[Pagina precedente]...erta e silenziosa, quasi timida, dietro il servo dagli scarponi da contadino che andava ad annunziare la visita col berretto in mano, precedendoli in punta di piedi per la vasta anticamera sonora e scura come una chiesa, dall'ammattonato nudo, dalle pareti imbiancate a calce, alle quali tutt'ingiro, al disopra di selle vecchie e di finimenti messi sul cavalletto, di giganteschi cestoni colmi di legumi e di nocciuoli, erano appesi dei ritratti di famiglia, fatti colla scopa, polverosi, alcuni senza cornice, ma tutti decorati da un grosso blasone messo in cima, di lato, sotto i piedi, coronato, zeppo di croci, di torri, di sbarre, di stelle, e di bestie feroci. I ritratti rappresentavano cavalieri bardati di ferro, gentiluomini di s. m. cattolica, colla testa adagiata sul collaretto spagnuolo come su di un piatto, creadi del re; gli ultimi, i più recenti, vestiti dell'abito di spada, o in costume da senatore, la più alta carica municipale del paese, imbacuccati nella toga che nessuno aveva mai avuto, e che l'artista disegnava di maniera su di un modello noto; dame stecchite nel busto, e che sembrava fossero state sempre dipinte, per non aversi a piegare. Tutti sotto il nero fumo, e il giallo d'ocra, serbavano il cipiglio solenne, l'atteggiamento maestoso di gente che ha lì, a portata di mano, il berretto ricamato di perle da barone; e persino quei faccioni moderni di buoni campagnuoli, erano posati pian piano dall'artista sul rettangolo bianco del collare della toga, onde mostrare che erano teste per quelle corone là. - Son gli antenati del Barone, - andavano chiacchierando dietro le spalle di Elena - gente venuta di Spagna col re, ce n'è di 600 anni fa! Hanno avuto sempre voce in capitolo. E la fortuna poi di non aver mai troppi figliuoli!
Elena ascoltava, intenta, colle sopracciglia aggrottate, passando in rivista i ritratti, senza dire una parola, mentre gli altri chiacchieravano familiarmente col domestico della raccolta, degli armenti, dei nuovi acquisti che aveva fatto la baronessa, interessandosi come se fossero della famiglia anche loro; il servitore stesso diceva: - Le nostre pecore, le nostre vigne, la tenuta che abbiamo acquistato da ultimo.
La baronessa soleva stare in una cameraccia tutta bucata da porte e da finestre, nella quale si gelava d'inverno, ingombra di mobili dorati, di specchi, di scaffali pieni di cartaccie polverose, di macchine per far nascere i bachi, di sacchetti che contenevano i campioni delle derrate, col suo vecchio scrittoio in mezzo, e le sue donne in giro, ciarlanti tutte in una volta, spettinate, male in arnese, alcune delle quali si arrischiavano di venire anche scalze nelle ore tarde, filavano, facevano la calza, litigavano fra loro, mentre la padrona rivedeva i conti, dava gli ordini ai fattori, consultava l'avvocato che veniva apposta da Altavilla, spartiva il lavoro. Ella accolse i nuovi arrivati colla cordialità che si leggeva sulla faccia dei suoi antenati imbavagliati nel collare della toga; baciò le donne, fece portare dei rinfreschi che sarebbero bastati per una compagnia, li menò in giro per la casa, vasta quanto un convento, nel tinello in cui nessuno mangiava più da un secolo, nel salone che non era stato mai terminato, negli stanzoni abbandonati e ingombri di mobili vecchi, e che servivano quasi tutti da magazzini.
- Non c'è dove mettere uno spillo - diceva la baronessa. - La casa è tanto piccola! - Gli uomini ammiccavano cogli occhi, e immergevano le mani nei cestoni riboccanti di ogni ben di Dio. - Queste son le stanze di mio figlio; - disse poi la baronessa conducendoli in un altro quartierino un po' meglio arredato del resto della casa, di cui però il solo lusso erano delle armi e degli arnesi da caccia di gran prezzo, sparsi per ogni dove, in ogni angolo, sui divani, sui mobili, sullo scrittoio polveroso e dal calamaio vergine.
- È la sua passione, - diceva la baronessa. - Cani e schioppi! non pensa ad altro. Voglio maritarlo per fargli entrare qualche altra cosa in testa. - Le signore guardavano contegnose, colle labbra strette, e il fazzoletto ricamato fra le mani inguantate.
Ella si era presa di una gran simpatia per l'Elena, la conduceva per mano, la chiamava figliuola mia, le diceva: - Voglio cercargli una moglie bella come voi, al mio Peppino. Ma non una cittadina, perché con noi non saprebbe adattarsi, in paese, e da mio figlio voglio separarmi solo quando sarò morta. Che volete, è figlio unico! - Poi facendogli vedere nella sua camera, a capo del lettuccio piatto, il ritratto di un giovanotto bruno e tarchiato, un po' al modo di quei signori messi a festa, soggiunse: - Questo è Peppino!
Elena lo guardò un po' per compiacenza, e rispose qualche parola insignificante. Peppino era uno come tutti gli altri, coi capelli ricciuti per giunta, e pettinati apposta per andare a farsi il ritratto, insaccato in un vestito che voleva esser di città, con certi solini e certa cravatta che Elena aveva visti solamente ad Altavilla. Poi si rimise a considerare silenziosamente la baronessa che discorreva con gli uomini di maggese, di rimonda d'olive, di prezzi di derrate, e interrogava le donne sui lavori che avevano per mano, con la benevolenza di una parente. Era una donnetta piccola e magra, cogli occhiali sul naso, vestita sempre di scuro dacché le era morto il marito, con un grembiale di seta verde, ed uno scialletto nero incrocicchiato sul petto; infine aveva sul mento un po' di barba, e un modo di camminare dondolandosi, così piccola com'era, quasi fosse stata sempre a cavallo, per giustificare quel che dicevano di lei che portasse i calzoni - per forza! diceva a chi le raccomandava di riposarsi oramai alla sua età; - quel ragazzo non ha nessuno altri che badi ai suoi interessi; se non ci fossi io se lo mangerebbero vivo. Tutti ladri! lo sapete meglio di me, cari miei!
Al momento di accomiatarsi li accompagnò sino al ballatoio, volle assolutamente farli scortare da due campieri colle lanterne accese, che si era fatto buio. - La cittadina avrà paura a quest'ora, per le nostre campagne. Io non avrei paura di niente; tutti mi conoscono, grazie a Dio. Mi dispiace che non ci sia Peppino. Ma tornate un'altra volta, quando andrete a spasso da queste parti. Venite a San Martino, sapete, gusteremo il vino nuovo.
Era sopraggiunta la notte, profonda tutto intorno ai lumi del casamento, nella campagna silenziosa, scintillante di stelle al di sopra della Rocca che si stampava in distanza come un nugolone minaccioso. Le cavalcature andavano passo passo, fiutando il cammino dietro i fanali delle guide che sembravano far saltellare i ciottoli della viottola. Qua e là un lumicino ammiccava nel tenebrore, e ad ogni fermata si udiva l'acqua del vallone che scorreva lenta, sotto i macchioni, e il gracidare lontano delle rane nella pianura. Ad intervalli arrivava l'uggiolare di un cane, perduto nello spazio, in quello sterminato silenzio che faceva rabbrividire leggermente l'Elena quasi pel primo freddo dell'autunno inoltrato. Tutto a un tratto si udì lo scalpitio di un cavallo.
- Questo è il Barone! disse uno dei campieri.
Un cane si mise ad abbaiare sospettoso e feroce in fondo alla viottola. Poco dopo comparve infatti don Peppino, nell'ombra, sull'alto cavallo pugliese come un fantasma nero, seguito da due campieri di cui luccicavano le borchie d'ottone, e le carabine ad armacollo.
Qualcuno diede la voce, e il Barone fermò il cavallo per salutare le signore.
- Siamo stati alla villa, - gli dissero. - Questa qui è la signora forestiera.
Don Peppino allora smontò da cavallo, per salutare la signora, tenendo il cappello in mano, colossale al lume dei fanali che lo rischiaravano dal petto in su; ma timido, come un ragazzo.
Elena aveva inchinato appena il capo. Il barone consegnò le redini ad uno dei campieri. Egli continuava a discorrere, col piede su d'un sasso, mentre il vecchio servo inginocchiato gli sfibbiava gli sproni, colla testa bianca a livello degli stivali del padrone.
- Ora andate alle case, disse infine. Io verrò dopo. Badate di non fare star fermo il cavallo a questa aria.
Egli volle accompagnare la brigatella sino al principio della viottola. Poi salutò le signore, si inchinò più profondamente all'Elena, e scomparve nel buio.
- E pensare che se lo incontrasse qualche briccone, potrebbe cavargli 20 mila ducati di taglia! osservò uno della brigata.
- Don Peppino è bravo come un cane corso, - aggiunse un altro. - E non si lascerebbe pigliare.
Allora senza saper perché Elena, per tutto il resto del viaggio, pensò a quel ragazzo che non aveva paura di andare solo al buio, a quell'ora.
VI
L'ortolano, tutto sottosopra, venne ad annunziare che arrivava la visita del signor Barone.
Elena era sotto il pergolato, dove soleva passare le ore calde della giornata, col ricamo o con un libro in mano. Senza scomporsi accennò di sì col capo al contadino stupefatto e ricevette il Barone fra quelle quattro macchie di dalie come una regina.
Don Peppino, avvezzo alle accoglienze premurose e imbarazzate, fu sconcertato da quella disinvoltura signorile. Egli era venuto con delle intenzioni conquistatrici veramente baronali, vestito in gala, sbattendo il frustino sugli stivali. Giunto al cospetto dell'Elena, per non fare la figura che aveva visto fare agli altri, girando il cappello nelle mani, cominciò ad ammirare il paesaggio, il banco di legno rustico sotto il pergolato, il panierino da lavoro adorno di nastri.
Elena offrì il rosolio in una cassetta da liquori simile a quella che la Baronessa madre teneva sottochiave per le grandi occasioni. A don Peppino sembrava di trovarsi al teatro, quando i dilettanti di Altavilla rizzavano una campagna di cartone, nella quale le pastorelle recitavano coi guanti e le scarpette verniciate. Al momento di congedarsi offrì di venire a prendere la signora in carrozza, per fare una trottata sino ad un paesetto vicino. Elena dopo un lieve cenno di ringraziamento che non voleva dire né si né no, ed un mezzo sorriso più insignificante ancora, seguitava a lavorare d'uncinetto attentamente, lasciando al marito la cura di rispondere. Questi disse:
- Volentieri, se ciò fa piacere ad Elena.
Ma appena il barone fu partito, Elena gli buttò le braccia al collo.
- Hai fatto bene a dir di sì. Ne morivo di voglia!
Nella sera, alla Rosamarina si parlava ancora del Barone, ed Elena disse:
- Peccato che colui sia tanto ricco!
- Io son più ricco di lui! rispose suo marito baciandole le mani. Intanto il Barone non ha queste!
- No! no davvero! disse Elena con un movimento leggiadro della spalla, e non le avrebbe mai. Mi piacerebbe esser ricca, ma non con un marito così fatto!
- Oh, tu sapresti ridurlo a modo tuo! rispose storditamente Cesare sorridendo.
Chi può analizzare le conseguenze lontane delle parole più semplici! Elena si mise a ridere del pari, mormorando:
- Ah, sì! - Ma rimase un momento soprappensieri.
Il barone venne il giorno dopo sino al principio della strada carrozzabile col suo phaeton e i suoi quattro cavalli bai. Elena era leggiadrissima nel suo vestito grigio e nero, sotto l'ombrellino di seta greggia. Due altre signore del vicinato erano venute, e riempivano il legno di stoffe gaie, di ombrellini rossi, di allegria e di risa. Raramente gli abitanti del villaggio avevano visto siffatto spettacolo per le strade larghe e deserte del paese, e fu un gridio, una festa generale, lungo i muri degli orti, le facciate basse delle casette, appena si udì da un capo all'altro del paese il trotto sonoro dei quattro cavalli. I monelli correvano vociando dietro il cocchio, le comari si additavano Elena dagli usci, colle rocche, a bocca aperta, tutti quelli che giuocavano a tresette si affacciarono sulla porta del casino. Il barone arrestò il phaeton dinanzi al caffè, con un tratto vigoroso del polso che fece piegare sui garretti i cavalli fumanti, e ordinò dei gelati. Le signore, rosse come i loro ombrellini, vergognose di vedersi il punto di mira di tutto il paesetto affollato intorno al legno, col naso in aria, per ved...
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