[Pagina precedente]...erle mettere il cucchiarino nel gelato, chiacchieravano a voce alta, ridevano forte, con la bocca stretta, e tenevano il mignolo in aria, quasi fossero innanzi allo specchio. Elena invece discorreva tranquillamente col Barone, tutto occupato di lei, colla frusta ritta come un cocchiere, sorbiva il suo gelato guardando i curiosi, assisa naturalmente sull'alto cocchio come su di un trono, coll'ombrellino sulla spalla, rispondeva con un lieve chinar di capo alla presentazione che le faceva don Peppino dei primarii del paese venuti dal casino a far circolo intorno al legno, a testa scoperta. Soltanto le narici delicate di lei si dilatavano di tanto in tanto, e al marito che le domandava se si divertisse, rispondeva di sì, di sì, chinandosi verso di lui, cogli occhi lucenti - il suo sorriso non era stato mai così grazioso.
Quando ritornarono indietro, a sera, ella non disse più una parola, stretta nel suo scialletto. Guardava la vasta pianura che si addormentava, le colline sfumate in un nembo di vapori azzurrognoli, su cui si spegnevano gli ultimi raggi del sole dorati nelle nuvole bianche, aspirando avidamente i vigorosi profumi dell'autunno, assorta, in mezzo al cicaleccio delle sue compagne, nel ronzio misterioso che fanno gli insetti al cader della sera, nel trillare dei grilli lontani che davano un che di sconfinato alla campagna. La prima parola che le rivolse il marito la scosse bruscamente come da un sogno.
Il barone tornò spesso alla Rosamarina, a far visita alla signora Elena, a bere il rosolio sotto il pergolato, a cacciare la beccaccia nel vallone. A poco a poco diveniva disinvolto, ed anche Elena, che si abituava alle maniere ed alle mode della provincia, andava familiarizzandosi con lui. Scopriva che egli era un buon giovane, in fondo, semplice e bravo all'occorrenza, generoso e servizievole. Fra i signorotti e le dame del vicinato che formavano la società della Rosamarina egli era il gallo della Checca, gli uomini gli facevano la corte come una signora, e le donne se lo mangiavano cogli occhi. Coll'Elena sola egli era ancora timido, chinava il capo ai menomi capricci di lei, lusingava in tutti i modi la sua vanità, le esprimeva la sua adorazione nel modo che un seduttore raffinato avrebbe solo stimato opportuno con lei, cercando di vederla il più che poteva, standole vicino in silenzio, cogli occhi sul lembo della sua veste, seguendola come un cane. Ella diceva: - È un buon ragazzo! - e si metteva a ridere stringendosi nelle spalle.
Però non lo evitava più colla stessa indifferenza; alle volte accettava il suo braccio, andando per la viottola, si faceva accompagnare pei sentieri del giardino, lo riceveva sotto il pergolato, chiacchierando di tutto, cogliendo insieme i più bei fiori pel vaso della mensa, facendosi aiutare nello scegliere la lana per un tappetino che destinava al marito. Spesso, quando organizzavano coi vicini una qualche scarrozzata nei dintorni, ella aveva il capriccio di guidare i cavalli accanto a don Peppino, ritta sul seggio, coi piedini posati arditamente sulla panchetta, tenendo una sigaretta fra le labbra, raggiante, e si voltava di tanto in tanto verso il marito e la compagnia, esclamando: - Va bene? va bene? - con una voce vibrante senza saperlo di voluttà, di una gioia fanciullesca.
Il Barone stava tutt'occhi alle teste dei cavalli, faceva sentire la sua voce; di tanto in tanto posava la mano su quella di lei per dare una trinciata di morso, era costretto a premere qualche volta col ginocchio le ginocchia di lei strette nel vestito attillato. Una sera, nella vasta pianura già velata di ombra, mentre il gracidare delle rane spandeva come una larga malinconia, egli raccolse un fiore campestre che le era caduto dal petto, e se lo portò alle labbra.
Elena aggrottò le ciglia, e per tutta la sera fu di un umore orribile. Suo marito non le aveva mai visto quegli occhi sotto quelle sopracciglia aggrottate e quasi congiunte; né aveva mai sospettato quanta violenza di malumore ci potesse essere in quel carattere. Ma la moglie, mentre risalivano la viottola, sotto i rami intrecciati come una volta, stringendosi al petto il braccio di lui, gli disse:
- Io ti voglio un gran bene, sai!
D'allora in poi, né scarrozzate, né gite nei dintorni, né partite di piacere. Elena lasciò cascare persino l'invito che aveva fatto la baronessa di andare a passare il San Martino in casa sua. Sembrava in collera con don Peppino che aveva interrotto bruscamente i suoi piaceri fanciulleschi.
Ella continuava a riceverlo perché non poteva fare altrimenti, per non dare nell'occhio, ma tutti s'accorgevano del suo mutamento; e il Barone stava davanti a lei come uno scolaretto, a testa bassa, tanto che finì col diradare le visite. Però era sempre a ronzare lì intorno, colla cacciatora di velluto e lo schioppo in spalla. Elena lo vedeva da lontano, fra i cespugli della Rocca, o sui greppi vicini, e seguitava a chiacchierare col marito, o a lavorare sotto il pergolato, senza alzare il capo. Però le si leggeva nel sorriso che si arrestava all'angolo della bocca, nella ruga che si disegnava rapidamente fra le sue sopracciglia, in certo imbarazzo dello sguardo, come una vaga preoccupazione, una sfumatura d'inquietudine. E, cosa strana, guardava alle volte Cesare che era sempre vicino a lei delicatamente affettuoso, con una certa timidezza carezzevole e femminina nelle sue espansioni. Ella sembrava dirgli storditamente:
- Cosa te ne importa? Dimmi che cosa te ne importa?
E la sua voce si animava di una sorda vibrazione. Una sera che c'era stata più gente, suo marito dovette andare a cercarla sulla terrazza, dove stava appoggiata alla ringhiera, imbacuccata in uno scialle, assorta nella contemplazione della Rocca che si levava come un'ombra gigantesca e minacciosa, là di faccia. Ella trasalì leggermente al sentirselo vicino, e gli piantò in faccia quegli occhi strani. - Ah! finalmente! disse: - È un'ora che ti aspetto!
Ella sentiva per quel cuore amante e delicato una tenerezza capricciosa e dispotica. Rivolta verso di lui, colle labbra strette, bianca come un fantasma, a quel chiarore incerto, lo guardava con degli occhi che corruscavano di tratto in tratto, quasi per l'irrompere di una scarica elettrica, come non sapesse ella stessa il sentimento che suo marito le ispirava.
All'improvviso afferrò la fronte di lui colle due mani, e la baciò.
Cesare, nelle maggiori effusioni del suo affetto, subiva un inesplicabile imbarazzo vicino a lei; sembrava che una parte di quella donna, entrata a metà in tutta la sua esistenza, che faceva parte di sé, gli fosse rimasta estranea e sconosciuta. Allorché se la teneva fra le braccia, stretta, e non avrebbe voluto lasciarla più, sentiva una specie di sgomento, come la prima volta che Elena si era abbandonata a lui, nella via scura.
- Che hai? ripeteva Elena. Dillo a me!
Allora, egli cercando cosa avesse, trovava la vaga angoscia che offuscava tutta la sua felicità. Le parlava di sua madre inferma, della sua casa, dalla quale era bandito. Elena, colle ciglia aggrottate, non rispondeva, passeggiando al buio pei sentieri del giardino, in mezzo alle lucciole che sprizzavano scintille fra le tenebre, e di tanto in tanto gli si stringeva contro il braccio, quasi pel trasalire di una commozione inesplicata.
- Per me! per me! - Ma allora si irrigidiva a un tratto come pel corruscare di una sorda irritazione. Camminava assorta, fissando le tenebre, ascoltando vagamente il vento autunnale che gemeva nella gola del vallone, e faceva mormorare il giardino a guisa di un mare, e Cesare non scorgeva quella ruga sottile e fuggevole che si disegnava in mezzo alle sopracciglia di lei, né l'inspirazione avida che le faceva bere l'aria fredda della notte colle narici palpitanti, colle labbra turgide e semiaperte, con un anelito vigoroso del petto che somigliava molto ad un sospiro. E se egli la interrogava:
- Nulla! rispondeva con quell'aggrottare di sopracciglia. - Tu non mi vuoi bene. Non so. Mi pare che dovrebbe essere altrimenti.
Alle volte però, impietosita dall'afflizione che scorgeva nei lineamenti del marito gli diceva:
- Non mi vuoi bene?... Non mi vuoi bene quanto ne vuoi a tua madre?... Non ti basto io?...
Gli abbandonava il capo sull'omero, con una brusca risoluzione accarezzandolo coll'anelito e col suono della voce, cedendo alla tentazione istintiva di provare su di lui il suo fascino irresistibile, coll'occhio fisso, intento a qualcosa che capiva e vedeva soltanto lei.
In quel tempo i vicini avevano fatto ritorno ad Altavilla, e il barone venne a congedarsi. Elena lo vide così stravolto in viso, così imbarazzato, che di tanto in tanto saettava su di lui alla sfuggita un'occhiata acuta, accompagnata da un sorriso sardonico che le contraeva l'angolo della bocca. Don Peppino chiacchierava col marito di caccia, di affari di campagna, di pettegolezzi municipali. Ella si scaldava al sole di novembre dietro i vetri, agghiacciata dal primo freddo, dondolando il piede, pigliando pochissima parte alla conversazione e quel poco dedicandolo quasi esclusivamente a suo marito. Don Peppino aveva chiesto se si fermassero ancora qualche tempo in villa, Elena aveva risposto:
- Finché mio marito vorrà starci io non mi annoierò di certo.
Il marito dovette andare a prendere una lettera che aveva preparato per sua madre, e che don Peppino si era offerto di recapitare. Rimasta sola col barone, Elena riprese vivamente la conversazione, quasi temesse di lasciarla languire. Ma il suo interlocutore non l'ascoltava più, quantunque tenesse gli occhi fissi su di lei, facendosi sempre più smorto. Tutt'a un tratto, con voce malferma le chiese:
- Mi avete perdonato?
- Che cosa? rispose Elena tranquillamente. Egli non insistette, fece per alzarsi, ricadde sulla sedia. Infine le prese la mano, sinceramente commosso.
- Ci lasciamo amici? dite?
- Perché non dovremmo lasciarci amici? esclamò Elena, ritirando adagio adagio la mano.
- Mi permettete dunque di venire a trovarvi.
Ella si fece seria in viso, e stava per rispondere no. Ma la parola le parve troppo dura. Sentì per istinto di donna come fosse anche compromettente.
- Noi ci fermeremo appena qualche giorno prima di tornare in città. Avrò tutta la casa sottosopra. Non so nemmeno se riceverò.
Don Peppino si alzò contegnoso, un po' triste, nel momento in cui rientrava il marito, prese la lettera, salutò la signora, che gli stese la mano, e partì.
Il barone s'era incaricato pure di una lettera di Cesare pel notaio, il quale il giorno dopo era passato dalla Rosamarina, andando al suo podere, ed Elena aveva visto che si erano messi a discorrere con suo marito sulla porta del palmento, accanto alla mula che brucava l'erba fra l'acciottolato. Il notaio si stringeva nelle spalle, guardava il casamento dall'alto al basso, andava a misurare i muri colla sua bacchettina, dimenava il capo, e l'altro gli andava dietro, mogio, parlando basso, quasi supplichevole. Infine il notaio si arrampicò di nuovo sulla mula, facendo ohi! e là, dall'arcione che gli arrivava al petto: - Non val tanto; credete a me che me ne intendo. Fate venire anche cento periti, se volete. Saranno tutte spese buttate. Questo è un fondo d'economia, da tirarne frutto coi denti. Vostro padre, buon'anima, c'era affezionato perché era stato il primo pezzo di terra della famiglia. Ma del resto fate bene a venderlo, giacché avete dei debiti. Se no, ve lo mangiano!
Egli raccolse le redini, e s'avviava passo passo per la scesa della viottola, dondolando sulla sella, senza dar retta all'altro che gli andava dietro, continuando a parlargli sottovoce.
Sì, diceva il notaio, - sì, son tutte chiacchiere. Ma vostro zio non vuole sentir nulla. Vi ha dato il fondo, e la parte di casa che vi spettava dell'eredità di vostro padre, tre stanze. Ci ha fatto a sue spese la scala, da una delle finestre. Così, se volete vendere subito la Rosamarina, avrete dove stare, sin che non tornate in città.
Elena era stata a sentire tutto dal balcone. Appena suo marito le comparve dinanzi, disse:
- Vendi la...
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