[Pagina precedente]...rigia su tutti gli atti della vita, e li regola con un calcolo implacabile, che dà un'enorme importanza alla ricchezza pel penoso e continuo contrasto fra l'essere e il parere. Egli sapeva quel che ci vuole a portare il don nel paesetto, il cappello a cilindro alla domenica, i guanti per andare a messa le sorelle; quel che costi di scarpe una bella passeggiata, e quel che valga una giornata di studente. Egli lavorava quindi come un mezzadro coscienzioso che non voglia rubare la sua giornata. Le signorine dirimpetto, quando rientravano a casa tardi, vedevano sempre il lume alla finestra di lui, davanti ai libri schierati sul tavolino. Egli non ignorava che bisognava picchiare e picchiare nella testa come colla zappa per farci entrare la laurea. Per tutta distrazione, alla sera, quando i camerati sgattaiolavano fuori alla conquista delle serve del vicinato, egli si metteva alla finestra, pensando alle sorelle che chiacchieravano a quell'ora colle vicine dal terrazzino, e alla mamma che gli aveva messo di nascosto cinque lire in tasca prima di partire.
La corte deserta era silenziosa e malinconica, chiusa da tre lati fra alti muri nerastri, colle finestre quasi tutte murate dall'epoca della tassa sulle aperture, e rimaste cieche dal 1848 per economia di vetri, sulle pareti scalcinate, senz'altro rilievo che quei davanzali scantonati che lasciavano colare tuttora la striscia sudicia degli antichi condotti. Dall'altro lato si rizzava un alto muro di chiesa, tutto bucherellato al pari di una colombaia, con una grande finestra ad arco in cima, che lasciava passare dai vetri cascanti e polverosi, il pallido riflesso delle lampade e un vago odor di cantina. All'imbrunire una campanella fessa suonava l'angelus, in cima al muraglione della chiesa, fra i quattro pilastri neri del campanile ritti sul fondo pallido del crepuscolo, e sembrava gettare a fiotti nella corte delle ombre grigie, una solitudine più desolata, un desiderio malinconico del paesetto natale, dell'ora in cui i lumi si accendono ad uno ad uno nella stradicciuola tortuosa. Ogni sera alla stessa ora la serva di don Liborio accendeva anch'essa il lume, e lo lasciava solo, nell'anticamera vuota dalla quale arrivavano il suono gaio del pianoforte di Elena, o la voce delle ragazze.
Il giorno della laurea, quando si dovette spalancare il portone a due battenti per lasciar penetrare nella corte la carrozza che veniva a pigliare Cesare in giubba e cravatta bianca, fu un grande avvenimento per tutto il vicinato. La notizia correva da un terrazzino all'altro. Le signorine seppero in tal modo che il giovanotto andava a pigliare la laurea d'avvocato, la parola magica che faceva dire al genitore, col berretto di velluto in capo:
- Oggi quella è la carriera che mena a tutto. Chissà? forse in cotesto giovane c'è la stoffa di un ministro.
E la mamma donn'Anna che suggeriva all'Elena:
- Adesso, colla cravatta bianca, non c'è male. È vero?
La signorina Elena, com'era tornata l'estate, si affacciava spesso, coi romanzi, coi versi, coi quadri dipinti. La sorella si metteva anche lei a lavorare sul terrazzino, al fresco, silenziosamente e cogli occhi fitti sul ricamo. La mamma non compariva mai, e don Liborio, vedendo sempre quel giovanotto tranquillo e studioso alla finestra di faccia lo salutava toccandosi il berretto.
E naturalmente finirono anche per incontrarsi, di sera o di giorno, nell'androne, nell'uscire o nel tornare a casa, e attaccar discorso con un pretesto qualsiasi. Così a poco a poco, un passo dietro l'altro, mentre le ragazze procedevano per la scala a capo chino, i due coniugi dissero al giovanotto che se desiderava fare qualche visita, giacché erano vicini, quando le sue occupazioni d'avvocato gliene avessero lasciato il tempo, sarebbero stati lietissimi di riceverlo, così alla buona, in famiglia. Le ragazze possedevano qualche piccolo talento di società, a don Liborio gli piaceva ragionare con gente istruita, per scambiare delle idee sulla legislazione, la politica, ed altri argomenti serii.
Il giovane andava in casa della signorina Elena a parlare di cose serie, molto serie, guardando di sottecchi la signorina, ed imbrogliandosi allorché costei gli piantava in faccia i suoi occhioni castagni. La sorella Camilla, tacita come un'ombra, non levava il naso dal lavoro. Il babbo, commentando le questioni del giorno, faceva la partita colla moglie, un'abitudine che aveva presa da tanti anni, nel lungo tirocinio che aveva fatto in provincia, dove le sere durano eterne, una specie di omaggio reso alla sua buona e fedele compagna per ricompensarla dalle lunghe peregrinazioni, dell'esilio in cui l'aveva costretta a passare quasi tutta la vita. Donn'Anna, quando non stava a bisticciarsi col marito, era sempre in moto, da buona massaia. Assicurava che le sue ragazze, con quelle manine bianche, e le virtù che possedevano, sapevano anche far di tutto in famiglia, ed erano più brave di lei.
Fra gli ospiti abituali della casa c'era un giovanotto maturo, vestito sempre all'ultima moda, il quale non mancava mai, non parlava mai, non fumava, sedeva sempre accanto a Camilla, sotto il paralume verde, e passava la sera a sceglierle i gomitoli, e a contarle i punti sul canovaccio. Donn'Anna nel presentare Roberto, aveva aggiunto che era impiegato all'ospizio dei trovatelli, ed era un po' loro parente. Più tardi, allorché il giovane avvocato fu maggiormente nell'intimità della famiglia, venne a sapere che doveva entrare nel parentado sposando la signorina Camilla, appena avesse ottenuto l'avanzamento che aspettava da sett'anni.
A poco a poco era arrivato ad essere come un parente della famiglia anche lui. La mamma gli sorrideva, don Liborio l'accoglieva con un Oh! cordiale, la signorina Camilla, senza aprir bocca, metteva una seggiola accanto a quella della sorella, presso il tavolino, e Roberto gli stendeva in silenzio la mano, perennemente inguantata. Ma prima di arrivare a questa intimità egli era passato per una specie di tirocinio, aveva dovuto subire qualcosa come un interrogatorio, o piuttosto un esame. Il padre della signorina Elena era stato vicecancelliere al tempo dei Borboni, e aveva sulla punta delle dita tutte le questioni legali. Peggio pel governo attuale che aveva messo al riposo un uomo di quella capacità, tanto, s'andava a finire colla repubblica! il vecchio cancelliere borbonico, messo a riposo, era diventato rosso sino al bavaro spelato del soprabito, e prestava anche un po' di orecchio alle novità del socialismo. La mamma, col lungo stare in provincia, quando suo marito era in carica, aveva appreso perfettamente che in certi paesucoli ci sono delle fortune modeste e solide da invidiare sinceramente, quei giorni in cui il calzolaio o il fornaio assediano la casa, e tutta la famiglia esciva a passeggio in gran gala per non udire ad ogni momento il campanello dell'uscio. Ella assumeva il contegno bonario di una donna di casa ormai lontana dalle frivolezze, e si intratteneva col giovane in discorsi serii anch'essa, a modo suo, di quel che rendevano i suoi poderi di Altavilla, del vino che davano le vigne, di quanti erano a berlo, e il giovanotto, commosso della premura affettuosa, raccontava per filo e per segno i fatti di casa sua, faceva il conto delle poche entrate della famiglia, e di quanti erano a tavola; anzi un poco vergognoso del numero, arrivava a sopprimerne qualcuno, diceva che una delle sue sorelle era troppo devota per entrare nel mondo, e voleva darsi a Dio. -La sproporzione delle ricchezze è un'ingiustizia! sentenziava don Liborio calcandosi il berretto sugli occhi. - Voi non avete che una modesta indipendenza, ma siete giovane e avete una professione che vi può far giungere a tutto. Mi piacete meglio così! - Donn'Anna allora gli sorrideva amorosamente, Camilla cercava cogli occhi la sorella, e poi interrogava collo sguardo Roberto, il quale approvava silenziosamente, con un cenno del capo.
Elena sola si manteneva riservata in tutta quella espansione d'amicizia. Se il giovane sorprendeva i suoi sguardi fissi su di lui, ella abbassava tosto gli occhi. Leggeva delle sere intere a capo chino, colla nuca bianca vellutata da una lanuggine finissima. Suonava delle ore, cogli occhi lucenti piantati sulla carta, appoggiava sulla tastiera le belle braccia nude sino al gomito, guardando qua e là distrattamente, e posava delle lunghe occhiate sul parente Roberto il quale sedeva accanto alla Camilla, col naso sul ricamo, guardandole le mani. Ella non aveva detto al giovane avvocato venti parole, quantunque fossero stati soli e senza alcun sospetto un centinaio di volte, cercando insieme una carta di musica dove non era, trovandosi per caso in anticamera quando egli arrivava, andando insieme a lui all'avanguardia se le dava il braccio. Però il giorno in cui da Altavilla gli scrissero, al tempo della vendemmia, che l'uva infradiciava tutta e non vedevano l'ora di abbracciarlo, appena il giovanotto andò a prender congedo dalla famiglia di Elena, la ragazza gli piantò in viso quegli stessi occhi castagni, che alle volte parevan neri, e chiese:
- Tornerete presto?
- A metà di novembre, - balbettò lui.
- Tanto tempo!
Non si dissero altro.
Donna Anna si congratulò perché se avevano bisogno dell'assistenza di lui nella vendemmia, era segno che la raccolta sarebbe stata abbondante.
- Bisogna rendersi utili alla società! osservò il genitore. In fin dei conti la prosperità delle famiglie torna a vantaggio della ricchezza generale.
La signorina Elena non diceva più nulla. Era andata a sedersi nel vano della finestra e guardava fuori nella strada buia, sollevando le tendine, colla fronte appoggiata ai vetri. Allorché il giovane si alzò per andarsene, si levò anch'essa lentamente, e andò a stringergli la mano, come tutti gli altri, e in mezzo al cicaleccio generale chiese:
- Ci scriverete almeno?
E non gli lasciava le mani.
Il giovanotto, tornato ad Altavilla, nelle tranquille passeggiate, mentre il tramonto si stendeva come una nebbia nella valle sottoposta, quando i lumi s'accendevano smorti ad uno ad uno sulle facciate vaghe delle case, lungo la stradicciuola tortuosa, pensava all'avemmaria che cadeva mesta dall'alto del campanile nel cortile di Elena, al gran muro tetro, seminato di buchi neri, alla lampada solitaria che si dondolava in mezzo all'anticamera silenziosa.
Per mantenere la promessa egli scrisse al padre di lei una lunga lettera, di cui fece e disfece una dozzina di minute, quasi avesse dovuto sostenere con quella l'esame di laurea, e che il babbo mise sotto la tabacchiera, sebbene ci fosse un periodo affettuosissimo per donn'Anna, e dei saluti assai rispettosi per le ragazze. La signorina Elena, colla sua bella calligrafia inglese, rispose pel babbo, ch'era occupatissimo, e gli cinguettò un po' di tutto, con certo abbandono confidenziale, dandogli conto di quel che era avvenuto dopo la partenza di lui, del come passavano le serate, e che sentivano tutti la sua mancanza e si rammentavano spesso di lui. Qui la lettera si dilungava alquanto. Finiva «se le nostre notizie vi hanno fatto veramente piacere, pensate che quelle che ci darete voi ne faranno altrettanto al babbo, alla mamma, a Camilla, ed anche a chi fa da segretario».
Egli rispose subito, ma si ostinò a scrivere a don Liborio, stavolta senza minuta, descrivendogli le occupazioni della sua giornata ora per ora, diffondendosi con tenerezza sui ricordi delle belle serate che aveva avuto l'onore e la fortuna di passare in casa di lui. «Ah! che piacere sarebbe stato trovarci insieme alla campagna in questi ultimi giorni d'autunno! Quanti bei quadretti avrebbe fatto la signorina Elena! e come sarebbero stati contenti la signora Camilla e Roberto di chiacchierare sul ballatoio, al chiaro di luna, ascoltando le storielle ingenue e le canzoni delle vendemmiatrici, sdraiate alla rinfusa nella corte!...»
Tornò a rispondere la figliuola pel babbo sempre occupato, e si lasciò andare anch'essa sulla china delle memorie. «Vi rammentate di quella bella sera che passammo ins...
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