufficii che gli occorrono, ma nella società ch'è fatta pel ben comune, o ella non sussiste se non di nome, ed è al tutto inutile che gli uomini si trovano insieme, ovvero conviene ch'essi si prestino uffizi scambievoli, e provvedano mutuamente a' loro bisogni.
Ma ciascuno a ciascun bisogno degli altri non può provvedere: ovvero sarebbe cosa ridicola, e inutile, che io p.e.
pensassi intieramente a te, tu intieramente a me, potendo nello stesso modo viver separati, e far ciascuno per noi.
Dunque segue la necessità delle diverse professioni e mestieri, alcuni necessari alla vita assolutamente, ovvero tali quali li avrebbe esercitati l'individuo anche nella condizione naturale; altri non necessari, ma derivati appoco appoco dalla società e conducenti ai comodi e vantaggi che si godono (o si pretende godere) nella vita sociale, e intendo anche quei comodi primi primi, che ora passano per necessità; altri finalmente resi effettivamente necessari dalla stessa società come sono i mestieri che provvedono a cose divenuteci indispensabili per l'assuefazione, quello di chi insegna, quello massimamente di chi provvede alle cose pubbliche e veglia al bene e all'esistenza precisa di essa società; quello delle persone che difendono il buono dal cattivo (giacchè nata [914]la società nasce il pericolo del debole rispetto al forte) e la società istessa dalle altre società ec.
ec.
ec.
In somma, o la società non esiste assolutamente, o in essa esiste necessariamente la differenza dei mestieri e dei gradi.
Questo porterebbe le nazioni alle gerarchie, e così accadde infatti da principio, e accade ne' popoli ancora non inciviliti, siccome ne' civili.
Ma corrotta appoco appoco la società, e introdotto l'abuso del potere; e quindi i popoli avendo scosso il giogo e ripigliata la libertà naturale, ripigliarono con ciò anche l'uguaglianza.
Ed oltre che questa naturalmente vien dietro alla libertà, ho dimostrato altrove che la vera e precisa libertà non può mantenersi in una repubblica, senza tutta quella uguaglianza di cui mai possa esser capace la società.
Ma la libertà ed uguaglianza dell'uomo gli è bensì naturale nello stato primitivo; ma non conviene nè si compatisce, massime nella sua stretta nazione, collo stato di società, per le ragioni sopraddette.
Restava dunque, che richiedendosi nella società che l'uomo serva all'uomo, e questo opponendosi alla uguaglianza, l'uomo di una tal società fosse servito da uomini di un'altra, o di più altre società o nazioni, ovvero da una parte di quella medesima società, posta fuori de' diritti, de' vantaggi, delle proprietà, della uguaglianza, della libertà di questa, insomma considerata come estranea alla [915]nazione, e quasi come un'altra razza e natura di uomini dipendente, subalterna, e subordinata alla razza libera e uguale.
Ecco l'uso della schiavitù interna ne' popoli liberi e uguali; uso tanto più inerente alla costituzione di un popolo, quanto egli è più intollerante della propria servitù, come si è veduto negli antichi.
In questo modo la disuguaglianza in quel tal popolo libero veniva ad esser minore che fosse possibile, essendo le fatiche giornaliere, i servigi bassi, che avrebbero degradata l'uguaglianza dell'uomo libero, la coltura della terra ec.
destinata agli schiavi: e l'uomo libero, chiunque si fosse, e per povero che fosse, restando padrone di se, per non essere obbligato ai quotidiani servigi mercenarii, che vengono necessariamente a togliere in sostanza la sua indipendenza e libertà; e non partecipando quasi, in benefizio comune della società, se non della cura delle cose pubbliche, e del suo proprio governo, della conservazione o accrescimento della patria col mezzo della guerra ec.
colle sole differenze che nascevano dal merito individuale ec.
Tale infatti era la schiavitù nelle antiche repubbliche.
Tale in Grecia, tale quella degl'Iloti, stirpe tutta schiava presso i Lacedemoni, oriunda di Elos (?????) terra (oppidum) o città (casi Strabone presso il Cellar.
1.967.) del Peloponneso, presa a forza da' Lacedemoni nelle guerre, credo, Messeniache, e ridottane tutta la popolazione in ischiavitù, sì essa come i suoi discendenti in perpetuo.
V.
l'Encyclopéd.
Antiquités, art.
Ilotes, e il Cellario 1.973.
Tale la schiavitù presso i Romani, della quale v.
fra gli altri il Montesquieu, [916]Grandeur etc.
ch.17.
innanzi alla metà.
Floro 3.19.
Terra frugum ferax, (Sicilia) et quodammodo suburbana provincia, latifundiis civium Romanorum tenebatur.
Hic AD CULTUM AGRI frequentia ergastula, CATENATIQUE CULTORES, materiam bello praebuere.
E quanta fosse la moltitudine degli schiavi presso ai Romani si può congetturare dalla guerra servile, e dal pericolo che ne risultò.
Ne avevano i Romani, cred'io, d'ogni genere di nazioni; e Floro l.c.
nomina un servo Siro cagione e capo della guerra servile; Frontone nell'ultima epist.
greca, una serva Sira ec.
ec.
cose che si possono vedere in tutti gli scrittori delle antichità Romane.
V.
il Pignorio De Servis, e, se vuoi, l'articolo originale del Cav.
Hager nello Spettatore di Milano 1.
Aprile 1818.
Quaderno 97.
p.244.
fine-245.
principio, dove si tocca questo argomento della gran moltitudine de' servi romani, e se ne adducono alcuni esempi e prove, e si cita il detto Pignorio che dovrebbe trovarsi nel Grevio ec.
Cibale schiava Affricana è nominata nel Moretum.
E qual fosse l'idea morale che gli antichi avevano degli schiavi, si può dedurre da cento altri scrittori e luoghi, e fatti, e costumi degli antichi, ma segnatamente da questo luogo di Floro 3.20.
Enimvero servilium armorum dedecus feras.
Nam et ipsi per fortunam IN OMNIA OBNOXII (scil.
nobis) tamen QUASI SECUNDUM HOMINUM GENUS SUNT, et in bona libertatis nostrae adoptantur.
Questa seconda razza di uomini serviva dunque alla uguaglianza e libertà de' popoli antichi, in proporzione di essa libertà ed uguaglianza, e delle forze rispettive di questo o quel popolo, guerriere o pecunarie ec.
per [917]fare o comperare degli schiavi.
E l'antica uguaglianza e libertà, si manteneva effettivamente coll'aiuto e l'appoggio della schiavitù, ma della schiavitù di persone, che non avevano nulla di comune col corpo e la repubblica e la società di quelli che formavano la nazione libera ed uguale.
Così che la libertà ed uguaglianza di una nazione, aveva bisogno, e supponeva la disuguaglianza delle nazioni, e l'una non era indipendente neppure al di dentro, se non per la soggezione di altre, o parti di altre ec.
E la verità di tutte queste cose, e come l'uso o la necessità della schiavitù in un popolo libero abbia la sua ragione immediata non nella libertà, ma precisamente nella uguaglianza interna di esso popolo, si può vedere manifestamente per questa osservazione, la quale dà molta luce a questo discorso.
Arriano (Histor.
Indica, cap.10.
sect.8-9.
edit.
Wetsten.
cum Expedit.
Alexand.
Amstelaed.
1757.
cura Georg.
Raphelii, p.571.) dice fra le cose che si raccontavano degl'Indiani: ???????? (???????) ??? ???? ???? ?? ?? ? I???? ??, ?????? ? I????? ????? ??????????, ???? ???? ?????? ????? ? I????? ????? ??? ???????????????? ?? ????? ????????? ??? ?????????? (qua quidem in re Indis cum Lacedaemoniis convenit.
Interpres.) ?????????????? ??? ?? ?? ??????? ?????? ?????, ??? ?? ?????? ??????????? ?I?????? ??, ???? ????? ?????? ????, ??????? ? I???? ???.
(??????? nedum.
Index vocum.) [918]Osservate subito che questa cosa pare ad Arriano maravigliosa e singolare.
Poi osservate, che gl'indiani erano liberi, cioè parte avevano monarchie, ma somiglianti a quella primitiva di Roma ch'era una specie di Repubblica e alle antichissime monarchie greche; parte erano ?????? ????????? città libere e indipendenti assolutamente.
(Id.
ibid.
c.12.
sect.6.
et 5.
p.574.) Qual era dunque la cagione di questa singolarità? Sebbene Arriano non l'osserva, ella si trova però in quello ch'egli soggiunge immediatamente.
Ed è questo: ????????????? ?? ?????? ? I???? ?? ???? ??????? ?????? Distinguuntur autem Indi omnes in septem potissimum genera hominum (interpres.), ossia, caste.
(Id.
ib.
c.11.
sect.1.
p.571.) La prima de' sofisti (????????), la seconda degli agricoltori (???????), la terza de' pastori e bifolchi (??????, ?? ???????? ?? ??? ????????), la 4ta opificum et negotiatorum (???????????? ?? ??? ????????? ?????), la quinta dei militari (?? ??????????) i quali non avevano che a far la guerra quando bisognava, pensando gli altri a fornirli di armi, mantenerli, pagarli (tanto in tempo di guerra che di pace) e prestar loro tutti quanti gli uffizi castrensi, come custodire i cavalli, condurre gli elefanti, nettare le armi, fornire e guidare i cocchi, sicchè non restava loro che le pure funzioni guerriere; la sesta episcoporum sive inquisitorum (?? ????????? ??????????), specie d'ispettori di polizia, i quali non potevano [919]riferir niente di falso, e nessun indiano fu incolpato mai di menzogna ???? ??? ?????? ?????? ???? ????????? (c.12.
sect.5.
p.574.
fine); la settima finalmente ?? ???? ??? ?????? ???????????? ???? ?? ???????, ? ???? ?????? ???? ?????????, (liberae.
interpres) ??? ????? ???????: casta per sapienza e giustizia (?????? ??? ??????????) sopra tutti prestante, dalla quale si sceglievano i magistrati, i regionum praesides (????????), i prefetti (???????), i quaestores (??????????????), i ????????????? (copiarum duces), ???????? ??, ??? ??????, ??? ??? ???? ???????? ????? ?????????.
(ib.
c.12.
sect.6-7.) Ecco dunque la ragione perchè gl'indiani non usavano schiavitù.
Perchè sebben liberi, non avevano l'uguaglianza.
Ma come dunque senza l'uguaglianza conservavano la libertà? Neppur questo l'osserva Arriano, ma la cagione si deduce da quello ch'egli immediatamente soggiunge: (ib.
sect.8-9) ??????? ?? ?? ?????? ??????, ?? ?????? ???? ????? ?????????? ?? ??? ????????????, ? ???????? ???? ??? ?????? ??????????? ??? ?????, ???? ????? ?????? ???? ???????? ?? ?????? ?????? ??? ??????? ???? ????????? ?? ?????? ???????? ? ????? ?? ???????????.
?????? ?????? ???????, ???????? ?? ?????? ?????? ????????? ??? ?? ??????? ????? ?????????? ???? ?? ????????, ???? ?????? ????????????? (non mollis vita sed omnium laboriosissima.
interpres.)
Questa costituzione, che si vede ancora sussistere fra [920]gl'indiani quanto alla distinzione in caste, e al divieto di passare dall'una all'altra o per matrimonii, o comunque; a questa costituzione che sussiste, credo, in parte anche nella Cina, dove il figlio è obbligato ad esercitare la professione del padre, e dove i ranghi sono con molta precisione distinti; questa costituzione, di cui, se ben ricordo, si trova qualche traccia fra gli antichi Persiani nel primo o ne' primi libri della Ciropedia; questa costituzione, di cui si trova pure qualche indizio nel popolo Ebreo, dove una sola tribù era destinata esclusivamente al Sacerdozio; questa costituzione che pare che in tutto o in parte, fosse comune, fino dagli antichissimi tempi, ai popoli dell'Asia, e si vede, se non erro, anche oggidì, in alcune nazioni delle coste dell'Affrica; questa costituzione di cui forse si potrebbero trovare molte somiglianze anche nelle altre conosciute, e massime nelle più antiche, come nell'antica costituzione di Roma ec.; questa costituzione, dico, è forse la migliore, forse l'unica capace di conservare, quanto è possibile, la libertà senza l'uguaglianza.
Perocchè, ponendo un freno e un limite all'ambizione, e alla cupidigia degl'individui, e togliendo [921]loro la facoltà di cangiare, e di avanzare più che tanto la loro condizione, viene a togliere in gran parte la collisione dei poteri, e le discordie interne; viene a conservare l'equilibrio, a mantenere lo stato primitivo della repubblica (che dev'essere il principale scopo degl'istituti politici), a perpetuare l'ordine stabilito ec.
ec.
Vero è però, anzi troppo vero, che in questa costituzione io dubito che si possano trovare i grandi vantaggi della libertà.
Si troverà la quiete, e la detta costituzione sarà adattata ad un popolo, che per qualunque cagione, sia capace di contentarsi di questo vantaggio, e contenere i suoi desideri dentro i limiti del tranquillo e libero ben essere, e ben vivere, senza curarsi del meglio che in verità è sempre nemico del bene.
Ma l'entusiasmo, la vita, le virtù splendide dei popoli liberi, non pare che si possano compatire con questa costituzione.
Tolte le due molle dell'ambizione e della cupidigia, vale a dire dell'interesse proprio; tolta quasi la molla della speranza, almeno della grande speranza; deve seguirne l'inattività, e il poco valore in tutto il significato di questa parola, la poca forza nazionale ec.
L'interesse proprio non essendo legato con quello della patria, o per lo meno, con quello del di lei avanzamento, giacchè questo avanzamento non sarebbe [922]legato, o certo poco legato, coll'avanzamento individuale, e di quello stesso che avesse procurato l'avanzamento della patria; di più non partecipando, se non pochissimi al governo, e quindi la moltitudine, non sentendo intimamente di far parte della patria, e d'esser compatriota de' suoi capi; l'amor patrio in questo tal popolo, o non deve formalmente e sensibilmente esistere, o certo non dev'esser molto forte, nè cagione di grandi effetti, nè capace di spingere l'individuo a grandi sacrifizi.
Il fatto dimostra queste mie osservazioni.
Perchè una conseguenza immancabile di questa costituzione, dev'essere, secondo il mio discorso, che un tal popolo, ancorchè libero, e quanto all'interno, durevole nella sua libertà, e nel suo stato pubblico, tuttavia non possa essere conquistatore.
Ora ecco appunto che Arriano ci dice, come gl'indiani non solo non furono mai conquistatori, ma per una parte, da Bacco e da Ercole in poi era opinione ??????????????? ?? ??? ??? ?????? ??? ?????? fino ad Alessandro (l.c.
c.9.
sect.10.
p.569); ed ecco la cagione per cui anche senza troppa forza nazionale, ed interna, il loro stato potè durare lungamente: per l'altra parte era pure opinione (sect.12.
p.
cit.) ?? ??? ?? ???? ?????? ???? ??? ??? ??????? ???????? ??? ??????, ??? ?????????? (ad bellum missum [923]esse.
interpres).
E altrove più brevemente: (c.5.
sect.4.
p.558.) ???? ?? ? ?????????? ?????, ???? ??????? ????????????? ?????????? ???????????, ???? ????????? ?????? ?????????.
Cioè fino ad Alessandro.
Conseguenza naturale della detta costituzione, sebbene Arriano lo riferisce staccatamente, e come indipendente, e non vede la relazione che hanno queste cose tra loro.
V.
p.943.
capoverso 2.
Il fatto sta che siccome nessuna nazione è così atta alla qualità di conquistatrice, come una nazione libera, il che apparisce dal fatto, e da quello che ho ragionato nel pensiero antecedente ec.; così anche è pur troppo vero che il maggior pericolo della libertà di un popolo nasce dalle sue conquiste e da' suoi qualunque ingrandimenti, che distruggono appoco [appoco] l'uguaglianza, senza cui non c'è vera libertà, e cangiano i costumi, lo stato primitivo, l'ordine della repubblica; sicchè finalmente la precipitano nella obbedienza.
Cosa anche questa dimostrata dal fatto.
(4-6.
Aprile 1821.)
Siccome l'amor patrio o nazionale non è altro che una illusione, ma facilmente derivante dalla natura, posta la società, com'è naturale l'amor proprio nell'individuo, e posta la famiglia, l'amor di famiglia, che si vede anche ne' bruti; così esso non si mantiene, e non produce buon frutto senza le illusioni e i pregiudizi che naturalmente ne derivano, o che anche ne sono il fondamento.
L'uomo non è sempre ragionevole, ma sempre conseguente in un modo o nell'altro.
Come dunque amerà [924]la sua patria sopra tutte, e come sarà disposto nei fatti, a tutte le conseguenze che derivano da questo amore di preferenza, se effettivamente egli non la crederà degna di essere amata sopra tutte, e perciò la migliore di tutte; e molto più s'egli crederà le altre, o qualcun'altra, migliore di lei? Come sarà intollerante del giogo straniero, e geloso della nazionalità per tutti i versi, e disposto a dar la vita e la roba per sottrarsi al dominio forestiero, se egli crederà lo straniero uguale al compatriota, e peggio, se lo crederà migliore? Cosa indubitata: da che il nazionale ha potuto o voluto ragionare sulle nazioni, e giudicarle; da che tutti gli uomini sono stati uguali nella sua mente; da che il merito presso lui non ha dipenduto dalla comunanza della patria ec.
ec.; da che egli ha cessato di persuadersi che la sua nazione fosse il fiore delle nazioni, la sua razza, la cima delle razze umane; dopo, dico, che questo ha avuto luogo, le nazioni sono finite, e come nella opinione, così nel fatto, si sono confuse insieme; passando inevitabilmente la indifferenza dello spirito e del giudizio e del concetto, alla indifferenza del sentimento, della inclinazione, e dell'azione.
E questi pregiudizi che si rimproverano alla Francia, perchè offendono l'amor proprio degli stranieri, sono la somma salvaguardia della sua nazionale indipendenza, come lo furono presso gli antichi; [925]la causa di quello spirito nazionale che in lei sussiste, di quei sacrifizi che i francesi son pronti a fare ed hanno sempre fatto, per conservarsi nazione, e per non dipendere dallo straniero; e il motivo per cui quella nazione, sebbene così colta ed istruita (cose contrarissime all'amor patrio), tuttavia serba ancora, forse più che qualunque altra, la sembianza di nazione.
E non è dubbio che dalla forza di questi pregiudizi, come presso gli antichi, così nella Francia, doveva seguire quella preponderanza sulle altre nazioni d'Europa, ch'ella ebbe finora, e che riacquisterà verisimilmente.
(6.
Aprile 1821.)
Si considera come sola cosa necessaria la vita, la quale anzi è la cosa meno necessaria di tutte le altre.
Perchè tutte le necessità o desiderabilità hanno la loro ragione nella vita, la quale, massime priva delle cose o necessarie o desiderabili, non ha la ragione della sua necessità o desiderabilità in nessuna cosa.
(6.
Aprile 1821.)
La superiorità della natura sopra tutte le opere umane, o gli effetti delle azioni dell'uomo, si può vedere anche da questo, che tutti i filosofi del secolo passato, e tutti coloro che oggi portano questo nome, e in genere tutte le persone istruite di questo secolo, che è indubitatamente [926]il più istruito che mai fosse, non hanno altro scopo rispetto alla politica (parte principale del sapere umano), e non sanno trovar di meglio che quello che la natura aveva già trovato da se nella società primitiva, cioè rendere all'uomo sociale quella giusta libertà ch'era il cardine di tutte le antiche politiche presso tutte le nazioni non corrotte, e così oggi presso tutte le popolazioni non incivilite, e allo stesso tempo non barbarizzate, cioè tutte quelle che si chiamano barbare, di quella barbarie primitiva, e non di corruzione.
(6.
Aprile 1821.)
Alla p.872.
E non per altra cagione sono odiose e riputate contrarie alla buona creanza le lodi di se medesimo, se non perchè offendono l'amor proprio di chi le ascolta.
E perciò la superbia è vizio nella società, e perciò l'umiltà è cara, e stimata virtù.
(7 Aprile 1821.)
In qualunque nazione o antica o moderna s'incontrano grandi errori contrari alla natura, come dovunque grandi cognizioni contrarie alla natura; quivi non s'incontra niente o ben poco di grande di bello di buono.
E questo è l'uno de' principali motivi per cui le nazioni orientali, ancorchè grandi, ancorchè la loro storia rimonti a tempi antichissimi, tempi ordinariamente compagni del grande e del bello; ancorchè ignorantissime in ultima analisi, e quindi prive dei grandi ostacoli della ragione e del vero, e questo anche oggidì; tuttavia non offrano quasi niente di vero grande nè di vero bello, e ciò tanto [927]riguardo alle azioni, ai costumi, all'entusiasmo e virtù della vita, quanto alle produzioni dell'ingegno e della immaginazione.
E la causa per la quale i Greci e i Romani soprastanno a tutti i popoli antichi, è in gran parte questa, che i loro errori e illusioni furono nella massima parte conformissime alla natura, sicchè si trovarono egualmente lontani dalla corruzione dell'ignoranza, e dal difetto di questa.
Al contrario de' popoli orientali le cui superstizioni ed errori, che sebbene moderni e presenti, si trovano per lo più di antichissima data, furono e sono in gran parte contrarie alla natura, e quindi con verità si possono chiamar barbare.
E si può dire che nessun popolo antico, nell'ordine del grande e del bello, può venire in paragone de' greci e de' Romani.
Il che può derivare anche da questo, che forse i secoli d'oro degli altri popoli, come degli Egiziani, degl'Indiani, de' Cinesi, de' Persiani ec.
ec.
essendo venuti più per tempo, giacchè questi popoli sono molto più antichi, la memoria loro non è passata fino a noi, ma rimasta nel buio dell'antichità, col quale viene a coincidere la epoca dei detti secoli; e per lo contrario ci è pervenuta la memoria sola della loro corruzione e barbarie, succeduta naturalmente alla civiltà, e abbattutasi ad esser contemporanea della grandezza e del fiore dei popoli greco e Romano, la qual grandezza occupa [928]e signoreggia le storie nostre, alle quali per la maggior vicinanza de' tempi ha potuto pervenire, e perch'ella signoreggiò effettivamente in tempi più vicini a noi.
Anzi si può dire che quanto ci ha di grande e di bello rispetto all'antichità nelle storie, e generalmente in qualunque memoria nostra, tutto appartiene all'ultima epoca dell'antichità, della quale i greci e i Romani furono effettivamente gli ultimi popoli.
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Platone in persona di quel sacerdote Egiziano.
(10.
Aprile 1821.).
V.
p.2331.
Spegnere parola tutta propria oggi degl'italiani, non pare che possa derivare da altro che da ????????? mutato, oltre la desinenza, il ? in p, mutazione ordinaria per esser due lettere dello stesso organo, cioè labiali, e il doppio ? in gn, questo pure ordinario, e ordinarissimo presso gli spagnuoli che da annus fanno año ec.
ec.
Se dunque spegnere deriva dalla detta parola greca, è necessario supporre ch'ella fosse usitata nell'antico latino, (sia che le dette mutazioni, o vogliamo, diversità di lettere esistessero già nello stesso latino, sia che vi fossero introdotte, nel passare questa parola dal latino in italiano) tanto più che l'uso del detto verbo spegnere è limitato, (cred'io) alla sola Italia.
Il Forcellini non ha niente di simile nelle parole comincianti per exb, exp, exsb, exsp, sb, sp.
Parimente il Ducange, che ho ricercato accuratamente.
(10.
Aprile 1821.)
La lingua Sascrita, quell'antichissima lingua indiana, che quantunque diversamente alterata e corrotta, e distinta in moltissimi dialetti, vive ancora e si parla in tutto l'Indostan, [929](Annali di Scienze e Lettere Milano.
1811.
Gennaio.
vol.5.
n.13.
Vilkins, Gramatica della lingua Sanskrita: articolo tradotto da quello di un cospicuo letterato nell'Edinburgh Review.
p.28-29-31.
fine-32.
principio.
e 32.
mezzo.
35.
fine-36.
principio) e altre parti dell'India, (ivi 28.
fine) e segnatamente sotto nome di lingua Pali in tutte le nazioni poste all'oriente della medesima India (ivi 36.); quella lingua che Sir William (Guglielmo) Jones famosissimo per la cognizione sì delle cose orientali, sì delle lingue orientali e occidentali (ivi 37.
princip.
e fine), non dubitò di dichiarare essere più perfetta della greca, più copiosa della Latina, e dell'una e dell'altra più sapientemente raffinata (ivi 52.); quella lingua dalla quale è opinione di alcuni dotti inglesi del nostro secolo, non senza appoggio di notabili argomenti e confronti, che sieno derivate, o abbiano avuto origine comune con lei, le lingue Greca, Latina, Gotica, e l'antica Egiziana o Etiopica (come pure i culti popolari primitivi di tutte queste nazioni) (ivi.
37.38.
princip.
e fine); questa lingua, dico, antichissima, ricchissima, perfettissima, avendo otto casi, non si serve delle preposizioni coi nomi (i suoi otto casi rendono superfluo l'uso delle preposizioni.
ivi 52.
fine), ma le adopera esclusivamente da prefiggersi ai verbi, come si fa in greco, laddove, sole, rimangonsi prive affatto d'ogni significato.
(ivi.) Così che tutte le sue preposizioni sono destinate espressamente ed unicamente alla composizione, e a variare e moltiplicare col mezzo di questa, i significati [930]dei verbi.
(Altre particolarità di quella lingua, analoghe affatto alle particolarità e pregi delle nostre lingue antiche, come formalmente l'osserva l'Estensore dell'articolo, puoi vederle, se ti piacesse, nel fine d'esso articolo, cioè dalla metà della p.52.
a tutta la p.53.).
(11.
Aprile 1821.)
Oggi l'uomo è nella società quello ch'è una colonna d'aria rispetto a tutte le altre e a ciascuna di loro.
S'ella cede, o per rarefazione, o per qualunque conto, le colonne lontane premendo le vicine, e queste premendo nè più nè meno in tutti i lati, tutte accorrono ad occupare e riempiere il suo posto.
Così l'uomo nella società egoista.
L'uno premendo l'altro, quell'individuo che cede in qualunque maniera, o per mancanza di abilità, o di forza, o per virtù, e perchè lasci un vuoto di egoismo, dev'esser sicuro di esser subito calpestato dall'egoismo che ha dintorno per tutti i lati: e di essere stritolato come una macchina pneumatica dalla quale, senza le debite precauzioni, si fosse sottratta l'aria.
(11.
Aprile 1821.)
A quello che ho detto delle guerre antiche paragonate colle moderne, aggiungete che una nazione intera potrà muover guerra per qualche causa ingiusta, (e ciò ancora più difficilmente che il principe), ma non mai per un assoluto capriccio.
Al contrario il principe.
Perchè molti non possono avere uno stesso capriccio, essendo il capriccio una cosa relativa, e variabile, secondo le [931]teste, e senza una causa uniforme di esistere.
Così che la nazione non si può accordare tutta intiera in un capriccio.
Ma s'ella non ha bisogno di convenirci, dipendendo già tutta intera da un solo, e questo solo avendo capricci come gli altri perchè uomo, e più degli altri perchè padrone, e potendo il suo capriccio disporre della guerra e della pace, e di tutto quello che spetta a' suoi sudditi; vedete quali sono le conseguenze; osservate se combinino coi fatti, e poi anche ditemi se dalla possibilità del capriccio nel mover guerra, segua che queste debbano esser più rare o più frequenti delle antiche.
(11.
Aprile 1821.)
Non è cosa più dispiacevole e dispettosa all'uomo afflitto, e oppresso dalla malinconia, dalla sventura presente, o dal presente sentimento di lei, quanto il tuono della frivolezza e della dissipazione in coloro che lo circondano, e l'aspetto comunque della gioia insulsa.
Molto più se questo è usato con lui, e soprattutto s'egli è obbligato per creanza, o per qualunque ragione a prendervi parte.
(12.
Aprile 1821.)
La stessa proporzionata disparità ch'è fra gli antichi e i moderni, in ordine al bello, alla immaginazione, alla letizia, alla felicità per l'una parte, e al vero, alla ragione, alla malinconia, alla infelicità per l'altra parte; la stessa, dico, si trova proporzionatamente in ciascheduna età antica o moderna, fra i popoli meridionali e i settentrionali.
Sebbene l'antichità era il tempo del bello, [932]e della immaginazione, tuttavia anche allora la Grecia e l'Italia ne erano la patria, e il luogo.
E quantunque non fossero quei tempi adattati alla profondità dell'intelletto, al vero, alla malinconia, contuttociò ne' Settentrionali si vede l'inclinazione loro naturale a queste qualità, e negl'inni, nei canti, nelle sentenze staccate dei Bardi, si nota, oltre alla famosa malinconia, una certa profondità di pensiero, e la osservazione di certe verità che anche oggi in tanto progresso della filosofia, non sono le più triviali.
Insomma vi si nota un carattere di pensiero diversissimo nella profondità, da quello de' meridionali degli stessi tempi.
(V.
se vuoi, gli Annali di Scienze e Lettere, Milano.
vol.6.
n.18.
Giugno 1811.
Memoria intorno ai Druidi e ai Bardi Britanni, p.376-378.
e 383 fine - 385.
dove si riportano parecchi aforismi e documenti de' Bardi.) Così per lo contrario, sebbene l'età moderna è il tempo del pensiero, nondimeno il settentrione ne è la patria, e l'Italia conserva tuttavia qualche poco della sua naturale immaginazione, del suo bello, della sua naturale disposizione alla letizia ed alla felicità.
In quello dunque che ho detto de' miei diversi stati, rispetto alla immaginazione e alla filosofia, paragonandomi col successo de' tempi moderni agli antichi, si può anche aggiungere il paragone coi popoli meridionali e settentrionali.
(12.
Aprile 1821.)
L'estensione reale e strettamente considerata, della quale è capace una lingua, in quanto lingua [933]usuale, quotidiana, propria, e materna, è piccolissima; e molto minore che non si crede.
Una stretta conformità di linguaggio, e per conseguenza una medesima lingua strettamente considerata, non è comune se non ad un numero ben piccolo di persone, e non occupa se non un piccolo tratto geografico.
1.
Ognuno sa e vede in quante lingue riconosciute, e scritte, e distinte con precisione, sia divisa l'Europa, e il mondo, e come ciascuna nazione usi una lingua differente precisamente dalle altre, e propria sua, sebbene possa aver qualche maggiore o minore affinità colle forestiere.
2.
Diffondendosi una nazione, ed occupando un troppo largo tratto di paese, e crescendo a un soverchio numero d'individui, l'esperienza continua dei secoli, e la fede di tutte le storie, dimostra che la lingua di quella nazione si divide, la conformità del linguaggio si perde, e per quanto quella nazione sia veramente ed originariamente la stessissima, la sua lingua non è più una.
Così è accaduto alla lingua de' Celti, diffusi per la Gallia, la Spagna, la Bretagna, e l'Italia ec.
con che la lingua celtica s'è divisa in tante lingue, quanti paesi ha occupato la nazione.
Così alla teutonica, alla slava ec.
e fra le orientali all'arabica, colla diffusione de' maomettani.
3.
Sebbene un popolo conquistatore trasporti e pianti la sua lingua nel paese conquistato, e distrugga anche del tutto la lingua paesana, la sua lingua in quel tal paese appoco appoco si altera, finattanto che torna a diventare una lingua diversa dalla introdottaci.
Testimoni i Romani, [934]la cui lingua piantata colla conquista nella Francia e nella Spagna, (per non estenderci ora ad altro) e distrutta intieramente la lingua indigena (giacchè quei minimi avanzi che ne potessero ancora restare, non fanno caso), non fece altro che alterandosi a poco a poco, finalmente emettere dal suo seno due lingue da lei formalmente diverse, la francese, e la spagnuola.
Lo stesso si potrebbe dire d'infinite altre famiglie di lingue Europee, e non Europee, che uscite ciascuna da una lingua sola, colla diffusione dei loro parlatori, si sono moltiplicate e divise in tante lingue quante compongono quella tal famiglia.
4.
Anche dalle osservazioni precedenti si può dedurre, che questa impossibilità naturale e positiva dello estendersi una lingua più che tanto, in paese, e in numero di parlatori (o provenga dal clima che diversifichi naturalmente le lingue, o da qualunque cagione), non è solamente dipendente dalla mescolanza di altre lingue che guastino quella tal lingua che si estende, a misura che trova occupato il posto da altre, e ne le caccia: ma che è un'impossibilità materiale, innata, assoluta, per cui, quando anche tutto il resto del mondo fosse vuoto, o muto, quella tal lingua, dilatandosi più che tanto, si dividerebbe appoco appoco in più lingue.
E ciò intendo di confermare anche colle osservazioni seguenti.
5.
Le colonie che trasportano di pianta una lingua in diversi luoghi, portandovi i di lei stessi parlatori [935]naturali, sono soggette alla stessa condizione.
Testimoni i tre famosi e principali dialetti delle colonie greche, Jonico, Dorico, Eolico, per tacere d'infiniti altri esempi.
6.
Ciò non basta.
Solamente che una nazione, senza occupare paesi discosti, e forestieri, senza trasportarsi in altri luoghi, si dilati, e formi un corpo più che tanto grande, la sua lingua, dentro la stessa nazione, e nelle sue proprie viscere, si divide, e si diversifica più o meno dalla sua primitiva, in proporzione della distanza dal primo e limitato seggio della nazione, dalla prima fonte della nazione e della lingua, la quale non si conserva pura se non in quel preciso e ristretto luogo dov'ella fu primieramente parlata.
Testimoni i moltissimi dialetti minori ne' quali era divisa la lingua greca dentro la stessa Grecia, paese di sì poca estensione geografica, il Beotico, il Laconico, il Macedonico, lo Spartano, il Tessalico: e parimente suddivisi i di lei dialetti principali negli altri minori, Cretese, Sciotto, Cipriotto, Cirenese, Delfico, Efesio, Lidio, Licio, Megarese, Panfilio, Fenicio, Regino, Siciliano, Siracusano, Tarentino ec.
(V.
Sisti, Introduz.
alla lingua greca §.211.) Testimoni i dialetti della lingua italiana, della francese, della spagnuola, della tedesca, e di tutte le lingue antiche o moderne, purchè i loro parlatori siano più che tanto estesi di numero e di paese.
Che la lingua Ebraica fosse distinta in dialetti nelle stesse tribù Ebraiche, dentro la stessa Cananea.
v.
Iudic.
c.12.
vers.5-6.
e quivi i comentatori.
La lingua Caldaica ec.
non è che un Dialetto dell'Ebraica.
La samaritana parimente; o l'ebraica è un dial.
della Samarit.
o figlia o corruzione di essa.
ec.
De' tre dialetti egiziani-coptici tutti tre scritti, v.
il Giorgi.
7.
Neppur questo è tutto.
Ma dentro i confini di un medesimo ed unico dialetto, non v'è città, il cui linguaggio non differisca più o meno, da quello medesimo della città più immediatamente vicina.
Non differisca dico, nel tuono e inflessione e modulazione della pronunzia, nella inflessione e modificazione diversa delle [936]parole, e in alcune parole, frasi, maniere, intieramente sue proprie e particolari.
Questo si vede nelle città di Toscana (tanto che il Varchi vuole perciò che la lingua scritta italiana, non solo non si chiami italiana, ma neppur toscana, bensì fiorentina), si vede nelle altre città di qualunque provincia italiana, e dappertutto.
Di più in ciascuna città, il linguaggio cittadinesco è diverso dal campestre.
Di più senza uscire dalla città medesima, è noto che nella stessa Firenze si parla più di un dialetto, secondo la diversità delle contrade: (e di ciò pure il Varchi).
Così che una lingua non arriva ad essere strettamente conforme e comune, neppure ad una stessa città, s'ella è più che tanto estesa, e popolata.
E così credo che avverrà pure in Parigi ec.
V.
p.1301.
fine.
Da questi dati caviamo alcune conseguenze più alte ed importanti.
1.
Che la diversità de' linguaggi è naturale e inevitabile fra gli uomini, e che la propagazione del genere umano portò con se la moltiplicità delle lingue, e la divisione e suddivisione dell'idioma primitivo, e finalmente il non potersi intendere, nè per conseguenza comunicare scambievolmente più che tanto numero di uomini.
La confusione de' linguaggi che dice la Scrittura essere stato un gastigo dato da Dio agli uomini, è dunque effettivamente radicata nella natura, e inevitabile nella generazione umana, e fatta proprietà essenziale delle nazioni ec.
2.
Che il progetto di una lingua universale, (seppure per questa s'è mai voluta intendere una lingua propria e nativa e materna e quotidiana di tutte le nazioni) è una chimera non solo materialmente, e relativamente, e per le circostanze e le difficoltà che risultano dalle cose quali ora sono, [937]ossia dalla loro condizione attuale, ma anche in ordine all'assoluta natura degli uomini; vale a dire non solamente in pratica, ma anche in ragione.
3.
Considerando per l'una parte la naturale e inevitabile ristrettezza, che ho detto, de' confini di una lingua assolutamente uniforme; per l'altra parte, che la lingua è il principalissimo istrumento della società, e che per distintivo principale delle nazioni si suole assegnare la uniformità della lingua; ne inferiremo
I.
Una prova di quello che ho detto p.873.
fine-877.
intorno alla ristrettezza delle società primitive quanto all'estensione; cioè si conoscerà come la natura avesse effettivamente provveduto anche per questa parte alla detta ristrettezza.
II.
Una nuova considerazione intorno agli ostacoli che la natura avea posto all'incivilimento.
Giacchè l'incivilimento essendo opera della società, e andando i suoi progressi in proporzione della estensione di essa società e del commercio scambievole ec.; e per l'altra parte, l'istrumento principale della società essendo la lingua, e questa avendo fatto la natura che non potesse essere uniforme se non fra pochissimi; si viene a conoscere come anche per questa parte la natura si sia opposta alla soverchia dilatazione e progresso della società, ed all'alterazione [938]degli uomini che ne aveva a seguire.
Opposizione che non si è vinta, se non con infinite difficoltà, con gli studi, e con cento mezzi niente naturali, facendo forza alla natura, come si sono superate tutte le altre barriere che la natura avea poste all'incivilimento e alla scienza.
III.
Come la società, così anche la lingua fa progressi coll'estensione: e la lingua di un piccolo popolo, è sempre rozza, povera, e bambina balbettante, se non in quanto ella può essere influita dal commercio coi forestieri, che è fuori anzi contro il caso.
Si vede dunque che la natura coll'impedire l'estensione di una lingua uniforme, ne ha voluto anche impedire il perfezionamento, anzi anche la semplice maturità o giovanezza.
Da ciò segue che la lingua destinata dalla natura primitivamente e sostanzialmente agli uomini, era una lingua di ristrettissime facoltà, e quindi di ristrettissima influenza.
Dunque segue che essendo la lingua l'istrumento principale della società, la società destinata agli uomini dalla natura, era una società di pochissima influenza, una società lassa, e non capace di corromperli, una società poco maggiore di quella ch'esiste fra i bruti, come ho detto in altri pensieri.
IV.
Colla debolezza della lingua destinataci, la natura avea provveduto alla conservazione del nostro stato primitivo, non solo in ordine alla generazione contemporanea, [939]ma anche alle passate e future.
Mediante una lingua impotente, è impotente la tradizione; e le esperienze, cognizioni ec.
degli antenati arrivano ai successori, oscurissime incertissime debolissime e più ristrette assai di quelle ristrettissime che con una tal lingua e una tal società avrebbero potuto acquistare i loro antenati; cioè quasi nulle.
Perchè i bruti non avendo lingua, non hanno tradizione, cioè comunicazione di generazioni, perciò il bruto d'oggidì è freschissimo e naturalissimo come il primo della sua specie uscito dalle mani del Creatore.
Tali dunque saremmo noi appresso a poco, con una lingua limitatissima nelle sue facoltà.
Il fatto lo conferma.
Tutti i popoli che non hanno una lingua perfetta, sono proporzionatamente lontani dall'incivilimento.
V.
p.942.
capoverso 1.
E finchè il mondo non l'ebbe, conservò proporzionatamente lo stato primitivo.
Così pure in proporzione, dopo l'uso della scrittura dipinta, e della geroglifica.
L'incivilimento, ossia l'alterazione dell'uomo, fece grandi progressi dopo l'invenzione della scrittura per cifre, ma però sino a un certo segno, fino all'invenzione della stampa, ch'essendo la perfezione della tradizione, ha portato al colmo l'incivilimento.
Invenzioni tutte difficilissime, e soprattutto la scrittura per cifre; onde si vede quanto la natura fosse lontana dal supporle, e quindi dal volere e ordinare i loro effetti.
E questo si può riferire a quello che ho detto [940]in altri pensieri contro coloro che considerano l'incivilimento come perfezionamento, e quindi sostengono la perfettibilità dell'uomo.
Il quale incivilimento apparisce e dalla ragione e dal fatto che non si poteva conseguire, e molto meno perfezionare senza l'invenzione della scrittura per cifre; invenzione astrusissma, e mirabile a chi un momento la consideri, e della quale gli uomini hanno dovuto mancare, non già casualmente, ma necessariamente per lunghissima serie di secoli, com'è accaduto.
Torno dunque a domandare se è verisimile che la natura alla perfezione di un essere privilegiato fra tutti, abbia supposto e ordinato un tal mezzo ec.
ec.
Lo stesso dico del perfezionamento di una lingua, cosa anch'essa difficilissima e tardissima a conseguirsi, e intendo ora, non quello che riguarda la bellezza, ma la semplice utilità di una lingua.
Lo stesso altresì della stampa inventata 4 soli secoli fa, non intieri.
ec.
ec.
V.
p.955.
capoverso 1.
e il mio pensiero circa la diversità degli alfabeti naturali.
Altro è la perfettibilità della società, altro quella dell'uomo ec.
ec.
ec.
(12-13.
Aprile 1821.)
Quello che ho detto in parecchi pensieri della compassione che eccita la debolezza, si deve considerare massimamente in quelli che sono forti, e che sentono in quel momento la loro forza, e ne' quali questo sentimento contrasta coll'aspetto della debolezza o impotenza di quel tale oggetto amabile o compassionevole: amabilità che in [941]questo caso deriva dalla sorgente della compassione, quantunque quel tale oggetto in quel punto non soffra, o non abbia mai sofferto, nè provato il danno della sua debolezza.
Al qual proposito si ha una sentenza o documento de' Bardi Britanni rinchiusa in certi versi che suonano così: Il soffrire con pazienza e magnanimità, è indizio sicuro di coraggio e d'anima sublime; e l'abusare della propria forza è segno di codarda ferocia.
(Annali di Scienze e Lettere l.
cit.
di sopra (p.932.) p.378.) L'uomo forte ma nel tempo stesso magnanimo, deriva senza sforzo e naturalmente dal sentimento della sua forza un sentimento di compassione per l'altrui debolezza, e quindi anche una certa inclinazione ad amare, e una certa facoltà di sentire l'amabilità, trovare amabile un oggetto, maggiore che gli altri.
Ed egli suol sempre soffrire con pazienza dai deboli, piuttosto che soverchiarli, ancorchè giustamente.
(13.
Aprile 1821.)
A quello che ho detto altrove della derivazione del verbo tornare, si aggiunga, che questo verbo è lo stesso che il tourner dei francesi, il quale significa la stessa cosa che in latino volvere.
Giacchè appunto nello stesso modo, da volvere, gli spagnuoli hanno fatto bolver che significa tornare.
(13.
Aprile 1821.)
[942]Alla p.939.
La maravigliosa e strana immobilità ed immutabilità (così la chiama l'Edinburgh Review negli Annali di Scien.
e Lettere vol.8.
Dicembre 1811.
n.24 Staunton, Traduz.
del Ta-Tsing-Leu-Lee.
p.300.) della nazione Chinese, dev'esser derivata certo in grandissima parte, e derivare dal non aver essi alfabeto nè lettere, (l.
cit.
Rémusat, Saggio sulla lingua e letteratura Chinese, dal Magasin Encyclopédique, p.324.
fine) ma caratteri esprimenti le cose e le idee cioè un dato numero di caratteri elementari e principali rappresentanti le principali idee, i quali si chiamano chiavi, e sono nel sistema di alcuni dotti Chinesi 214, (ivi p.313.319) in altri sistemi molto più, in altri molto meno, (ivi p.319.) ma il sistema delle 214 è il più comune e il più seguito da' letterati chinesi nella compilazione de' loro dizionarii.
I quali caratteri elementari o chiavi diversamente combinati fra loro (come ponendo sopra la chiave che rappresenta i campi, l'abbreviatura di quella che rappresenta le piante, si fa il segno o carattere che significa o rappresenta primizia dell'erbe e delle messi; e ponendo questo medesimo carattere sotto la chiave che rappresenta gli edifizi, si fa il carattere che significa tempio, cioè luogo dove si offrono le primizie (l.
cit.
p.314.)) servono ad esprimere o rappresentare le altre idee: essendo però le dette combinazioni convenute, e gramaticali, come lo sono le chiavi elementari; altrimenti non s'intenderebbero.
(p.319.
fine.)
Nel qual modo e senso un buon dizionario chinese, secondo Abel-Rémusat (Essai sur la langue et la littérature chinoise.
Paris 1811.
l.
cit.
p.320.) dovrebbe contenere 35,000 [943]caratteri come ne contiene il Tching-tseu-toung, uno de' migliori Dizionari che hanno i chinesi; secondo il Dott.
Hager, (Panthéon Chinois.
Paris 1806.
in-fol.
Préface.) basterebbero 10,000 (ivi, e p.311.
nota.) La quale scrittura in somma appresso a poco è la stessa che la ieroglifica.
Paragonate gli Annali ec.
sopracitati, vol.5.
num.14.
Hammer, Alfabeti antichi e caratteri ieroglifici spiegati, artic.
del Crit.
Rew.
p.144.-147.
col vol.8.
n.24.
p.297.-298.
e p.313.
320.
Questo paragone l'ho già fatto, e trovatolo giusto.
(14.
Aprile 1821.).
V.
p.944.
capoverso 2.
La lingua chinese è tutta architettata e fabbricata sopra un sistema di composti, non solo quanto ai caratteri, de' quali v.
il pensiero precedente ma parimente alla pronunzia, ossia a' vocaboli.
Giacchè i loro vocaboli radicali esprimenti i caratteri non sono più di 352.
secondo il Bayer, e 383.
secondo il Fourmont.
Ed eccetto che il valore di alcuni di questi vocaboli si diversifica talvolta per via di quattro toni, dell'uno dei quali si appone loro il segno (Annali ec.
p.317.-318.
e 320.
lin.7.), tutti gli altri vocaboli Chinesi sono composti; come si vede anche nella maniera in cui si scrivono quando si trasportano originalmente nelle nostre lingue.
Annali ec.
l.
cit.
nel pensiero anteced.
Rémusat p.319.
mezzo-320.
mezzo.
(14.
Aprile 1821.).
V.
p.944.
capoverso 1.
Alla p.923.
marg.
Un tal popolo dev'essere insomma necessariamente stazionario.
E qual popolo infatti è più maravigliosamente stazionario del Chinese, (v.
qui dietro p.942.
princip.) nel quale abbiamo osservato una somigliante costituzione? Sir George (Giorgio) Staunton, Segretario d'Ambasciata nella missione di Lord Macartney presso l'Imperatore della China, nella introduzione alla sua versione inglese del Codice penale dei Chinesi, nota in questa nazione, come [944]fra le cause di certi ragguardevoli vantaggi morali e politici posseduti, secondo lui, da essa nazione, vantaggi che non possono, secondo lui, essere agguagliati con esattezza in alcuna società Europea, nota, dico, la quasi totale mancanza di dritti e privilegi feudali; la equabile distribuzione della proprietà fondiaria; e LA NATURALE INCAPACITÀ ED AVVERSIONE E DEL POPOLO E DEL GOVERNO AD ESSERE SEDOTTI DA MIRE D'AMBIZIONE, E DA DESIO D'ESTERE CONQUISTE.
Edinburgh Review loco citato qui dietro (p.942.
principio.) p.295.
Lo stesso Edinburgh Review nella continuazione dello stesso articolo (Annali di Sc.
e Lettere.
Milano.
Gennaio 1812.
vol.
IX.
n.25.
p.42.
mezzo) nomina (ad altro proposito) la istituzione delle caste dell'India, dove io l'ho già notata nel pensiero a cui questo si riferisce, e di più nell'antico Egitto.
Questo lo fa incidentemente, sicchè non ha verun'altra parola su questo punto.
(14.
Aprile 1821.)
Alla p.943.
Così che la lingua Chinese quanto supera le altre lingue nella moltiplicità, complicazione, e confusione degli elementi e della costruttura della scrittura, tanto le avanza nella semplicità e piccolo numero degli elementi dell'idioma.
(14.
Aprile 1821.)
Alla p.943.
In somma la scrittura Chinese non rappresenta veramente le parole (che le nostre son quelle che le rappresentano, e ciò per via delle lettere, che sono ordinate e dipendenti in tutto dalla parola) ma le cose; e perciò tutti osservano [945]che il loro sistema di scrittura è quasi indipendente dalla parola: (Annali ec.
p.316.
p.297.) così che si potrebbe trovare qualcuno che intendesse pienamente il senso della scrittura chinese, senza sapere una sillaba della lingua, e leggendo i libri chinesi nella lingua propria, o in qual più gli piacesse, cioè applicando ai caratteri cinesi quei vocaboli che volesse, senza detrimento nessuno della perfetta intelligenza della scrittura, e neanche del suo gusto, giacchè le opere chinesi non hanno nè possono avere nè versificazione, nè ritmo, nè stile, e conviene prescindere affatto dalle parole nel giudicarle; le loro poesie non sono composte di versi, nè le prose oratorie di periodi; (p.297.) il genio della lingua non ammette il soccorso delle comuni particelle di connessione, e presenta meramente una fila d'immagini sconnesse, i cui rapporti debbono essere indovinati dal lettore, secondo le intrinseche loro qualità.
([p.] 298.) E così viceversa bene spesso taluni, dopo avere soggiornato venti anni alla China, non sono tampoco in grado di leggere il libro più facile, benchè sappiano essi parlar bene il chinese, e farsi comprendere.
(p.316.).
(14.
Aprile 1821.)
Si condanna, e con gran ragione, l'amor de' sistemi, siccome dannosissimo al vero, e questo danno tanto più si conosce, e più intimamente se ne resta convinti, quanto più si conoscono e si esaminano le opere dei pensatori.
Frattanto però io dico che qualunque uomo ha forza di pensare da se, qualunque s'interna colle sue proprie facoltà e, dirò così, co' suoi propri passi, nella considerazione delle cose, in somma qualunque vero pensatore, non può assolutamente a meno di non formarsi, o di non seguire, o generalmente di non avere un sistema.
[946]1.
Questo è chiaro dal fatto.
Qualunque pensatore, e i più grandi massimamente, hanno avuto ciascuno il loro sistema, e sono stati o formatori o sostenitori di qualche sistema, più o meno ardenti e impegnati.
Lasciando gli antichi filosofi, considerate i moderni più grandi.
Cartesio, Malebranche, Newton, Leibnizio, Locke, Rousseau, Cabanis, Tracy, De Vico, Kant, in somma tutti quanti.
Non v'è un solo gran pensatore che non entri in questa lista.
E intendo pensatori di tutti i generi: quelli che sono stati pensatori nella morale, nella politica, nella scienza dell'uomo, e in qualunque delle sue parti, nella fisica, nella filosofia d'ogni genere, nella filologia, nell'antiquaria, nell'erudizione critica e filosofica, nella storia filosoficamente considerata ec.
ec.
2.
Come dal fatto così è chiaro anche dalla ragione.
Chi non pensa da se, chi non cerca il vero co' suoi propri lumi, potrà forse credere in una cosa a questo, in un'altra a quello, e non curandosi di rapportare le cose insieme, e di considerare come possano esser vere relativamente fra loro, restare affatto senza sistema, e contentarsi delle verità particolari, e staccate, e indipendenti l'una dall'altra.
E questo ancora è difficilissimo, perchè il fatto e la ragione dimostra, che anche questi tali si formano sempre un sistema comunque, sebbene possano forse talvolta esser pronti a cangiarlo, secondo le nuove cognizioni, o nuove opinioni che loro sopraggiungano.
Ma il pensatore non è così.
Egli cerca naturalmente e necessariamente un filo nella considerazione delle cose.
È impossibile [947]ch'egli si contenti delle nozioni e delle verità del tutto isolate.
E se se ne contentasse, la sua filosofia sarebbe trivialissima, e meschinissima, e non otterrebbe nessun risultato.
Lo scopo della filosofia (in tutta l'estensione di questa parola) è il trovar le ragioni delle verità.
Queste ragioni non si trovano se non se nelle relazioni di esse verità, e col mezzo del generalizzare.
Non è ella, cosa notissima che la facoltà di generalizzare costituisce il pensatore? Non è confessato che la filosofia consiste nella speculazione de' rapporti? Ora chiunque dai particolari cerca di passare ai generali, chiunque cerca il legame delle verità (cosa inseparabile dalla facoltà del pensiero) e i rapporti delle cose; cerca un sistema; e chiunque è passato ai generali, ed ha trovato o creduto di trovare i detti rapporti, ha trovato o creduto di trovare un sistema, o la conferma e la prova, o la persuasione di un sistema già prima trovato o proposto: un sistema più o meno esteso, più o meno completo, più o meno legato, armonico, e consentaneo nelle sue parti.
3.
Il male è quando dai generali si passa ai particolari, cioè dal sistema alla considerazione delle verità che lo debbono formare.
Ovvero quando da pochi ed incerti, e mal connessi, ed infermi particolari, da pochi ed oscuri rapporti, si passa al sistema, ed ai generali.
Questi sono i vizi de' piccoli spiriti, parte per la loro stessa piccolezza, e la facilità che hanno di persuadersi; parte per la pestifera smania di formare sistemi, inventar paradossi, creare ipotesi in qualunque maniera, affine [948]d'imporre alla moltitudine, e parer d'assai.
Allora l'amor di sistema, o finto, o vero e derivante da persuasione, è dannosissimo al vero; perchè i particolari si tirano per forza ad accomodarsi al sistema formato prima della considerazione di essi particolari, dalla quale il sistema dovea derivare, ed a cui doveva esso accomodarsi.
Allora le cose si travisano, i rapporti si sognano, si considerano i particolari in quell'aspetto solo che favorisce il sistema, in somma le cose servono al sistema, e non il sistema alle cose, come dovrebb'essere.
Ma che le cose servano ad un sistema, e che la considerazione di esse conduca il filosofo e il pensatore ad un sistema (sia proprio, sia d'altri), è non solamente ragionevole e comune, ma indispensabile, naturale all'uomo, necessario; è inseparabile dalla filosofia; costituisce la sua natura ed il suo scopo: e concludo che non solamente non ci fu, ma non ci può esser filosofo nè pensatore per grande, e spregiudicato, ed amico del puro vero, ch'ei possa essere, il quale non si formi o non segua un sistema (più o meno vasto secondo la materia, e secondo che l'ingegno del filosofo è sublime, e secondo ch'è acuto e penetrante nella investigazione speculazione e ritrovamento de' rapporti) e ch'egli non sarebbe filosofo nè pensatore, se questo non gli accadesse, ma si confonderebbe con chi non pensa, e si contenta di non avere idea nè concetto chiaro e stabile intorno a veruna cosa.
(I quali pure hanno sempre un sistema, più o meno chiaro, anzi più esteso, e per loro più persuasivo e più chiaro e certo, che non l'hanno i pensatori.) Sia [949]pure un sistema il quale consista nell'esclusione di tutti i sistemi, come quello di Pirrone, e quello che fa quasi il carattere del nostro secolo.
(16.
Aprile 1821.).
V.
p.950.
capoverso 2.
Dalla sciocca idea che si ha del bello assoluto deriva quella sciocchissima opinione che le cose utili non debbano esser belle, o possano non esser belle.
Poniamo per esempio un'opera scientifica.
Se non è bella, la scusano perciò ch'è utile, anzi dicono che la bellezza non le conviene.
Ed io dico che se non è bella, e quindi è brutta, è dunque cattiva per questo verso, quando anche pregevolissima in tutto il resto.
Per qual ragione è bello il Trattato di Celso, ch'è un trattato di Medicina? Forse perchè ha ornamenti poetici o rettorici? Anzi prima di tutto perchè ne manca onninamente, e perchè ha quel nudo candore e semplicità che conviene a siffatte opere.
Poi perchè è chiaro, preciso, perchè ha una lingua ed uno stile puro.
Questi pregi o bellezze convengono a qualunque libro.
Ogni libro ha obbligo di esser bello in tutto il rigore di questo termine: cioè di essere intieramente buono.
Se non è bello, per questo lato è cattivo, e non v'è cosa di mezzo tra il non esser bello, e il non essere perfettamente buono, e l'esser quindi per questa parte cattivo.
E ciò che dico dei libri, si deve estendere a tutti [950]gli altri generi di cose chiamate utili, e generalmente a tutto.
(16.
Aprile 1821.)
Rassegnato e sommesso, perchè l'indole degli abitatori determinata dall'influenza del clima, è composta a un tempo di bontà e di trascuratezza, l'Indiano, dice l'Autore (Collin di Bar, Storia dell'India antica e moderna, ossia l'Indostan considerato relativamente alle sue antichità ec.
Parigi 1815.), è capace de' più magnanimi sforzi.
I popoli del nord della penisola, meno ammolliti dalle voluttà e dal clima, sono da lungo tempo il terrore della compagnia inglese, e saranno forse col tempo i liberatori delle regioni gangetiche.
(Fra questi deve intender certo i Maratti.) Spettatore di Milano, Quaderno 43.
p.113.
Parte Straniera.
30.
Dicemb.
1815.
Dello stato e genio pacifico degli antichi Indiani v.
p.922.
De' Cinesi parimente meridionali v.
p.943.
capoverso ultimo.
(16.
Aprile 1821.)
Alla p.949.
Mancare assolutamente di sistema (qualunque esso sia), è lo stesso che mancare di un ordine di una connessione d'idee, e quindi senza sistema, non vi può esser discorso sopra veruna cosa.
Perciò quelli appunto che non discorrono, quelli mancano di sistema, o non ne hanno alcuno preciso.
Ma il sistema, cioè la connessione e dipendenza delle idee, de' pensieri, delle riflessioni, delle opinioni, è il distintivo certo, e nel tempo stesso indispensabile del filosofo.
(17.
Aprile 1821.)
Lo Spettatore di Milano 15.
Febbraio 1816.
Quaderno 46.
p.244.
Parte Straniera, in un articolo estratto dal Leipziger Litter.
Zeitung, rendendo brevissimo conto di un opuscolo [951]tedesco di Pietro Enrico Holthaus, intitolato Anche nella nostra lingua possiamo e dobbiamo essere Tedeschi, pubblicato a Schwelm, presso Scherz, 1814.
in 8° grande, dice che, fra le altre cose, l'autore intende provare Che il miscuglio di parole straniere reca nocumento alla chiarezza delle idee.
(L'opuscolo è diretto principalmente contro il francesismo introdotto e trionfante nella lingua tedesca, come nell'italiana.) Questo sentimento combina con quello che ho svolto in altri pensieri, dove ho detto che le parole greche nelle nostre lingue sono sempre termini, e così si deve dire delle altre parole straniere affatto alla nostra lingua; e spiegato che cosa sieno termini e come si distinguano dalle parole.
E infatti i termini, e le parole prese da una lingua straniera del tutto, potranno essere precise, ma non chiare, e così l'idea che risvegliano sarà precisa ed esatta, senza esser chiara, perchè quelle parole non esprimono la natura della cosa per noi, non sono cavate dalle qualità della cosa, come le parole originali di qualunque lingua, così che l'oggetto che esprimono, sebbene ci si possa per mezzo loro affacciare alla mente con precisione e determinazione, non lo potranno però con chiarezza: perchè le parole non derivanti immediatamente dalle qualità della cosa, o che almeno per l'assuefazione non ci paiano tali, non hanno forza di suscitare nella nostra mente un'idea sensibile della cosa, non hanno [952]forza di farci sentire la cosa in qualunque modo, ma solamente di darcela precisamente ad intendere, come si fa di quelle cose che non si possono formalmente esprimere.
Che tale appunto è il caso degli oggetti significatici con parole del tutto straniere.
Dal che è manifesto quanto danno riceva sì la chiarezza delle idee, come la bellezza e la forza del discorso, che consistono massimamente nella sua vita, e questa vita del discorso, consiste nella efficacia, vivacità, e sensibilità, con cui esso ci fa concepire le cose di cui tratta.
(17.
Aprile 1821.)
Lo stesso autore nel medesimo opuscolo, come si vede nel luogo citato, alla fine della detta pag.244.
critica Herder che tante parole ha introdotto tolte dal latino e dal greco.
Questa critica è forse giusta anche rispetto al latino, nella lingua tedesca, la quale non si trova nella circostanza della italiana, non essendo figlia, come questa, della latina; come neanche rispetto alla francese, non essendole sorella, come la nostra.
E quanto alla latina, le deve bastare quello che per le circostanze de' tempi antichi ec.
ella ne ha tolto, colle comunicazioni avute coi romani ec.
ma questa fonte si deve ora ben ragionevolmente stimar chiusa per lei, come quella che non ne deriva originariamente, e vi ha solo attinto per cause accidentali.
La lingua inglese sarebbe la più atta a comunicare le sue fonti colla tedesca, e viceversa.
V.
p.1011.
capoverso 2.
Ma rispetto alla lingua italiana, la cosa sta diversamente, perchè derivando ella dalla latina, non si dee stimare che la fonte sia chiusa, mentre il fiume corre e non istagna.
Anzi non volendo che stagni e impaludi, bisogna riguardare soprattutto di non chiudergli la sorgente; che questo è il mezzo più sicuro e più breve di farlo corrompere e inaridire.
Quella lingua che ha prodotta, e non solo prodotta, ma formata e cresciuta sì largamente la nostra.
come si [953]dovrà stimare che non possa nutrirla ed accrescerla, che non abbia più niente che le convenga di ricavarne? Quel terreno che ha prodotto una pianta della sua propria sostanza, e del proprio succo, e di più l'ha allevata, e condotta a perfettissima maturità e robustezza e vigore ec.
come si dovrà credere e affermare che non sia adattato a nutrirla e crescerla mentre ella non è spiantata? che il di lui succo non sia conveniente nè vitale nè nutritivo nè sano a quella pianta, mentre il terreno abbia ancora succo, e in abbondanza? Perchè poi vorremmo spiantare la nostra lingua? Forse perch'ella non possa più nutrirsi, e le sue radici non le servano più, e così venga ad inaridire? O forse per trapiantarla? E dove? in qual terreno migliore, e più appropriato di quello che l'ha prodotta e cresciuta a tanta grandezza, prosperità, floridezza ec.?
Osservo ancora che l'italiano è derivato dalla corruzione del latino, così che le parole e i modi della bassa latinità, se sono barbare rispetto al latino, nol sono all'italiano; e la bassa latinità è una fonte ricchissima e adattatissima anch'essa alla nostra lingua, ed io posso dirlo con fondamento per osservazione ed esperienza particolare che ne ho fatto, e cura che ci ho posto.
Quante parole infatti dell'ottima lingua italiana, appartengono precisamente alla bassa latinità! Nè bisogna discorrere pregiudicatamente e considerar come barbaro assoluto quello ch'è solo barbaro relativo.
Per esempio [954]l'antica lingua persiana, cioè prima che fosse inondata da parole arabe per effetto della conquista della Persia fatta dai Califi e dagl'immediati successori di Maometto7, fu lingua purissima, fu scritta purissimamente ebbe gran cura della purità nella scrittura, ed ebbe autori Classici non meno stimati in Oriente una volta per la purità della lingua, di quello che il fosse Menandro fra i greci.
(ma de' cui scritti la più gran parte è perita.) E Firdosi nel suo Shahnamah, e molti de' suoi contemporanei, si vantano di usare il pretto Persiano, e di esser mondi da ogni parola araba o forestiera (così che nel Dizionario di Richardson mancano nove decimi delle parole da essi usate, per esser questo Dizionario fatto per la lingua e i dialetti persiani moderni.) Ora qualunque purissima parola persiana, o di qualunque purissima lingua d'oriente, antica o moderna, parrebbe a noi, non solo impura, o barbara, ma intollerabile, suonerebbe peggio che barbaramente, e ci saprebbe più che barbara nelle lingue nostre.
Così dunque se le parole della bassa latinità riescono barbare nel latino, non si debbono stimare nè barbare nè impure in italiano, il quale deriva dalla bassa latinità più immediatamente che dalla alta.
Altrimenti si dovranno stimar barbare tante parole purissime e italianissime che derivano dalla bassa latinità (e così dico francesi ec.), e come tali sono registrate ne' Glossari latinobarbari.
Bensì bisogna distinguere i diversi generi che ci sono di bassa latinità.
Giacchè la bassa latinità germanica per esempio, in quanto è piena di voci germaniche ec.
sarà adattata a somministrar materia ad altre lingue, ma non alla nostra.
E perciò bisogna considerare che l'indole [955]delle parole e frasi ec.
del medio evo, sia conforme all'indole di quel linguaggio dal quale è derivata la lingua italiana precisamente.
(17.
Aprile 1821.)
Alla p.940.
Quello che ho detto delle lingue rispetto ai luoghi, si deve applicare proporzionatamente anche ai tempi, essendo certo ed evidente che le lingue vanno sempre variando, non già leggermente, ma in modo che alla fine muoiono, e loro ne sottentrano altre, secondo la variazione dei costumi, usi, opinioni ec.
e delle circostanze fisiche, politiche, morali, ec.
proprie dei diversi secoli della società.
In maniera che si può dire che come nessuna lingua è stata, così neanche nessun'altra sarà perpetua.
(18.
Aprile 1821.)
L'antichità e l'eccellenza della lingua sacra degl'indiani (sascrita), hanno naturalmente chiamato a se l'attenzione e destato la curiosità degli Europei.
I ragguardevoli suoi titoli ad essere considerata come la più antica lingua che l'uman genere conosca, muovono in noi quell'interesse da cui le vetustissime età del mondo sono circondate.
Costruita secondo il disegno più perfetto forse che dall'ingegno umano sia stato immaginato giammai, essa c'invita a ricercare se la sua perfezione si restringa ne' limiti della sua struttura, o se i pregi delle composizioni indiane partecipino della bellezza del linguaggio in cui sono dettate.
Spettatore di Milano 15.
Luglio 1817.
Quaderno 80.
parte straniera.
p.273.
articolo di D.
Bertolotti sopra la traduzione inglese del Megha [956]Duta, poema sascrittico di Calidasa, Calcutta 1814.
estratto però senza fallo da un giornale forestiero, e non dalla stessa traduzione, come apparisce in parecchi luoghi, e fra l'altro da' puntini che il Bertolotti pone dopo alcuni paragrafi di esso articolo, come p.274.275.
ec.
(18.
Aprile 1821.)
La lingua greca va considerata rispetto all'italiana nell'ordine di lingua madre, (o nonna) quanto ai modi, ma non quanto alle parole.
Dico quanto ai modi, massimamente per la sua conformità naturale o somiglianza in questa parte colla lingua latina sua sorella, e madre della nostra, e di più perchè gli scrittori latini, dal nascimento della loro letteratura, modellarono sulla greca le forme della loro lingua, e così hanno tramandata a noi una lingua formata in grandissima parte sui modi della greca.
Del che vedi un ell'articolo del Barone Winspear (Bibliot.
Ital.
t.8.
p.163.) nello Spettatore di Milano, 1.
Settembre 1817.
Parte italiana, Quaderno 83.
p.442.
dal mezzo al fine della pagina.
E così pure, parte per lo studio immediato de' greci esemplari, (del che vedi ivi p.443.
dal principio al mezzo) parte per lo studio de' latini, e la derivazione della lingua italiana dalla latina, parte e massimamente per una naturale conformità, che forse per accidente, ha la struttura e costruzione della lingua nostra colla greca (come dice espressamente la Staël nella B.
Italiana [957]vol.1.
p.15.
la costruzione gramaticale di quella lingua è capace di una perfetta imitazione de' concetti greci, a differenza della tedesca della quale ha detto il contrario), per tutte queste ragioni si trova una evidentissima e somma affinità fra l'andamento greco e l'italiano, massime nel più puro italiano, e più nativo e vero, cioè in quello del trecento.
Da tutto ciò segue che la lingua greca, come madre della nostra rispetto ai modi, sia e per ragione e per fatto adattatissima ad arricchire e rifiorire la lingua italiana d'infinite e variatissime forme e frasi e costrutti (Cesari) e idiotismi ec.
Non così quanto alle parole, che non possiamo derivare dalla lingua greca che non è madre della nostra rispetto ad esse; fuorchè in ordine a quelle che gli scrittori o l'uso latino ne derivarono, e divenute precisamente latine, passarono all'idioma nostro come latine e con sapore latino, non come greche.
Le quali però ancora, sebbene incontrastabili all'uso dell'italiano, tuttavia soggiacciono in parte, malgrado la lunga assuefazione che ci abbiamo, ai difetti notati da me p.951-952.
Che p.e.
chi dice filosofia eccita un'idea meno sensibile di chi dice sapienza, non vedendosi in quella parola e non sentendosi come in questa seconda, l'etimologia, cioè la derivazione della parola dalla cosa, il qual sentimento è quello che produce la vivezza ed efficacia, [958]e limpida evidenza dell'idea, quando si ascolta una parola.
(19.
Aprile 1821.)
Una delle principali cagioni per cui l'infelicità rende l'uomo inetto al fare, e lo debilita e snerva, onde l'infelicità toglie la forza, non è altra se non che l'infelicità debilita l'amor di se stesso.
E intendo massimamente della infelicità grave e lunga.
La quale col continuo contrasto che oppone all'amor di se stesso che era nel paziente, colla battaglia ostinatissima e fortissima che gli fa, e coll'obbligarlo ad uno stato contrario del tutto a quello ch'è scopo, oggetto e desiderio di questo amore, finalmente illanguidisce questo amore, rende l'uomo meno tenero di se stesso, siccome avvezzo a sentirsi infelice malgrado gli sforzi che ci opponeva.
Anzi una tale infelicità, se non riduce l'uomo alla disperazion viva, e al suicidio o all'odio di se stesso ch'è il sommo grado, e la somma intensità dell'amor proprio in tali circostanze, lo deve ridurre per necessità ad uno stato opposto, cioè alla freddezza e indifferenza verso se stesso; giacchè s'egli continuasse ad essere così infiammato verso se medesimo, com'era da principio, in che modo potrebbe sopportare la vita, o contentarsi di sopravvivere, vedendo e sentendo sempre infelice questo oggetto del suo sommo amore, e di tutta la sua vita sotto tutti i rispetti?
Ma l'amor di se stesso è l'unica possibile molla delle azioni e dei sentimenti umani, secondo ch'è applicato a questo o quello scopo virtuoso o vizioso, grande o basso ec.
[959]Diminuita dunque, e depressa, e ridotta a pochissimo (cioè a quanto meno è possibile mentre l'uomo vive) l'elasticità e la forza di molla, l'uomo non è più capace nè di azioni, nè di sentimenti vivi e forti ec.
nè verso se stesso, nè verso gli altri, giacchè anche verso gli altri, anche ai sacrifizi ec.
non lo può spingere altra forza che l'amor proprio, in quella tal guisa applicato e diretto.
E così l'uomo ch'è divenuto per forza indifferente verso se stesso, è indifferente verso tutto, è ridotto all'inazione fisica e morale.
E l'indebolimento dell'amor proprio, in quanto amor proprio e radicalmente, (non in quanto è diretto a questa o quella parte) cioè il vero indebolimento di questo amore, è cagione dell'indebolimento della virtù, dell'entusiasmo, dell'eroismo, della magnanimità, di tutto quello che sembra a prima vista il più nemico dell'amor proprio, il più bisognoso del suo abbassamento per trionfare e manifestarsi, il più contrariato e danneggiato dalla forza dell'amore individuale.
Così il detto indebolimento secca la vena della poesia, e dell'immaginazione, e l'uomo non amando, se non poco, se stesso, non ama più la natura; non sentendo il proprio affetto, non sente più la natura, nè l'efficacia della bellezza ec.
Una nebbia grevissima d'indifferenza sorgente immediata d'inazione e insensibilità, si spande su tutto l'animo suo, e su tutte le sue facoltà, da che [960]egli è divenuto indifferente, o poco sensibile verso quell'oggetto ch'è il solo capace d'interessarlo e di muoverlo moralmente o fisicamente verso tutti gli altri oggetti in qualunque modo, dico se stesso.
Altra cagione dello snervamento prodotto nell'uomo dall'infelicità, è la diffidenza di se stesso o delle cose, affezione mortifera, com'è vivifica e principalissima nel mondo e nei viventi la confidenza, e massime in se stesso: e questa è una qualità primitiva e naturale nell'uomo e nel vivente, innanzi all'esperienza.
ec.
ec.
Così pure l'uomo che ha perduto, o per viltà e vizio, o per forza delle avversità e delle contraddizioni e avvilimenti e disprezzi sofferti, la stima di se stesso, non è più buono a niente di grande nè di magnanimo.
E dicendo la stima, distinguo questa qualità dalla confidenza, ch'è cosa ben diversa considerandola bene.
(19.
Aprile 1821.)
Le sopraddette considerazioni possono portare ad una gran generalità, e semplicizzare l'idea che abbiamo del sistema delle cose umane, o la teoria dell'uomo, facendo conoscere come sotto tutti i riguardi, ed in tutte le circostanze possibili della vita, agisca quell'unico principio ch'è l'amor proprio, e come tutti gli effetti della vita umana sieno proporzionati alla maggiore o minor forza, maggiore o minor debolezza, e diversa direzione di quel solo movente: per quanto i detti effetti si presentino a prima vista, come derivati da diverse cagioni.
(19.
Aprile 1821.)
[961]Alla p.786.
E prima della potenza Ateniese e degl'incrementi di quella repubblica, essendo il dialetto ionico il più copioso, come pare, di tutti gli altri nello stato d'allora, per lo molto commercio della nazione o nazioni e repubbliche che l'usavano, prevalse il dialetto ionico nella letteratura greca, usato da Omero, da Ecateo Milesio istorico antichissimo, ed anteriore ad Erodoto che molto prese da lui, da Erodoto, da Ippocrate, da Democrito e da molti altri di gran fama.
Così che Giordani crede (B.
Ital.
vol.
2.
p.20.) che Empedocle (il quale parimente scrisse in quel dialetto) lasciasse di adoperare il dialetto (dorico) della sua patria e della sua scuola (Pitagorica) non perchè fosse o più difficile o meno gradito ai greci, ma perchè vedesse più frequentato fuori della Grecia l'ionico, al quale Omero, Erodoto e Ippocrate avevano acquistata più universale celebrità.
Di maniera che ancor dopo prevaluto l'attico si seguitò da alcuni a scrivere ionico, non come dialetto proprio, ma come vezzo, e quasi in memoria della sua antica fama.
Come fece Arriano, il quale continuò i 7 libri della Impresa di Alessandro scritti in puro attico, colla storia indiana, o libro delle cose indiane scritto in dialetto ionico, per puro capriccio.
Ora questo dialetto ionico tutti sanno qual sia presso Omero, cioè una mescolanza di tutti i dialetti, e di voci estere, solamente prevalendo lo ionico, ed Ermogene ???? ????? lib.
II.
p.513.
notat Hecataeum Milesium a quo plurima accepit Herodotus (notante etiam Porphyr.
ap.
Eus.
l.10.
praep.
c.2.
p.466.) usum ?????? ?????, Herodotum ?????????.
(Fabric.
B.
G.
II.
c.20.
§.2.
t.
I.
697.
nota K.) cioè l'uno del dialetto ionico puro, l'altro del dialetto ionico variato o misto.
E contuttociò Erodoto è chiamato [962]dal suo concittadino Dionigi d'Alicarnasso (Epist.
ad Cneium Pompeium p.130.
Fabric.) ??????????????????(?.
(20.
Aprile.
Venerdì Santo.
1821.)
Sono perciò rare tra' francesi le buone traduzioni poetiche; eccetto le Georgiche volgarizzate dall'abate De-Lille.
I nostri traduttori imitan bene; tramutano in francese ciò che altronde pigliano, cosicchè nol sapresti discernere, ma non trovo opera di poesia che faccia riconoscere la sua origine, e serbi le sue sembianze forestiere: credo anzi che tale opera non possa mai farsi.
E se degnamente ammiriamo la georgica dell'abate De-Lille, n'è cagione quella maggior somiglianza che la nostra lingua tiene colla romana onde nacque, di cui mantiene la maestà e la pompa.
Ma le moderne lingue sono tanto disformi dalla francese, che se questa volesse conformarsi a quelle, ne perderebbe ogni decoro.
Staël, B.
Ital.
vol.1.
p.12.
Esaminiamo.
Che la traduzione del Delille sia migliore d'ogni altra traduzione francese qualunque (in quanto traduzione), di questo ne possono e debbono giudicare i francesi meglio che gli stranieri.
Se poi fatto il paragone tra la detta traduzione e l'originale, vi si trovi tutta quella conformità ed equivalenza che i francesi stimano di ravvisarvi (quantunque concederò che se ne trovi tanta, quanta mai si possa trovare in versione francese) questo giudizio spetta piuttosto agli stranieri che a' francesi, e noi italiani massimamente siamo meglio [963]a portata, che qualsivoglia altra nazione, di giudicarne.
Siccome ciascuno pensa nella sua lingua, o in quella che gli è più familiare, così ciascuno gusta e sente nella stessa lingua le qualità delle scritture fatte in qualunque lingua.
Come il pensiero, così il sentimento delle qualità spettanti alla favella, sempre si concepisce, e inevitabilmente, nella lingua a noi usuale.
I modi, le forme, le parole, le grazie, le eleganze, gli ardimenti felici, i traslati, le inversioni, tutto quello mai che può spettare alla lingua in qualsivoglia scrittura o discorso straniero, (sia in bene, sia in male) non si sente mai nè si gusta se non in relazione colla lingua familiare, e paragonando più o meno distintamente quella frase straniera a una frase nostrale, trasportando quell'ardimento, quella eleganza ec.
in nostra lingua.
Di maniera che l'effetto di una scrittura in lingua straniera sull'animo nostro, è come l'effetto delle prospettive ripetute e vedute nella camera oscura, le quali tanto possono essere distinte e corrispondere veramente agli oggetti e prospettive reali, quanto la camera oscura è adattata a renderle con esattezza; sicchè tutto l'effetto dipende dalla camera oscura piuttosto che dall'oggetto reale.
Così dunque accadendo rispetto alle lingue (eccetto in coloro che sono già arrivati o a rendersi familiare un'altra lingua invece della propria, o a rendersene familiare e quasi propria più d'una, con grandissimo uso [964]di parlarla, o scriverla, o leggerla, cosa che accade a pochissimi, e rispetto alle lingue morte, forse a nessuno) tanto adequatamente si potranno sentire le qualità delle lingue altrui, quanta sia nella propria, la facoltà di esprimerle.
E l'effetto delle lingue altrui sarà sempre in proporzione di questa facoltà nella propria.
Ora la facoltà di adattarsi alle forme straniere essendo tenuissima e minima nella lingua francese, pochissimo si può stendere la facoltà di sentire e gustare le lingue straniere, in coloro che adoprano la francese.
Notate ch'io dico, gustare e sentire, non intendere nè conoscere.
Questo è opera dell'intelletto il quale si serve di altri mezzi.
E quindi i francesi potranno intendere e conoscer benissimo le altre lingue, senza però gustarle nè sentirle più che tanto.
Ho detto che gl'italiani in questo caso possono dar giudizio meglio che qualunque altro.
1.
La lingua italiana, come ho detto altrove, è piuttosto un aggregato di lingue che una lingua, laddove la francese è unica.
Quindi nell'italiana è forse maggiore che in qualunque altra la facoltà di adattarsi alle forme straniere, non già sempre ricevendole identicamente, ma trovando la corrispondente, e servendo come di colore allo studioso della lingua straniera, per poterla dipingere, rappresentare, ritrarre nella propria [965]comprensione e immaginazione.
E per lo contrario nella lingua francese questa facoltà è certo minore che in qualunque altra.
2.
Queste considerazioni rispetto alla detta facoltà della nostra lingua, si accrescono quando si tratta della lingua latina, o della greca.
Perchè alle forme di queste lingue, la nostra si adatta anche identicamente, più che qualunque altra lingua del mondo: e non è maraviglia, avendo lo stesso genio, ed essendosi sempre conservata figlia vera di dette lingue, non solo per ragione di genealogia e di fatto, ma per vera e reale somiglianza e affinità di natura e di carattere.
Laddove la lingua francese sebbene nata dalla latina, se n'è allontanata più che qualunque altra sorella o affine.
E il genio della lingua francese è tanto diverso da quello della latina, quanta differenza mai si possa trovare fra le lingue di popoli che appartengono ad uno stesso clima, ad una stessa famiglia, ed hanno una storia comune ec.
La somiglianza delle parole, cioè l'essere grandissima parte delle parole francesi derivata dal latino, non fa nessun caso, essendo una somiglianza materialissima, e di suono, non di struttura: anzi neppur di suono, per la somma differenza della pronunzia.
Ma in ogni caso il suono e la struttura sono cose indipendenti, così che ci potrebbero esser due lingue, tutte le cui parole avessero un'etimologia comune, [966]e nondimeno esser lingue diversissime.
In conseguenza se ai francesi pare di ravvisare il gusto, l'andamento, il carattere di Virgilio nel Delille, e a noi italiani pare tutto l'opposto, io dico che in ciò siamo più degni di credenza noi, che col mezzo della lingua propria (solo mezzo di sentire le altre) possiamo meglio di tutti sentire le qualità della francese e (più ancora) della latina; di quello che i francesi che col mezzo della loro renitentissima ed unica lingua, non hanno se non ristretta facoltà di sentire veramente Virgilio e gustarlo in tutto ciò che spetta alla lingua.
Passo anche più avanti, e dico esser più difficile ai francesi che a qualunque altra nazione Europea, non solo il gustare e il sentire, ma anche il formarsi un'idea precisa e limpida, il familiarizzarsi, e finalmente anche l'imparare le lingue altrui.
Dice ottimamente Giordani (B.
Italiana vol.3.
p.173.) che Niuna lingua, nè viva nè morta, si può imparare se non per mezzo d'un'altra lingua già ben saputa.
Questo è certissimo.
S'impara la lingua che non sappiamo, barattando parola per parola e frase per frase con quella che già possediamo.
Ora se questa lingua che già possediamo, non si presta se non pochissimo e di pessima voglia e difficilissimamente a questi baratti, è manifesto che la difficoltà d'imparare le altre lingue, dovrà essere in proporzione.
E siccome questa lingua già posseduta è [967]l'unico strumento che abbiamo a formare il concetto della natura forza e valore delle frasi e delle parole straniere, se lo strumento è insufficiente o scarso, scarso e insufficiente sarà anche l'effetto.
Ciò è manifesto 1.
dal fatto.
La gran difficoltà di certe lingue affatto diverse dal carattere delle nostrali, consiste in ciò, che cercando nella propria lingua parole o frasi corrispondenti, non le troviamo, e non trovandole non intendiamo, o stentiamo a intendere, o certo a concepire con distinzione ed esattezza la forza e la natura di quelle voci o frasi straniere.
2.
da una ragione anche più intimamente filosofica e psicologica delle accennate.
Le idee, i pensieri per se stessi non si fanno vedere nè conoscere, non si potrebbero vedere nè conoscere per se stessi.
A far ciò non c'è altro mezzo che i segni di convenzione.
Ma se i segni di convenzione son diversi, è lo stesso che non ci fosse convenzione, e che quelli non fossero segni, e così in una lingua non conosciuta, le idee e pensieri che esprime non s'intendono.
Per intendere dunque questi segni come vorreste fare? a che cosa riportarli? alle idee e pensieri vostri immediatamente? come? se non sapete quali idee e quali pensieri significhino.
Bisogna che lo intendiate per mezzo di altri segni, della cui convenzione siete partecipe, cioè per mezzo di un'altra lingua da voi conosciuta; e quindi riportiate quei segni sconosciuti, ai segni [968]conosciuti, i quali sapendo voi bene a quali idee si riportino, venite a riportare i segni sconosciuti alle idee, e per conseguenza a capirli.
Ma se il numero dei segni da voi conosciuti è limitato, come farete a intendere quei segni sconosciuti che non avranno gli equivalenti fra i noti a voi? Non vale che quei segni sconosciuti corrispondano a delle idee, e che voi siate capacissimo di queste idee.
Bisogna che sappiate quali sono e che lo sappiate precisamente, e non lo potete sapere se non per via di segni noti.
Bisogna che se p.e.
(e questo è il principale in questo argomento) quei segni sconosciuti esprimono un accidente, una gradazione, una menoma differenza, una nuance di qualche idea che voi già conoscete e tenete, e sapete esprimere con segni noti, voi intendiate perfettamente, e vi formiate un concetto chiaro e limpido di quella tale ancorchè menoma gradazione; e se questa non si può esprimere con verun segno a voi noto, come giungerete al detto effetto? Solamente a forza di conghietture, o spiegandovisi la cosa a forza di circollocuzioni.
Con che non è possibile, o certo è difficilissimo che voi giungiate a formarvi un'idea chiara, distinta ec.
di quella precisa idea, o mezza idea ec.
espressa da quel tal segno.
E perciò dico che i francesi non sono ordinariamente capaci di concepire le proprietà delle altre lingue, se non in maniera più o meno oscura, ma che [969]sempre conservi qualche cosa di confuso e di non perfetto.
Ciascuna lingua (lasciando ora le parole, delle quali la francese, sebbene inferiore anche in ciò ad altre lingue, tuttavia non è povera, e in certi generi è ricca) ha certe forme, certi modi particolari e propri che per l'una parte sono difficilissimi a trovare perfetta corrispondenza in altra lingua; per l'altra parte costituiscono il principal gusto di quell'idioma, sono le sue più native proprietà, i distintivi più caratteristici del suo genio, le grazie più intime, recondite, e più sostanziali di quella favella.
Nessuna lingua dunque è uno strumento così perfetto che possa servire bastantemente per concepire con perfezione le proprietà tutte e ciascuna di ciascun'altra lingua.
Ma la cosa va in proporzione, e quella lingua ch'è più povera d'inversioni (Staël l.c.
p.11.
fine) chiusa in giro più angusto (ib.), più monotona, (ib.
p.12.
principio), più timida, più scarsa di ardiri, più legata, più serva di se stessa, meno arrendevole, meno libera, meno varia, più strettamente conforme in ogni parte a se stessa; questa lingua dico è lo strumento meno atto, meno valido, più insufficiente, più grossolano, per elevarci alla cognizione delle altre lingue, e delle loro particolarità.
Che se ciò vale quanto al perfetto intendere, [970]molto più quanto al perfetto gustare, che risulta dal senso intero e preciso e completo di qualità tanto più numerose, e tanto più menome e sfuggevoli, e tanto più proprie ed intime e arcane e riposte e peculiari di quella tal lingua.
Una lingua, che come confessa un francese (Thomas, il cui luogo ho riportato altrove) se refuse peut-être (à la grâce), parce quelle ne peut nous donner ni cette sensibilité tendre et pure qui la fait naître, ni cet instrument facile et souple qui la peut rendre; una tal lingua dico, che è la francese, come potrà essere perfetto istrumento per concepire e sentire come conviene, le grazie ec.
delle altre lingue? trattandosi poi, come ho dimostrato, che a questo effetto, gli uomini non hanno altro istrumento che la loro propria lingua, come potranno il più de' francesi, ancorchè dotti e dilicati, sentire profondamente e perfettamente, e formarsi idea netta di queste tali grazie, e vestirsi in somma intieramente, com'è necessario, delle altre lingue, e del genio loro?
Il fatto conferma queste mie obbiezioni.
Ciascun popolo ama di preferenza, e gusta e sente la propria letteratura meglio di ogni altra.
Questo è naturale.
Ma ciò accade sommamente ne' francesi, i quali generalmente non conoscono in verità altra letteratura che la loro (dico letteratura, e non scienze, filosofia ec.).
[971]Le altre non le conoscono, se non per mezzo di quelle traduzioni, che essendo fatte come ognun sa, e come comportano i limiti, il genio, la nessuna adattabilità della loro lingua, trasportano le opere straniere non solo nella lingua, ma nella letteratura loro, e le fanno parte di letteratura francese.
Così che questa resta sempre l'unica che si conosca in Francia universalmente, anche dalla universalità degli studiosi.
Ed è anche vero generalmente, che non solo non conoscono, ma noncurano, e disprezzano, o certo sono inclinatissimi a disprezzare le letterature straniere.
Che se non disprezzano la latina e la greca, viene che non sempre gli uomini sono conseguenti, viene ch'essi parlano come parla tutto il mondo che esalta quelle letterature, viene ch'essi stimano quelle letterature come compagne o madri della loro, e nel mentre che stimano la loro come la più perfetta possibile, anzi la sola vera e perfetta, non vedono, o non vogliono vedere ch'è diversissima, e in molte parti contraria a quelle due, le quali non isdegnano di proporsi per modello e norma, e citare al loro tribunale e confronto ec.
ec.; viene ch'essi credono di gustarle pienamente, e di giudicarne perfettamente ec.
Ciascuno straniero è soggetto a cadere in errore giudicando dei pregi o difetti di una lingua altrui, morta o viva, massime de' più intimi e reconditi e particolari.
E così giudicando di quei pregi o difetti [972]di un'opera di letteratura straniera, che appartengono alla lingua, e di tutta quella parte dello stile (ed è grandissima e rilevantissima parte) che spetta alla lingua, o ci ha qualche relazione per qualunque verso.
Ma i giudizi de' francesi sopra questi soggetti, e de' francesi anche più grandi e acuti e stimabili, sono quasi sempre falsi: in maniera che per lo più la falsità loro, va in ragione diretta della temerità ed assurance con cui sono ordinariamente pronunziati; vale a dire ch'è somma.
E ordinariamente i francesi, quando parlano di certe intimità delle letterature straniere, appartenenti a lingua, fanno un arrosto di granciporri.
Questo quanto al gustare.
Quanto all'intendere, il fatto non è meno conforme alle mie osservazioni.
Perchè la francese insieme coll'italiana, è senza contrasto, la nazione meno letterata in materia di lingue, sia lingue antiche classiche, cioè greca e latina, (nelle quali la Francia non può in nessun modo paragonarsi all'Inghilterra, Germania, Olanda ec.) sia lingue vive, delle quali la maggior parte dei francesi si contenta di essere ignorantissima, o di saperne quanto basta per usurpare il diritto di sparlarne, e giudicarne a sproposito e al rovescio.
Nell'Italia (dove però l'ignoranza non è tanto compagna della temerità) [973]il poco studio delle lingue morte o vive, nasce dalla misera costituzione del paese, e dalla generale inerzia che non senza troppo naturali e necessarie cagioni, vi regna.
Ed ella non è più al di sotto in genere, di quello che in ogni altro, o di studi, o di qualsivoglia disciplina, e professione della vita.
Ma nella Francia le circostanze sono opposte: in luogo che vi regni l'inerzia, vi regna l'attività e le ragioni di lei; in luogo che vi regni l'ignoranza, vi regnano tutte le altre maniere di coltura; tutti gli altri studi, e tutte le buone discipline e professioni fioriscono in Francia da lungo tempo; la sua posizione geografica, e tutte le altre sue circostanze la pongono in continua e viva ed orale relazione co' forestieri, tanto nell'interno della Francia stessa, quanto fuori.
Perchè dunque ella si distingue assolutamente dalle altre nazioni nella poca e poco generale coltura delle lingue altrui, vive o morte? Fra le altre cagioni che si potrebbero addurre, io stimo una delle principali quella che ho detto, cioè la difficoltà che oppone la loro stessa lingua all'intelligenza e sentimento delle altre, e l'insufficienza dello strumento che hanno per procacciarsi e la cognizione, e il gusto delle lingue altrui.
[974]Una celebre Dama Irlandese morta pochi anni fa (Lady Morgan) riferisce come cosa notabile che di tanti emigrati francesi che soggiornarono sì lungo tempo in Inghilterra, nessuno o quasi nessuno, quando tornarono in Francia coi Borboni, aveva imparato veramente l'inglese, nè poteva portar giudizio se non incompleto, inesatto, anzi spesso stravagantissimo e ridicolo, sopra la lingua e letteratura inglese; sebbene tutte erano persone ottimamente allevate, e ornate, qual più qual meno, di buoni studi.
Io non intendo con ciò di detrarre, anzi di aggiungere alla gloria di quei dottissimi e sommi letterati francesi che malgrado tutte le dette difficoltà, facendosi scala da una ad altra lingua, mediante lunghi, assidui, profondi studi delle altrui lingue e letterature, mediante i viaggi, le conversazioni ec.
sono divenuti così padroni delle lingue e letterature straniere che hanno coltivate, ne hanno penetrato così bene il gusto ec.
quanto mai possa fare uno straniero, e forse anche talvolta quanto possa fare un nazionale.
(Cosa per altro rara, che, eccetto il Ginguené, non credo che si trovi autore francese, massime oggidì, che abbia saputo o sappia giudicare con verità della lingua e letteratura italiana: e così discorrete delle altre).
E non ignoro quanto debbano massimamente le lingue e letterature orientali ai [975]dotti francesi di questo e del passato secolo.
Ma questi tali dotti presenti o passati hanno parlato o parlano e più modestamente della lingua e letteratura loro, e più cautamente e con più riguardo delle altrui, siccome è costume naturale di chiunque meglio e maturamente ed intimamente conosce ed intende.
(20-22.
Aprile.
Giorno di Pasqua.
1821.).
V.
p.978.
capoverso 3.
Tra i libri diversi si annunziano le Lettere sull'India di Maria Graham, autrice di un Giornale del suo soggiorno nell'India, nelle quali campeggia un curioso paragone del Sanscritto col latino, col persiano, col tedesco, coll'inglese, col francese e coll'italiano, e si parla pure a lungo delle principali opere composte in Sanscritto.
Bibl.
Italiana vol.4.
p.358.
Novembre 1816.
n.11.
Appendice.
Parte italiana.
rendendo conto del Giornale Enciclopedico di Napoli n.
V.
(22.
Aprile 1821.)
Il sistema di Copernico insegnò ai filosofi l'uguaglianza dei globi che compongono il sistema solare (uguaglianza non insegnata dalla natura, anzi all'opposto), nel modo che la ragione e la natura insegnavano agli uomini ed a qualunque vivente l'uguaglianza naturale degl'individui di una medesima specie.
(22.
Aprile 1821.)
La scrittura dev'essere scrittura e non algebra; [976]deve rappresentar le parole coi segni convenuti, e l'esprimere e il suscitare le idee e i sentimenti, ovvero i pensieri e gli affetti dell'animo, è ufficio delle parole così rappresentate.
Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io? Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare le cose colle parole, le vorremo dipingere o significare con segni, come fanno i cinesi la cui scrittura non rappresenta le parole, ma le cose e le idee.
Che altro è questo se non ritornare l'arte dello scrivere all'infanzia? Imparate imparate l'arte dello stile, quell'arte che possedevano così bene i nostri antichi, quell'arte che oggi è nella massima parte perduta, quell'arte che è necessario possedere in tutta la sua profondità, in tutta la sua varietà, in tutta la sua perfezione, chi vuole scrivere.
E così obbligherete il lettore alla sospensione, all'attenzione, alla meditazione, alla posatezza nel leggere, agli affetti che occorreranno, ve l'obbligherete, dico, con le parole, e non coi segnetti, nè collo spendere due pagine in quella scrittura che si potrebbe contenere in una sola pagina, togliendo le lineette, e le divisioni ec.
Che maraviglia risulta da questa sorta d'imitazioni? Non consiste nella maraviglia uno de' principalissimi pregi dell'imitazione, una [977]delle somme cause del diletto ch'ella produce? Or dunque non è meglio che lo scrittore volendo scrivere in questa maniera, si metta a fare il pittore? Non ha sbagliato mestiere? non produrrebbe egli molto meglio quegli effetti che vuol produrre scrivendo così? Non c'è maraviglia, dove non c'è difficoltà.
E che difficoltà nell'imitare in questo modo? Che difficoltà nell'esprimere il calpestio dei cavalli col trap trap trap, e il suono de' campanelli col tin tin tin, come fanno i romantici? (Bürger nell'Eleonora.
B.
Ital.
tomo 8.
p.365.) Questa è l'imitazione delle balie, e de' saltimbanchi, ed è tutt'una con quella che si fa nella detta maniera di scrivere, e coi detti segni, sconosciutissimi, e con ragione a tutti gli antichi e sommi.
(22.
Aprile.
Giorno di Pasqua 1821.)
Quanto più qualsivoglia imitazione trapassa i limiti dello strumento che l'è destinato, e che la caratterizza e qualifica, tanto più esce della sua natura e proprietà, e tanto più si scema la maraviglia, come se nella scultura che imita col marmo s'introducessero gli occhi di vetro, o le parrucche invece delle chiome scolpite.
E così appunto si deve dire in ordine alla scrittura, la quale imita colle parole, e non deve uscire del suo strumento.
Massime se questi nuovi strumenti son troppo facili e ovvi, [978]cosa contraria alla dignità e alla maraviglia dell'imitazione, e che confonde la imitazione del poeta o dell'artefice colla misera imitazione delle balie, de' mimi, de' ciarlatani, delle scimie, e con quella imitazione che si fa tutto giorno o con parole, o con gesti, o con lavori triviali di mano, senza che alcuno si avvisi di maravigliarsene, o di crederla opera del genio, e divina.
(23.
Aprile.
1821.)
Oggi non può scegliere il cammino della virtù se non il pazzo, o il timido e vile, o il debole e misero.
(23.
Aprile.
1821.)
Per l'invenzione della polvere l'energia che prima avevano gli uomini si trasportò alle macchine, e si trasformarono in macchine gli uomini, cosicchè ella ha cangiato essenzialmente il modo di guerreggiare.
B.
Italiana t.5.
p.31.
Prospetto Storico-filosofico ec.
del Conte Emanuele Bava di S.
Paolo, 2° ed ult.
estratto.
(23.
Aprile 1821.)
Alla p.975.
Una lingua timidissima non è buono nè perfetto strumento a gustare una lingua coraggiosa ed ardita, a gustare gli ardimenti e il coraggio; nè una lingua tutta regola, e matematica, ed esattezza e ragione, a gustare una lingua naturalmente e felicemente irregolare, (come sono tutte le antiche, orientali come occidentali), una lingua regolata dalla immaginazione ec.; nè una lingua che non ha, si può dire, nessuna proprietà quanto ai modi ec.
(????? ?? ?????) a gustare le proprietà [979]delle altre lingue.
(24.
Aprile.
1821.)
Passa rapidamente sulla ricerca del linguaggio de' primi abitatori dell'Italia, e sembra persuaso che la lingua di quelle genti, siccome pure la greca e la latina, derivassero dall'indiana, giacchè i popoli indiani dalle spiagge dell'Oriente, passarono in turme alle Occidentali, e posero sede nella Grecia ed in Italia.
Formata, ossia ridotta ad eleganza la lingua latina (cioè quella derivata, secondo il Ciampi, dall'indiana), non perciò perirono l'etrusca, l'osca, la volsca, la latina antica più rozza; ma benchè queste non formassero la lingua della capitale e del governo, continuarono forse a parlarsi dal volgo, in quella maniera medesima che il volgo delle diverse provincie d'Italia è tuttora tenace dei propri dialetti.
Infatti alcune voci toscane sono ancora probabilmente di origine etrusca.
Biblioteca Italiana tomo 7.
pag.215.
rendendo conto dell'opera del Ciampi intitolata De usu linguae italicae saltem a saeculo quinto R.
S.
Acroasis.
Accedit etc.
Pisis.
Prosperi.
1817.
(24.
Aprile 1821.)
Trae perfino un argomento a suo favore dalla lingua valacca, la quale derivata dai soldati romani che vi si lasciarono stazionarii da Traiano, conviene in molte parole ed in molte frasi colla italiana, e ne [980]mette fuori di dubbio la rimota antichità.
Bibl.
Ital.
l.
cit.
nel pensiero antecedente, rendendo conto della stessa opera.
p.217.
fine.
(24.
Aprile 1821.)
La lingua del Lazio adunque si dovette propagare nel contiguo Illirico e all'Oriente, non meno che si propagò in amendue le Gallie all'Occidente; e il nome Romania, che fino a' nostri dì si è conservato; e la lingua chiamata dai Valacchi: ROMANESKI, che tanto somiglia alla latina (come un viaggiatore recente ce lo conferma) (vedi Caronni in Dacia.
Milano, 1812.
pag.32.) non che il gran numero di antichità romane disotterrate in quelle parti, ne sono una prova convincente.
Articolo originale del Cav.
Hager nello Spettatore di Milano.
1.
Aprile 1818.
Quaderno 97.
p.245.
fine.
(25.
Aprile 1821.).
Basta che la voce OCO che significa anch'essa OCCHIO in russo, (cioè oltre la voce Glass che significa lo stesso) sia tanto simile all'OCULUS de' latini, onde dimostrare che questa voce non è meno affine alla voce latina, che la parola OCCHIO in italiano, non essendo OCULUS che il diminutivo della parola OCCUS o OCCOS che significava un OCCHIO in greco antico, come lo attestano Esichio ed Isidoro.
Luogo citato qui sopra, p.244.
principio.
Sì dunque la voce russa Oco derivata dal latino mediante la propagazione [981]della lingua latina nell'Illirico, avvenuta in bassi tempi, (Hager, ivi, p.244.
verso il mezzo ec.
e Bibl.
Italiana vol.
8.
p.208.
rendendo conto dell'opera dello stesso Hager: Observations sur la ressemblance frappante que l'on découvre entre la langue des Russes et celle des Romains.
Milan.
1817.
chez Stella, en 4°.
gr.
dove l'autore dimostra questa propagazione.) essendo la lingua russa figlia dell'illirica (ivi); sì ancora la voce ojo spagnuola (che si pronunzia oco, aspirando il c all'uso spagnuolo) dimostrano che quell'antichissima voce occus, benchè sparita dalle scritture latine, si conservò nel latino volgare.
(25.
Aprile 1821.).
Occhio però viene da oculus come da somniCULosus, sonnaCCHIoso, e l'antico sonnoCCHIoso, da auricula, orecchia, da geniculum o genuculum, ginocchio (v.
pag.1181.
marg.), da foeniculum, finocchio, da macula, macchia, da apicula o apecula, pecchia, da stipula, stoppia, (bisogna notare che anche gli spagnuoli dicono ojo da oculus, come oreja, oveja da auricula, ovicula ec.) da ungula, unghia ec.
V.
p.2375.
(e la p.2281.
e segg.).
Alla p.740.
La lingua greca si era conservata sempre pura, in gran parte per la grande ignoranza in cui erano i greci del latino.
La quale si fa chiara sì da altri esempi che ho allegati in altro pensiero (cioè quelli di Longino nel giudizio timidissimo che dà di Cicerone, e di Plutarco nella prefazione alla Vita di Demostene, della quale vedi il Toup ad Longin.
p.134.) sì ancora da questo, che laddove i latini citavano ad ogni momento parole e passi greci, colle lettere greche, gli scrittori greci non mai citavano o usavano parole latine se non con elementi greci, e con maraviglia, e come cosa unica notò il Mingarelli in un'opera di Didimo Alessandrino, Teologo del quarto secolo, da lui per la prima volta pubblicata, due o tre parole latine barbaramente scritte in caratteri latini.
(Didym.
Alexandr.
De Trinitate Lib.1.
cap.15.
Bonon.
typis Laelii a Vulpe 1769.
fol.
p.18.
gr.
et lat.
cura Johannis Aloysii Mingarellii.
Vide ib.
eius not.3.
e la Lettera a Mons.
Giovanni Archinto Sopra un'opera inedita di un antico teologo stampata già in Venezia nella Nuova Raccolta del Calogerà 1763.
tomo XI.
e ristampata nell'Appendice alla detta opera: Cap.3.
pag.465.
fine-466.
principio.
del che non si troverà [982]così facilmente altro esempio in altro scrittore greco.) Il che dimostra sì che gli stessi scrittori sì che i lettori greci erano ignorantissimi del latino, da che gli scrittori non giudicavano di poter citare parole latine, com'elle erano scritte; e di rado anche le usavano in lettere greche, al contrario de' latini rispetto alle voci greche e passi greci in caratteri latini ec.
Quanto poi i greci dovessero lottare colle circostanze per mantenersi in questa verginità anche prima di Costantino, e dopo la conquista della Grecia fatta dai Romani si può raccogliere da queste parole del Cav.
Hager, nel luogo cit.
qui dietro (p.980.) p.245.
Basta consultare la celebre opera di S.
Agostino, DE CIVITATE DEI, onde vedere quanto i Romani al medesimo tempo erano solleciti d'imporre non solo il loro giogo, ma anche la loro lingua a' popoli da loro sottomessi: Opera data est, ut imperiosa civitas, non solum iugum, verum etiam linguam suam, domitis gentibus per pacem societatis, imponeret (Lib.
XIX, cap.7.) Ai Greci medesimi, dice Valerio Massimo, non davano giammai risposta che in lingua latina: illud quoque magna perseverantia custodiebant, ne Graecis unquam nisi latine responsa darent, (Lib.
II., c.2.
n.2.) e ciò quantunque la lingua greca fosse tanto famigliare a' Romani; nulla dimeno per diffondere la lingua latina obbligavano perfino que' Greci, che non la sapevano, a spiegarsi per mezzo di un interprete in latino: Quin etiam...
per interpretem loqui cogebant...
quo scilicet latinae vocis honos per omnes gentes venerabilior diffunderetur.
(ibid.) [983]E tuttavia la Grecia resistè.
Ma dopo Costantino, alla Corte Bizantina, segue lo stesso autore l.c.
come si osserva da S.
Crisostomo (adv.
oppugnatores vitae monasticae.
Lib.
III.
tom.
I., p.34.
Paris.
1718, edit Montfaucon.) era un mezzo di far fortuna il sapere il latino; e fino a' tempi di Giustiniano, le leggi degli imperatori greci si pubblicavano nella Grecia medesima in latino.
E soggiunge subito in una nota: Le PANDETTE furono pubblicate a Costantinopoli in latino.
(25.
Aprile 1821.)
Nelle Mémoires de l'Acad.
des Inscriptions, Tom.24.
si trova: Bonamy, Réflexions sur la langue latine vulgaire.
(25.
Aprile 1821.).
E son pur da vedere in questo proposito le memorie di Trévoux, anno 1711.
p.914.
Un nostro missionario (cioè italiano) il P.
Paolino da S.
Bartolomeo, mostrò l'affinità della lingua tedesca con una lingua indiana non solo, ma che da una lunga serie di secoli ha cessato di essere vernacola, con la samscrdamica (cioè sascrita: così la nomina anche p.208.
samscrdamica) che è la madre di tutte le lingue delle Indie.
Bibliot.
Ital.
vol.8.
p.206.
(25.
Aprile 1821.)
Che il verbo latino serpo sia lo stesso che il greco ????, è cosa evidente, come pure i derivati, serpyllum etc.
Ma che gli antichi latini, e successivamente il volgo latino, usassero ancora, almeno in composizione, lo stesso verbo senza la [984]s, come in greco, lo raccolgo dal verbo neutro italiano inerpicare o innerpicare che significa appunto lo stesso che il greco ??????, composto di ????, cioè sursum repo, come anche ???????.
(Del verbo ?????? non ha esempio lo Scapula, ma lo spiega sursum repo.
Ve n'è però esempio in Arriano, Expedit.
lib.6.
c.10.
sect.6.
e nell'indice è spiegato sursum serpo.) Il qual verbo siccome non ha radice veruna nella nostra lingua, nè nella latina conosciuta, così l'ha evidentissima nel detto verbo ????, dal quale non può esser derivato, se non mediante il latino, cioè mediante l'uso del volgo romano, differente in questo dagli scrittori.
(25 Aprile 1821.)
Delle qualità e pregi della lingua Sascrita, v.
alcune cose estratte da un articolo di Jones nelle Notizie letterarie di Cesena 1791.
24.
Nov.
p.365.
colonna 1.
Dell'abuso ch'ella fa talvolta de' composti v.
ib.
p.363.
colonna 2.
fine.
Abuso simile a quello che ne facevano talvolta gli antichi scrittori, e massime poeti, latini, ma assai maggiore, secondo la natura de' popoli orientali che sogliono sempre e in ogni genere spingersi fino all'ultimo e intollerabile eccesso delle cose.
(25.
Aprile 1821.)
La scoperta e l'uso delle armi da fuoco oltre agli effetti da me notati negli altri pensieri, ha scemato ancora notabilissimamente il coraggio ne' soldati, e generalmente negli uomini.
La victoire...
s'obtient aujourd'hui par la regularité et la précision des manoeuvres, souvent sans en venir aux mains.
Nos guerres ne se décident plus guère que de loin, à coups de canon et de fusil; et nos timides fantassins, sans armes défensives, effrayés par le bruit et l'effet de [985]nos armes à feu, n'osent plus s'aborder: les combats à l'armes blanches sont devenus fort rares.
Così il Barone Rogniat, Considérations sur l'Art de la guerre, Paris, de l'imprimerie de Firmin Didot, 1817.
Introduction, p.1.
E come i soldati, così gli altri uomini che si servono delle armi da fuoco invece delle bianche, riducendosi ora ogni battaglia o pubblica o privata, a tradimenti, e a fatti di lontano, senza mai venire corpo a corpo: oltre l'influenza che ha l'educazione militare, e la natura delle guerre sopra l'intero delle nazioni.
Sarà bene ch'io legga tutta intera l'opera citata, dove l'arte della guerra è chiarissimamente esposta, congiunta a molta filosofia, paragonati continuamente gli antichi coi moderni, e i diversi popoli fra loro, applicata alla detta arte la scienza dell'uomo ec.
E certo la guerra appartiene al filosofo, tanto come cagione di sommi e principalissimi avvenimenti, quanto come connessa con infiniti rami della teoria della società, e dell'uomo e dei viventi.
(25.
Aprile 1821.)
La soverchia ristrettezza e superstizione e tirannia in ordine alla purità della lingua, ne produce dirittamente la barbarie e licenza, come la eccessiva servitù produce la soverchia e smoderata libertà dei popoli.
I quali ora perciò non divengono liberi, perchè [986]non sono eccessivamente servi, e perchè la tirannia è perfetta, e peggiore che mai fosse, essendo più moderata che fosse mai.
(25.
Aprile 1821.)
Come non si dà mai l'atto nè il possesso del diletto, così neanche dell'utilità, giacchè utile non è se non quello che conduce alla felicità, la quale non è riposta in altro che nel piacere, con qualunque nome ei venga chiamato.
(25.
Aprile 1821.)
Dal confronto delle poesie di Ossian, vere naturali e indigene dell'Inghilterra, colle poesie orientali, si può dedurre (ironico) quanto sia naturale all'Inghilterra la sua presente poesia (come quella di Lord Byron) derivata in gran parte dall'oriente, come dice il riputatissimo giornale dell'Edinburgh Review in proposito del Lalla Roca di Tommaso Moore (Londra 1817.) intitolato Romanzo orientale.
(Spettatore di Milano.
1.
Giugno 1818.
Parte Straniera.
Quaderno 101.
p.233.
e puoi vederlo.)
Infatti le poesie d'Ossian sebben sublimi e calde, hanno però quella sublimità malinconica, e quel carattere triste e grave, e nel tempo stesso, semplice e bello, e quegli spiriti marziali ed eroici, che derivano naturalmente dal clima settentrionale.
Non già quella sublimità eccessiva, quelle esagerazioni, quelle spaccamontate delle pazze fantasie orientali; nè quel sapore aromatico; nè quello splendore abbagliante, come dice il citato giornale, nè quel fasto, nè quella voluttà, nè quei profumi (sono espressioni dello stesso); nè quel colore vivo e sfacciato, ed ardente; nè quella estrema raffinatezza, e squisitezza strabocchevole in ogni genere e parte di letteratura e poesia; nè quella mollezza, quella effeminatezza, quel languore, quella delicatezza (per noi) eccessiva e nauseosa e vile e sibaritica, che deriva dai climi meridionali.
Ed è veramente maraviglioso, come il paese de' più settentrionali d'Europa, stimi naturale e propria e [987]adattata alla sua indole la poesia de' paesi più meridionali e ardenti del mondo.
Un paese poi come l'Inghilterra, così pieno di filosofia, e cognizioni dell'uomo, e de' caratteri nazionali e fisici ec.
ec.
Meno male se l'orientalismo fa progressi in Francia, (come negli scritti di Chateaubriand) paese più meridionale che settentrionale.
Ma non c'era popolo colto, a cui l'orientalismo convenisse meno che all'Inghilterra, dove però trionfa, e donde io credo che sia passato in Francia sulla fine del secolo passato, e donde si va diramando per l'Europa la detta scuola.
Il fatto sta che tutto il mondo è paese, e da per tutto si crede naturale e nazionale quello che fa effetto per la cagione appunto contraria, cioè per la novità, pel forestiero, pel contrasto col carattere e l'indole propria e nazionale; e come la poesia [in] Italia ha corso rischio, (e non ne è forse fuori) di una nuova corruzione mediante il settentrionalismo, l'Ossianismo ec.
così viceversa l'inglese, mediante il meridionale e l'orientale.
E certo se la poesia settentrionale pecca in qualche cosa al gusto nostro, egli è nell'eccesso del sombre, del buio, del tetro; e la orientale al contrario, nell'eccesso del vivo, del chiaro, del ridente, del lucido anzi abbarbagliante ec.
Vedete quanta conformità di carattere fra queste due poesie!
(25.
Aprile 1821.)
Il diletto è sempre il fine, e di tutte le cose, l'utile non è che il mezzo.
Quindi il piacevole, è vicinissimo al fine delle cose umane, o quasi lo stesso con lui; l'utile che si suole stimar più del piacevole, non ha altro pregio che d'esser più lontano da esso fine, o di condurlo non immediatamente ma mediatamente.
[988]
(26.
Aprile 1821.)
I latini erano veramente ????????? rispetto alla lingua loro e alla greca 1.
perchè parlavano l'una come l'altra, ma non così i greci generalmente, anzi ordinariamente: 2.
perchè scrivendo citavano del continuo parole e passi greci, in lingua e caratteri greci, ovvero usavano parole o frasi greche nella stessa maniera; ma non i greci viceversa, del che vedi p.981.
e p.1052.
capoverso 3.
e p.2165.
3.
Resta memoria di parecchie traduzioni fatte dal greco in latino anche ne' buoni tempi, e fino dagli ottimi scrittori latini, come Cicerone.
Ed anche restano di queste traduzioni, o intere o in frammenti, come quelle di Arato fatte da Cicerone e da Germanico, quella del Timeo di Cicerone, quelle di Menandro fatte da Terenzio, quelle fatte da Apuleio o attribuite a lui, quelle dell'Odissea fatta da Livio Andronico, dell'Iliade da Accio Labeone, da Cneo Mattio o Mazzio, da Ninnio Crasso (Fabric.
B.
Gr.
1.297.) ec.
tutte anteriori a Costantino.
V.
Andrès Stor.
della letteratura, ediz.
di Venezia, Vitto.
t.9.
p.328 329.
cioè Parte 2.
lib.4.
c.3.
principio.
Non così nessuna traduzione, che sappia io, si rammenta dal latino in greco, se non dopo Costantino, e quasi tutte di opere teologiche o ecclesiastiche o sacre, cioè scientifiche e appartenenti a quella scienza che allora prevaleva.
Non mai letterarie.
(V.
Andrès, t.9.
p.330.
fine.) La traslazione di Eutropio fatta da Peanio che ci rimane, e l'altra perduta di un Capitone Licio, non pare che si possano riferire a letteratura, trattandosi di un compendio ristrettissimo di storia, fatto a solo uso, possiamo dire, elementare.
[989]E si può dire con verità quanto alla letteratura, che la comunicazione che v'ebbe fra la greca e la romana, non fu mai per nessunissimo conto reciproca, neppur dopo che la letteratura Romana era già grandissima e nobilissima, anzi superiore assai alla letteratura greca contemporanea.
4°, I latini scrivevano bene spesso in greco del loro.
Così fa molte volte Cicerone nelle epistole ad Attico (forse anche nelle altre); dove forse per non essere inteso dal portalettere, la qual gente, com'egli dice, soleva alleviare la fatica e la noia del viaggio leggendo le lettere che portava; ovvero per evitare gli altri pericoli di lettere vertenti sopra negozi pubblici, politici ec.
dal contesto latino passa bene spesso a lunghi squarci scritti in greco, e tramezzati al latino, e scritti anche in maniera enigmatica e difficile.
Restano parecchie lettere greche di Frontone.
Resta l'opera greca di Marcaurelio, il quale imperatore scriveva parimente, com'è naturale, in latino, e così bene, come si può vedere nelle sue lettere ultimamente scoperte8.
Eliano, conosciuto solamente come scrittor greco, fu di Preneste, e quindi cittadino Romano, ed appena si mosse mai d'Italia.
Nondimeno dice di lui Filostrato: ????????? ??? ??, ???????? ?? ????? ?? ?? ?? ???????? ??????????(Fabric.
3.696.
not.).
Intorno a Marcaurelio puoi vedere la p.
2166.
Non così i greci sapevano mai scrivere in latino.
Anzi Appiano in Roma scrivendo a Frontone, uomo latino, sebbene di origine affricana, scriveva in greco, e Frontone rispondeva parimente in greco, non in latino.
E così molti libri di autori greci si trovano, scritti in greco, sebbene indirizzati a personaggi [990]romani o latini.
Le stesse cose appresso a poco si possono notare avvenute a noi riguardo al francese.
Giacchè fino a tanto che la nostra letteratura prevalse o per merito reale, o per continuazione di fama e di opinione generale, e la nostra lingua era per tutti i versi più studiata, più conosciuta, più dilatata fra i francesi ed altrove, e la nostra letteratura parimente, sì nella nazione, che fra' suoi letterati e scrittori; e si trovarono di quei francesi che scrivevano in ambedue le lingue francese e italiana.
Ora accade tutto l'opposto: e si trovano degl'italiani, come anche non pochi d'altre nazioni, che scrivono e stampano così nella lingua francese, come nella loro: libri, parole, testi francesi si allegano continuamente in tutti i paesi di Europa: non così viceversa in Francia, dove difficilmente si troverà un francese che sappia scrivere altra lingua che la sua, e scrivendo a' forestieri scriveranno in francese, e riceveranno risposta nella stessa lingua; e dove è più necessario che in qualunque altro paese colto, che i passi o parole che si citano di libri forestieri, (e massime italiani) si citino in francese, o se n'aggiunga la traduzione.
Osservo ancor questo.
Ridotti in provincie romane i diversi paesi dell'impero, tutti gli scrittori che uscirono di queste provincie, qualunque lingua fosse in esse originaria o propria, scrissero in latino.
I Seneca, Quintiliano, Marziale, [991]Lucano, Columella, Prudenzio, Draconzio, Giovenco, ed altri Spagnuoli; Ausonio, Sidonio Apollinare, S.
Prospero, S.
Ilario, Latino Pacato, Eumenio, Sulpizio Severo ed altri Galli; Terenzio, Marziano Capella, Frontone, Apuleio, Nemesiano, Tertulliano, Arnobio, S.
Ottato, Mario Vittorino, S.
Agostino, S.
Cipriano, Lattanzio ed altri Affricani; Sedulio Scozzese.
V.
p.1014.
Parecchi de' quali arrivarono ancora all'eccellenza nella lingua latina.
Non così i greci.
E dico tanto i greci Europei, quanto quelli nativi delle colonie greche nell'Asia Minore, o delle altre parti dell'Asia divenute greche di lingua e di costumi dopo la conquista di Alessandro, e così dell'Egitto, o di qualunque luogo dove la lingua greca prevalesse nell'uso quotidiano, ovvero anche solamente come lingua degli scrittori e della letteratura.
Nessuno di questi scrisse in latino, ma tutti in greco, eccetto pochissimi (come Claudiano, e Igino Alessandrini, Petronio Marsigliese ec.); che son quasi nulla rispetto al numero ed estensione delle dette provincie greche, massime paragonandoli alla gran copia degli altri scrittori latini forestieri di ciascuna provincia, ancorchè minore.
E di questi pochissimi nessuno arrivò, non dico all'eccellenza, ma appena alla mediocrità nella lingua latina.
V.
p.1029.
E Macrobio, che si stima uno di questi pochissimi, si scusa se ec.
(v.
il Fabricio, B.
Latina t.2.
p.113.
l.3.
c.12.
§.9.
nota (a.)) e di lui dice Erasmo (in Ciceroniano) Graeculum latine balbutire credas.
(Fabric.
ivi) Cosa applicabilissima agli odierni francesi per lo più balbettanti nelle altrui lingue, e massime nella nostra.
E di Ammiano Marcellino, altro di questi pochissimi, e più antico di Macrobio, dice il Salmasio (Praef.
de Hellenistica p.39.) ec.
V.
il Fabricio l.c.
p.99.nota(b) l.3.
c.12
[992]Ma del resto i greci di qualunque parte, ancorchè sudditi romani, ancorchè cittadini romani, ancorchè vissuti lungo tempo in Roma o in Italia, ancorchè scrivendo precisamente in Italia o in Roma, e in mezzo ai latini, ancorchè scrivendo ai romani tanto gelosi del predominio del loro linguaggio, come sì è veduto p.982-983.
ancorchè nel tempo dell'assoluta padronanza, ed intiera estensione del dominio della nazione latina, ancorchè impiegati in cariche, in onori ec.
al servizio de' Romani, e nella stessa Roma, ancorchè finalmente nominati con nomi e prenomi latini, scrissero sempre in greco, e non mai altrimenti che in greco.
Così Polibio, familiare, compagno, e commilitone del minore Scipione; così Dionigi d'Alicarnasso, vissuto 22 anni in Roma; così Arriano prenominato Flavio (Fabric.
B.
G.
3.269.
not.
b.) fatto cittadino Romano, senatore, Console, caro all'imperatore Adriano, e mandato prefetto di provincia armata in Cappadocia; così Dione Grisostomo, cognominato Cocceiano dall'Imperatore Cocceio Nerva, vissuto gran tempo in Roma, e familiare del detto Imperatore e di Traiano; così l'altro Dione prenominato Cassio e cognominato parimente Cocceiano ec.; così Plutarco ec.; così Appiano ec.
così Flegone, ec.; così Galeno prenominato Claudio ec.; così Erode Attico prenominato Tiberio Claudio, ec.; così Plotino ec.; (v.
per ciascuno di questi il Fabricio) così quell'Archia poeta ec.
(v.
Cic.
pro Archia).
Da tutto ciò si deduce in primo luogo, quanto, e con quanta differenza dalle altre nazioni, i greci [993]di qualunque paese fossero tenaci della lingua e letteratura loro, e noncuranti della latina, anche durante e dopo il suo massimo splendore.
Considerando ancora che generalmente gli scrittori greci di qualunque età, e nominatamente i sopraddetti e loro simili, che per le loro circostanze, parrebbono non solo a portata ma in necessità di aver conosciuto la letteratura latina, non danno si può dir mai segno veruno di conoscerla, nè la nominano ec.
e se citano talvolta qualche autore latino, li citano e se ne servono per usi di storia, di notizie, di scienze, di teologia ec.
non mai di letteratura.
Questa è cosa universale negli scrittori greci.
In secondo luogo risulta dalle sopraddette cose, che i mezzi usati dai romani per far prevalere la loro lingua, come nelle altre nazioni, così in Grecia, e ne' moltissimi paesi dove il greco era usato, (v.
p.982-83.) laddove riuscirono in tutti gli altri luoghi, non riuscirono e furon vani in questi.
Ed osservo che la lingua latina non prevalse mai alla greca in nessun paese dov'ella fosse stabilita, sia come lingua parlata, sia come lingua scritta: laddove la greca avea prevaluto a tutte le altre in questi tali (vastissimi e numerosissimi) paesi, e in quasi mezzo mondo; e quello che [994]non potè mai la lingua nè la potenza nè la letteratura latina, lo potè, a quel che pare, in poco spazio, l'arabo, e le altre lingue o dialetti maomettani, (come il turco ec.) e così perfettamente, come vediamo anche oggidì.
Ma la lingua latina, (eccetto nella Magna Grecia e in Sicilia) non solo non estirpò, ma non prevalse mai in nessun modo e in nessun luogo alla lingua e letteratura greca, se non come pura lingua della diplomazia: quella lingua latina, dico, la quale nelle Gallie aveva, se non distrutta, certo superata quell'antichissima lingua Celtica così varia, così dolce, così armoniosa, così maestosa, così pieghevole, (Annali 1811.
n.18.
p.386.
Notiz.
letterar.
di Cesena 1792.
p.142.) e che al Cav.
Angiolini che se la fece parlare da alcuni montanari Scozzesi, parve somigliante ne' suoni alla greca: (Lettere sopra l'Inghilterra, Scozia, ed Olanda.
vol.2do.
Firenze 1790.
Allegrini.
8vo anonime, ma del Cav.
Angiolini) (Notizie ec.
l.c.) lingua della cui purità erano depositarii e custodi gelosissimi quei famosi Bardi che avevano e conservarono per sì lungo tempo, ancor dopo la conquista fatta da' Romani, tanta influenza sulla nazione, e massime poi la letteratura: (Annali ec.
l.c.
p.385.386.
principio.) quella lingua così ricca, e ogni giorno più ricca di tanti poemi, parte de' quali anche [995]oggi si ammirano.
Questa lingua e letteratura cedette alla romana; v.
p.1012.
capoverso 1.
la greca non mai; neppur quando Roma e l'Italia spiantata dalle sue sedi, si trasportò nella stessa Grecia.
Perocchè sebbene allora la lingua greca fu corrotta finalmente di latinismi, ed altre barbarie, (scolastiche ec.) imbarbarì è vero, ma non si cangiò; e in ultimo, piuttosto i latini vincitori e signori si ridussero a parlare quotidianamente e scrivere il greco, e divenir greci, di quello che la Grecia vinta e suddita a divenir latina e parlare o scrivere altra lingua che la sua.
Ed ora la lingua latina non si parla in veruna parte del mondo, la greca, sebbene svisata, pur vive ancora in quell'antica e prima sua patria.
Tanta è l'influenza di una letteratura estesissima in ispazio di tempo, e in quantità di cultori e di monumenti; sebbene ella già fosse cadente a' tempi romani, e a' tempi di Costantino, possiamo dire, spenta.
Ma i greci se ne ricordavano sempre, e non da altri imparavano a scrivere che da' loro sommi e numerosissimi scrittori passati, siccome non da altri a parlare, che dalle loro madri.
V.
p.996.
capoverso 1.
Certo è che la letteratura influisce sommamente sulla lingua.
(V.
p.766.
segg.) Una lingua senza letteratura, o poca, non difficilmente si spegne, o si travisa in maniera non riconoscibile, non potendo ella esser formata, nè per conseguenza troppo radicata e confermata, siccome immatura e imperfetta.
E questo accadde alla lingua Celtica, forse perch'ella scarseggiava sommamente di scritture, sebbene abbondasse di componimenti, che per lo più passavano solo di bocca in bocca.
Non così una lingua abbondante di scritti.
Testimonio ne sia la Sascrita, [996]la quale essendo ricca di scritture d'ogni genere, e di molto pregio secondo il gusto orientale, e della nazione, vive ancora (comunque corrotta) dopo lunghissima serie di secoli, in vastissimi tratti dell'India, malgrado le tante e diversissime vicende di quelle contrade, in sì lungo spazio di tempo.
E sebbene anche i latini ebbero una letteratura, e grande, e che sommamente contribuì a formare la loro lingua, tuttavia si vede ch'essa letteratura, venuta, per così dire, a lotta colla greca, in questo particolare, dovè cedere, giacchè non solamente non potè snidare la lingua e letteratura greca, da nessun paese ch'ella avesse occupato, ma neanche introdursi nè essa nè la sua lingua in veruno di questi tanti paesi.
(29.
Aprile.
1821.).
V.
p.999.
capoverso 1.
Alla p.995.
Infatti i greci anche nel tempo della barbarie, conservarono sempre la memoria, l'uso, la cognizione delle loro ricchezze letterarie, e la venerazione e la stima de' loro sommi antichi scrittori.
E questo a differenza de' latini, dove ne' secoli barbari, non si sapeva più, possiamo dir, nulla, di Virgilio, di Cicerone ec.
L'erudizione e la filologia non si spensero mai nella Grecia, mente erano ignotissime in Italia; anzi nella Grecia essendo subentrate alle altre buone e grandi discipline, durarono tanto che la loro letteratura sebbene spenta già molto innanzi, quanto al fare, non si spense mai quanto alla memoria, alla cognizione e [997]allo studio, fino alla caduta totale dell'impero greco.
Ciò si vede primieramente da' loro scrittori de' bassi tempi, in molti de' quali anzi in quasi tutti (mentre in Italia il latino scritto non era più riconoscibile, e nessuno sognava d'imitare i loro antichi) la lingua greca, sebbene imbarbarita, conserva però visibilissime le sue proprie sembianze: ed in parecchi è scritta con bastante purità, e si riconosce evidentemente in alcuni di loro l'imitazione e lo studio de' loro classici e quanto alla lingua e quanto allo stile; sebbene degenerante l'una e l'altro nel sofistico, il che non toglie la purità quanto alla lingua.
Arrivo a dire che in taluni di loro, e ciò fino agli ultimissimi anni dell'impero greco, si trova perfino una certa notabile eleganza e di lingua e di stile.
In Gemisto è maravigliosa l'una e l'altra.
Tolti alcuni piccoli erroruzzi di lingua (non tali che sieno manifesti se non ai dottissimi) le sue opere o molte di loro si possono sicuramente paragonare e mettere con quanto ha di più bello la più classica letteratura greca e il suo miglior secolo.
Oltre a ciò l'erudizione e la dottrina filologica, e lo studio de' classici è manifesto negli scrittori greci più recenti, a differenza de' latini.
Gli antichi classici, e singolarmente Omero, benchè il più antico di tutti, non lasciarono mai di esser citati negli scritti greci, finchè la Grecia ebbe chi scrivesse.
E vi si alludeva spessissimo ec.
Non domanderò ora qual uomo latino nel terzo secolo si possa paragonare a un Longino o a un Porfirio.
Non chiederò che mi si mostri nel nono secolo, anzi in tutto lo spazio che corse dopo il 2do secolo fino al 14mo, un latino, non dico uguale, ma somigliante [998]di lontano a Fozio, uomo nei pregi della lingua e dello stile non dissimile dagli antichi, e superiore agli stessi antichi nell'erudizione e nel giudizio e critica letteraria, doti proprie di tempi più moderni.
Tenendomi però a' tempi bassissimi, e potendo recare infiniti esempi, mi contenterò degli scritti di quel Giovanni Tzetze, che fu nel 12mo secolo, e di Teodoro Metochita che viveva nel 14mo; scritti pieni di indigesta ma immensa erudizione classica.
Secondariamente la mia proposizione apparisce da quei greci che vennero in Italia nel trecento, e dopo la caduta dell'impero greco, nel quattrocento.
E mentre in Italia si risuscitavano gli antichi scrittori latini che giacevano sepolti e dimenticati da tanto tempo nella loro medesima patria, i greci portavano qua il loro Omero, il loro Platone e gli altri antichi, non come risorti o disseppelliti fra loro, ma come sempre vissuti.
Della erudizione e dottrina di quei greci, delle cose che fecero in Italia, delle cognizioni che introdussero, delle opere che scrissero, parte in greco, ed alcune proprio eleganti; parte in latino, riducendosi allora finalmente per la prima volta ad usare il linguaggio de' loro antichi e già distrutti vincitori; essendo cose notissime, non accade se non accennarle.
(29.
Aprile.
1821.)
[999]Alla p.996.
E la letteratura latina non potè impedire che la sua lingua non si spegnesse, laddove la greca ancor vive, benchè corrotta, perchè sapendo il greco antico, si arriva anche senza preciso studio a capire il greco moderno.
Non così sapendo il latino, a capir l'italiano ec.
Onde la presente lingua greca non si può distinguere dall'antica, come l'italiano ec.
dal latino, che son lingue precisamente diverse, benchè parenti.
E neppure si capisce l'italiano sapendo il francese, nè ec.
(29.
Aprile.
1821.).
V.
p.1013.
capoverso 1.
In prova di quanto la lingua greca, fosse universale, e giudicata per tale, ancor dopo il pieno stabilimento, e durante la maggiore estensione del dominio romano e de' romani pel mondo; si potrebbe addurre il Nuovo Testamento, Codice della nuova religione sotto i primi imperatori, scritto tutto in greco, quantunque da scrittori Giudei (così tutti chiamano gli Ebrei di que' tempi), quantunque l'Evangelio di S.
Marco si creda scritto in Roma e ad uso degl'italiani, giacchè è rigettata da tutti i buoni critici l'opinione che quell'Evangelio fosse scritto originariamente in latino; (Fabric.
B.
G.
3.
131.) quantunque v'abbia un'Epistola di S.
Paolo cittadino Romano, diretta a' Romani, un'altra agli Ebrei; quantunque v'abbiano le Epistole dette Cattoliche, cioè universali, di S.
Giacomo, e di S.
Giuda Taddeo.
Ma senza entrare nelle quistioni intorno alla lingua originale del nuovo testamento, o delle diverse sue parti, osserverò quello che dice il Fabric.
B.
G.
edit.
vet.
t.3.
p.153.
lib.4.
c.5 §.9 parlando dell'Epistola di S.
Paolo a' Romani: graece scripta est, non latine, etsi Scholiastes Syrus notat scriptam esse ROMANE t}amwr, quo vocabulo Graecam [1000]linguam significari, Romae tunc et in omni fere Romano imperio vulgatissimam, Seldenus ad Eutychium observavit.
E p.131.
nota (d) §.3.
parlando delle testimonianze Orientalium recentiorum che dicono essere stato scritto il Vangelo di S.
Marco in lingua romana, dice che furono o ingannati, o male intesi dagli altri, nam per Romanam linguam etiam ab illis Graecam quandoque intelligi observavit Seldenus.
Intendi l'opera di Giovanni Selden intitolata: Eutychii Aegyptii Patriarchae Orthodoxorum Alexandrini Ecclesiae suae Origines ex eiusdem Arabico nunc primum edidit ac Versione et Commentario auxit Joannes Seldenus.
Per lo contrario Giuseppe Ebreo nel proem.
dell'Archeol.
§.2.
principio e fine, chiama Greci tutti coloro che non erano Giudei, o sia gli Etnici, compresi per conseguenza anche i romani.
E così nella Scrittura ???????? passim opponuntur Iudaeis, et vocantur ethnici, a Christo alieni (Scapula).
Così ne' Padri antichi.
Il che pure ridonda a provare la mia proposizione.
E Gioseffo avendo detto di scrivere per tutti i Greci (cioè i non ebrei), scrive in greco.
V.
anche il Forcell.
v.
Graecus in fine.
Osservo ancora che Giuseppe Ebreo avendo scritto primieramente i suoi libri della Guerra Giudaica nella lingua sua patria, qualunque fosse questa lingua, o l'Ebraica, come crede l'Ittigio, (nel Giosef.
dell'Havercamp, t.2.
appendice p.80.
colonna 2.) o la Sirocaldaica, come altri, (v.
Basnag.
Exercit.
ed.
Baron.
p.388.
Fabric.
3.
230.
not.
p), in uso, com'egli dice, de' barbari dell'Asia superiore, cioè, com'egli stesso spiega (de Bello Iud.
Proem.
art.2.
edit.
Haverc.
t.2.
p.48.) de' Parti, de' Babilonesi, degli Arabi più lontani dal mare, de' Giudei di là dall'Eufrate, e degli Adiabeni; (Fabric.
l.c.
Gioseffo l.c.
p.47.
not.
h.) volendo poi, com'egli dice, accomodarla all'uso de' sudditi dell'imperio [1001]Romano, ???? ???????? ???????? ?????????, e scrivendo in Roma, giudicò, come pur dice, (Fabric.
3.
229.
fine e 230.
principio.) e come fece, di traslatarla (non in latino) in greco, ???????? ??????? ??????????.
(Idem, l.c.
art.1.
p.47.) E così traslatata la presentò a Vespasiano e a Tito, Impp.
Romani.
(Ittigio l.c.
Fabric.
3.231.
lin.8.
Tillemont, Empereurs t.1.
p.582.).
(30.
Aprile.
1821.)
La lingua greca, benchè a noi sembri a prima vista il contrario, e ciò in gran parte a cagione delle circostanze in cui siamo tutti noi Europei ec.
rispetto alla latina, è più facile della latina; dico quella lingua greca antica quale si trova ne' classici ottimi, e quella lingua latina quale si trova ne' classici del miglior tempo; e l'una e l'altra comparativamente, qual'è presso gli scrittori dell'ottima età dell'una e dell'altra lingua.
E ciò malgrado la maggiore ricchezza grammaticale ed elementare della lingua greca.
Questa dunque è la cagione perch'ella fosse più atta della latina ad essere universale: e n'è la cagione sì per se stessa e immediatamente, sì per la somiglianza che produce fra la lingua volgare e quella della letteratura, fra la parlata e la scritta.
(1.
Maggio 1821.)
Quello che ho detto della difficoltà naturale che hanno e debbono avere i francesi a conoscere e molto più a gustare le altrui lingue, cresce se si applica alle lingue antiche, e fra le moderne Europee e colte, alla lingua nostra.
Giacchè la lingua [1002]francese è per eccellenza, lingua moderna; vale a dire che occupa l'ultimo degli estremi fra le lingue nella cui indole ec.
signoreggia l'immaginazione, e quelle dove la ragione.
(Intendo la lingua francese qual è ne' suoi classici, qual è oggi, qual è stata sempre da che ha preso una forma stabile, e quale fu ridotta dall'Accademia).
Si giudichi dunque quanto ella sia propria a servire d'istrumento per conoscere e gustare le lingue antiche, e molto più a tradurle: e si veda quanto male Mad.
di Staël (vedi p.962.) la creda più atta ad esprimere la lingua romana che le altre, perciocch'è nata da lei.
Anzi tutto all'opposto, se c'è lingua difficilissima a gustare ai francesi, e impossibile a rendere in francese, è la latina, la quale occupa forse l'altra estremità o grado nella detta scala delle lingue, ristringendoci alle lingue Europee.
Giacchè la lingua latina è quella fra le dette lingue (almeno fra le ben note, e colte, per non parlare adesso della Celtica poco nota ec.) dove meno signoreggia la ragione.
Generalmente poi le lingue antiche sono tutte suddite della immaginazione, e però estremamente separate dalla lingua francese.
Ed è ben naturale che le lingue antiche fossero signoreggiate dall'immaginazione più che qualunque moderna, e quindi siano senza contrasto, le meno adattabili alla lingua francese, all'indole sua, ed alla conoscenza e molto più al gusto de' francesi.
[1003]Nella scala poi e proporzione delle lingue moderne, la lingua italiana, (alla quale tien subito dietro la Spagnuola) occupa senza contrasto l'estremità della immaginazione, ed è la più simile alle antiche, ed al carattere antico.
Parlo delle lingue moderne colte, se non altro delle Europee: giacchè non voglio entrare nelle Orientali, e nelle incolte regna sempre l'immaginazione più che in qualunque colta, e la ragione vi ha meno parte che in qualunque lingua formata.
Proporzionatamente dunque dovremo dire della lingua francese rispetto all'italiana, quello stesso che diciamo rispetto alle antiche.
E il fatto lo conferma, giacchè nessuna lingua moderna colta, è tanto o ignorata, o malissimo e assurdamente gustata dai francesi, quanto l'italiana: di nessuna essi conoscono meno lo spirito e il genio, che dell'italiana; di nessuna discorrono con tanti spropositi non solo di teorica, ma anche di fatto e di pratica; non ostante che la lingua italiana sia sorella della loro, e similissima ad essa nella più gran parte delle sue radici, e nel materiale delle lettere componenti il radicale delle parole (siano radici, o derivati, o composti); e non ostante che p.e.
la lingua inglese e la tedesca, nelle quali essi riescono molto meglio, (anche nel tradurre ec.
mentre una traduzione francese dall'italiano dal latino o dal greco non è riconoscibile) appartengano a tutt'altra famiglia di lingue.
(1 Maggio 1821.).
V.
p.1007.
capoverso 1.
[1004]Uno dei principali dogmi del Cristianesimo è la degenerazione dell'uomo da uno stato primitivo più perfetto e felice: e con questo dogma è legato quello della Redenzione, e si può dir, tutta quanta la Religion Cristiana.
Il principale insegnamento del mio sistema, è appunto la detta degenerazione.
Tutte, per tanto, le infinite osservazioni e prove generali o particolari, ch'io adduco per dimostrare come l'uomo fosse fatto primitivamente alla felicità, come il suo stato perfettamente naturale (che non si trova mai nel fatto) fosse per lui il solo perfetto, come quanto più ci allontaniamo dalla natura, tanto più diveniamo infelici ec.
ec.: tutte queste, dico, sono altrettante prove dirette di uno dei dogmi principali del Cristianesimo, e possiamo dire, della verità dello stesso Cristianesimo.
(1.
Maggio 1821.)
Tanto era l'odio degli antichi (quanti aveano una patria e una società) verso gli stranieri, e verso le altre patrie e società qualunque; che una potenza minima, o anche una città solo assalita da una nazione intera (come Numanzia da' Romani), non veniva mica a patti, ma resisteva con tutte le sue forze, e la resistenza si misurava dalle dette forze, non già da quelle del nemico; e la deliberazione di resistere era immancabile, e immediata, e senza consultazione vervna; e dipendeva dall'essere assaliti, non [1005]già dalla considerazione delle forze degli assalitori e delle proprie, dei mezzi di resistenza, delle speranze che potevano essere nella difesa ec.
E questa era, come ho detto, una conseguenza naturale dell'odio scambievole delle diverse società, dell'odio che esisteva nell'assalitore, e che obbligava l'assalito a disperare de' patti; dell'odio che esisteva nell'assalito, e che gl'impediva di consentire a soggettarsi in qualunque modo, malgrado qualunque utilità nel farlo, e qualunque danno nel ricusarlo, ed anche la intera distruzione di se stessi e della propria patria, come si vede nel fatto presso gli antichi, e fra gli altri, nel citato esempio di Numanzia.
Oggi per lo contrario, la resistenza dipende dal calcolo, delle forze, dei mezzi, delle speranze, dei danni, e dei vantaggi, nel cedere o nel resistere.
E se questo calcolo decide pel cedere, non solamente una città ad una nazione, ma una potenza si sottomette ad un'altra potenza, ancorchè non eccessivamente più forte; ancorchè una resistenza vera ed intera potesse avere qualche fondata speranza.
Anzi oramai si può dire che le guerre o i piati politici, si decidono a tavolino col semplice calcolo delle forze e de' mezzi: io posso impiegar tanti uomini, tanti danari ec.
il nemico tanti: resta dalla parte mia tanta inferiorità, o superiorità: dunque assaliamo o no, cediamo ovvero non cediamo.
[1006]E senza venire alle mani, nè far prova effettiva di nulla, le provincie, i regni, le nazioni, pigliano quella forma, quelle leggi, quel governo ec.
che comanda il più forte: e in computisteria si decidono le sorti del mondo.
Così discorretela proporzionatamente anche riguardo alle potenze di un ordine uguale.
In questo modo oggi il forte, non è forte in atto, ma in potenza: le truppe, gli esercizi militari ec.
non servono perchè si faccia esperienza di chi deve ubbidire o comandare ec.
ec.
ma solamente perchè si possa sapere e conoscere e calcolare, a che bisogni determinarsi: e se non servissero al calcolo sarebbero inutili, giacchè in ultima analisi il risultato delle cose politiche, e i grandi effetti, sono come se quelle truppe ec.
non avessero esistito.
Ed è questa una naturale conseguenza della misera spiritualizzazione delle cose umane, derivata dall'esperienza, dalla cognizione sì propagata e cresciuta, dalla ragione, e dall'esilio della natura, sola madre della vita, e del fare.
Conseguenza che si può estendere a cose molto più generali, e trovarla egualmente vera, sì nella teorica, come nella pratica.
Dalla quale spiritualizzazione che è quasi lo stesso coll'annullamento, risulta che oggi in luogo di fare, si debba computare; e laddove gli antichi facevano le cose, i moderni le contino; e i risultati una volta delle azioni, oggi sieno [1007]risultati dei calcoli; e così senza far niente, si viva calcolando e supputando quello che si debba fare, o che debba succedere; aspettando di fare effettivamente, e per conseguenza di vivere, quando saremo morti.
Giacchè ora una tal vita non si può distinguere dalla morte, e dev'essere necessariamente tutt'uno con questa.
(1.
Maggio 1821.)
Alla p.1003.
fine.
Oltre le dette considerazioni la lingua francese, è anche estremamente distinta dall'Italiana, perciò ch'ella è fra le moderne colte (e per conseguenza fra tutte le lingue) senza contrasto la più serva, e meno libera; naturale conseguenza dell'essere sopra tutte le altre, modellata sulla ragione.
Al contrario l'italiana è forse e senza forse, fra le dette lingue la più libera, cosa la quale mi consentiranno tutti quelli che conoscono a fondo la vera indole della lingua italiana, conosciuta per verità da pochissimi, e ignorata dalla massima parte degl'italiani, e degli stessi linguisti.
Nella quale libertà la lingua italiana somiglia sommamente alla greca; ed è questa una delle principali e più caratteristiche somiglianze che si trovano fra la nostra lingua e la greca.
A differenza della latina, la quale, secondo che fu ridotta da' suoi ottimi scrittori, e da' suoi formatori e costitutori, è sommamente ardita, e sommamente varia, non perciò sommamente [1008]libera, anzi forse meno di qualunque altra lingua antica, uno de' primi distintivi delle quali è la libertà.
Ma la lingua latina sebbene non suddita in nessun modo della ragione, è però suddita, dirò così, di se stessa, e del suo proprio costume, più di qualunque antica: il qual costume fisso e determinato per tutti i versi, ancorchè ardito, ella non può però trasgredirlo, nè alterarlo, nè oltrepassarlo ec.
in verun modo; così che sebbene ella è ricchissima di forme in se stessa, non è però punto adattabile a verunissima altra forma, nè pieghevole se non ai modi determinati dalla sua propria usanza.
E perciò appunto, come ho detto altrove, ella non era punto adattata alla universalità, perchè l'ardire non era accompagnato dalla libertà.
E la perfetta attitudine alla universalità consiste nel non essere nè ardita nè varia nè libera, come la francese.
Un'altra attitudine meno perfetta nell'essere e ardita e varia, e nel tempo stesso libera, come la greca.
L'ardire e la varietà, sebbene per lo più sono compagne della libertà, non però sempre; nè sono la stessa cosa colla libertà, come si vede nell'esempio della lingua latina, e bisogna perciò distinguere queste qualità.
Del resto la servilità e timidezza della lingua francese, la distingue dunque più che da qualunque altra, dalle antiche, e fra le moderne dall'italiana.
[1009]E queste sono le ragioni per cui la lingua italiana, benchè tanto affine alla francese, come ho detto p.1003.
tuttavia n'è tanto lontana e dissimile, massimamente nell'indole; e per cui la lingua italiana perde tutta la sua naturalezza, e la sua proprietà, o forma propria e nativa, adattandosi alla francese, che l'è pur sorella: e per cui i francesi sono meno adattati che verun altro a conoscere e gustar l'italiano, cosa che apparisce dal fatto; e finalmente per cui la lingua francese è meno adattabile alle lingue antiche, e alle stesse lingue madri sue e della sua letteratura, come il latino e il greco, di quello che alle lingue moderne da lei divise di cognazione, di parentela, di famiglia, di sangue, di origine, di stirpe.
Quello che ho detto qui sopra dell'ardire, della varietà, della libertà, si deve estendere a tutte le altre qualità caratteristiche delle lingue antiche, e dell'italiana, e conseguenti dall'esser esse modellate sull'immaginazione e sulla natura, come dire la forza, l'efficacia, l'evidenza ec.
ec.
qualità che in parte derivano pure dalle altre sopraddette, e scambievolmente l'una dall'altra, e perciò mancano essenzialmente alla lingua francese.
Nè queste qualità, che dico proprie delle lingue [1010]antiche, si deve credere ch'io lo dica solamente in vista della greca e della latina, ma di tutte; ed alcune (come la varietà, ricchezza ec.) delle colte massimamente.
Esse qualità infatti sono state notate nella lingua Celtica, (v.
p.994.) nella Sascrita, (v.
Annali di scienze e lettere.
Milano.
Gennaio 1811.
n.13.
p.54.
fine-55.) (lingue coltissime) benchè sieno diversissime dalle nostrali; e così in tante altre.
Nè bisognano esempi e prove di fatto, a chi sa che le dette e simili qualità derivano immancabilmente dalla natura, maestra e norma e signora e governatrice degli antichi e delle cose loro.
(2.
Maggio 1821.)
Della lingua volgare latina antica v.
Andrès, Dell'Orig.
d'ogni letteratura ec.
Parte 1.
c.11.
Ediz.
Veneta del Vitto.
t.2.
p.256-257.
nota.
La qual nota è del Loschi.
Che però egli s'inganni, lo mostrano le mie osservazioni sopra la lingua di Celso, scrittore non dell'antica e mal formata, ma della perfetta ed aurea latinità.
(4.
Maggio 1821.)
Se i tedeschi oggidì hanno tanto a cuore, e stimano così utile l'investigare e il conoscere fondatamente le origini della loro lingua, e se il Morofio (Polyhist.
lib.4.
cap.4.) si lagnava che al suo tempo i suoi tedeschi fossero trascurati nello studiare le dette origini; Dolendum ec.
v.
Andrès luogo cit.
qui sopra, p.249.
quanto più dobbiamo noi italiani studiare e mettere a profitto la lingua latina (che sono le nostre origini); lingua così suscettibile di perfetta [1011]cognizione; lingua così ricca, così colta, così letterata ec.
ec.; lingua così copiosa di monumenti d'ogni genere e di tanto pregio: laddove per lo contrario la lingua teutonica originaria della tedesca (Andrès, ivi, p.249.251.253.
lin.6.14.18.
paragonando anche questi ult.
tre luoghi colla p.266.
lin.9) è difficilissima a conoscere con certezza, e impossibile a conoscere se non in piccola parte, è lingua illetterata ed incolta, e scarsissima di monumenti, e quelli che ne restano sono per se stessi di nessun pregio.
(Andrès, 249-254.) Aggiungete che l'esser la lingua latina universalmente conosciuta, e stata in uso nel mondo, ed ancora in uso in parecchie parti della vita civile, non solo giova alla ricchezza della fonte ec.
ma anche al poterne noi attingere con assai più franchezza.
Se la lingua teutonica fosse pure stata altrettanto grande e ricca, ed a forza di studio si potesse pur tutta conoscere ec.
che cosa si potrebbe attingere da una lingua dimenticata, e nota ai soli dotti ec.
ec.? chi potrebbe intendere a prima giunta le parole che se ne prendessero? ec.
V.
p.3196.
(4.
Maggio 1821.)
Il sentimento moderno è un misto di sensuale e di spirituale, di carne e di spirito; è la santificazione della carne (laddove la religion Cristiana è la santificazione dello spirito); e perciò siccome il senso non si può mai escludere dal vivente, questa sensibilità che lo santifica e purifica, è riconosciuto pel più valevole rimedio e preservativo contro di lui, e contro delle sue bassezze.
(4.
Maggio 1821.)
Alla p.952.
Meno straniera è la lingua francese all'inglese (e perciò meno inetta ad esserle fonte di vocaboli ec.) a cagione dell'affinità che questa seconda lingua prese colla prima, dopo l'introduzione della lingua francese in Inghilterra, mediante la conquista fattane dai Normanni (Andrès, luogo cit.
poco sopra, p.252.
fine, 255.
fine-256.
principio.
Annali di Scienze e lettere.
Milano.
Gennaio 1811.
n.
13.
p.30.
fine.) [1012]Laddove la lingua tedesca, secondo che il Tercier ha ben ragione di asserire, (Ac.
des Inscr.
tome 41.) fra tutte le lingue che attualmente parlansi in Europa, più d'ogni altra conserva i vestigi della sua anzianità (Andrès, ivi p.251-252); e più tenace e costante di tutte le altre, ha saputo conservare dell'antica sua madre maggior numero di vocaboli, maggior somiglianza nell'andamento, e maggiore affinità nella costruzione.
(ivi p.253.
principio.).
(4.
Maggio 1821.)
Alla p.995.
principio.
Cedette alla romana in modo che nella moderna lingua francese, per confessione del Bonamy (Discours sur l'introduction de la langue latine dans les Gaules: dans les Mémoires de l'Ac.
des inscr.
tome 41.), pochissime parole celtiche sono rimase; e nella provenzale, al dire dell'Astruc.
(Ac.
des Inscr.
tome 41.), appena trovasi una trentesima parte di voci gallesi; siccome la lingua spagnuola tutta figlia della latina, non più conserva alcun vestigio dell'antico parlare di quelle genti.
(Andrès, luogo cit.
di sopra, p.252.).
(4.
Maggio 1821.)
Che la lingua latina a' suoi buoni tempi, e quando ella era formata, si distinguesse in due lingue, l'una [1013]volgare, e l'altra nobile, usata da' patrizi, e dagli scrittori (i quali neppur credo che scrivessero come parlavano i patrizi) (Andrès, l.c.
p.256.
nota), che Roma al tempo della sua grandezza avesse una lingua rustica, plebeia, vulgaris, un sermo barbarus, pedestris, militaris, (Spettatore di Milano, Quaderno 97.
p.242.) è noto e certo, senza entrare in altre quistioni, per la espressa testimonianza di Cicerone.
(Andrès, l.c.) Del quale antico volgare latino parlerò forse quando che sia, di proposito.
Ora si veda quanto fosse impossibile che la lingua latina divenisse universale, mentre i soldati, i negozianti, i viaggiatori, i governanti, le colonie ec.
diffondevano una lingua diversa dalla letterata, che sola avendo consistenza e forma, sola è capace di universalità; e mentre l'unicità di una lingua, come ho detto altrove, è la prima condizione per poter essere universale.
Laddove la latina, non solo non era unica nella sua costituzione e nella sua indole, dirò così, interiore, come lo è la francese; ma era divisa perfino esteriormente in lingue diverse, e, si può dir, doppia ec.
(4.
Maggio 1821.).
V.
p.1020.
capoverso 1.
Alla p.999.
Così chi sapesse l'antica lingua teutonica, non intenderebbe perciò la tedesca, senza espresso e fondato studio.
(Andrès, loco cit.
di sopra, p.1010; non ostante che la tedesca, secondo il Tercier, ec.
v.
p.
[1014]1012.
principio.
(5.
Maggio 1821.)
La vantata duttilità della lingua francese (Spettatore di Milano.
Quaderno 93.
p.115.
lin.14) oltre alle qualità notate in altro pensiero, ha questa ancora, che non è punto compagna della varietà: e la lingua francese benchè duttilissima, è sempre e in qualunque scrittore paragonato cogli altri, uniforme e monotona.
Cosa che a prima vista non par compatibile colla duttilità, ma in vero questa è una qualità diversissima dalla ricchezza, dall'ardire, e dalla varietà.
(5.
Maggio 1821.)
Alla p.991.
Così Beda inglese, nonostante che la sua lingua nazionale (cioè l'anglo-sassone: (Andrès, loc.
cit., p.1010, p.255.
fine) diversa dalla Celtica, stabilita nella Scozia e nel paese di Galles) fosse adoperata anche in usi letterarii, come si rileva da quello ch'egli stesso riferisce di un Cedmone monaco Benedettino, illustre poeta improvvisatore nella sua lingua.
(Andrès, p.254.) Cosa la quale, se non altro, dimostra ch'ella era una lingua già ridotta a una certa forma (lo riferirà forse il Beda nella Storia Ecclesiastica degli Angli.).
(5.
Maggio 1821.)
L'u francese, del quale ho discorso in altro pensiero, potè essere introdotto in Francia mediante le Colonie greche, come Marsiglia ec.
[1015]Mediante le quali colonie ec.
la lingua e letteratura greca si stabilì, com'è noto, in varie parti delle Gallie.
V.
il Cellar.
dove parla di Marsiglia.
E le Gallie ebbero scrittori greci, come Favorino Arelatense, S.
Ireneo (sebben forse nato greco) ec.
ec.
V.
anche il Fabric.
dove parla di Luciano, B.
Gr.
lib.4.
c.16.
§.1 t.3.
p.486.
edit.
vet.
Dalle quali osservazioni si potrebbe anche dedurre che le parole francesi derivate dal greco, e che non si trovano negli scrittori latini, e che io in parecchi pensieri, ho supposto che fossero nel volgare latino, come planer ec.
fossero venute nella lingua francese immediatamente dalle antiche communicazioni avute colla lingua e letteratura greca.
Questo però non mi par molto probabile, trattandosi che la lingua greca fu spenta nelle Gallie lunghissimo tempo innanzi la nascita della francese: che la latina vi prevalse interamente; e che della celtica ch'era pur la nazionale, appena si trova vestigio nella francese (v.
p.1012.
capoverso 1.).
Quanto meno dunque si dovrebbero trovar della greca! Laddove se ne trovano tanti che han fatto un dizionario apposta, delle parole francesi derivate dal greco.
Inoltre questo argomento non può valer di più di quello che vaglia [1016]per le parole italiane dello stesso genere, le quali si potrebbero suppor derivate dalla magnagrecia, e dalla Sicilia, piuttosto che dal latino: mentre però la lingua greca si spense in quei paesi tanto innanzi al sorgere della lingua italiana, e vi si stabilì l
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