[Pagina precedente]... Rosamarina?
Cesare balbettò una risposta evasiva. Ma ella più ferma di lui, soggiunse:
- Sarà meglio, giacché hai dei debiti, e la Rosamarina non rende nulla. Ora è finito il tempo della villeggiatura, bisogna avere anche di che istallarci in città .
- Non osavo dirtelo, perché credevo ti ci fossi affezionata.
Ella rispose colla solita scrollatina di spalle.
- Non importa. Giacché bisogna vendere è meglio farlo subito.
Da quel momento divenne tutt'a un tratto completamente estranea e indifferente a quella bella natura che l'aveva fatta andare in estasi di ammirazione, appoggiata al balcone, o sdraiata sull'erba. Gettava via con noncuranza le ultime rose intristite che suo marito andava a cercarle al riparo degli alti aranci. Sbadigliava nelle stanze, dietro i vetri ermeticamente chiusi. La campagna, di un verde più cupo nelle parti boscose, andavasi scolorando nella pianura solcata da lunghe fila d'uccelli neri, sotto un cielo grigio, macchiato dalle case nerastre del paese. Ella doveva subire potentemente quel mutamento. Ripeteva: - Quando partiremo?
Suo marito voleva farle osservare che era meglio aspettare l'esito delle pratiche intavolate dal notaio. Ma Elena rispondeva:
- Qui non c'è più nessuno. Non mi ci posso vedere, ora che dobbiamo vendere il podere.
- Non avremo dove abitare. L'hai sentito. Appena tre stanze.
- Che importa? Per quel che dobbiamo starci!...
A lui stringeva il cuore di andare ad abitare accanto ai suoi, coll'uscio murato, di salire e scendere per quella scaletta esterna adattata al balcone, senza vedere alcuno dei suoi. Gli pareva ora veramente di esser il Figliuol Prodigo, sentiva la collera fredda e implacabile di quello zio che l'aveva idolatrato alla sua maniera calma, dietro quei vetri inesorabilmente chiusi.
Elena, appena giunta in paese, era andata a far visita ai Goliano, ai Brancato, a tutte le amiche della villeggiatura, che l'avevano ricevuta impalate su divani pompejani, duri come banchi di pietra, in vecchi saloni saccheggiati, mobigliati soltanto di stemmi giganteschi, dove si sentiva l'odor delle scuderie sottoposte, sciorinando ad ogni momento la litania delle loro parentele aristocratiche e dei loro possessi, saettando alla sfuggita sguardi velenosi sulle sue eleganti toelette nuove da sposa, e ad ogni suo atto da cittadina. Ella, dopo che ebbe fatto passeggiare per tutte le stradicciuole di Altavilla le sue belle toelette nuove, davanti ai curiosi che si affacciavano agli usci, cominciò ad annoiarsi nel suo salottino, che aveva messo in ordine alla meglio con quattro gingilli ed un po' di stoffa, aspettando il ricambio delle visite che non venivano, mentre suo marito correva dal notaio e dall'agrimensore, leggiucchiando dietro i vetri, colla prospettiva della piazza deserta e allagata di fango, e del casino di conversazione, dove i primari del paese correvano a rintanarsi in fretta, sotto l'ombrello, coi calzoni rimboccati. Ella vedeva sempre don Peppino sulla porta del casino, il quale guardava anche lui la pioggerella fina che cadeva inesauribile, con una grande aria di melanconia in tutta la sua persona .
Suo marito tornava a casa tardi dalla Rosamarina, le domandava scusa se era stato costretto a lasciarla sola tutto quel tempo, le domandava se si fosse annoiata di soverchio. L'abbracciava sempre colla stessa tenerezza come se fosse la prima volta; le diceva che con lei era felice, e non pensava ad altro; le accarezzava i capelli e le baciava l'omero. Ella si lasciava abbracciare distrattamente, collo sguardo vagabondo, rispondeva che era felice anche lei, ma cominciava a far freddo colà . S'irritava ad ogni nuova difficoltà che incontrava la vendita, e ritardava la partenza. Oramai si sentiva scacciata dal paese, insultata da quelli stessi che erano andati a divertirsi nella sua campagna, ed a bere il suo vino.
Allora, aggrottando le sopracciglia, diceva:
- Alla fin fine, se tu avessi sposata una serva, i tuoi parenti non avrebbero potuto far peggio!
Un giorno il marito commosso, quasi colle lagrime agli occhi dal giubilo, la pregò di affacciarsi alla finestra che dava nel cortile, perché sua madre voleva conoscerla dal finestrino dirimpetto. Elena accondiscese senza esitare, ma egli lesse tale ironia sottile nella sua premura che credette di dover aggiungere:
- Sai, quella povera donna è fra l'incudine e il martello. Mio zio è ostinato, ma è il sostegno della famiglia!
E le teneva le mani, fermandola un momento, fissandola cogli occhi lustri, palpitante. A lei non piacevano quelle debolezze sentimentali. Ritrasse le sue mani e andò alla finestra.
La suocera aspettava nascosta nel vano dello spiraglio di faccia, col viso pallido, e dietro alle sue spalle curve si vedevano le faccie timide e curiose delle figliuole, che volevano conoscere la cognata. Elena fece una graziosa riverenza, come se l'avessero presentata alla suocera nel salone del municipio, e la madre alzò la mano per benedirli, lei e il figliuolo, il quale si sentiva piegar le ginocchia e stringere il cuore, mentre sua moglie salutava leggiadramente.
Ei tenendo la testa di Elena fra le mani, dopo averla baciata in fronte, mormorò:
- Povera mamma! anch'essa ti vorrebbe bene!
- Io non ci ho colpa, rispose Elena freddamente.
Altre volte ella osservava anche sorridendo che era un'intrusa, nella famiglia e nel paese, con un sorriso amaro che si fermava e durava nell'angolo della sua bella bocca. Finalmente chiese a suo marito:
- Perché non vengono a restituirmi la visita i Goliano, e i Brancato?
- Lasciali stare! borbottò suo marito. Son villani superbiosi!
- Anch'io sono superba, disse Elena secco secco.
E non cessava dal ripetere:
- Spicciati a conchiudere questo affare della vendita. Mille lire dippiù o di meno non fanno nulla. L'importante è tornar presto in città e che tu ripigli la professione.
Egli rispondeva che era in trattative con Brancato, il vicino, il quale se odorava la premura di vendere l'avrebbe menato per le lunghe, onde strozzarlo.
- Ah! esclamava Elena. È così? Che bella gente!
In questo mentre ingannava il tempo coi preparativi della partenza, faceva e disfaceva i bauli, poi tornava a sbadigliare dietro i vetri del balcone, a guardare la pioggerella fina d'autunno che cadeva sempre. Ogni volta vedeva il barone piantato sulla porta del casino, si sentiva attratta insensibilmente verso di lui dalla monotonia di quella vita che li accomunava nella stessa noia; gli era quasi grata, inconsciamente, della compagnia che egli le teneva da lontano, nelle lunghe ore malinconiche in cui aspettava sola a casa il risultato degli andirivieni di suo marito, di occupare, in certo qual modo, la sua attenzione. Gradatamente s'interessava ai suoi gesti, al suo modo di vestire, all'aria del suo volto, all'uggia che doveva mettergli in corpo quel tempaccio, ai pensieri che doveva ruminare per occupare la mente; e in fondo a quei pensieri, vedeva se stessa, la simpatia che le aveva mostrato quell'uomo scappellato da tutti, in quel paese che a lei faceva fare anticamera, che la trattava da eguale soltanto in campagna, dove può permettersi delle familiarità anche con dei subalterni. Questa idea la faceva arrossire di sdegno ogni volta che vedeva passare il signor Goliano, o il signor Brancato, sotto l'ombrello, coi calzoni rimboccati, e facevano tanto di cappello al barone, il quale rispondeva soltanto con un cenno amichevole del capo. Allora delle tentazioni strane le brulicavano nel cervello.
- Ma spicciati! diceva a suo marito. Tu non ne vieni mai a capo.
- Oggi abbiamo un'altra offerta dal Goliano, ma non vuole arrivare ai settemila
- Tu ti lasci soprastare dai Goliano e dai Brancato. E sei un uomo di legge!
Il barone, aveva preso gusto a fare la sentinella, e a poco a poco s'era scaldata la testa. Alla Rosamarina era ancora una ragazzata, il contagio dell'allegria spensierata e della grazia seduttrice di lei. Ora, dietro i vetri del balcone, nella tristezza delle giornate piovose, la vista di Elena assumeva un che di malinconico e d'interessante che non gli si levava più dal pensiero. Egli passava i giorni sulla porta del casino anche dopo che era tornato il bel tempo; passeggiava la sera per la piazza dinanzi la casa di lei, quando Cesare non c'era.
Elena cominciava a sentirsi preoccupata di quell'uomo che pensava continuamente a lei, che era sempre lì intorno, a spiare ogni suo movimento, nascosto dietro l'angolo di una viuzza, nel vano di una porta, come un innamorato di quindici anni, e indovinava i momenti crudeli che colui doveva passare ogni volta che suo marito tornando dalla campagna, nel buio del balcone dov'ella aveva voluto aspettarlo, la baciava sui capelli e sulle mani. Nelle sere di luna, vedendo quell'ombra nella piazza solitaria e inondata di luce pallida, le tornavano in mente le canzoni e le aspirazioni indistinte dei sedici anni, quando alla primavera aveva sentito battere il cuore verso qualche cosa che non aveva raggiunto mai, e le aveva lasciato una malinconia e un rancore di promessa delusa. Una di quelle sere che Cesare tardava a tornare più del solito, levando gli occhi a caso sulle finestre di fianco abitate dallo zio canonico, che le tenevano il broncio, vide un uomo che non conosceva, nero, nel vano luminoso del balcone, il quale la spiava, pallido e impassibile.
Allora tutta la sua fierezza si ribellò in un lampo.
Si rizzò in piedi, rossa come se l'avessero schiaffeggiata, senza pensare a suo marito che doveva arrivare da un momento all'altro, e fece segno a quell'uomo che passeggiava nella piazza di salire.
Don Peppino entrò, pallido come un cencio, cercando la prima parola. Ma ella era infuocata in viso, le si leggeva in volto una strana risoluzione, e se aveva le mani tremanti, la voce era ferma.
- Signore! - gli disse. - Qui, nella casa accanto, c'è un uomo che ci spia. Avete visto?
Don Peppino voleva balbettare qualche cosa. Ma Elena l'interruppe:
- Ditemi se è lo zio di mio marito.
- Sì, disse il Barone.
- Tanto peggio per lui! esclamò allora Elena bruscamente. Vi ho chiamato perché avevo bisogno di parlarvi.
Don Peppino fuori di sé dalla sorpresa e dalla gioia stava per recitare la sua parte. Le diceva colle mani giunte e l'accento sincero e commosso, che l'amava come un pazzo, l'aveva amata sin da quando l'aveva conosciuta alla Rosamarina e amava per lei quei luoghi dove l'aveva vista. Che non poteva più vivere senza sapersi amato da lei, ora che ella gli aveva detto una buona parola, che l'avrebbe seguita a Napoli, in capo al mondo. Elena a misura che si rimetteva andava facendosi sempre più pallida. Chinava il capo come per mettersi in difesa, fissava su di lui gli occhi profondi, diffidenti, quasi corrucciati.
- No! gli disse con voce sorda. Restate dove siete, non mi seguite, non fate altri scandali. Vi ho chiamato per dirvi che non vi amo, e che voglio amare soltanto mio marito.
Il barone se ne andò barcollando, e sulla scala s'incontrò col marito. Questi vedendo Elena così sconvolta, le chiese:
- Che hai?
Ella non rispose, poi, dopo un pezzetto, gli annunziò:
- Il barone è venuto a farmi visita, sai?
Don Peppino, sentendo che la Rosamarina era in vendita, andò dal notaio e offrì diecimila lire. A sua madre che voleva impedire quella prodigalità rispose:
- È un capriccio, lo so, lasciatemelo soddisfare. Alla Rosamarina v'è la caccia più abbondante del territorio. Poi ho impegnata la mia parola.
Goliano e Brancato, come seppero che l'acquisto che avevano maturato con tante lungaggini sfumava loro di mano, fecero un casa del diavolo, dicendo che il barone spendeva diecimila lire per comprarsi la grazia del venditore. Il notaio diede questo consiglio:
- Lasciateli dire, è il dispetto che li fa parlare, quando il contratto sarà firmato si rosicheranno le mani.
Cesare arrivò a casa con tal viso che Elena domandò subito:
- Cos'è stato?
- Il barone ha offerto diecimila lire della Rosamarina, rispose il marito.
Elena rimase immobile, rigida e bianca come una statua di marmo, scrutando profondamente negli occhi del marito coi su...
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