[Pagina precedente]...sta? Ella aveva avuto sempre una testolina leggiera, ma il cuore buono. Se ella non fosse colpevole d'altro che di una leggerezza! Ah! come era terribile quella lettera immobile sulla scrivania, con quel nome scritto dalla mano elegante e tranquilla di Elena! Se ella potesse dire che Elena non era colpevole d'altro che di una leggerezza!...
Allora si mise a piangere, coi pugni sugli occhi, come un bambino, soffocando i singhiozzi col fazzoletto perché la serva era ancora là, si udiva spolverare e strascicar le ciabatte per la casa. Ella indugiava ad arte, stava a spiarlo. A quell'idea un impeto di collera l'assalse, andò in traccia di una mazza per correre a bastonarla, si aggirava muto e furibondo per lo stanzino. Ma tornò a sedersi, colle mani nei capelli, gli occhi ardenti e fissi, i denti stretti. - Bisogna essere calmi! balbettava. - Bisogna esser calmi! - Si asciugò gli occhi ed il viso. Stette alquanto immobile, poi tornò a mettere il capo nel corridoio, a domandarle se potesse escire finalmente. - Bisogna schiumare il brodo per la padrona - rispondeva la donna dalla cucina. - La padrona non si sente bene. Non posso lasciarla sola.
- Ah! mugolava il disgraziato mordendosi i pugni, come una bestia feroce. - Mi par d'impazzire! mi par d'impazzire! Cosa le ho fatto a questa infame donna? Perché mi tormenta così? Come gode del mio supplizio! Ella sa tutto, ella potrebbe dirmi tutto quello che vorrei sapere a costo della vita... Ella andrà a dirlo alla fruttivendola e al calzolaio qui sotto appena lascerà questa casa, ma non a me! Andrà a ridere con loro delle mie smanie. Bisogna fingere per costei che non riescirò ad illudere. Bisognerebbe mostrarmi al vicinato insieme all'Elena, uniti come prima!... Come prima!...
I suoi occhi caddero nuovamente sulla lettera implacabile. Se quella lettera potesse smentire in parte i suoi sospetti! Una lettera! cos'è infine? Delle parole. - Vi amo. - Che cos'era quella fredda parola in confronto di ciò che l'Elena aveva sentito per lui, in quella stessa casa, uniti per tutta la vita, senza un pensiero che non fosse comune? Che cos'era l'amore di lei per quell'uomo se lo poteva dissimulare? Che cos'era questa passione di un mese o due, nascosta, vergognosa, in cambio di quella che ella aveva concesso a lui, per sempre, intera, alla luce del sole? Come amava quell'uomo che lasciava partire? ella che aveva abbandonato casa e genitori per darsi a lui, per darglisi vergine, per affidargli non solo il suo cuore, ma anche la sua esistenza? E pensava al dolore che avevano dovuto provare i genitori quand'egli l'aveva rapita. Anch'essi s'erano calmati col tempo, le avevano perdonato, s'erano rappaciati con lui. Ora non ci pensavano più. E pensava se un giorno anche egli avrebbe obliato il dolore acuto che gli straziava il cuore in quel momento. Se sarebbe tornato ad accompagnare l'Elena in via Foria dandole il braccio, sentendola appoggiarsi a lui. Allora gli mancava la forza di andare ad affrontare su due piedi il terribile enigma.
In quel momento istesso ella era lì accanto nella sua camera, la vedeva sdraiata sulla poltrona, colla sua aria abitualmente stanca ed infastidita, che si mutava in un'inquietudine vaga all'entrare di lui, in un pallore minaccioso. E se egli sospettava a torto? S'ella fosse innocente? Se quella lettera lo provasse? Ella non gli avrebbe perdonato giammai! giammai? Tutto sarebbe finito fra di loro, da un momento all'altro, per sempre! O se invece era colpevole non avrebbe negato risolutamente? Non avrebbe sconfessata la lettera? e quando egli si fosse spinto a mettergliela dinanzi agli occhi, a mortificarla coll'evidenza, tutto non sarebbe egualmente finito fra di loro? A lei non sarebbe rimasto in fondo al cuore la spina di quel torto che aveva dovuto farsi perdonare da lui? Ella si sarebbe acconciata a riconquistare, poco a poco, l'affetto di suo marito che l'amava sempre? Sì, l'amava il disgraziato! Avrebbe voluto ignorare ancora tutto come due ore innanzi! Vivere come prima, a costo di essere ingannato! Almeno dubitare ancora, non aver la certezza che tutta la sua felicità gli era crollata addosso.
Egli ritardava col pensiero il momento di quella prova terribile, come il malato che a rischio della vita supplica il chirurgo di sospendere per un giorno l'operazione che deve subire. Si persuase che era meglio di aspettare che la serva fosse uscita. Giunse a temere che ella non si affacciasse all'uscio, colla sporta al braccio per dirgli: - vado! - Ebbe paura all'idea di rimaner solo colla moglie. Uscì pian piano di casa, con quel martello in testa, quella punta acuta in cuore, camminando rasente al muro per non esser visto dal calzolaio o dalla fruttivendola. Andò a sedersi su quel banco solitario della Villa, a piangere di nuovo, lungamente, nel fazzoletto. Gli toccava nascondere le lagrime, perché ognuno avrebbe riso del suo dolore.
Chi ne avrebbe avuto compassione? chi ci avrebbe creduto? chi avrebbe creduto che egli potesse amare adesso più che mai sua moglie, e piangere non di collera, ma di angoscia? Egli rifece le strade per le quali soleva passare coll'Elena, andò a guardare da lontano la sua casetta ancora tranquilla, bianca di sole, nella quale nulla sembrava cambiato. Le finestre stavano aperte come al solito, e il sole vi rideva sopra. Infine si risolvette a rincasare. Era già l'ora del desinare. Elena doveva aspettarlo. Cosa avrebbe risposto se ella domandava il motivo del suo ritardo? Cosa avrebbe fatto se l'avesse guardato in faccia? Dalla cucina veniva un buon odore appetitoso. La tavola era imbandita. Elena l'aspettava infatti leggicchiando; gli disse soltanto che trovava la minestra fredda. Il marito si mise a mangiare avidamente, cogli occhi sul piatto, fingendo di avere una gran fame, cercando di prolungare il pranzo per ritardare l'ora in cui la serva avrebbe sparecchiato e li avrebbe lasciati soli faccia a faccia, coi gomiti sulla tavola.
Elena era tranquilla come al solito. Di tanto in tanto suo marito trasaliva all'udire la sua voce calma, incontrandone a caso gli sguardi sereni. Sentiva per istinto che la dissimulazione che si era imposto sin allora gli toglieva gran parte della sua forza, diminuiva la sua parte di diritto, lo avvinceva a poco a poco alla rassegnazione. Se Elena sapeva che la sua lettera era in mano di lui fin dalla mattina, come dirle che aveva aspettato tanto tempo con quella ferita nel cuore? come parlare della sua collera e della sua gelosia, che aveva saputo far tacere quando dovevano essere più vive? La serva sparecchiava, gli levava i tondi di sotto le mani, e il tovagliuolo dalle ginocchia, che egli era ancora a tagliuzzare le buccie delle pesche. Elena era andata sul balcone. Di lì a un istante rientrò annunziando che arrivavano donn'Anna e la Camilla. Cesare mise un respiro lungo.
La sera passò triste, malgrado il cicaleccio imperturbabile di donn'Anna, la calma serena di Camilla, lo scricchiolio delle scarpe del cugino, le divagazioni assurde di don Liborio il quale venne a riprendere la famiglia sul tardi.
Si sentiva vagamente una preoccupazione comune, un'inquietudine indefinibile che li impacciava gli uni di faccia agli altri, e li costringeva a stare insieme. Cesare pensava: - Quando saremo soli... - e allontanava col desiderio quel momento. Si sentiva agghiacciare il cuore ogni volta che la conversazione accennava a languire. Finalmente tutta la famiglia si alzò e stettero un gran quarto d'ora a mettersi i cappelli e a darsi la buona notte in anticamera. La serva andò a far lume sulle scale. Cesare disse fra di sé: - Lasciamo andare a letto la serva.
Essa tornò colla bugia in mano, chiuse l'uscio, andava e veniva sonnacchiosa per le stanze, mettendo in ordine ogni cosa per la notte. Quando si ritirò finalmente nel suo camerino Elena era già a letto. Cesare aspettò ancora qualche tempo dietro l'uscio che tutti i rumori della casa tacessero. Gli pareva in quel momento che stesse cercando le parole colle quali doveva incominciare, spiegare il motivo per cui s'era taciuto sino a quell'ora; tutte le angoscie che aveva sofferto dal mattino, tutte le gioie che gli si erano mutate in dolore gli tornavano vive alla memoria, ad una ad una, là davanti a quello stesso uscio, in quella stessa camera dove Elena aveva abbandonata la testolina bruna sull'omero di lui. Egli pianse lungamente, amaramente, colla fronte sullo stipite, con un tremito di tutta la persona, soffocando i singhiozzi perché Elena non udisse. Ella non doveva udire, non poteva nemmeno piangere dinanzi a lei, sfogare sui suoi ginocchi l'immensa sua angoscia. Era il marito che non è più amato, di cui le lagrime sono ridicole.
Quando si sentì gli occhi secchi sulle guance asciutte, dischiuse dolcemente l'uscio. Elena dormiva col respiro leggiero da bambina, colla testa bruna posata sul braccio candido, coi suoi folti capelli neri che facevano una grande ombra sul guanciale. Il poveretto sospirò un'altra volta dal profondo delle viscere, con un senso di angoscioso sollievo.
Domani! Bisognava aspettare a domani. Domani sarebbe stato più calmo e più chiaroveggente. Giacché aveva aspettato sino allora, poteva aspettare ancora sino al domani, e farle comprendere che agiva senza precipitazione e dopo matura riflessione. Una notte passa presto. Però che notte! in quello studiolo! colla testa fra le mani! Quanti pensieri, quanti ricordi, quante visioni, quanti sogni!
Se Elena venisse a cercarlo inquieta di non averlo sentito andare a letto nella camera accanto? Se ella aprisse l'uscio dello studiolo? Se ella avesse indovinato tutto, e venisse a dirgli: - Guarda, sono innocente? - Oppure - Ti amo ancora, ti ho sempre amato. Perdonami! - Perdonami?...
Che alba scolorita e triste imbiancava i vetri del balcone! Un altro giorno che incominciava! Un altro giorno come il giorno passato! collo stesso dolore, colla medesima irresolutezza, senza il conforto terribile di poter dire: -È finito! tutto è finito! Quando avrebbe potuto dire che era finito? Mai! mai! Anche se avesse avuto il coraggio di affrontare quella scena terribile coll'Elena, tutto non sarebbe finito! Anche se ella fosse fuggita via, anche se l'avesse scacciata di casa, tutto non sarebbe finito! anche se ella gli avesse detto: - Sì, è vero; non ti amo più! -Ella viveva ancora, quella che gli faceva trasalire le viscere col suono della voce, che gli scendeva nell'animo collo sguardo; quella che aveva i capelli folti e neri, le braccia bianche, le sopracciglia folte, quella pozzetta sulle guancie quando sorrideva, quel viso, quella mano che aveva infilato nel suo braccio tremante, la sera in cui l'aveva guardato con quegli occhi luminosi, che gli aveva presa la fronte fra le mani per baciarlo, che aveva passeggiato con lui sotto gli aranci della Rosamarina, che sino all'altro giorno appoggiava la fronte pallida al balcone e lo guardava, che recava nelle viscere una parte di lui. - Ah! s'ella fosse morta, s'egli l'avesse vista la sera innanzi per l'ultima volta colla gran macchia dei capelli neri sul guanciale, cogli occhi chiusi! s'egli le avesse incrociato le mani sul petto per sempre, lui solo! e avesse potuto baciarla in fronte colla certezza che mai in quella fronte non c'era stato posto per altri baci, mai un pensiero che per lui non fosse! Il sole entrava dal balcone, gaio, sereno, nello stanzino bianco e arioso. Rivide i bei giorni di miseria ivi passati, l'alba che lo sorprendeva nel fare delle copie per gli avvocati, e l'Elena che dormiva lì presso senza saperne nulla. Aprì il balcone che dava sul mare luccicante. Qualche viaggiatore arrivava dalla Immacolatella carico di sacche da viaggio; alcuni cocchieri provavano dei cavalli; delle barchette svoltavano lente lente la lanterna del molo, laggiù, dove il mare s'increspava e bolliva in spuma d'oro e d'argento. Dappertutto saliva un'aria di calma e di serenità che gli stringeva il cuore e a poco a poco l'attirava, l'addormentava, l'istupidiva.
Erano appena le sei; Elena dormiva ancora, anzi non si s...
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