[Pagina precedente]...eva, guardando Elena, la quale teneva il mento sul seno, su cui luccicava ad intervalli una crocetta di vetro nero fra la trina della scollatura. Ella aveva un vestitino bianco che le andava come un guanto, un po' aperto a cuore sul petto, e colle maniche sino al gomito. Gli occhi di lui passavano allora dalla figliuola alla mamma, la quale se ne stava quella sera colle labbra strette e le ciglia aggrottate, e non gli aveva detto una parola. Ella sgridava perfino l'Elena che non s'era affrettata a levarle di mano la scatola di cartone per andarla a riporre nello stipo, e le domandava dove avesse la testa quella sera!
Don Liborio caricava l'orologio diligentemente, fermandosi ad ogni giro per non guastar la macchina. Allora Cesare disse sottovoce all'Elena, accanto al pianoforte:
- Volete che mi allontani?
Ella gli rivolse uno sguardo lungo lungo, e rispose:
- Potresti farlo?
- Se tu vuoi... Se tua madre...
- No! rispose Elena.
- No! ripeté poco dopo, fingendo di cercare fra le carte di musica. - Non potrei più stare senza vederti.
- Cosa faremo?
- Quello che tu vuoi; - rispose la ragazza semplicemente.
Egli si sentì penetrare e sconvolgere da quelle parole dettegli con un soffio di voce, mentre Elena evitava gli occhi di lui, gli voltava quasi le spalle. Ma la tentazione che quelle parole gli mettevano nel cervello lo spaventava. Elena vedendo che non rispondeva altro, ripeté:
- Quello che vuoi. Tutto quello che vuoi!
Cesare si fece rosso. Cercava far intendere che i suoi parenti non avrebbero acconsentito a dargli moglie, finché non ci avesse uno stato, ed anche i parenti di lei avrebbero risposto di no.
- Allora?
Ei taceva. Elena ripeté: - Allora?
Egli non sapeva che dire. Sentiva fisso su di lui quegli occhi penetranti.
- Fuggire?... balbettò.
Elena si recò le mani al petto, bianca come statua, e non rispose. Egli non fiatava, atterrito dalla parola che gli era sfuggita. Elena lo guardò in faccia un lungo momento, e chinò il capo lentamente.
Il cugino si alzò per aiutare Camilla a riporre in ordine gli aghi ed i gomitoli nel cassettino del telaio. Donn'Anna era scomparsa. In quel mentre Elena china sul pianoforte scriveva due parole sulla fascia di un giornale, e com'ebbe finito disse forte:
- Sentite, se domani non potete venire, mandatemi questa romanza.
Nella strada, al lume di un lampione, Cesare seppe che romanza gli chiedeva l'Elena.
«Domani sera, alle undici, dopo che sarà partito Roberto. Aspettami nella scala».
Come gli aveva promesso, dopo una mezz'ora che stava aspettando, al buio, comprimendo colle mani il batticuore, la vide arrivare in punta di piedi, col viso così pallido e affilato che sembrava tagliare il velo. Aveva le mani fredde, ma non tremava. Gli disse con voce breve e sorda:
- Andiamo!
Egli voleva abbracciarla, ma la giovinetta stornò il viso dai baci che ei non osava darle, e soggiunse collo stesso tono:
- No, non ancora.
Il primo bacio doveva darglielo lei per la prima, sulla porta dello zio Luigi, dicendogli che ormai era sua.
III
Il padre di Cesare di Altavilla era morto di una perniciosa acchiappata nel sorvegliare la magra raccolta dell'annata. Nel delirio dell'ultimo momento, guardando ad uno ad uno i visi che gli stavano attorno al letto stralunati, borbottava:
- Quei poveri orfani!.. Quei poveri orfani!... come faranno?
Cesare era ancora fanciullo. Per fortuna un fratello del padre, canonico, aveva assunto coraggiosamente la tutela della vedova e degli orfani, aveva rimboccata la sottana sugli stivali, e s'era messo in campagna a comporre litigi, a rinnovare ipoteche, a sorvegliare i raccolti. Il primogenito d'accordo era stato destinato alla carriera forense, perché la famigliuola, in lotta perennemente col bisogno, aveva sempre avuto paura dell'usciere, e in provincia sembra un mestiere d'oro quello di vender chiacchiere. In casa Dorello c'era l'esempio dello zio don Anselmo, il quale al seminario aveva appeso a un chiodo di faccia allo scrittoio un berretto da prete, per averlo sempre sotto gli occhi a guisa di un faro, ed era arrivato ad essere canonico. Cesare doveva continuare la tradizione dello zio. Vedendolo delicato e malaticcio da fanciullo, i parenti avevano conchiuso che era un ragazzo di talento, e l'avevano tirato su a rossi d'uova e pannicelli caldi. Egli era stato il chierico della famiglia, il fondamento di tutti i castelli in aria che avevano fabbricato i genitori, quando si mettevano sul terrazzino, al fresco, dopo il sole dei campi, colle mani pendenti fra le ginocchia, tagliando col desiderio delle grosse porzioni pei bisogni della famiglia numerosa in tutto quel ben di Dio che si stendeva dinanzi ai loro occhi, al di là delle ultime case del paesello. Lo zio canonico, ogni volta che sua cognata si metteva a letto coi dolori del parto borbottava, soffiando e passeggiando nella stanza accanto, che in quella casa non c'era prudenza. Egli aveva preso quindi a ben volere Cesare per quel fisico intristito che gli sembrava una garanzia contro i rischi del matrimonio, e gli prometteva che il nipote dovesse riuscire un uomo prudente, come l'intendeva lui.
Il giovanetto aveva ricevuto un'educazione quasi claustrale. Ogni giorno estate o inverno andava a prendere lo zio canonico in chiesa, dopo i vespri, e se pioveva entravano dallo speziale a veder sgocciolare l'acqua lungo i vetri, lo zio colla sottana raccolta fra le gambe, scambiando qualche parola col farmacista o con altri della conversazione che stavano a ragionare colle mani sul pomo del bastone. Quand'era bel tempo facevano insieme quattro passi fuori del paese, lemme lemme, scambiando dei saluti coi conoscenti che s'incontravano, e si conoscevano tutti, oziando cogli occhi sulle gran macchie grigiastre degli oliveti, le quali si velavano già della tristezza del tramonto, ascoltando distrattamente il cicaleccio che facevano le donne alla fontana, e le voci che salivano dalle stradicciuole; discorrevano di quei campi che conoscevano palmo a palmo, s'interessavano alla loro cultura; misuravano a occhio il maggese della giornata che spiccava in bruno sulle stoppie giallastre; osservavano la chiusa preparata per le fave, punteggiata in nero dai mucchietti d'ingrasso; commentavano la vigna spampanata di fresco, irta e spugnosa in mezzo agli altri filari verdeggianti. Poi, giunti al limite solito della loro passeggiata, che era un muricciuolo soprastante un orto, lo zio spolverava col fazzoletto due sassi, e si mettevano a sedere, coi gomiti sui ginocchi, riposando gli sguardi sulla bella vallata che si stendeva ai loro piedi, scolorita, sparsa di ciuffetti di verde cupo, accanto ai rari casamenti, chiazzata di toni bruni, e biondicci, e verde pallido, solcata dalla striscia sottile dello stradone che si dileguava in lontananza. Accompagnavano macchinalmente col pensiero i carri che sfilavano come punti neri, e mettevano delle ore a scomparire laggiù per la grande distanza; e alle volte, nel vasto silenzio della pianura sottoposta, credevano di udire il fischio della ferrovia, di là delle colline, come l'eco di un altro mondo. Allora il prete rientrava in sé, e sorrideva discretamente della loro fantasticheria come di una scappatella. Il sole intanto tramontava dietro le montagne nebbiose, e in alto, sulle loro teste, le finestre della chiesa scintillavano in cima al paese come una fantastica illuminazione, e chiamavano a raccolta i loro pensieri.
Poi ritornavano indietro passo passo, colle mani dietro la schiena, accompagnandosi ai contadini che tornavano in paese spingendo innanzi l'asino o la mula carichi, mentre tutte le campane suonavano l'avemaria, nel paesetto aggruppato come un branco di pecore, sotto il cielo smorto. Lo zio canonico tornava dallo speziale dove convenivano immancabilmente il notaio, il vicepretore e qualchedun altro, sempre le medesime persone, a far crocchio, e raccontare i loro affari, o discorrere di quel che nella giornata avevano osservato degli affari altrui sulla faccia dei poderi, nella passeggiata vespertina. Cesare aveva il permesso di stare ad ascoltare anche lui sino ad un'ora di notte. Al primo tocco di campana augurava la buona sera alla compagnia, e andava a casa, dove le sorelle stavano sul terrazzino, al buio, chiacchierando colle vicine dalla strada. Pigliava il lume e saliva nella sua cameretta per mettersi a studiare. Più tardi si sentiva l'acciottolio delle stoviglie, gli altri rumori delle faccenduole domestiche alle quali attendevano le donne. E ogni sera, alla stess'ora, si vedeva il solito lume alla finestra dei vicini dirimpetto che si mettevano a cenare.
L'influenza di siffatta adolescenza in quel temperamento delicato aveva sviluppata una sensibilità inquieta, una delicatezza di sentimenti affinati dalle abitudini contemplative, della stessa severa disciplina ecclesiastica che li rendeva timidi, raccolti, e meditabondi.
Don Anselmo non aveva guardato a sacrificii perché il nipote fosse avvocato. La rivoluzione del '60 aveva gettato il discredito sulla professione del prete, e lo zio canonico anzitutto era un contadino pieno di buon senso, che prendeva le cose com'erano nel loro tempo e dal lato migliore. Ora il migliore dei mestieri gli sembrava fosse quello dell'uomo di legge, una specie di prete senza sottana che confessa in casa, e si fa pagar caro i casi di coscienza delicati, che va a passeggio spalla a spalla col sindaco e col pretore, al dopo pranzo, scappellato da tutti, salutato col grosso titolo ch'empie la bocca: - avvocato!
Per siffatto castello in aria la mamma s'era visto partire il figliuolo per l'università di Napoli, a piedi, dietro il carro che gli portava il letto e il tavolino colle gambe in aria, e le sorelle si erano cavati gli occhi a cucirgli il corredo quasi ei fosse andato a nozze.
A Napoli Cesare era andato ad abitare un quartierino da 35 lire e 75 al mese, insieme a quattro compagni, ciò che ripartiva le rate di fitto in ragione di sette lire e tanti centesimi a testa, e le frazioni davano origine a dispute senza fine, ogni qualvolta si facevano i conti, all'ora del desinare, col pane sotto il braccio, per timore che un compagno ci addentasse distrattamente.
Nella corte della stessa casa, di faccia al quartierino degli studenti, erano le finestre della signorina Elena, e quei diverbi clamorosi facevano correre al terrazzino tutta la famiglia del vicecancelliere, le signorine col sorriso impertinente, il babbo col berretto di velluto in testa, la serva collo strofinaccio in mano; e alle volte perfino la mamma affacciava fra le tende giallastre il viso scialbo e discreto.
La famiglia dirimpetto aveva una grande importanza agli occhi di studenti alloggiati in ragione di sette lire e pochi centesimi a testa, e che si rubavano il pane. Le signorine avevano ricevuta un'educazione quasi fossero destinate a sposare dei principi. Si udivano parlare inglese e francese sul terrazzino, suonavano il piano come non dovessero far altro tutta la vita, e di tanto in tanto mettevano alla finestra per asciugare dei dipinti che sembravano meravigliosi da lontano. Contuttociò la sorella maggiore aveva già 32 anni, e la signorina Elena, la quale leggeva dei romanzi, quando non suonava il pianoforte, guardava con certi occhi, allorché era per la strada o sul terrazzino, come se aspettasse il personaggio romanzesco che doveva offrirle la mano, il cuore, e una carrozza a quattro cavalli. Ogni volta che le signore uscivano di casa tutte in fronzoli, i giovani studenti, nascosti dietro le invetriate, si mangiavano cogli occhi lo stivalino sdegnoso della signorina Elena che attraversava la corte fangosa in punta di piedi e colle gonnelle in mano.
Cesare, mentre i camerati esprimevano la loro ammirazione un po' volgarmente, da contadini che aspiravano a prendersi la loro parte nella ricca messe della vita, era il solo che si tenesse contegnoso e riserbato, come uno avvezzo dalla educazione ecclesiastica a rispettare le gerarchie. Da ragazzo era sempre vissuto in mezzo a quella miseria decente che stende una tinta g...
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