[Pagina precedente]...erarlo come uno della famiglia. Don Liborio, rabbonito, confessò che gli era stato simpatico anche a lui, e per questo gli avevano aperto il cuore e l'uscio di casa, favore che non soleva accordare a tutti, Roberto era lì per farne testimonianza. Roberto, lì presente, accanto alla Camilla, affermava col capo.
- Un avvocato può arrivare a tutto al giorno d'oggi! - finiva don Liborio. - In quel giovane c'è la stoffa di un ministro.
E donn'Anna soggiungeva:
- Lo zio canonico poi, ch'è un servo di Dio, non dovrebbe badare tanto al sottile, per levare due anime dal peccato.
Ella rilasciò generosamente alla figliuola tutti gli abiti e il corredo che possedeva da ragazza. Il giovane aveva la sua rata di patrimonio paterno, pel valore di settemila lire, rappresentato dal fondo rustico di Rosamarina, e la rata della casa. Siccome il tempo stringeva e mancavano i denari di metter su un quartierino, i due sposi decisero d'andare a passare l'autunno nella loro proprietà .
Essi arrivarono in una piovosa giornata di ottobre, preceduti da un carro carico dei bauli, casse e cassettini di Elena. Il primo giorno alla Rosamarina fu malinconico, in quelle stanzuccie nude, dove si ammonticchiavano quei cassoni come in un magazzino di ferrovia, al cadere di quella giornata scialba, colla prospettiva del paesetto perduto nella nebbia, grigiastro e scolorito nel cielo scuro. Il giovane avrebbe voluto correre subito ad Altavilla per abbracciare sua madre. Ma il canonico gli fece sapere che ella stava poco bene, e l'avrebbe vista in chiesa, quando poteva cominciare ad uscire di casa.
Nel paese dicevano: - Come principia allegramente questo matrimonio d'amore!
V
Era di ottobre. Tutte le famiglie di Altavilla erano in villeggiatura per sorvegliare la vendemmia. Alla Rosamarina l'arrivo degli sposi fu un avvenimento. Elena colle sue toelette nuove, coi suoi ombrellini vistosi, metteva i gai colori cittadini nel verde pallido delle vigne, sulle roccie pittoresche, già brulle, in mezzo alle tinte melanconiche dell'estate che si dileguava. Ella era realmente felice, nel pieno sviluppo della sua natura esuberante, avida di sensazioni piacevoli, sedotta dallo spettacolo nuovo della campagna, accarezzata dalla adorazione concentrata e quasi timida del marito, lusingata dal rispetto semibarbaro con cui i contadini accoglievano la nuova padrona, da quell'ammirazione attonita che leggeva sui loro volti quando si allineavano lungo il muro per lasciarla passare ogni volta che la incontravano mentre andava pei suoi viali, nella sua vigna, nel suo podere, coll'ombrellino sulla spalla, al braccio di suo marito, il padrone, che le si inginocchiava ai piedi, dietro la siepe, e le baciava gli stivalini di pelle dorata. All'alba correva nei campi velati dalla nebbia del mattino, in mezzo alle lodole che si levavano trillando verso il cielo color di madreperla, ancora spettinata, senza guanti, tenendo a due mani il lembo del vestito, respirando a pieni polmoni l'aria frizzante e imbalsamata di nepitella e di ramerino. Godeva in sentire la frescura della rugiada sotto i piedi. Le piaceva sdraiarsi sull'erba sempre verde, in mezzo al folto delle macchie, nelle ore calde del meriggio, supina, colle braccia in croce sotto l'occipite, e bersi cogli occhi, colle labbra turgide, colle narici palpitanti, con tutta la persona avida e abbandonata, l'azzurro intenso del cielo, quei profumi acuti, quel ronzio e quel crepitio sommesso di tanti organismi, quella quiete solenne in cui si sentiva l'espandersi di una vita universale, quel canto dei vendemmiatori che non si vedevano, tutti quei rumori e tutte quelle voci che venivano a morire sull'alta muraglia brulla della Rocca, senza un'ombra, senza un filo d'erba; arsa dal sole, in fondo al verde cupo e profondo dei nocciuoli, ritta contro il cielo turchino. Quel paesaggio per la maggior parte infruttifero era di un pittoresco stupendo, si svolgeva a destra e a sinistra con bruschi cambiamenti di prospettiva, con ricca varietà di toni e di colori, coi greppi brulli e giganteschi, le macchie sterminate, i valloni profondi, a guisa di un parco immenso, con una grandiosità di linee che Elena sola sapeva apprezzare. Però i villani facevano spallucce al suo entusiasmo per quella Rocca di granito che non fruttava niente, e di cui ella andava superba come di possedere un feudo. Invece il loro entusiasmo lo riserbavano per le terre del Barone, piatte, senza una pennellata di colori ricchi, vere terre da maggese, che nell'estate si screpolavano come un vulcano estinto. Elena era forse la sola che fosse orgogliosa di possedere quel paesaggio. Il sentimento della proprietà nasceva e si sviluppava in lei con alcunché d'artistico e di raffinato. Quando il sole tramontava nella sua vigna, aveva là , e non altrove, quegli ultimi effetti di luce calda e dorata sulle foglie ingiallite, sul verde cupo dei roveti che imboscavano il vallone, sulla grigia montagna di granito tinta di roseo e di violetto pallido. L'ombra si allargava dalla Rocca, dal folto dei nocciuoli come un velo di tristezza, e il sole invece saliva lentamente sulla facciata bianca della casina, accendeva i vetri delle finestre, sembrava far sbocciare in quel punto i fiori campestri in cima alla siepe coronata da un pulviscolo dorato. In fondo, nella valle, le terre del Barone si stendevano diggià scure, annegate nella nebbia, solcate dalla lunga fila d'aratri che preparavano il maggese tutto l'anno. E Cesare, il marito, colla testa sui ginocchi di Elena, le diceva:
- Vorrei essere ricco come il Barone per renderti felice.
Quel paesaggio, quelle nuove sensazioni avevano una grande influenza sulla natura di Elena, impressionabile e appassionata. In quell'ora di effusione, nel gran silenzio della sera, nell'isolamento completo della campagna profumata, il marito le si abbandonava completamente, le apriva intero il suo cuore, coi pudori, colle timidezze, colle espansioni, colle angoscie e i rimorsi del suo affetto fervente e vergine. Guardando le stelle che sorgevano al disopra della Rocca, col capo fra i ginocchi di Elena, le narrava le pene che aveva sofferto pel suo amore, il rimorso che ella gli era costato, quando aveva visto partire la sua povera madre desolata. Ora anch'egli non aveva altri al mondo, perciò alle volte sentiva il bisogno di immergere il suo volto nel seno di lei, di chiudere gli occhi, di non pensare più a nulla.
Con lei dimenticava le inquiete preoccupazioni dell'avvenire e le molestie pungenti e meschine del presente che lo costringevano a farsi prestar denaro dal notaio. Ella non sapeva nulla di tutto ciò. Lo credeva felice come lei era felice, avrebbe voluto correre pei campi insieme a lui, come due fanciulli, abbandonarsi completamente ai suoi capricci. La sera stavano a prendere il fresco sulla terrazza, di faccia alla roccia, che tagliava come una gran tenda nera il cielo tutto luccicante di stelle. Di là si udivano discorrere i vendemmiatori nel palmento, e dall'altra parte della vallata, nella viottola che correva sulla cornice della Rocca, si udiva il corno che annunziava l'arrivo degli altri carichi d'uva. Elena, coi gomiti sulla ringhiera, al fianco del marito, ascoltava distrattamente quell'affaccendarsi di gente a tarda ora, quei suoni di corno lontani, vagava cogli occhi sull'aspetto indeciso del podere, di cui i confini sembravano allargarsi indefinitamente nelle tenebre, sino al lumicino lontano che tremolava in fondo la valle, nel vasto caseggiato del Barone. Si sentiva ricca e felice. Allora, stranamente commossa, si stringeva contro il marito, in mezzo al discorrere sommesso di tutta quella gente che viveva per loro, e gli appoggiava la testa sulla spalla, con un abbandono pieno e riconoscente di tutto il suo essere.
Lui, nel sogno febbrile della sua luna di miele, aveva dei risvegli bruschi e penosi, dei sussulti inquieti, delle vaghe angoscie. Ogni cantuccio di quella villetta rustica aveva delle memorie care ed intime, che si ridestavano come un rimorso. Quand'era solo al balcone, verso l'avemaria, e il paesello di faccia andava abbuiandosi, e spandeva nel cielo pallido, dall'alto, le note meste delle sue campane, e si accendevano ad uno ad uno i suoi lumi tranquilli, gli passava dinanzi agli occhi la visione di tanti ricordi domestici che mai gli erano sembrati tanto affettuosi e impressi al vivo dentro di sé. Ripensava alle parole di sua madre: «Chissà se ti vedrò mai più?» come una dolcezza melanconica e lontana. Solo si rasserenava al sentirsi accanto l'Elena che si appoggiava al suo omero. Né l'accusava di indifferenza, per la sua gaiezza spensierata.
- È una bambina! ella non sa nulla!... - diceva fra di sé colla generosa indulgenza delle nature vittime della propria bontà , e che cercano nella propria debolezza la spiegazione e la scusa di ogni fallo altrui.
Un giorno andò ad Altavilla all'ora dei vespri, per incontrare la mamma in chiesa.
Là , nella penombra della navata, resa più triste dal lumicino che ammiccava davanti all'altare e dalle lunghe tende violette che chiudevano le arcate, egli vide la sua vecchiarella curva sull'inginocchiatoio, e che pregava certamente il Signore anche per lui. La poveretta piangeva e rideva di gioia nel rivedere il figliuolo, e si stringeva il suo capo sul petto scarno, dinanzi agli occhi della Madonna, che è madre anche lei. Ella sembrava più grande di Cesare in quel momento. Il tramonto, scintillante sui vetri come una gloria, riempiva ancora di luce la volta della chiesa alta e sonora.
- Ora, disse la madre, inginocchiati con me. E preghiamo insieme Iddio. - Signore, dategli la grazia dell'anima! borbottava tenendo per mano Cesare come un bambino. - Signore, dategli la salute! Signore, dategli la providenza, dategli la pace e la felicità coi suoi cari, soprattutto con sua moglie.
Chi gliel'avrebbe detto allora, a quella povera madre!...
Ella rimase qualche momento pregando fervidamente dentro di sé, cogli occhi ardentemente fissi sul Crocifisso. In questo momento si udiva nelle tenebre del coro, dietro l'altare, il salmodiare funebre dei canonici, nel silenzio della chiesa che cominciava a esser rotto dallo scalpicciare di qualche fedele. In alto la campana chiamava alla benedizione. Un chierico accese quattro candele sull'altare maggiore, e un prete piccolo e grasso, rizzandosi sulla punta dei piedi, aprì il tabernacolo, orò un momento colla fronte appoggiata all'altare, e poi si voltò verso il pubblico, accompagnato dallo scampanio festoso, colla sfera raggiante in alto, benedicendo il mondo di là del finestrone lucente, su cui calava la notte. La vecchierella agitava febbrilmente le labbra con una tacita preghiera, tenendo stretta la mano del figliuolo quasi per comunicargli la sua fede. La cantilena malinconica degli astanti si estinse a poco a poco.
- Ora lasciami vedere come stai, - gli disse conducendolo alla luce incerta del crepuscolo, sulla porta della chiesa. Ella però era abbattuta e gialla come una cartapecora. - Io son vecchia, ripeteva, e non importa. Ma ti raccomando le tue sorelle, se venisse a mancare tuo zio, e ti raccomando pure di voler sempre bene a tua moglie. Ora tu appartieni a lei. Te l'ha data quel Signore istesso che ci ha benedetti or ora.
La gente sgranava gli occhi vedendo Cesare al fianco di sua madre. Ma questa gli diceva: - Non ci badare. Tuo zio non dirà nulla se accompagni tua madre sino alla porta di casa.
Lungo la strada si andava informando di tanti piccoli particolari. Gli chiedeva se il suo studio di avvocato cominciasse ad avviarsi, se la casa l'avesse ben fornita a Napoli, se sua moglie fosse buona massaia. Gli dava dei consigli grossolani da contadina: - Pensaci, figliuol mio! ora che hai il peso della casa addosso. La Rosamarina non ti basterà a tirare innanzi. Bada a non fare debiti, ché si mangiano la casa. Settemila lire volano in un lampo. Non far debiti. - Ella andava ripetendo tutte le massime giudiziose che si dicevano in paese, e andava cercando sgomenta se non avesse dimenticato qualcosa. Non ...
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