[Pagina precedente]...oi occhi grigi. Dopo un istante di silenzio gli chiese con voce lenta:
- E tu?... Tu che ne dici?
- Nulla, rispose egli seccamente.
Poscia le afferrò le mani con impeto, l'avvinghiò fra le braccia con uno slancio di tenerezza quasi minacciosa.
- Va a firmare il contratto con Brancato, per settemila lire, disse Elena. - È la miglior risposta.
VII
Don Liborio e tutta la famiglia erano andati ad incontrare gli sposi, in gala, con un gran landò di rimessa. Donn'Anna inzuppò un fazzoletto di lagrime nell'andare. Ma eran lagrime di gioia, e avrebbe voluto pianger così anche per l'altra figliuola che se ne stava tranquilla, colle mani conserte sotto il seno, sulla panchetta dirimpetto. Don Liborio, più padrone di sé, irrigidito nel solino inamidato, si asciugava la fronte col fazzoletto, guardando la sfilata dei viaggiatori che uscivano dal cancello. Come spuntò Cesare, colla sacca a tracolla, dando il braccio all'Elena elegantissima, gli stese pel primo la mano con un gesto magnanimo che scancellava tutto quel che era stato. Donn'Anna intanto si abbrancicava alla figliuola, la quale sorrideva, e si aggiustava il cappellino scomposto dalle espansioni materne. Don Liborio non permise che gli sposi andassero all'albergo, sinché avessero trovato di fare il nido, e li volle tutti a casa.
La sera, appena giunse Roberto, ricominciarono le strette di mano. Poi ciascuno se ne tornò al suo posto, come al solito. Elena quasi fosse in visita, coi guanti, lodando tutto, assicurando che sarebbe stata benissimo, pregando Roberto di aiutarla a trovare un quartierino, non troppo grande, un nido, purché fosse in una casa di bell'apparenza, colla scala di marmo.
La Rosamarina e le tre stanze di Altavilla avevano dato novemila lire di netto. Elena, quando ebbe trovato il nido che cercava, arredò un salotto, una camera da letto, uno spogliatoio, ed uno studiolo pel marito. Sull'uscio inchiodarono una bella placca d'ottone - Avvocato Dorello - e il marito, nello studiolo nuovo, aspettò i clienti.
In questo tempo Elena era occupatissima a mandare delle partecipazioni alle sue amiche di collegio più in vista, alle conoscenze migliori che aveva racimolate qua e là , e a ricever visite nel suo salottino color d'oro, in mezzo ai suoi ninnoli luccicanti e ai suoi vasi pieni di fiori. In meno di un mese aveva il suo giorno di ricevimento, il suo taccuino pel giro delle visite, qualche amica che veniva a prenderla in carrozza, gli assidui che aspettavano il suo turno al San Carlo per farsi vedere nel palchetto di lei. Aveva fatto buona impressione nella società dov'era penetrata, seguita dal marito in guanti grigi.
- Farai delle conoscenze che potranno esserti utili, - gli diceva. - Magistrati, colleghi illustri; acquisterai dei clienti ricchi che ti metteranno in voga.
E lo lasciava nel vano di una porta, nell'angolo di un divano, accanto a un tavolino di primiera, a soffocare gli sbadigli dietro il cappello, a interessarsi al giuoco che non capiva, a rispondere al chiacchierio vuoto dei conoscenti che passando accanto a lui barattavano quattro parole per cortesia, quando una contradanza improvvisata o un pezzo di musica scacciavano nei vani delle finestre e sotto le cortine degli usci gli uomini serii, deputati provinciali, consiglieri di corte d'appello, avvocati panciuti che si facevano vento col cappello a molle, ammiravano la folla, si lagnavano del caldo, gli spifferavano dei complimenti intorno alla grazia e all'eleganza della sua signora, osservavano che era necessario un po' di svago per uno che ha delle occupazioni serie nella giornata, si meravigliavano come mai non lo vedessero spesso al Tribunale.
Lui, arrossendo, doveva confessare che non aveva affari. Il suo interlocutore, per cortesia, rispondeva garbatamente che la andava così, quando si voleva mantenere un po' di decoro, in principio di carriera... A meno di buttarsi in braccio agli albergatori, agli osti, ai sensali di affari, come quelli che fanno la posta a qualche cliente che arriva smarrito dalla provincia. E finivano col volgere un'occhiata discreta sulla moglie dell'avvocato senza affari, elegante, sorridente, disinvolta al pari di una gran dama, e corteggiata come una regina.
Allorché Elena, appena finito di desinare, correva ad accendere tutte le candele del suo spogliatoio, e si abbigliava per andare a passare la sera a teatro, alla Filarmonica, o in società , il marito rimaneva un po' triste, pensando al tempo in cui ella era tutta per lui, alle serate intime della Rosamarina. Gli pareva che degli estranei che lo salutavano appena, della musica che non capiva, dei piaceri che non divideva, gli rubassero qualche cosa della sua donna, un pensiero, un'attenzione, qualche momento di allegria, e forse anche di ebbrezza. Egli provava una voluttà amara ad analizzare, colla delicata percezione della sua natura quasi femminea, quelle sfumature dei sentimenti di Elena che si dileguavano da lui. Poi, come la vedeva ricomparire in gala, raggiante di sapersi così bella, le sorrideva, affascinato da quel sorriso trionfante di vanità . Né osava più dire, a lei, sfolgorante di tanta eleganza, che avrebbe preferito andare a passeggio da soli, al buio, ben stretti l'un contro l'altro, misteriosamente, come quella sera in cui per la prima volta erano andati per le strade silenziose tremando, e stringendosi il braccio.
Elena, com'egli le aveva espresso una volta timidamente cotesto desiderio, l'aveva guardato in viso un momento, con lieve aria di sorpresa, poi aveva risposto compiacentemente:
- Sì, come vuoi.
Egli non aveva voluto.
Nelle case dove accompagnava l'Elena, mentre rimaneva a discorrere colle persone serie, non vedeva più sua moglie per tutta la sera che dietro una siepe di abiti neri, nel gruppo più vivace delle stoffe vistose e dei ventagli che alitavano come farfalle, sotto le lumiere scintillanti, nel cerchio che allargavasi attorno alle contradanze improvvisate, accanto al pianoforte, quando provavasi della musica alla sordina, nel circolo ristretto dei privilegiati che si aggruppavano vicino al canapè della poltrona di casa. Di tanto in tanto, come un getto fresco di allegria, udiva una parola di lei, uno scoppio di risa represso col fazzoletto profumato. Osservava alla sfuggita, con uno sguardo discreto che voleva parere distratto, la sua testolina fine, bruna e piena di vita, un riflesso della seta della sua veste, un movimento del suo ventaglio o delle sue spalle seminude, la posa leggiadra con cui si appoggiava al braccio del suo ballerino, o l'atteggiamento improntato di diffidenza ironica e graziosa con cui ascoltava il discorso misterioso ed animato che le sussurava sotto il naso un individuo elegante, imprigionandole il vestito colla sua poltrona, piegando verso di lei il petto rigido della camicia e il capo diviso nettamente in due dalla riga irreprensibile. Egli solo, il marito, il più estraneo di tutti, non poteva prendere il braccio di lei che nell'anticamera, dopo che il corteggiatore più assiduo della serata l'aveva aiutata a indossare la mantellina, sfiorandole coi guanti le spalle nude.
Alcune volte, per quanto ei si sforzasse dissimulare, Elena si accorgeva della sua tristezza nel tornare a casa. E gli domandava inarcando le ciglia, sinceramente sorpresa:
- Che hai?
Egli arrossiva sotto lo sguardo penetrante di lei. Sarebbe morto piuttosto che confessare a se stesso la gelosia vaga, dolorosa, umiliante, che tentava di soffocare. Accusava la noia di passare una serata con gente che non conosceva, la sua indole timida e ritrosa, la preoccupazione che gli dava lo stato d'incertezza dei suoi affari. Ella non si lasciava illudere, gli leggeva in cuore meglio di come non sapesse egli stesso; gli diceva:
- Che vuoi... Bisogna fare come fanno gli altri. Ma son tutta tua, lo sai.
Però aveva bisogno di quella vita, di quel lusso, di quelle seduzioni, se ne inebbriava spensieratamente, senza sospettare il male. Dopo aver assaporato il trionfo della sua eleganza, della sua bellezza e del suo spirito, quando aveva indovinato vagamente l'ammirazione bramosa corruscante negli occhi ardenti che si posavano sulle sue spalle, l'emozione dalla quale prendevan risalto i complimenti insignificanti che le erano stati rivolti, si buttava al collo di suo marito, gli diceva:
- Come ti amo! - senza accorgersi ch'egli impallidiva a quell'effusione. Nel salotto dai fiori azzurri tornava ad esser di lui, gli parlava guardandolo nello specchio del grande armadio di mogano che prendeva intera la parete, mentre si svestiva lentamente, al lume delle candele che dorava la bianchezza pallida delle sue spalle e la sottile lanuggine delle braccia bellissime. Si lasciava accarezzare distrattamente, gli porgeva le labbra e la fronte, e gli diceva: - Ora discorriamo un po' fra di noi. - Raccontava gli aneddoti della serata, le galanterie che le avevano recitato, sorridendo indifferentemente, con un moto leggiadro delle spalle nude. Quindi gli stendeva le mani al di sopra del capo, senza voltarsi, come a dirgli: - Di che temi, scioccherello? - E gli domandava se si fosse divertito egli pure, se fosse contento della sua serata, con chi avesse parlato, se avesse trovato qualche cosa. Trovare! Ella lo ripeteva con una leggerezza incantevole, quasi fosse stata la cosa più facile del mondo, senza accorgersi dell'ombra che la sua domanda metteva negli occhi del marito, o se accorgevasene si faceva a un tratto anch'essa pensierosa, guardandosi seminuda nello specchio con occhi vaghi che sembravano neri come carboni. Infine si scuoteva con quel moto impaziente delle spalle, si voltava bruscamente verso di lui, per dirgli:
- Non temere. Ci arriveremo!
Ella parlava di questo avvenire come di uno stato di altre soddisfazioni ed altre agiatezze. Non sapeva nemmeno che i denari della vigna e della casa sfumavano rapidamente. Credeva di non spendere altro che le cinque lire dei guanti o della carrozza che l'accompagnava a casa. Suo marito avrebbe voluto risparmiarle a qualunque costo le sorde angoscie che lo tormentavano, mentre ella rideva e folleggiava in un salone tutto oro. Per lui solo le meditazioni penose, i tentativi umili, l'andar su e giù per le scale altrui, i batticuori dell'aspettativa, gli scoramenti amari. - Ch'ella non sappia nulla almeno... sin che si può! - E non lo sorprendeva la crudele indifferenza di lei riguardo ai loro interessi. Solamente Elena cominciava a notare che quell'avvenire si faceva aspettare, e che alla moglie del procuratore generale o di un avvocato illustre venivano usati dei riguardi che mancavano a lei, ricercata, corteggiata, con guanti da venti lire alle mani. Suo marito non ci pensava, lui! E il sorriso di Elena finiva allo specchio, in una contemplazione astratta di se stessa.
Un mattino egli ricevette due righe per la posta.
«Badate a Cataldi! marito esemplare!».
Cataldi era un giovanotto il quale spendeva pazzamente il denaro che non aveva, biondo e delicato come una fanciulla, bel giuocatore, carico di debiti, audace cogli uomini, e cortesemente impertinente colle signore. Elena sorrideva volentieri con quel pazzo, il quale non cercava di meglio che saldare i suoi debiti, facendosi uccidere in duello, dicevano. Elena invece, col fazzoletto ricamato sulla bocca, mormorava sorridendo: - Che matto!
Cataldi se lo lasciava dire di buon grado in faccia, ogni volta che l'asserragliava in un cantuccio, nel vano di una finestra, dietro un canapè, a ridosso della coda del pianoforte, dove poteva. E s'impadroniva del suo ventaglio, del ciondolo del braccialetto, del lembo di un pizzo, senza lasciarsi imporre dai suoi corrucci da bambina o dalla sua collera leggiadra, facendole piegare il capo e arrossire la nuca sotto le sue calde proteste, recitate con una flemma imperturbabile, con una franchezza che aveva del cinismo.
- Via! quando vi risolverete a dirmi che mi amate! Lasciatevi far la corte. Che temete? Non ci crediamo né voi né io. Voi non amerete mai, come me. Voi avete tutti i miei difetti. Siete insensibile, egoista e vana...
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