IL MARITO DI ELENA, di Giovanni Verga - pagina 2
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Don Liborio dal canto suo non poteva risolversi ad andare a letto; e seguitava a passeggiare su e giù, in maniche di camicia e col berretto da notte in capo, ficcando le dita ogni cinque minuti nella tabacchiera.
Sua moglie gemeva sotto le coperte: - Io mi sento malata! Domani chiamatemi il medico, per carità!
Il buon'uomo allora si fermò dinanzi alla consorte, che gli mostrava un occhio malinconico di sotto le lenzuola, preso da una specie di singhiozzo che gli comprimeva la pancia dentro i calzoni fin sotto alle ascelle, scuotendo tristamente il fiocco del berretto di cotone.
- Quell'assassino ci farà morir tutti! osservò infine.
E tirò una presa per ricacciare indietro le lagrime.
- Sicuro che morremo tutti, se vi strapazzate così la salute! Adesso non abbiamo fatto tutto ciò che si poteva? Domani si penserà al resto.
Ma se vi allettate voi, vedrete che bel costrutto! Vuol dire che non ve ne importa niente di vostra moglie, e dell'altra figlia che vi rimane!...
Don Liborio, vinto, cominciò a spogliarsi, con degli ohi! ad ogni movimento che faceva, seguitando a dondolare il capo amaramente.
Poi mise la tabacchiera sotto il guanciale, e si cacciò fra le coperte in fretta e in furia, bofonchiando degli ohi! su di un altro tono, e rimase immobile, naso a naso colla moglie, cogli occhi chiusi, e la faccia lunga sotto il berretto da notte.
Donn'Anna sperando che fosse finita per quella sera soffiò sulla candela.
Ma il marito dopo un pezzetto sospirò:
- Dove sarà adesso quella disgraziata?
Donn'Anna non fiatò.
Però da lì a poco soggiunse:
- Quel giovane ha il fatto suo; ha preso la laurea d'avvocato, e non le farà mancare nulla a sua moglie.
- Il dispiacere l'abbiamo avuto - riprese dopo un altro breve silenzio.
- Ma quando vedremo nostra figlia ben situata ci consoleremo.
Don Liborio colla testa sprofondata nel guanciale, preso dal tepore del letto, non ebbe animo di protestare altrimenti che con un grosso sospiro.
E sua moglie conchiuse:
- Guardate! Giacché il dispiacere bisognava averlo, quasi quasi vorrei che fosse fuggita anche la Camilla.
- Roberto è un galantuomo! tornò allora a dire don Liborio riaprendo gli occhi torvi.
Roberto non te l'avrebbe fatta una bricconata simile, dovesse aspettare dieci anni!
- Sì! non ve l'ha fatta perché non l'hanno avanzato nell'impiego.
Vorrei vedere che pensasse di farmela quando non ha di che mantenere la moglie!
Don Liborio voleva protestare, rispondere qualche cosa, per non sembrare che si arrendesse.
Ma sua moglie stavolta gli diede sulla voce.
- Ora dormite, che ne parleremo domattina.
E fece cigolare il letto, col voltargli la schiena.
II
Elena intanto, a braccetto di Cesare, andava bussando di porta in porta, dagli amici e dai parenti, in cerca di asilo.
Dopo che sua zia donn'Orsola aveva rifiutato di riceverla, sotto pretesto di non guastarsi con donn'Anna, i due amanti si erano persi d'animo.
Si trovarono di nuovo nella strada, a capo chino, incerti sul da fare, sgomenti.
Elena aveva suggerito di andare a chiedere ospitalità alla madre di Roberto, un'altra parente lontana di don Liborio.
Ma Roberto era corso a casa mezz'ora prima a dar l'allarme, e sua madre perciò aveva avuto il tempo di non esser colta alla sprovvista, e ricevette i profughi nell'anticamera, col candeliere in mano, e le ciglia in arco, fingendo di farsi la croce dalla sorpresa, protestando che non poteva alloggiare una ragazza, in coscienza, col figlio giovane che aveva in casa.
Il vicinato avrebbe mormorato.
Ella era molto scrupolosa su certe cose delicate.
Il suo confessore era il padre Mansueto dei Cappuccini, il quale non era di manica larga.
Roberto ascoltava dietro l'uscio.
Elena un po' pallida, col mento leggermente convulso dall'emozione, chinava il capo, e tirava pel braccio Cesare, il quale cercava di insistere balbettando, col cappello in mano, quasi chiedesse l'elemosina, evitando gli occhietti acuti della sua interlocutrice.
Costei, quando li udì sgattaiolare tastoni per le scale al buio, mise un sospirone, e disse al figliuolo, che allungava il capo dall'uscio:
- Finalmente! se ne sono andati!
- Ci mancava quest'altra! osservò Roberto.
Ho avuto buon naso, ho fatto bene a prevenirvene.
Chi sa quando si sarebbe aggiustato il matrimonio.
E intanto ci toccava mantenere la ragazza!
Mentre scendevano le scale, annientati, Elena si rammentò che al secondo piano ci stava una vedova, la quale passava per ricca, e andava a far la calza ogni sera dalla mamma di Roberto, dove si erano prese di una grande amicizia con donn'Anna.
Cesare non seppe che dire, e tornarono a far le scale.
La vedova era presente allorché Roberto trafelato era giunto a portar la notizia, ed era fuggita, dimenticando persino la borsa coi gomitoli, a chiudersi in casa, raccomandando alla sua donna di non aprire a nessuno, se venivano, e rispondere che la padrona non era in casa.
Pareva che il cuore le parlasse, e come udì il campanello esclamò senz'altro:
- Eccoli!
La donna dal buco della serratura rispondeva che la padrona era uscita, e come Cesare, sorpreso dall'incredibile avvenimento, tornava a insistere, supponeva un equivoco, domandava se sarebbe stata molto a tornare, ella suggerì:
- Di' che sono in letto ammalata.
Di' che ho la terzana!
I due amanti volsero le spalle senza aggiungere altro, e sotto la porta si consultarono sul partito da prendere.
Mezzanotte suonava lì vicino.
Uno spiraglio di luce penetrava dall'uscio di un panattiere che dava nel cortile, e si udiva l'abburattare del frullone.
Un cane chiuso nel magazzino della legna si mise ad abbaiare.
Cesare, senza dir nulla, abbracciò stretta la ragazza.
Ella si svincolò dolcemente.
Non si vedeva che la sua forma indistinta nell'oscurità, tutta vestita di nero, col velo sul viso.
Poi disse: - Usciamo di qua.
- Dove andremo?
- Non lo so.
La strada era deserta e sonora pel primo freddo d'autunno, fiancheggiata a lunghi intervalli da fanali a gas che mettevano una striscia luminosa nelle vie laterali.
Nelle facciate oscure delle case si apriva di tratto in tratto qualche finestra illuminata, silenziosa.
Da lontano si udiva ancora il rumore delle carrozze nelle vie più frequentate.
Elena taceva; quando passavano sotto un fanale, si vedeva la punta dei suoi stivalini sotto il lembo della veste che teneva raccolta e un po' sollevata da un lato colla mano destra.
Cesare con voce esitante, le chiese:
- Mi ami sempre?
Ella gli strinse il braccio silenziosamente.
Due questurini passarono rasente il muro, colle mani nelle tasche del cappotto.
Il giovane scoraggiato, a secco di risorse, balbettò:
- Andiamo a casa mia?
- No! diss'ella risolutamente.
Egli la guardava in silenzio, timidamente, quasi per chiederle se fosse già pentita.
Elena, come gli leggesse negli occhi, riprese:
- T'amo sempre! Tornerei a fare quello che ho fatto per essere tua!
Egli voleva prenderle la testa fra le mani, con un bacio casto da fratello.
Ma Elena lo respinse, mettendogli le mani sul petto, senz'aprir bocca.
Solo di tratto in tratto gli si stringeva al braccio, camminandogli allato.
Cesare non sapeva dove la conducesse, con una gran confusione nella mente, e il cuore che gli martellava.
Elena teneva il mento sul petto.
Tutto a un tratto si trovarono in via del Duomo.
Cesare chiese infine:
- Dove andiamo?
- Da tuo zio don Luigi.
Il giovane si fermò su due piedi.
Elena soggiunse:
- Lo so, tuo zio mi è ostile, ma non mi lascerà in mezzo alla strada.
Vedrai.
Cesare voleva obbiettare che suo zio era severo ed inflessibile, e che egli non andava più a fargli visita dacché aveva ricevuto una certa ramanzina a proposito della sua assiduità in casa dell'Elena.
- Tanto meglio! ribatté costei.
Vuol dire che sa tutto! Una volta o l'altra bisognava pure far la pace con tuo zio, che è ricco.
Vedrai che ti perdonerà.
Sulla via larga e buia luccicavano una miriade di stelle, nel cielo profondo e freddo.
Elena le fece osservare all'amante, posandogli la testa sull'omero, col bel viso bianco rivolto verso il cielo.
Cesare picchiò risolutamente.
Lo zio Luigi non teneva domestici, dicendo che eran nemici salariati, e venne ad aprire in persona, tutto rabbuffato, pallido di freddo e di ansietà per quella visita notturna, cercando dieci minuti colla chiave prima di trovare il buco della toppa.
Egli rimase attonito davanti al gruppo che gli si presentò appena aperto l'uscio.
Elena gli si buttò ai piedi, piangendo, chiamandolo caro zio.
Lo zio non ebbe bisogno di chiedere altro.
Egli andava cercando dove posare il lume, tanto era turbato.
Infine si sfogò contro di Cesare, dandogli dello scapestrato, dicendogli che era la rovina della famiglia, che sarebbe stato causa della morte di sua madre, che pensava a maritarsi senza sapere ancora né leggere né scrivere, e senza avere pane da mangiare.
- Per conto suo, padrone! Il poco che aveva bastava appena a lui e a sua moglie! - Elena col bel viso in lagrime, gli teneva le mani, scongiurandolo di non lasciarla in mezzo alla strada.
Infine lo zio sentì piegarsi le gambe strette fra le braccia di quella bella ragazza, riabbottonò sulla camicia scomposta il vecchio paletò che gli serviva da veste da camera, e finì col borbottare:
- Quanto a voi, restate pur qui, se volete, giacché avete fatto la frittata.
Non posso lasciarvi in mezzo alla strada! Mia moglie vi preparerà un letto alla meglio.
Ma avete fatto una rovina! Cosa credete di aver preso? un terno al lotto, o il figlio di Vittorio Emanuele?
Cesare non osava levare il capo.
- Tu vai a dormire in piazza! gli gridò lo zio.
Va a riposarti oramai della gloriosa impresa! Hai fatto una bella cosa!
E come lo spingeva fuori peggio di un cane, Elena sull'uscio prese la mano di Cesare, e gli disse:
- Ora son tua, sta tranquillo!
E per la prima volta lo baciò in fronte.
Cesare si allontanò passo passo, stretto nelle spalle, colle mani in tasca; e per la prima volta ebbe un'idea chiara di quel che aveva fatto, come un fitta al cuore, un misto d'angoscia, di tenerezza e di sgomento.
La sera innanzi, Elena, cogliendo l'istante in cui il babbo si bisticciava colla mamma, e Roberto guardava in silenzio le mani di Camilla, gli aveva piantato in faccia uno sguardo singolare, balbettando:
- Ho paura!
Era bianca come cera in quel momento; teneva chino il capo, su cui posavansi mollemente le folte trecce, e in quell'atteggiamento metteva a nudo un collo da statua, una nuca superba, piantata di capelli fini e folti, che si stendevano molto basso, e si arricciavano leggermente.
Successe un lungo silenzio.
Infine, mentre Roberto e Camilla scambiavano per caso qualche parola con voce discreta, Elena prese la mano di Cesare sotto il tappeto del tavolino, e gli disse:
- La mamma sa tutto!
Il giovane allibì.
Pure egli l'aveva quasi indovinato alle labbra strette di donn'Anna, ad un che d'imbarazzato che pesava sui frequenti silenzii quella sera, ai monosillabi straordinari di Roberto, il quale tentava di rianimare la conversazione, alle occhiate lunghe che Camilla posava sulla sorella, senza aprir bocca, lasciando cadere mollemente le mani sui ginocchi.
La partita finiva in quel momento, clamorosamente, al solito.
Donn'Anna, suo marito e Camilla parlavano tutti insieme.
Lo stesso Roberto s'era lasciato andare a prender parte alla discussione animata con dei cenni del capo.
Cesare domandò sottovoce.
- Come faremo?
- Io non lo so, rispose Elena.
Aiutami tu!
Era la prima volta che gli dava del tu, siffattamente era turbata.
La conversazione cadde ad un tratto.
Don Liborio aveva segnato la partita sul registro apposito, scrupolosamente.
Quindi posò il berretto ricamato sulla tavola, accanto alla tabacchiera, tirò una presa, e si appoggiò alla spalliera della seggiola, con un grosso sospiro, per riposarsi.
Donn'Anna riponeva le carte e i lupini che servivano a segnare i punti nella solita scatola di cartone.
L'innamorato taceva, guardando Elena, la quale teneva il mento sul seno, su cui luccicava ad intervalli una crocetta di vetro nero fra la trina della scollatura.
Ella aveva un vestitino bianco che le andava come un guanto, un po' aperto a cuore sul petto, e colle maniche sino al gomito.
Gli occhi di lui passavano allora dalla figliuola alla mamma, la quale se ne stava quella sera colle labbra strette e le ciglia aggrottate, e non gli aveva detto una parola.
Ella sgridava perfino l'Elena che non s'era affrettata a levarle di mano la scatola di cartone per andarla a riporre nello stipo, e le domandava dove avesse la testa quella sera!
Don Liborio caricava l'orologio diligentemente, fermandosi ad ogni giro per non guastar la macchina.
Allora Cesare disse sottovoce all'Elena, accanto al pianoforte:
- Volete che mi allontani?
Ella gli rivolse uno sguardo lungo lungo, e rispose:
- Potresti farlo?
- Se tu vuoi...
Se tua madre...
- No! rispose Elena.
- No! ripeté poco dopo, fingendo di cercare fra le carte di musica.
- Non potrei più stare senza vederti.
- Cosa faremo?
- Quello che tu vuoi; - rispose la ragazza semplicemente.
Egli si sentì penetrare e sconvolgere da quelle parole dettegli con un soffio di voce, mentre Elena evitava gli occhi di lui, gli voltava quasi le spalle.
Ma la tentazione che quelle parole gli mettevano nel cervello lo spaventava.
Elena vedendo che non rispondeva altro, ripeté:
- Quello che vuoi.
Tutto quello che vuoi!
Cesare si fece rosso.
Cercava far intendere che i suoi parenti non avrebbero acconsentito a dargli moglie, finché non ci avesse uno stato, ed anche i parenti di lei avrebbero risposto di no.
- Allora?
Ei taceva.
Elena ripeté: - Allora?
Egli non sapeva che dire.
Sentiva fisso su di lui quegli occhi penetranti.
- Fuggire?...
balbettò.
Elena si recò le mani al petto, bianca come statua, e non rispose.
Egli non fiatava, atterrito dalla parola che gli era sfuggita.
Elena lo guardò in faccia un lungo momento, e chinò il capo lentamente.
Il cugino si alzò per aiutare Camilla a riporre in ordine gli aghi ed i gomitoli nel cassettino del telaio.
Donn'Anna era scomparsa.
In quel mentre Elena china sul pianoforte scriveva due parole sulla fascia di un giornale, e com'ebbe finito disse forte:
- Sentite, se domani non potete venire, mandatemi questa romanza.
Nella strada, al lume di un lampione, Cesare seppe che romanza gli chiedeva l'Elena.
«Domani sera, alle undici, dopo che sarà partito Roberto.
Aspettami nella scala».
Come gli aveva promesso, dopo una mezz'ora che stava aspettando, al buio, comprimendo colle mani il batticuore, la vide arrivare in punta di piedi, col viso così pallido e affilato che sembrava tagliare il velo.
Aveva le mani fredde, ma non tremava.
Gli disse con voce breve e sorda:
- Andiamo!
Egli voleva abbracciarla, ma la giovinetta stornò il viso dai baci che ei non osava darle, e soggiunse collo stesso tono:
- No, non ancora.
Il primo bacio doveva darglielo lei per la prima, sulla porta dello zio Luigi, dicendogli che ormai era sua.
III
Il padre di Cesare di Altavilla era morto di una perniciosa acchiappata nel sorvegliare la magra raccolta dell'annata.
Nel delirio dell'ultimo momento, guardando ad uno ad uno i visi che gli stavano attorno al letto stralunati, borbottava:
- Quei poveri orfani!..
Quei poveri orfani!...
come faranno?
Cesare era ancora fanciullo.
Per fortuna un fratello del padre, canonico, aveva assunto coraggiosamente la tutela della vedova e degli orfani, aveva rimboccata la sottana sugli stivali, e s'era messo in campagna a comporre litigi, a rinnovare ipoteche, a sorvegliare i raccolti.
Il primogenito d'accordo era stato destinato alla carriera forense, perché la famigliuola, in lotta perennemente col bisogno, aveva sempre avuto paura dell'usciere, e in provincia sembra un mestiere d'oro quello di vender chiacchiere.
In casa Dorello c'era l'esempio dello zio don Anselmo, il quale al seminario aveva appeso a un chiodo di faccia allo scrittoio un berretto da prete, per averlo sempre sotto gli occhi a guisa di un faro, ed era arrivato ad essere canonico.
Cesare doveva continuare la tradizione dello zio.
Vedendolo delicato e malaticcio da fanciullo, i parenti avevano conchiuso che era un ragazzo di talento, e l'avevano tirato su a rossi d'uova e pannicelli caldi.
Egli era stato il chierico della famiglia, il fondamento di tutti i castelli in aria che avevano fabbricato i genitori, quando si mettevano sul terrazzino, al fresco, dopo il sole dei campi, colle mani pendenti fra le ginocchia, tagliando col desiderio delle grosse porzioni pei bisogni della famiglia numerosa in tutto quel ben di Dio che si stendeva dinanzi ai loro occhi, al di là delle ultime case del paesello.
Lo zio canonico, ogni volta che sua cognata si metteva a letto coi dolori del parto borbottava, soffiando e passeggiando nella stanza accanto, che in quella casa non c'era prudenza.
Egli aveva preso quindi a ben volere Cesare per quel fisico intristito che gli sembrava una garanzia contro i rischi del matrimonio, e gli prometteva che il nipote dovesse riuscire un uomo prudente, come l'intendeva lui.
Il giovanetto aveva ricevuto un'educazione quasi claustrale.
Ogni giorno estate o inverno andava a prendere lo zio canonico in chiesa, dopo i vespri, e se pioveva entravano dallo speziale a veder sgocciolare l'acqua lungo i vetri, lo zio colla sottana raccolta fra le gambe, scambiando qualche parola col farmacista o con altri della conversazione che stavano a ragionare colle mani sul pomo del bastone.
Quand'era bel tempo facevano insieme quattro passi fuori del paese, lemme lemme, scambiando dei saluti coi conoscenti che s'incontravano, e si conoscevano tutti, oziando cogli occhi sulle gran macchie grigiastre degli oliveti, le quali si velavano già della tristezza del tramonto, ascoltando distrattamente il cicaleccio che facevano le donne alla fontana, e le voci che salivano dalle stradicciuole; discorrevano di quei campi che conoscevano palmo a palmo, s'interessavano alla loro cultura; misuravano a occhio il maggese della giornata che spiccava in bruno sulle stoppie giallastre; osservavano la chiusa preparata per le fave, punteggiata in nero dai mucchietti d'ingrasso; commentavano la vigna spampanata di fresco, irta e spugnosa in mezzo agli altri filari verdeggianti.
Poi, giunti al limite solito della loro passeggiata, che era un muricciuolo soprastante un orto, lo zio spolverava col fazzoletto due sassi, e si mettevano a sedere, coi gomiti sui ginocchi, riposando gli sguardi sulla bella vallata che si stendeva ai loro piedi, scolorita, sparsa di ciuffetti di verde cupo, accanto ai rari casamenti, chiazzata di toni bruni, e biondicci, e verde pallido, solcata dalla striscia sottile dello stradone che si dileguava in lontananza.
Accompagnavano macchinalmente col pensiero i carri che sfilavano come punti neri, e mettevano delle ore a scomparire laggiù per la grande distanza; e alle volte, nel vasto silenzio della pianura sottoposta, credevano di udire il fischio della ferrovia, di là delle colline, come l'eco di un altro mondo.
Allora il prete rientrava in sé, e sorrideva discretamente della loro fantasticheria come di una scappatella.
Il sole intanto tramontava dietro le montagne nebbiose, e in alto, sulle loro teste, le finestre della chiesa scintillavano in cima al paese come una fantastica illuminazione, e chiamavano a raccolta i loro pensieri.
Poi ritornavano indietro passo passo, colle mani dietro la schiena, accompagnandosi ai contadini che tornavano in paese spingendo innanzi l'asino o la mula carichi, mentre tutte le campane suonavano l'avemaria, nel paesetto aggruppato come un branco di pecore, sotto il cielo smorto.
Lo zio canonico tornava dallo speziale dove convenivano immancabilmente il notaio, il vicepretore e qualchedun altro, sempre le medesime persone, a far crocchio, e raccontare i loro affari, o discorrere di quel che nella giornata avevano osservato degli affari altrui sulla faccia dei poderi, nella passeggiata vespertina.
Cesare aveva il permesso di stare ad ascoltare anche lui sino ad un'ora di notte.
Al primo tocco di campana augurava la buona sera alla compagnia, e andava a casa, dove le sorelle stavano sul terrazzino, al buio, chiacchierando colle vicine dalla strada.
Pigliava il lume e saliva nella sua cameretta per mettersi a studiare.
Più tardi si sentiva l'acciottolio delle stoviglie, gli altri rumori delle faccenduole domestiche alle quali attendevano le donne.
E ogni sera, alla stess'ora, si vedeva il solito lume alla finestra dei vicini dirimpetto che si mettevano a cenare.
L'influenza di siffatta adolescenza in quel temperamento delicato aveva sviluppata una sensibilità inquieta, una delicatezza di sentimenti affinati dalle abitudini contemplative, della stessa severa disciplina ecclesiastica che li rendeva timidi, raccolti, e meditabondi.
Don Anselmo non aveva guardato a sacrificii perché il nipote fosse avvocato.
La rivoluzione del '60 aveva gettato il discredito sulla professione del prete, e lo zio canonico anzitutto era un contadino pieno di buon senso, che prendeva le cose com'erano nel loro tempo e dal lato migliore.
Ora il migliore dei mestieri gli sembrava fosse quello dell'uomo di legge, una specie di prete senza sottana che confessa in casa, e si fa pagar caro i casi di coscienza delicati, che va a passeggio spalla a spalla col sindaco e col pretore, al dopo pranzo, scappellato da tutti, salutato col grosso titolo ch'empie la bocca: - avvocato!
Per siffatto castello in aria la mamma s'era visto partire il figliuolo per l'università di Napoli, a piedi, dietro il carro che gli portava il letto e il tavolino colle gambe in aria, e le sorelle si erano cavati gli occhi a cucirgli il corredo quasi ei fosse andato a nozze.
A Napoli Cesare era andato ad abitare un quartierino da 35 lire e 75 al mese, insieme a quattro compagni, ciò che ripartiva le rate di fitto in ragione di sette lire e tanti centesimi a testa, e le frazioni davano origine a dispute senza fine, ogni qualvolta si facevano i conti, all'ora del desinare, col pane sotto il braccio, per timore che un compagno ci addentasse distrattamente.
Nella corte della stessa casa, di faccia al quartierino degli studenti, erano le finestre della signorina Elena, e quei diverbi clamorosi facevano correre al terrazzino tutta la famiglia del vicecancelliere, le signorine col sorriso impertinente, il babbo col berretto di velluto in testa, la serva collo strofinaccio in mano; e alle volte perfino la mamma affacciava fra le tende giallastre il viso scialbo e discreto.
La famiglia dirimpetto aveva una grande importanza agli occhi di studenti alloggiati in ragione di sette lire e pochi centesimi a testa, e che si rubavano il pane.
Le signorine avevano ricevuta un'educazione quasi fossero destinate a sposare dei principi.
Si udivano parlare inglese e francese sul terrazzino, suonavano il piano come non dovessero far altro tutta la vita, e di tanto in tanto mettevano alla finestra per asciugare dei dipinti che sembravano meravigliosi da lontano.
Contuttociò la sorella maggiore aveva già 32 anni, e la signorina Elena, la quale leggeva dei romanzi, quando non suonava il pianoforte, guardava con certi occhi, allorché era per la strada o sul terrazzino, come se aspettasse il personaggio romanzesco che doveva offrirle la mano, il cuore, e una carrozza a quattro cavalli.
Ogni volta che le signore uscivano di casa tutte in fronzoli, i giovani studenti, nascosti dietro le invetriate, si mangiavano cogli occhi lo stivalino sdegnoso della signorina Elena che attraversava la corte fangosa in punta di piedi e colle gonnelle in mano.
Cesare, mentre i camerati esprimevano la loro ammirazione un po' volgarmente, da contadini che aspiravano a prendersi la loro parte nella ricca messe della vita, era il solo che si tenesse contegnoso e riserbato, come uno avvezzo dalla educazione ecclesiastica a rispettare le gerarchie.
Da ragazzo era sempre vissuto in mezzo a quella miseria decente che stende una tinta grigia su tutti gli atti della vita, e li regola con un calcolo implacabile, che dà un'enorme importanza alla ricchezza pel penoso e continuo contrasto fra l'essere e il parere.
Egli sapeva quel che ci vuole a portare il don nel paesetto, il cappello a cilindro alla domenica, i guanti per andare a messa le sorelle; quel che cos
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