IL MARITO DI ELENA, di Giovanni Verga - pagina 15
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Sua moglie fingeva anch'essa di non accorgersi del pallore di lui, della sua agitazione; non gli diceva nulla di quel che accadeva nella sua assenza.
Si dava sempre da fare nelle altre stanze per non esser costretta a rimanere faccia a faccia con lui.
Una volta sola, uscì in questa osservazione:
- Quando non ci sei, è una cosa da impazzire con quello scampanellio continuo all'uscio!
Un mattino vennero dei facchini a prendere il pianoforte.
Il marito che non sapeva nulla, escì al rumore dallo studio per informarsi cosa fosse.
- Ho venduto il pianoforte, rispose Elena secco secco.
Egli arrossì, e non aprì più bocca sinché i facchini portarono via lo strumento prediletto di Elena.
Poi, come l'uscio fu rinchiuso, prendendo il suo coraggio a due mani, balbettò:
- Perché hai venduto il pianoforte?
- Era necessario.
- Lo so, dico perché non hai venduto qualche altra cosa?
- Il pianoforte era mio...
Intendo che non serviva più a nulla.
Non suono più.
Lagrime amare comparvero negli occhi di lui, che non osava alzare il capo.
Elena seguitò a spingere alcune poltrone nel posto lasciato vuoto dal pianoforte.
Poi lo schianto di quel dolore timido e peritoso le toccò il cuore.
Si accostò a lui intenerita, e l'abbracciò senza dir motto.
Egli guardandola negli occhi parve volesse dirle qualcosa di decisivo.
Ma era così commosso che non trovava parola.
Solo di tanto in tanto le stringeva le mani senza aprir bocca.
- Come ti ho reso infelice! mormorò alfine.
- Tu? rispose Elena, stringendosi nelle spalle.
Che idea? Tu hai fatto quel che potevi.
Ma egli aspettava qualche altra parola, avrebbe voluto che Elena indovinasse qual dolore, quale umiliazione fosse stata per lui vederla nascondere e dissimulare le sue sofferenze.
Gli sembrava che ella lo respingesse, e in certi momenti si spalancasse fra di loro un gran vuoto.
- Senti, Elena! le disse timidamente, se potessi morire, per levarti da questo stato, lo farei.
Elena non ebbe un sol lampo di carità negli occhi, quel lampo che forse suo marito aspettava trepidante.
Soffriva troppo da qualche tempo anche lei.
- No! tu non ci hai colpa, no! gli diceva.
- Son io che non ho fortuna; non ne ho mai avuta, mai! da bambina, da giovanetta tante belle promesse, tante parole...
ecco il risultato! Se l'avessi saputo...
- Elena! balbettò il marito.
Ella lo guardò un istante: - Che idea! Sei matto? No, non dico questo...
- Se morissi, mormorò Cesare tristamente, tu saresti libera.
- Belle cose che mi dici! Bel conforto che mi dai! Adesso specialmente...
Se l'avessi saputo non avrei voluto mettere delle altre creature infelici al mondo, ecco!...
Tu non sapevi quest'altra cosa...
Il marito impallidì al sentirsi annunziare in tal modo quell'avvenimento che è una festa per ogni madre, e per un po' rimase soprapensieri.
- Che brutta accoglienza trova questa povera creaturina! mormorò infine.
Elena non rispose.
Però anch'essa si lasciava vincere a poco a poco, senza coraggio per rinunziare ai sogni della sua giovinezza, senza forza per cercare un conforto e una distrazione nella maternità, avvilita dal rovescio, con degli impeti di rivolta comechesia contro il destino, dei rancori sordi contro tutto ciò che contribuisse alla sua sorte, come della frenesia, un bisogno di rappresaglia, cedendo grado a grado a delle aspirazioni insensate di cercarsi da sé quello che la sorte le negava, di fuggire dalla realtà in qualsiasi modo.
Allora la tentazione che stava in agguato, che le ronzava d'attorno, nel cervello, nel sangue, dinanzi agli occhi, la colse, se non pel cuore, per la mente guasta e fuorviata, nello spirito inquieto e bramoso.
Là, sul canto del Piliero, mentre andava dalla mamma per fuggire le angustie della casa - e si fermò su due piedi al veder Cataldi, impallidendo a un tratto quasi fosse già colpevole.
E le lusinghe di lui, e le parole scellerate, l'accento caldo, gli sguardi che accendevano il sangue:
- No! no! no! - ripeteva ad intervalli, sempre con voce più fioca, sempre colla fronte più bassa.
Infine...
Adesso esciva tutti i giorni.
Si vestiva in fretta, modestamente, di nero, sgattaiolava lesta per le scale, e correva dalla mamma, al passeggio, pur di non stare in casa.
La serva si presentava al padrone tranquillamente, colla sporta al braccio, perché gli desse il denaro per le provviste.
C'erano dei momenti in cui al poveretto sembrava di perdere completamente la testa nel cercare di combinare la spesa colle poche lire che gli restavano.
Doveva ricorrere a degli espedienti, far dei calcoli mentali, inventar dei pretesti, perché la serva che gli piantava gli occhi in faccia, con un sorrisetto ironico sulle labbra sottili, colle braccia pendenti come a significargli che si seccava ad attendere, non indovinasse il suo imbarazzo, il suo rossore.
Alle volte la serva posava la sporta per terra, si metteva le manacce sotto il grembiale sudicio, per fargli capire che era stanca di quella storia ogni santo giorno, e borbottava che cotesto avrebbe dovuto essere affare della signora, che gli uomini non se ne intendono, che in tutte le case dov'era stata, non aveva mai visto una cosa simile.
Egli doveva mandarla via colle buone, senza rimproverarla, e dopo che se n'era andata brontolando e strascinando le ciabatte per gli scalini di marmo, venti volte si era piegato sulla ringhiera, come attratto dal vuoto che si sprofondava sotto di lui per tre piani.
Ormai nessun'altra risorsa.
Quei due o tre procuratori che gli avevano procurato del lavoro di seconda mano gli facevano rispondere che non erano in casa.
O se non potevano evitarlo per le scale gli spiattellavano sul viso: - Mio caro, voi siete una macchina.
Comprendiamo i vostri bisogni, ma non possiamo rinunziare al lavoro utile per darlo a voi.
Ei sarebbe morto dieci volte di fame, piuttosto che andare a domandare del denaro in prestito, se non fosse stato per l'Elena.
L'unico a cui credeva di potersi rivolgere era il cugino Roberto.
Ma gli ripugnava l'idea che Elena avesse potuto saperlo.
Piuttosto, spinto dalla necessità si risolvette a tornare dallo zio Luigi, il quale gli aveva chiuso l'uscio sul naso dopo il suo matrimonio, prevedendo quello che doveva succedere coll'istinto dell'avaro.
Ma il bisogno stringeva talmente alla gola il povero giovane, gli metteva tal disperazione nell'anima e negli occhi, che lo zio Luigi stesso non poté parare interamente la stoccata.
Egli sfogò la bile che gli recava la domanda facendogli un lungo sermone, rimproverandogli la sua follia, rinfacciandogli che glielo aveva predetto.
Il poveretto, seduto di faccia allo scrittoio, inerte, col dorso abbandonato sulla spalliera della seggiola, si lasciava dir tutto, confessava tutto, conveniva che si meritava tutto.
Egli aveva bisogno di duecento lire, tutto era lì.
Ne aveva bisogno come il pane da mangiare.
Egli era venuto per chiederne in prestito cinquecento.
Ma il cuore gli era venuto meno dinanzi alla faccia dello zio.
- Duecento lire! esclamò lo zio Luigi rizzandosi sul seggiolone, come se gli avessero dato una coltellata.
- No! non posso.
Facciamo a metà.
Cento li perdi tu, e cento io.
Il disgraziato tornò a casa con cento lire in tasca come se ci avesse un tesoro.
E sinché durarono si chiuse nello studiolo, senza dar retta al suocero il quale gli suggeriva temi importantissimi di legislazione.
All'Elena, che tornava inquieta all'ora del desinare, si mostrava più calmo, e alle volte sembrava che fosse spinto a farle una confidenza, la guardava con effusione di tenerezza, le diceva:
- Se mi riesce quel che ho in mente di fare, le nostre angustie avranno fine.
Ma quando terminarono anche quelle poche lire, il poveretto non ebbe più testa di lavorare, né d'altro.
Ricominciarono le angoscie di ogni giorno.
Infine, colla disperazione nel cuore tornò dallo zio, balbettando che gli prestasse ancora cento lire, cinquanta anche...
quel che voleva.
Non avevano più un soldo in casa, non avevano da comprare il pane, fra una settimana...
a qualunque costo...
gli avrebbe restituite le cento lire...
Oppure...
oppure...
- Ma sì - gli rispose questa volta lo zio pacificamente.
Figurati! Le ho messe qua apposta.
Ti darò quelle stesse cento lire che dovevi restituirmi il mese scorso.
Se le hai restituite devono esser lì.
- E gli apriva il cassetto della scrivania.
- Non c'è nulla.
Che vuoi farci? Vuol dire che non me le hai restituite.
Quando me le porterai, le metterò là.
Talché se ne avrai bisogno un'altra volta, saprai dove trovarle.
Il povero Cesare grado grado s'era adattato anche alla vergogna di chieder del denaro in prestito al cugino dell'Elena.
Andò a trovarlo nell'ora in cui sapeva che doveva essere in casa, finito il servizio dell'ufficio.
Infatti lo trovò in pantofole, scamiciato, che spazzolava dei panni, distesi su di una cordicella, e li ripiegava accuratamente, imbottendo di giornali vecchi le maniche dei vestiti perché non prendessero delle pieghe.
- Se non si ha questa cura, uno ha sempre l'aspetto di essere vestito come un ciabattino, gli diceva per scusarsi di essersi fatto trovare in quell'arnese, pregandolo di mettersi a sedere sul canapè duro come una panchetta, domandandogli a qual motivo doveva ascrivere la fortuna...
Come Cesare gli spiegò il motivo arrossendo, Roberto non batté ciglio.
Per sì poca cosa che non valeva la pena, immaginarsi! fra amici come loro, poteva quasi dire parenti! Era che il suo sarto la mattina stessa gli aveva portato via una grossa somma.
Tutto ciò che aveva sottomano in quel momento.
Mio caro Dorello, non potete immaginare quel che si spende, per poco che uno non voglia andar vestito come un ciabattino.
Già voi lo sapete.
Come si chiama il vostro sarto? vedo che vi serve bene.
Un po' passata quella moda del bavero di velluto, ma è ben fatto.
Tutto l'abito sta nel bavero.
È una disperazione come cangian le mode.
Certi colori vistosi poi se li portate una stagione vi strillano addosso l'anno dopo.
E sempre spendere! Al giorno d'oggi prender moglie diventava una cosa impossibile.
Ora usavano i calzoni larghissimi.
Tutti quelli dell'anno passato erano inservibili.
Cesare, colla febbre nel cervello, dovette subirsi la discussione ragionata dell'ultimo figurino, e dichiarare se preferiva le camicie col colletto ritto oppure rovesciato.
Roberto spinse l'amabilità sino a fargli passare in rassegna i suoi vestiti, le camicie ricamate, le scarpe messe in fila sotto il cassettone.
Il poveretto disperato ricorse alla sua mamma, e scrisse una lettera in cui si sentivano delle lagrime vere.
Due giorni dopo gli giunse un vaglia telegrafico di duecento venti lire.
Pallido di gioia e di commozione corse a dire all'Elena:
- Mia madre mi ha mandato del denaro!
Egli non sospettò nemmeno quel che fosse costato, e quel che dovesse ancora costare alle povere donne quel vaglia mandato a fare di nascosto, coi denari ricavati da una vendita di sommacco insaccato di notte nel magazzino.
Nel mercato del paesetto quella vendita clandestina gettò lo scompiglio, alterò i prezzi della derrata.
Si venne a conoscere che erano state fatte delle vendite fuori della piazza, e l'ufficiale telegrafico andò a raccontare al caffè e alla spezieria il grosso vaglia che gli avevano fatto fare.
Lo zio canonico senza dire una parola tornò subito a casa, giallo come una candela, e si fece consegnare le chiavi da Susanna alla quale erano affidate da tempo immemorabile.
La ragazza allibita, corse a dire alla mamma:
- Lo zio ha scoperto ogni cosa!
La madre si mise a letto la sera stessa colla febbre, e nel delirio farneticava che il cognato li scacciava tutti di casa, e le sue orfanelle andavano a vendere del sommacco per le strade.
Cesare, ignaro di tutto ciò, ripeteva all'Elena, per farsi coraggio:
- Se mi riesce quello che ho in mente, finiranno le nostre angustie.
Elena ormai sembrava che si fosse rassegnata a quello stato, o che le fosse divenuto indifferente.
Dapprima mal dissimulava il cattivo umore che le arrecava il vedersi continuamente il marito in casa.
Ripeteva le osservazioni di sua madre che a quel modo avrebbe fatto la muffa.
Tradiva dei momenti di esasperazione in cui la sua testa era altrove, cogli occhi fissi ed astratti, il viso un po' pallido e le labbra serrate.
Usciva spesso, in fretta, a capo chino, e quando suo marito le domandava dove fosse stata, una fiamma appena repressa passava attraverso il suo pallore trasparente.
Egli invece aveva rinunziato all'avvocatura, al ministero, alle splendide aspirazioni del suocero.
S'era rassegnato a scendere di un grado nella gerarchia forense, e s'era fatto iscrivere qual procuratore legale.
Finalmente capitò un affar grasso, che ebbe buon esito, e se ne tirò dietro degli altri.
Cesare respirò.
Andava a sollevarsi dal lavoro pesante presso di Elena, prendendole le mani coll'effusione timida di un fanciullo.
Ella, pallida come uno spettro, si lasciava abbracciare.
Don Liborio, quando seppe la cosa, cominciò a strillare che il genero aveva fatto una corbelleria, si era tagliata l'erba sotto i piedi, aveva voltate le spalle ad una strada larga e nobile, per sgambettare tutta la vita in un sentieruzzo angusto e senza uscita, e non voleva sentire le ragioni del genero sbigottito dal rabuffo.
- Babbo, rispose pacatamente Elena, coteste son belle cose quando si è ricchi, o almeno quando si può aspettare il portafoglio di ministro.
- E chi v'impediva di aspettare? esclamò don Liborio incalorito.
Che fretta avevate? Non siete abbastanza giovani tutti e due?
- No, babbo! Non avevamo tutti i giorni dei pianoforti da vendere.
- Avete venduto il pianoforte? rispose il babbo sorpreso di non veder più lo strumento che mancava da un mese in quel salotto dove egli veniva ogni giorno.
E se ne andò borbottando, perché non sapeva più che dire, né come spiegare la sua collera.
X
Cesare era tornato a casa ad ora insolita, e fu sorpreso di non trovare sua moglie.
- Che so io dov'è! rispondeva la serva.
Io non mi immischio dei padroni.
So che è uscita.
Egli prese le carte che era venuto a cercare e stava per andarsene quando entrò l'Elena, livida, colle labbra smorte, e gli occhi luccicanti di febbre sotto il velo.
All'incontrarsi col marito in anticamera diede un passo indietro bruscamente, al primo momento.
Poi cercò di passar oltre, senza guardarlo, senza parlargli.
- Elena! balbettò Cesare stupefatto.
- Che c'è? disse lei con voce irritata, fermandosi di botto.
Cosa vuoi?
- Dimmi cos'hai? cos'è stato? Non ti senti bene?
- No.
Non è nulla, sta tranquillo.
- Dimmi cos'hai?
- Nulla ti dico.
Lasciami andare, lasciami, sto benissimo.
Cesare non sapeva che fare.
La serva ascoltava a bocca aperta dall'uscio della cucina, lo spingeva fuori sgarbatamente, ripetendogli:
- Lasciatela stare, lasciatela stare.
So io quel che essa ha.
Voi non ve ne intendete.
Voi gli fate più male che bene colla vostra vista.
Son cose di donne.
Lei sola poteva acchetarla, toccandola colle manaccie unte, poteva mormorarle di tanto in tanto all'orecchio qualche parola a voce bassa, mentre il marito dietro l'uscio udiva piangere sua moglie cheta cheta.
Sul tardi arrivò donn'Anna e tutta la famiglia, tanto che la serva chiuse l'uscio perché non empissero la camera.
Camilla poté sgusciare accanto alla sorella, tenendole un braccio al collo, parlandole nell'orecchio, senza guardarla, e l'Elena accennava di sì, col capo basso, asciugandosi gli occhi.
Roberto si era messo a sedere discretamente accanto a Cesare, don Liborio andava su e giù pel salotto, col cappello in testa, e donn'Anna ripeteva al genero:
- È mal di nervi; so cos'è.
Quand'ero incinta di Camilla l'ho avuto anch'io tal'e quale.
Una notte svegliai don Liborio perché aveva voglia di mangiare dei mattoni pesti.
Sciocchezze.
Tutt'a un tratto si aprì l'uscio della camera, e comparve Elena, seguita dalla sorella, molto abbattuta, cogli occhi gonfi, strascinandosi a fatica.
- Non vuol darmi retta, biascicò Camilla.
- Dice che ha bisogno di respirare sul balcone.
Elena si appoggiò alla ringhiera del terrazzino, guardando il mare, col mento fra le mani.
La sera scendeva calma e serena e si udiva fin là il fischio dei vapori che partivano.
Spirava una brezzolina fresca, ed Elena rispondeva ostinatamente alla sorella che la supplicava all'orecchio scuotendo il capo risolutamente, e ripeteva con voce sorda:
- No! no! lasciatemi stare! lasciatemi stare!
Infine si voltò inasprita, cogli occhi scintillanti di collera, la voce rauca:
- Lasciatemi, vi dico! Lasciatemi sola! Che paura avete?...
Perché non mi lasciate sola?...
Ma, scorgendo suo marito non disse più nulla, e si appoggiò un'altra volta alla ringhiera col mento sulle palme.
Due colonne di fumo nerastro si svolgevano attraverso gli alberi fitti del porto che frastagliavano di linee nere e sottili l'opale del tramonto.
Poi cominciarono a scorrere lentamente lungo il muraglione del molo, e girarono la punta del faro, sbuffando più densi, accompagnati da un fischio prolungato e lontano.
Due grandi piroscafi uscirono insieme fuori del molo, e s'avanzarono nel mare che imbruniva, come una sola gran massa nera bucata di punti luminosi lungo il bordo, con un rumore sordo di ale possenti che battevano l'onde.
Poi gradatamente si separarono, l'uno parve rimpicciolire virando di bordo, dileguandosi verso il capo Campanella, e l'altro seguitò ad avanzarsi a diritta, gettandovi il riflesso ancora incerto del suo fanale rosso.
Elena, com'era sopravvenuta la sera, domandò a Roberto che l'era vicino, dietro alla Camilla:
- Qual'è dei due che parte per Genova?
La sua voce era talmente mutata che Roberto non si raccapezzò subito.
Cesare rispose per lui:
- Questo qui, a destra.
Elena trasalì all'udir la voce del marito, e tirò dentro pel braccio la Camilla, collo sguardo smarrito, stringendola così forte che anche la sorella spalancava gli occhi dal dolore.
Andò a sedersi nella sua camera, al buio, e non volle vedere più alcuno.
- Non è nulla! ripeteva donn'Anna chiudendo il balcone.
Non vi spaventate.
Quand'ero nello stato in cui è lei adesso, facevo anche peggio.
Nei giorni seguenti Elena andò calmandosi a poco a poco.
Il medico confermò il giudizio di donn'Anna, raccomandò il riposo, una vita calma, delle distrazioni quanto si poteva, ed un moto regolare.
Elena ebbe una gestazione travagliatissima.
Il caldo eccessivo della stagione aveva contribuito ad abbattere le sue forze.
In poco più di un mese ella era divenuta irriconoscibile, colle guance scarne, gli occhi stanchi e profondamente solcati, qualcosa di cascante in tutta la sua persona.
Ella si alzava tardi, passava delle giornate intiere sdraiata sul canapè, senza aprir bocca.
Non si occupava più di nulla, non s'interessava a nulla.
S'annoiava di tutto, s'irritava alla più lieve contrarietà.
Diceva che oramai si era fatta vecchia.
Non si guardava più nello specchio, si lasciava pettinare come volevano, indossava la sera una specie di accappatoio lungo, si buttava uno scialle indosso, e andava a fare una passeggiata a lenti passi, appoggiandosi svogliatamente al braccio del marito, spesso senza dire venti parole in tutta la sera, senza fare attenzione alle amorevoli sollecitudini di lui, il quale sentiva il cuore stretto da quella vaga indifferenza che li separava a poco a poco, che si insinuava in mezzo a loro due allorché stavano a sedere al buio, su qualche banco remoto della Villa, senza aver più nulla da dirsi, interessandosi piuttosto alla gente che passava, correndo l'uno lontano dall'altro col pensiero, uniti soltanto dalle preoccupazioni comuni e dalle piccole noie.
Quando andavano dalla mamma, Elena si metteva al balcone l'intera sera, guardando nella strada, facendosi vento col ventaglio, mentre Camilla agucchiava e Roberto stava a vedere.
Poi come don Liborio andava a rimontare la pendola, tornavano a casa, passo passo, a braccetto, in silenzio, per quelle stesse strade che avevano fatto col cuore in tumulto nel trovarsi insieme la prima volta.
E i conoscenti che li incontravano a caso non ravvisavano più in quella matrona larga e lenta l'Elena di un tempo, modellata leggiadramente dal vestito, ancora un po' rigida, ma diggià serpentina ed elegante, coi grandi occhi curiosi sotto il cappellino modesto.
Ella non era perversa no! si credeva sinceramente disgraziata, faceva il possibile per riannodare il passato, sorrideva dolcemente allorché suo marito le prendeva le mani come una volta, senza osare di parlare.
Egli la guardava sempre in quegli occhi stanchi con una gran tenerezza, e la baciava a lungo, a lungo, quasi avesse voluto dirle cose che non sapeva spiegare egli stesso in quel bacio.
Tanto che alle volte Elena, staccandosi da lui, gli fissava in volto uno sguardo strano, come sorpreso gradevolmente di quell'amore che durava sempre, e domandava:
- Davvero? mi ami ancora lo stesso? sempre come prima?
Oh! se ella l'avesse incoraggiato!...
Se ella non gli avesse agghiacciato le parole in cuore con quella fredda incredulità!...
È che egli non osava, al vedere quello sguardo strano, al contatto di tutta quell'aria di indifferenza che ella non dissimulava neppure.
Egli l'amava come prima, più di prima, perché ella era la parte migliore di se stesso, la sua gioia, il pensiero di tutti i giorni, lo scopo del suo lavoro, la dolcezza della sua casa, l'essere intimo e caro in cui si incarnavano tutte le sue speranze, le sue gioie, i suoi sogni, per cui aveva sofferto, e nel cui sorriso era la sua felicità.
Allora si abbandonava all'espansione dei suoi sentimenti, tornava ad accarezzarla colle parole e colle mani tremanti, a stringerla forte, quasi avesse temuto che le fuggisse, e coprirla di baci deliranti sulle mani, sulle labbra, sul collo, sugli occhi, sui capelli.
Dapprincipio si animava anche lei a quella foga d'affetto, dimenticava ogni altra cosa, dibattendosi sotto quelle carezze, chinando il capo con piccoli gridi selvaggi; chiudeva gli occhi, sorridendo, coi cappelli allentati; si abbandonava.
Poi tornava in sé, abbuiavasi, aggrottava le ciglia, gli posava le mani sul petto, si irrigidiva.
Gli diceva:
- No! no! lasciami, non siamo più ragazzi...
Che pazzie!...
Ora sono un'altra...
sono un'altra...
Pensava alla sua giovinezza miseramente sfiorata? alla sua bellezza distrutta? ai sogni che si erano dileguati? alla maternità che l'aspettava come un sacrifizio? E di tutti questi pensieri nasceva e ingigantiva un rancore indistinto, un umor tetro che scolorava ogni cosa ai suoi occhi.
Il marito, colla divinazione penetrante di chi ama davvero, si sentiva avvolto in quel rancore, in quell'umor nero anch'esso, gli pareva di essere allontanato e respinto, quasi gli pesasse addosso la responsabilità di quei sogni di ragazza che s'erano involati.
Tutto ciò metteva un gran vuoto in quelle stanzine ristrette, un freddo che agghiacciava il cuore di lui, e gli faceva cercare il lavoro come uno svago, come qualcosa in cui c'era ancora il pensiero di Elena senza che si vedesse il suo pallore, il suo sorriso glaciale, il suo occhio distratto.
Il poveretto si faceva in quattro per procurarle qualche soddisfazione col suo lavoro.
Passava le notti a scrivere per portarle un regaluccio modesto, un cappellino nuovo, un braccialetto, un ventaglio, aspettando ansioso un sorriso di lei, un gesto, un cenno del capo, una parola.
Colle ossa rotte dalla fatica, dal salire e scendere scale di procuratori e di avvocati, le offriva di accompagnarla al passeggio, in teatro, magari in società, ora che avevano fatto pelle nuova, e cominciavano a respirare.
Ella non voleva, faceva la vittima ingenuamente, si creava delle tristezze solitarie da romanzo, provava una voluttà amara a far l'Arianna, la caduta, la disillusa, strascinando la sua noia da una stanza all'altra, agucchiando svogliatamente a dei capi di corredo piccini come se dovessero servire per la bambola, e le sembrava in tal modo di sorvegliare minutamente ogni cosa, tale e quale come donn'Anna.
Costei, di tanto in tanto veniva anche lei a dare una mano, a consigliare su quel che doveva farsi, a sgridare la serva, la quale allungava il muso a tutte quelle novità, e strascinava le ciabatte per la casa, brontolando, guardando cogli occhi torvi ogni pannolino che le davano da stirare, sbattendo la granata contro gli usci nello spazzare, sfogandosi a picchiare i mobili collo spolveraccio; e si calmava soltanto se rompeva qualche cosa, restava lì a guardarla e a girarvi attorno, alle sgridate di Elena rispondeva che non l'aveva fatto apposta, non sapeva far meglio, se non erano contenti se ne andava - posava lo spolveraccio sulla prima suppellettile che capitava, grattandosi i gomiti aguzzi: - Tanto per quel che si buscava adesso!...
Solo donn'Anna bastava a rintuzzare la petulanza di quella donnaccia, la quale appena la vedeva arrivare andava a rintanarsi quatta quatta in cucina, colla granata sotto il braccio.
La mamma rimbrottava alla figliuola: - Come puoi tollerare gli sgarbi di colei? Non vedi che ti ruba sulla spesa? -Rivedeva il conto in presenza della serva, la quale rispondeva ad ogni osservazione: - Io non so altro che ho speso tanto, sono i prezzi soliti.
C'è anche qui la padrona che può dirlo.
- E guardava l'Elena, la quale chinava il capo.
Donn'Anna pretendeva che il genero ci pensasse lui alla spesa, la mattina, prima di andare all'ufficio, così faceva don Liborio.
E Cesare allora per mettere la pace in famiglia, prometteva che sarebbe andato.
La serva tornava in cucina sogghignando, rivolgendogli delle parolacce dietro le spalle.
- Vorrei vedere cosa farai con una disutilaccia di quella fatta ora che giungerà il marmocchio! Tu non ci reggerai, così delicata come sei.
Ti sei vista allo specchio? Dovete pensare a procurarvi una buona balia, di quelle del contado, che son sane e lavorano per quattro.
Roberto che è nei trovatelli te la cercherà.
Elena non sapeva risolversi a congedare la serva; ma dall'altro canto, l'idea di essere costretta ad allattare lei il bambino, la spaventava.
Malgrado il suo orgoglio, si ridusse a parlarne bonariamente colla donna, quasi a domandarle consiglio, a metterla a parte del suo imbarazzo.
- Non è nulla! Vuol dire che faccio i quindici giorni e poi me ne vado.
Tanto in questa casa passo per ladra.
Adesso che il padrone va fuori per la spesa, appena arriva la balia non avrete più bisogno di me.
Già mi toccherebbe fare la serva alla balia, se il padrone non può tenere altre persone di servizio.
E la serva alla balia non la farei, no! Questo mettetevelo in testa.
Invano Elena cercava di essere indulgente verso di lei, di trattarla meglio che poteva, regalandole dei vestiti smessi, uno scialle quasi nuovo.
La serva compiva i suoi quindici giorni come se nulla fosse stato, era sempre colla granata e collo spolveraccio in mano, affettava di andare a prendere gli ordini dal padrone ad ogni minima cosa, giacché il padrone scendeva perfino ad andare al mercato.
Quando arrivava il ragazzo colla spesa cacciava le mani nel paniere, brandiva i pesci o il fascio degli spaghetti, si informava cosa li avessero pagati, ficcava il naso dentro le branchie dei merluzzi, o sul grasso della carne, e fingeva di essere stomacata, borbottava: - È roba di otto giorni, capisco adesso perché costa meno.
Valeva la pena di andare un galantuomo col cilindro e la canna d'india per risparmiare cinque soldi su della roba che non vuol nessuno! - Se le vivande erano bruciate, o malcotte, rispondeva: - La spesa non la faccio io.
Questa è la roba che ha comprato il padrone.
- E alle volte poi rifiutava la parte che le toccava, mettendo il piatto sotto la tavola perché se ne accorgessero; fingeva che lo stomaco le si rivoltasse, e si metteva a parlare col gatto.
- Non credere che sia incinta anch'io...
Se facessi come tante altre sarei rimasta a balia nella casa! - E quando non c'era Elena soggiungeva: -Ragazze o maritate, so io quello che fanno.
E le padrone anche! Se dicessi tutto quello che ho visto in questo mondo! Molte di quelle signore che portano la veste di seta non son degne di leccarmi queste ciabatte qui! - E si toccava le ciabatte e le baciava, sotto il naso del padrone, per far intendere che quelle almeno erano onorate.
L'aveva specialmente col padrone, buono soltanto per andare a fare le provviste, che non poteva mantenere alla moglie la balia senza toglierle la cameriera.
Quando uno è disperato come lui non si marita, o deve lasciar mantenere la moglie dagli altri, e non fare il superbo.
Ella andava a domandargli se bisognava lasciare il fuoco acceso per l'acqua calda o se dovesse mondare l'insalata pel giorno appresso, giusto allorché lo vedeva più occupato.
Si metteva a scopare nel corridoio, si accaniva contro l'uscio dello studiolo, non la finiva di strofinare ogni spigolo col grembiule sudicio, cercava ogni mezzo di tormentare il pover'uomo, gli metteva sottosopra le carte e i libri col pretesto di spolverare, gli rovesciava il calamaio sulla scrivania, tutto coll'aria calma di fare il suo dovere, gongolando dentro di sé al vedere che lui stava per perdere la pazienza, e si agitava nervosamente sulla seggiola, lo stuzzicava col suo cicaleccio da zanzara: - Ella non ne aveva colpa se sceglieva giusto quel momento.
Non poteva farsi in quattro per badare al tempo stesso in cucina e nella casa.
A lei toccava di fare da cuoco e da stalliere.
La padrona faceva il diavolo per un granello di polvere, come se tenesse quattro persone di servizio.
Adesso che non esciva più, e non aveva più da fare fuori di casa, andava a cercare i granelli di polvere.
Il padrone aveva un bel supplicare che lo lasciasse tranquillo, che andasse dalla padrona, per sentire se bisognava mondare la lattuga o lasciare acceso il fuoco.
L'indomani lei tornava da capo, diceva che non poteva andare da Erode a Pilato, si ostinava a fargli contare le fette di carne prima di andarle a friggere, lo strutto che era avanzato dalla padella, il prezzemolo che era andata a comprare, perché non la tenessero in conto di ladra, all'onor suo ella ci teneva più di qualchedun'altra; rovesciava le saccocce e contava gli spiccioli sullo scrittoio del padrone - Povera.
ma onorata!
XI
- Ah! in questa casa!...
Non si finisce più dal salire e scendere le scale! È durato cent'anni questo mese! Andare per i pomidoro sino al mercato, e per due soldi di lattuga fin laggiù, a casa del diavolo! Ora anche le lettere che non son giuste di peso, e bisogna riportarle indietro.
Ecco qua! Fortuna che ci ho pensato prima di lasciarla andare nella buca! Un'altra volta, quando scrivete lettere così grosse, pesatele bene prima di metterci il francobollo, o mettetecene due addirittura.
Se la lettera arrivava colla multa si giurava che mi ero messi in tasca i soldi, e passavo per ladra.
Questo no! Povera, ma onorata! Ecco qua.
Cesare impallidì.
La lettera messa in fascio coi pomidoro e le lattughe, era di Elena, diretta a Cataldi, in America.
- Va bene, disse.
Lasciatela qui.
La metterò io alla posta.
La donna indugiava a strascicar le ciabatte per la stanza, lentamente, col grugno composto ad una certa maligna compiacenza nel porre in ordine le seggiole, e gli oggetti minuti sopra i mobili.
Cesare, colla voce tremante di collera, tornò a dire:
- Andatevene, vi ho detto! Andatevene!
Non c'era dubbio.
Era il carattere d'Elena che scriveva a Cataldi, a Montevideo, Cesare si slanciò per correre dalla moglie, poi si arrestò prima di aprire l'uscio dello stanzino, pensando alla serva, che ronzava pel corridoio.
Tornò allo scrittoio colla testa fra le mani, senza poter trovare in quel tumulto d'affetti il più semplice pretesto per mandar fuori la serva, sforzandosi di pensare ad altro per calmarsi.
Ma lì, seduto davanti alla scrivania, gli pareva d'impazzire.
L'idea prima, sola, implacabile, era che la serva indugiasse apposta.
Fece due o tre giri per la stanza in punta di piedi, perché ella non udisse, stringendosi forte il petto colle due braccia.
Poi andò a chiudere le tende, si asciugò colla manica il sudore della fronte, stette alquanto in ascolto, col cuore che gli batteva, e chiamò.
La donna comparve subito, fissandogli in viso gli occhi rotondi, collo spolveraccio sotto l'ascella, e rimase attonita, come il padrone le ordinava di andare a fare una piccola commissione fuori casa.
- Subito? Non era meglio aspettare che avesse finito di spolverare? Ella aveva anche la pentola sul fuoco, pel brodo della signora.
Non poteva far tutto nello stesso tempo.
- Va bene, spicciatevi, rispose lui.
Andò a chiudere l'uscio che la donna avea lasciato aperto, aspettando febbrilmente che ella avesse finito.
La udiva, coll'orecchio alla serratura, andare e venire lentamente, battendo colpi fiacchi collo spolveraccio.
Di tanto in tanto l'uscio della cucina cigolava.
Il suo pensiero correva da Elena alla serva, con una dolorosa rapidità, con un va e vieni di pendolo che gli martellava il cervello e lo faceva trasalire d'impazienza.
Ad un tratto cotesto pensiero si arrestò sull'Elena, all'istante in cui sarebbe comparso dinanzi a lei colla lettera in mano.
Allora si rassegnò immediatamente ad aspettare; voleva avere il tempo di calmarsi, e di sapere quel che andava a dirle.
Quel che andava a dirle? Che cosa? Che ella amava un altro, Cataldi? che ella glielo scriveva, in quella lettera lì, sotto i suoi occhi? E se non glielo scriveva? Se gli imponeva invece di lasciarla tranquilla e onorata, di non disturbare la sua pace?...
Ma come, se egli era lontano? Egli le aveva scritto dunque? In qual modo? La serva doveva saperlo.
Essa che assaporava ipocritamente le sue angoscie, che gli dissimulava male il suo disprezzo...
E quando? Dove erano queste lettere? Egli pensò ad Elena, tentando di indovinare il motivo del cambiamento, passando in rassegna giorno per giorno tutti i suoi atti e tutte le sue parole di cui poteva rammentarsi.
Tutto a un tratto gli si rizzò dinanzi agli occhi il ricordo di un giorno in cui l'aveva incontrata sull'uscio, pallida, colla colpa ancora negli occhi.
E rimase fulminato.
Una sera ella si era sentita male, sul balcone, all'imbrunire, mentre un piroscafo partiva per l'America.
Vedeva ancora il fanale rosso che guardava fisso dal mare, e lei che sbatteva i denti dal dolore.
Anch'essa aveva sofferto, quella volta, come lui adesso; chissà? forse dippiù.
Ella aveva visto partire per sempre l'uomo che amava sopra ogni altro, e aveva dovuto soffocare la sua disperazione sotto gli occhi del marito.
- Un momento stette pensando a quel marito, lì presente a quella scena, quasi si trattasse di un altro.
- Poi Elena a poco a poco si era calmata, era giunta a parlargli amorevolmente, a lasciarsi baciare da lui.
Egli stesso, quando si sarebbe calmato quell'atroce spasimo, avrebbe ceduto anche lui? le avrebbe rivolto ancora delle parole affettuose? avrebbe cercato le carezze di lei?...
- E quelle carezze gli si inchiodavano ferocemente nel pensiero! Non per lui, per un altro che vedeva ronzare attorno alla sua casa, quando egli correva scoraggiato a caccia di risorse.
E l'Elena che evitava i suoi sguardi, che diveniva sempre più indifferente, che tornava a casa pallida, colle labbra secche, cogli occhi ancora pieni di visioni!...
Dov'era stata? Sì, dove andava ogni volta che usciva di casa in fretta, col velo sul viso? Ella non glielo avrebbe confessato giammai! Quella lettera forse l'avrebbe detto.
Perché non l'apriva? Perché non cercava di sapere? E se Elena era innocente tuttavia? E se quella lettera non fosse là? Se egli l'avesse ignorata?...
Se egli avesse potuto immaginarsi che Elena non aveva scritta quella lettera? Quando egli fosse stato certo del contrario, cosa le avrebbe detto? Cosa avrebbe fatto? Cosa sarebbe accaduto in quella casa, in quella camera dal letto bianco, in quello stanzino dove aveva pensato tanto a lei? E quella creatura che stava per nascere?...
Quella creatura...
quando sarebbe nata? Da quanto tempo Elena non era più sua? Sino a qual punto s'era data ad altri? Avea dato soltanto il cuore? la testa? Ella aveva avuto sempre una testolina leggiera, ma il cuore buono.
Se ella non fosse colpevole d'altro che di una leggerezza! Ah! come era terribile quella lettera immobile sulla scrivania, con quel nome scritto dalla mano elegante e tranquilla di Elena! Se ella potesse dire che Elena non era colpevole d'altro che di una leggerezza!...
Allora si mise a piangere, coi pugni sugli occhi, come un bambino, soffocando i singhiozzi col fazzoletto perché la serva era ancora là, si udiva spolverare e strascicar le ciabatte per la casa.
Ella indugiava ad arte, stava a spiarlo.
A quell'idea un impeto di collera l'assalse, andò in traccia di una mazza per correre a bastonarla, si aggirava muto e furibondo per lo stanzino.
Ma tornò a sedersi, colle mani nei capelli, gli occhi ardenti e fissi, i denti stretti.
- Bisogna essere calmi! balbettava.
- Bisogna esser calmi! - Si asciugò gli occhi ed il viso.
Stette alquanto immobile, poi tornò a mettere il capo nel corridoio, a domandarle se potesse escire finalmente.
- Bisogna schiumare il brodo per la padrona - rispondeva la donna dalla cucina.
- La padrona non si sente bene.
Non posso lasciarla sola.
- Ah! mugolava il disgraziato mordendosi i pugni, come una bestia feroce.
- Mi par d'impazzire! mi par d'impazzire! Cosa le ho fatto a questa infame donna? Perché mi tormenta così? Come gode del mio supplizio! Ella sa tutto, ella potrebbe dirmi tutto quello che vorrei sapere a costo della vita...
Ella andrà a dirlo alla fruttivendola e al calzolaio qui sotto appena lascerà questa casa, ma non a me! Andrà a ridere con loro delle mie smanie.
Bisogna fingere per costei che non riescirò ad illudere.
Bisognerebbe mostrarmi al vicinato insieme all'Elena, uniti come prima!...
Come prima!...
I suoi occhi caddero nuovamente sulla lettera implacabile.
Se quella lettera potesse smentire in parte i suoi sospetti! Una lettera! cos'è infine? Delle parole.
- Vi amo.
- Che cos'era quella fredda parola in confronto di ciò che l'Elena aveva sentito per lui, in quella stessa casa, uniti per tutta la vita, senza un pensiero che non fosse comune? Che cos'era l'amore di lei per quell'uomo se lo poteva dissimulare? Che cos'era questa passione di un mese o due, nascosta, vergognosa, in cambio di quella che ella aveva concesso a lui, per sempre, intera, alla luce del sole? Come amava quell'uomo che lasciava partire? ella che aveva abbandonato casa e genitori per darsi a lui, per darglisi vergine, per affidargli non solo il suo cuore, ma anche la sua esistenza? E pensava al dolore che avevano dovuto provare i genitori quand'egli l'aveva rapita.
Anch'essi s'erano calmati col tempo, le avevano perdonato, s'erano rappaciati con lui.
Ora non ci pensavano più.
E pensava se un giorno anche egli avrebbe obliato il dolore acuto che gli straziava il cuore in quel momento.
Se sarebbe tornato ad accompagnare l'Elena in via Foria dandole il braccio, sentendola appoggiarsi a lui.
Allora gli mancava la forza di andare ad affrontare su due piedi il terribile enigma.
In quel momento istesso ella era lì accanto nella sua camera, la vedeva sdraiata sulla poltrona, colla sua aria abitualmente stanca ed infastidita, che si mutava in un'inquietudine vaga all'entrare di lui, in un pallore minaccioso.
E se egli sospettava a torto? S'ella fosse innocente? Se quella lettera lo provasse? Ella non gli avrebbe perdonato giammai! giammai? Tutto sarebbe finito fra di loro, da un momento all'altro, per sempre! O se invece era colpevole non avrebbe negato risolutamente? Non avrebbe sconfessata la lettera? e quando egli si fosse spinto a mettergliela dinanzi agli occhi, a mortificarla coll'evidenza, tutto non sarebbe egualmente finito fra di loro? A lei non sarebbe rimasto in fondo al cuore la spina di quel torto che aveva dovuto farsi perdonare da lui? Ella si sarebbe acconciata a riconquistare, poco a poco, l'affetto di suo marito che l'amava sempre? Sì, l'amava il disgraziato! Avrebbe voluto ignorare ancora tutto come due ore innanzi! Vivere come prima, a costo di essere ingannato! Almeno dubitare ancora, non aver la certezza che tutta la sua felicità gli era crollata addosso.
Egli ritardava col pensiero il momento di quella prova terribile, come il malato che a rischio della vita supplica il chirurgo di sospendere per un giorno l'operazione che deve subire.
Si persuase che era meglio di aspettare che la serva fosse uscita.
Giunse a temere che ella non si affacciasse all'uscio, colla sporta al braccio per dirgli: - vado! - Ebbe paura all'idea di rimaner solo colla moglie.
Uscì pian piano di casa, con quel martello in testa, quella punta acuta in cuore, camminando rasente al muro per non esser visto dal calzolaio o dalla fruttivendola.
Andò a sedersi su quel banco solitario della Villa, a piangere di nuovo, lungamente, nel fazzoletto.
Gli toccava nascondere le lagrime, perché ognuno avrebbe riso del suo dolore.
Chi ne avrebbe avuto compassione? chi ci avrebbe creduto? chi avrebbe creduto che egli potesse amare adesso più che mai sua moglie, e piangere non di collera, ma di angoscia? Egli rifece le strade per le quali soleva passare coll'Elena, andò a guardare da lontano la sua casetta ancora tranquilla, bianca di sole, nella quale nulla sembrava cambiato.
Le finestre stavano aperte come al solito, e il sole vi rideva sopra.
Infine si risolvette a rincasare.
Era già l'ora del desinare.
Elena doveva aspettarlo.
Cosa avrebbe risposto se ella domandava il motivo del suo ritardo? Cosa avrebbe fatto se l'avesse guardato in faccia? Dalla cucina veniva un buon odore appetitoso.
La tavola era imbandita.
Elena l'aspettava infatti leggicchiando; gli disse soltanto che trovava la minestra fredda.
Il marito si mise a mangiare avidamente, cogli occhi sul piatto, fingendo di avere una gran fame, cercando di prolungare il pranzo per ritardare l'ora in cui la serva avrebbe sparecchiato e li avrebbe lasciati soli faccia a faccia, coi gomiti sulla tavola.
Elena era tranquilla come al solito.
Di tanto in tanto suo marito trasaliva all'udire la sua voce calma, incontrandone a caso gli sguardi sereni.
Sentiva per istinto che la dissimulazione che si era imposto sin allora gli toglieva gran parte della sua forza, diminuiva la sua parte di diritto, lo avvinceva a poco a poco alla rassegnazione.
Se Elena sapeva che la sua lettera era in mano di lui fin dalla mattina, come dirle che aveva aspettato tanto tempo con quella ferita nel cuore? come parlare della sua collera e della sua gelosia, che aveva saputo far tacere quando dovevano essere più vive? La serva sparecchiava, gli levava i tondi di sotto le mani, e il tovagliuolo dalle ginocchia, che egli era ancora a tagliuzzare le buccie delle pesche.
Elena era andata sul balcone.
Di lì a un istante rientrò annunziando che arrivavano donn'Anna e la Camilla.
Cesare mise un respiro lungo.
La sera passò triste, malgrado il cicaleccio imperturbabile di donn'Anna, la calma serena di Camilla, lo scricchiolio delle scarpe del cugino, le divagazioni assurde di don Liborio il quale venne a riprendere la famiglia sul tardi.
Si sentiva vagamente una preoccupazione comune, un'inquietudine indefinibile che li impacciava gli uni di faccia agli altri, e li costringeva a stare insieme.
Cesare pensava: - Quando saremo soli...
- e allontanava col desiderio quel momento.
Si sentiva agghiacciare il cuore ogni volta che la conversazione accennava a languire.
Finalmente tutta la famiglia si alzò e stettero un gran quarto d'ora a mettersi i cappelli e a darsi la buona notte in anticamera.
La serva andò a far lume sulle scale.
Cesare disse fra di sé: - Lasciamo andare a letto la serva.
Essa tornò colla bugia in mano, chiuse l'uscio, andava e veniva sonnacchiosa per le stanze, mettendo in ordine ogni cosa per la notte.
Quando si ritirò finalmente nel suo camerino Elena era già a letto.
Cesare aspettò ancora qualche tempo dietro l'uscio che tutti i rumori della casa tacessero.
Gli pareva in quel momento che stesse cercando le parole colle quali doveva incominciare, spiegare il motivo per cui s'era taciuto sino a quell'ora; tutte le angoscie che aveva sofferto dal mattino, tutte le gioie che gli si erano mutate in dolore gli tornavano vive alla memoria, ad una ad una, là davanti a quello stesso uscio, in quella stessa camera dove Elena aveva abbandonata la testolina bruna sull'omero di lui.
Egli pianse lungamente, amaramente, colla fronte sullo stipite, con un tremito di tutta la persona, soffocando i singhiozzi perché Elena non udisse.
Ella non doveva udire, non poteva nemmeno piangere dinanzi a lei, sfogare sui suoi ginocchi l'immensa sua angoscia.
Era il marito che non è più amato, di cui le lagrime sono ridicole.
Quando si sentì gli occhi secchi sulle guance asciutte, dischiuse dolcemente l'uscio.
Elena dormiva col respiro leggiero da bambina, colla testa bruna posata sul braccio candido, coi suoi folti capelli neri che facevano una grande ombra sul guanciale.
Il poveretto sospirò un'altra volta dal profondo delle viscere, con un senso di angoscioso sollievo.
Domani! Bisognava aspettare a domani.
Domani sarebbe stato più calmo e più chiaroveggente.
Giacché aveva aspettato sino allora, poteva aspettare ancora sino al domani, e farle comprendere che agiva senza precipitazione e dopo matura riflessione.
Una notte passa presto.
Però che notte! in quello studiolo! colla testa fra le mani! Quanti pensieri, quanti ricordi, quante visioni, quanti sogni!
Se Elena venisse a cercarlo inquieta di non averlo sentito andare a letto nella camera accanto? Se ella aprisse l'uscio dello studiolo? Se ella avesse indovinato tutto, e venisse a dirgli: - Guarda, sono innocente? - Oppure - Ti amo ancora, ti ho sempre amato.
Perdonami! - Perdonami?...
Che alba scolorita e triste imbiancava i vetri del balcone! Un altro giorno che incominciava! Un altro giorno come il giorno passato! collo stesso dolore, colla medesima irresolutezza, senza il conforto terribile di poter dire: -È finito! tutto è finito! Quando avrebbe potuto dire che era finito? Mai! mai! Anche se avesse avuto il coraggio di affrontare quella scena terribile coll'Elena, tutto non sarebbe finito! Anche se ella fosse fuggita via, anche se l'avesse scacciata di casa, tutto non sarebbe finito! anche se ella gli avesse detto: - Sì, è vero; non ti amo più! -Ella viveva ancora, quella che gli faceva trasalire le viscere col suono della voce, che gli scendeva nell'animo collo sguardo; quella che aveva i capelli folti e neri, le braccia bianche, le sopracciglia folte, quella pozzetta sulle guancie quando sorrideva, quel viso, quella mano che aveva infilato nel suo braccio tremante, la sera in cui l'aveva guardato con quegli occhi luminosi, che gli aveva presa la fronte fra le mani per baciarlo, che aveva passeggiato con lui sotto gli aranci della Rosamarina, che sino all'altro giorno appoggiava la fronte pallida al balcone e lo guardava, che recava nelle viscere una parte di lui.
- Ah! s'ella fosse morta, s'egli l'avesse vista la sera innanzi per l'ultima volta colla gran macchia dei capelli neri sul guanciale, cogli occhi chiusi! s'egli le avesse incrociato le mani sul petto per sempre, lui solo! e avesse potuto baciarla in fronte colla certezza che mai in quella fronte non c'era stato posto per altri baci, mai un pensiero che per lui non fosse! Il sole entrava dal balcone, gaio, sereno, nello stanzino bianco e arioso.
Rivide i bei giorni di miseria ivi passati, l'alba che lo sorprendeva nel fare delle copie per gli avvocati, e l'Elena che dormiva lì presso senza saperne nulla.
Aprì il balcone che dava sul mare luccicante.
Qualche viaggiatore arrivava dalla Immacolatella carico di sacche da viaggio; alcuni cocchieri provavano dei cavalli; delle barchette svoltavano lente lente la lanterna del molo, laggiù, dove il mare s'increspava e bolliva in spuma d'oro e d'argento.
Dappertutto saliva un'aria di calma e di serenità che gli stringeva il cuore e a poco a poco l'attirava, l'addormentava, l'istupidiva.
Erano appena le sei; Elena dormiva ancora, anzi non si soleva levare prima delle nove.
Ci volevano ancora tre ore.
Cesare sentì il bisogno di escire a prendere una boccata d'aria, e far quattro passi.
Quando ritornò, Elena aveva già fatto apparecchiare la colazione nella sua camera, perché non si sentiva bene.
Ella era pallida, sembrava stanca, si strascinava lentamente coi capelli ancora disfatti su di una lunga veste di camera slacciata.
Senza che egli glielo avesse chiesto gli disse:
- Sono indisposta, ma non è nulla.
Un po' di stanchezza.
Ho dormito poco in questi giorni...
Bisogna aspettarselo.
Non mangiò quasi a colazione, sembrava che a tavola ci stesse per far compagnia al marito.
Dopo sparecchiato si sdraiò sulla poltrona, rifinita, e lui non osò lasciarla sola mentre la donna si affaccendava ancora per la camera.
Entrambi cercavano gli argomenti per scambiare qualche parola breve e fredda.
Così trascorsero parecchi giorni.
Col tempo il primo impeto di dolore disperato che sembrava collera andava mutandosi in una tristezza desolata e taciturna.
Un giorno verso sera, arrivò donn'Anna, tutta scalmanata, collo scialle giù per la schiena, facendosi accompagnare stavolta da Roberto.
Nella notte Elena diede alla luce una bambina.
Il marito che aveva atteso nella stanza accanto, trasalendo dall'intimo delle viscere ad ogni lamento soffocato che si udiva, allorché aprirono l'uscio si sentì balzare il cuore alla gola in un sol palpito.
Egli si accostò al letto di sua moglie, sgomento, con un gran tumulto di pensieri e di affetti in cuore.
Elena, abbattuta, col viso bianco, pareva non ci avesse più una sola goccia di sangue nelle vene.
Come la chiamavano con voce carezzevole ella voltò il capo dall'altra parte, con quell'espressione di disgusto, di dispetto infantile che hanno certi ammalati, senza aprire gli occhi.
Le sole parole che disse furono:
- Lasciatemi stare! Lasciatemi stare!
La bambina l'avevano messa da parte, come un mucchio di biancheria.
La madre in silenzio, aveva interrogato la levatrice con uno sguardo ansioso e febbrile, ma al sentirsi rispondere la magra consolazione: «Una bella bambina», aveva richiuso gli occhi con quella stessa aria di noia, di stanchezza e di fastidio.
Don Liborio era corso a prendere la Camilla.
Donn'Anna affaccendata s'era impadronita della bambina, la portava in trionfo, tornava a posarla sul guanciale accanto all'Elena per fargliela vedere.
Questa finalmente aprì gli occhi a stento, e le rivolse uno sguardo stanco.
- Sarà bella come un amore! esclamò la nonna.
Elena rispose con un movimento delle spalle che fece smuovere le coperte, e mormorò, rinchiudendo gli occhi:
- A che giova?...
Il povero marito ne fu mortificato, quasi quelle parole fossero rivolte a lui.
Egli non osava fiatare e si sentiva estraneo in mezzo a tutta quella gente che riempiva la sua casa, donn'Anna, il suocero, Camilla, Roberto, si lasciava scacciare a poco a poco fuori della camera, dalla suocera, dalla levatrice, dalla serva che si affaccendavano intorno al letto di Elena.
Andò ad attendere nel salotto, insieme al suocero che chiacchierava con Roberto sul canapè.
Di tanto in tanto Camilla veniva a dire qualche parola al cugino sotto voce, e tutti e due scomparivano nel terrazzino; e il babbo aspettava sbadigliando, colle mani sul bastone.
L'alba cominciava ad imbiancare nella piazza.
Infine donn'Anna venne col cappello in testa ad annunziare che Elena stava riposando.
Roberto diede il braccio a Camilla, e tutti se ne andarono.
Rimase solo colla moglie, la quale aveva le mani e il viso bianchi come la tela su cui posavano, assopita in un sonno penoso che di tanto in tanto la faceva riscuotere con un gemito soffocato, senza aprire gli occhi.
Il medico non si era mostrato del tutto tranquillo, ed era tornato due volte nella giornata.
Cesare solo spiava ansiosamente il volto e le parole di lui.
Donn'Anna, Camilla, tutta la famiglia, andavano e venivano senza sospettare di nulla, empivano di frastuono e di via vai tutta la casa.
Elena aveva un moto doloroso della fisonomia per esprimere il male che le arrecavano i più lievi rumori, un voltar la testa pallida dall'altra parte, una contrazione delle sopracciglia sulle palpebre chiuse, uno stringer di labbra.
Soltanto allorché il marito si chinava sul letto per dirle sottovoce di bere una tazza di brodo o di prendere una medicina, apriva gli occhi, lo guardava con una specie di meraviglia, lo seguiva collo sguardo mentre egli andava e veniva per la stanza in punta di piedi, con rara sollecitudine, delicata e femminea.
Allorquando si svegliava di soprassalto dal suo corto sonnecchiare, lo vedeva sempre là, sulla poltroncina ai piedi del letto, che si alzava pian piano, e si accostava per domandarle all'orecchio come si sentisse.
Molte volte, in quelle tristi veglie al lume della lampada notturna che lasciava il letto nell'ombra, dinanzi a quella forma indistinta di cui non si udiva neppure un soffio, di cui spiccavano solo i capelli bruni, e le ombre vaghe del viso, Cesare fu assalito da un pauroso presentimento da un terrore superstizioso che gli agghiacciava il sangue nelle vene al pensare che in un momento di disperato dolore egli aveva invocata la morte, la morte per sé o per lei, non sapeva per chi.
Allora tutta la sua collera, tutta la sua angoscia si fondeva in un'altra angoscia sorda e molle, in una tenerezza cieca e disperata che gli avrebbe fatto afferrare piangendo quelle mani lunghe e bianche posate sulle lenzuola, se non avesse temuto di destarla.
Ella, quando si sentiva un po' meglio, lo guardava con quegli occhi pieni di febbre, troppo sfinita per poter parlare, o come se non avesse osato farlo, quasi volesse domandargli perdono del male che gli aveva fatto, con certa serenità carezzevole di bestia malefica, inconscia ed irresponsabile, con un sorriso melanconico, stendendogli le mani pallide.
In quei momenti ei le leggeva sino in fondo all'anima, attraverso quegli occhi limpidi, e pensava che ella gli aveva dilaniato il cuore senza sospettare di fargli male, al pari del fanciullo che tortura un uccelletto.
S'egli avesse avuto l'ispirazione di parlarle in questo senso Elena forse avrebbe pianto con lui.
Ora, pensava lui, era tardi.
Ora bisogna distruggere e dimenticare persino quella lettera fatale, e ricominciare un'altra vita di intimità e d'affetto per riconquistare quel cuore a furia d'abnegazione e di sacrifici, col dimostrarle che le si abbandonava tutto intero, fiducioso e dimentico di quel ch'era stato.
Un mattino in cui il medico aveva detto finalmente che non c'era più bisogno di lui, e l'Elena appoggiata a un monte di guanciali sorrideva del suo sorriso pallido, in mezzo a tutti i suoi parenti, ei domandò:
- Vuoi vedere la Barbara?
- Che Barbara?
- Nostra figlia.
- Vuoi chiamarla Barbara? Ah, è vero.
È il nome di tua madre.
Ma non è bello; del resto fa come vuoi.
La mamma, che aveva i suoi pregiudizii a questo riguardo, e sapeva che se c'è due dello stesso nome nella famiglia il più vecchio se ne va per cedere il posto, conchiuse:
- Bisogna trovare un bel nome per la piccina; un nome di buon augurio: Fortunata, per esempio!
- Aurelia! suggerì Camilla.
- Barbara! sentenziò don Liborio.
Il primo nato deve portare un nome dei genitori del marito, il secondo quello dei genitori della moglie, e così di seguito per tutta la parentela.
- Grazie tante! esclamò Elena alzando la voce per la prima volta.
- Quanto a me mi fermo alla Barbara!
XII
Nel salottino color d'oro, alla luce tranquilla della lampada, Elena, inginocchiata sul tappeto, si trastullava colla sua bambina come fosse ridivenuta bambina anch'essa.
La spogliava per rivestirla a modo suo, si divertiva a vederla agitare le gambucce e a baciarle i piedini color di rosa, sembrava invasa da impeti di frenesia al sentirla galloriare, quasi la Barberina prendesse parte alla festa, colle manine tese e brancicanti, cogli occhietti ancora vaghi e senza sguardo; si slanciava su di lei come volesse soffocarla colle carezze, e la baciava con una specie di furore amoroso.
Di tanto in tanto si arrestava, anelante, seduta sulle calcagna, lisciandosi i capelli sulla fronte, per riprender fiato, e balbettava al marito:
- Guarda! guarda! che amore!
Poi se la pigliava al seno, nudo, per sentirsi fra le braccia tutta la sua creatura, andava a mettersi dinanzi allo specchio, discingendosi con arte, acconciandosi sul capo un fazzoletto rosso a guisa di quelle Madonne che aveva viste dipinte, assorta in un'ammirazione così ingenua della sua bellezza sensuale che diceva di allattar lei la bimba, e non voleva la toccassero altre mani.
La maternità era un'altra maniera di espandersi la sua sensualità sottile, l'ambizione, la leggerezza, la bizzarria che c'era nel suo temperamento.
Il marito, lì davanti, colle sue cartacce sotto il braccio, col viso pallido dalla fatica, col sorriso distratto, non aveva nulla di artistico agli occhi di tal moglie, nulla di teatralmente affettuoso.
Per poco non gli rimproverava:
- Tu non le vuoi bene alla Barberina!
In lui tutto era modesto: il lavoro, la tenerezza, la generosità delicata.
Quando facevano dei progetti per l'avvenire della bimba, dei castelli in aria, quelli di Elena erano sempre i più belli e i più pittoreschi.
Parlava di cercare una bambinaia inglese, e una istitutrice toscana, maestri di musica, di disegno, di lingua, che so io.
Una volta lanciata, rifaceva colla figliuola i fantastici progetti della sua giovinezza, che non si erano realizzati.
Cesare non osava però rompere con una parola quelle divagazioni sfrenate dell'immaginazione, sorrideva dolcemente, quasi per richiamarla alla realtà.
Ma in cuor suo si sentiva delle vaghe angoscie, come l'eco dei dolori che quelle illusioni gli erano costate.
Però le sue inquietudini si calmavano alla luce blanda di quella lampada, fra quelle note pareti, al cinguettio infantile di quelle due voci adorate.
E ripeteva dentro di sé: - È una bambina anch'essa! e glielo diceva anche col suo sorriso un po' triste, accarezzandole colla mano la testolina bruna allo stesso modo che accarezzava la testolina bionda della figliuoletta: - Bambina! bambina mia! Tu sei ancora una bambina.
E sentiva una dolcezza melanconica, una specie di conforto al pensare che la sua Elena era così giovane od inesperta, da non accorgersi quasi del male che poteva fare, ch'egli era il suo protettore e la sua guida, e se pure un momento ella si era smarrita per correre dietro il suo cervellino romantico, la colpa era di lui, che non era stato abbastanza prudente, né abbastanza forte.
Il sentimento della propria debolezza era il suo maggiore tormento.
Gli pareva di diffidare della moglie perché diffidava di se stesso.
Si attaccava tanto più a lei quanto meno si sentiva a livello di quel carattere energico e risoluto.
Egli era la donna, l'amante, senz'altra forza che la devozione, l'abnegazione, il sagrificio.
Ma quante cose non gli aveva sacrificato l'Elena! Quanti pensieri gli tornavano in mente mentre accarezzava la testa di Elena! ed uno, il più doloroso di tutti, che non si presentava mai nettamente, ma gli offuscava, gli avvelenava ogni gioia, se Elena gli fissava gli occhi addosso, se gli rideva, se nella voce di lei sentiva un'intonazione più dolce, s'ella chinava il capo sotto la sua carezza come una colomba innamorata! No! no! era impossibile che quella colomba avesse guardato un altro così! che gli avesse parlato in tal modo!
Era una bambina! Era una bambina!
Allora posava la testa sulle spalle di Elena, la cingeva colle braccia, come per proteggerla, le parlava della figliuola per metter questa fra il presente e il passato.
- L'importante è d'impararle ad essere felice, la povera creaturina, a contentarsi del suo stato.
Non è vero, Elena? Quando si è contenti del proprio stato si è felici.
Noi non siamo ricchi.
Abbiamo avuto dei guai tanti! Ti ricordi, povera Elena? Ma ora son finiti.
Non è vero che son finiti?...
Dimmi, sei felice anche te?
Elena diceva di sì col capo, cogli occhi, colle carezze, coi baci...
Poscia tornava a baciucchiare la sua bambina, e a sballottarsela fra le braccia.
Giurava che oramai apparteneva alla sua creatura, nient'altro.
L'unica vanità d'Elena era di mostrare la sua creaturina alla mamma, alla sorella, alle amiche che venivano a trovarla, il visino roseo, nella cuffietta di pizzo, quel corpicino infagottato in una lunga vesticciuola ricamata, se la conduceva a spasso, sulle braccia della balia in gala.
Avrebbe voluto adornarla tutti i giorni a nuovo, come una pupattola, avere anche lei per la sua bimba una balia dal costume pittoresco, colle spalline d'oro, tutta ricami e gale di nastri.
Mentre componeva allo specchio un quadretto di genere, colla bambina al seno, drappeggiandosi lo scialletto sulle spalle, con un fazzoletto a colori vivi acconciato sul capo artisticamente, cominciò a provarsi di nuovo i cappellini impennacchiati, le vesti alquanto passate di moda.
Rivide il sorriso agro delle amiche, e le occhiate insistenti degli ammiratori.
A poco a poco la bimba che strillava sempre, che le sgualciva il vestito, che le pigliava tutto il tempo, fu lasciata alla balia.
Elena tornò alle sue visite, ai suoi concerti della Filarmonica, alla messa delle due, la domenica, prima di passare davanti al Caffè d'Europa, e prima d'andare a fare la passeggiata alla Villa, dalle quattro alle cinque.
Il marito fu persuaso che il suo studio ingombrava il quartiere, e lo trasportò al pian di sopra.
Nelle due stanze un tappezziere allogò a credenza tutta la sua roba vecchia, in un disordine artificioso e pieno di pretese suggerito dall'Elena.
Fu preso un altro domestico pel venerdì, canuto, maestoso, accuratamente raso, che aveva l'aria di aver fatto ballare sulle sue ginocchia la padrona.
Gl'intimi della casa si erano aumentati prodigiosamente.
Le serate musicali della signora Elena erano affollate di baronesse e di marchese più o meno decadute, di signore senza titolo ma che davano il tono alla moda, di uomini tutti della miglior società che potevano parlare sul serio delle loro relazioni aristocratiche, e venivano davvero da casa B.
e dalla duchessa C.
colle violette all'occhiello, e il cappello a molle sotto il braccio, a fare il loro dito di corte alla signora Elena, in crocchio attorno alla poltrona di lei, in aria di amabile confidenza, con quella disinvolta cortesia che ha in ogni parola, in ogni atto, in ogni inflessione di voce, delle sfumature finissime di alterigia, che affascina le donne, fa imporporare di sdegno la fronte degli uomini che ne sono feriti senza esserne presi di mira, e umilia i timidi e i delicati.
Essi mostravano di non accorgersi se mancava qualche cosa nel servizio, se il domestico che doveva aver l'aria per bene commetteva qualche goffaggine, se il padrone di casa era più timido dei suoi invitati.
Ma Elena arrossiva, si sentiva avviluppare da un certo impaccio anche lei, perdeva la sua disinvoltura nella preoccupazione continua di non esser ridicola per colpa altrui.
Il marito che non aveva avuto il coraggio di opporsi a quel nuovo tenore di vita, si eclissava spontaneamente per la sua riserbatezza abituale, ed anche per un certo amor proprio fine ed ombroso il quale gli faceva evitare dei contrasti umilianti che indovinava per istinto.
Egli voleva solo che Elena fosse felice, e dopo tutti i guai che avevano passati insieme, e nei quali gli pareva che avessero avuto una gran parte gli stenti attraverso i quali erano passati, gli pareva ora di dovere a lei quel compenso; credeva di riattaccarsela più strettamente colle soddisfazioni e coi divertimenti che le procurava per mezzo del suo lavoro.
Ella avrebbe detto: - C'è lì in un angolo, nascosto, noncurato, un uomo a cui devo questo lusso, queste feste, questi omaggi.
- Contava sulla gratitudine per rinsaldare l'affetto che vedeva vacillare negli sguardi distratti di lei.
Gli amici che bevevano il suo thè e logoravano i suoi tappeti non lo conoscevano quasi.
Il tono elegante della moglie, senza volerlo, lo allontanava da lei.
Le grandi maniere che Elena scimmiottava per tenersi a livello della sua società, e che non poteva cambiare da un momento all'altro come i servitori a giornata spogliavano la livrea e spegnevano i lumi, allargavano sempre più quella specie di separazione fra marito e moglie.
Egli tornava a casa stanco, disfatto, quando Elena usciva dal suo spogliatoio vaporosa ed elegante come una figura da giornale di mode.
Ella gli domandava affrettatamente se avesse bisogno di qualche cosa, suonava per chiamargli la serva.
Si lagnava: - Dio mio! a quest'ora! Con tanta gente che ci ho! - Trovava alle volte qualche minuto per sparire fra due usci, e andava a mettere la sua testolina ornata di rose purpuree o di camelie nel vano del suo uscio, dicendogli: - Non vieni un momento? Un momento solo! per farti vedere e non aver l'aria di non so che.
- Poi la mattina, stanca, assonnata, tornando dal teatro, o dal ballo, o dalle serate di musica si lasciava accarezzare sbadatamente, impazientandosi se egli le intrigava un nodo, o le strappava una forcellina.
- Dio mio! Dio mio! Tu non sai come son stanca! Tu ti alzi adesso! E la bimba? ha pianto? Perché non sei passato da casa Galli, un momento, per farti vedere? Che sonno! lasciami dormire!
Ma lui colla sua tacita devozione, colla sua generosità ignorata, coi suoi servizi senza pompa, col suo aspetto modesto, non poteva appagare il bisogno irrequieto di emozioni vietate, il sentimentalismo isterico, le tentazioni malsane, che la complicità di una vita facile doveva sviluppare ed irritare in Elena.
Ella si creava ingenuamente delle sofferenze ideali, si atteggiava da incompresa, da vittima, nel tempo stesso che godeva il frutto di quei sacrifici ignorati.
Cercava ancora il sogno della sua giovinezza delusa, ma rimaneva inespugnabile in mezzo a tutto un avvicendarsi di intrighi galanti, e di scandali color di rosa.
Prima fu un poeta che la ispirò.
Una gloria futura, che scriveva dei versi - a Lei! - a Te sola! - a Te che sai! colle sopracciglia aggrottate, e la destra nello sparato del panciotto, ritto su di un piede come un gallo, in mezzo alle dame che stralunavano gli occhi onde far credere ciascuna di esser lei, la sola, quella che sapeva.
Elena aveva voluto avere anche lei nel suo salotto quel cappone dalle penne di fagiano.
Leggevano insieme Musset ed Heine, contraffacendo il ghigno satanico.
Egli s'era spinto sino a tollerare Stecchetti per parlarle delle carni bianche, dei baci dietro la veletta.
Ella rimaneva assorta, sprofondata nella gran poltrona di velluto nero, col libro sulla ginocchia, le labbra scolorite, gli occhi vaghi ed erranti in cerca delle larve che creava ella stessa.
La bambinaia le irritava continuamente i nervi, una volta al giorno, cogli strilli della Barberina, strilli che la mamma non poteva soffrire.
- Mio Dio! mio Dio! Son queste le gioie della maternità? - E si metteva la testa fra le palme, disperata, con un arsenale di boccettine e di sali a portata di mano.
Di tanto in tanto donn'Anna, ansante dall'adipe, saliva le scale di marmo, e veniva a sfogarsi colla figliuola, regalandole anch'essa il racconto di suoi guai, - don Liborio che correva dietro le donne, Roberto che non otteneva più l'avanzamento, Camilla che non si maritava mai.
- Gran disgrazia! rispondeva Elena.
- Col poco che ha Roberto, bella prospettiva, quel matrimonio! Lasciateli in pace, mamma! Quando non si hanno almeno centomila lire di entrata, è meglio restar a casa.
- A te cosa ti manca? Di', cosa ti manca?
- Nulla! rispondeva Elena.
Cesare, sopraffatto dal lavoro, era felice allorché poteva rubare qualche minuto alle sue occupazioni, e veniva a sederlesi accanto, modestamente orgoglioso del benessere che le procurava, timidamente affettuoso.
Le parlava dei suoi progetti, della loro bambina, di tutte quelle cose che gli sembravano altrettanti legami fra di loro.
Come la vedeva distratta e indifferente, le chiedeva anch'esso:
- Che hai? Cosa desideri?
- Nulla, rispondeva Elena.
Egli si sentiva stringere il cuore a quella parola, all'aria di quel viso, al tono di quella voce.
Tornavano ad assalirlo suo malgrado dei sospetti angosciosi, delle memorie tristissime, una amara inquietudine che lo tentava, lo spingeva a cercare di leggere negli occhi e sulla fronte di lei.
No! no! Egli se ne accusava internamente e gliene domandava perdono.
Non voleva cercare in quegli abissi del cuore dove si snodano inesorabili e feroci tutte le serpi della gelosia.
Non voleva dubitare di lei, non voleva soffrire come aveva sofferto.
Non voleva passare quelle notti insonni accanto al suo capezzale, e quei giorni di sole implacabile.
Ella era stata fantastica, leggiera anche, ma colpevole no! Lo dimostrava l'imprudenza stessa di quella lettera, il non saper dissimulare, la sincerità delle sue stranezze.
Follie della mente, null'altro.
Ella viveva troppo in quell'atmosfera artificiale delle sue letture romanzesche.
La lettera a Cataldi era stata l'episodio di un romanzetto da educanda.
Ora era entrata nella vita vera, era madre, era troppo altera per non pensare a sua figlia.
Poi era troppo circondata, troppo adulata.
L'esuberanza morbosa della sua sensibilità avrebbe trovato uno sfogo in quell'esistenza di cui tutte le ore erano prese ripiene di distrazioni diverse, di allettamenti che si eludevano scambievolmente.
Sì, era stata educata come una principessa, don Liborio l'aveva detto.
Aveva bisogno di vivere a quel modo, ciò la rialzava nella sua stima stessa, l'avrebbe resa più fiera e invulnerabile, rialzava anche lui, il marito che gliene dava il mezzo.
Oltre la sensibilità pericolosa, ella aveva anche nel cuore le delicatezze squisite.
Ella avrebbe pensato a Cesare che l'amava come ella voleva essere amata, che viveva solo per lei, pel lusso in cui la faceva brillare, per le gioie che le procurava, che racchiudeva tutta la sua gioia, tutti gli splendori della sua vita, tutte le feste del suo cuore nel sorriso che le stava sul labbro, quando entrava nel suo studiolo, accompagnata dal fruscio superbo della sua veste, per dirgli - Ancora alzato? Povero Cesare!
Dalle finestre lucenti le ombre nere degli uomini, i profili eleganti delle signore, si allungavano nella queta oscurità del molo, ciangottante del sommesso mormorio del riflusso, nel formicolio dei lumicini delle barche ancorate, sotto il cielo alto e stellato.
Gli uomini si affollavano sui terrazzini spalancati, dietro le tende trasparenti, sotto la lumiera scintillavano le gemme.
Una voce calda e potente cantava al piano la romanza in voga.
La padrona di casa, più bella di tutte nel suo pallore color d'ambra, sembrava volesse eclissassi nel fondo della poltrona, colla fronte sulla palma, il bel braccio ignudo dorato dai riflessi di tutta quella luce, quasi sotto il fascino di due occhi ardenti che la fissavano dal vano di un uscio, ostinati, provocatori nella loro insistenza, su di un viso pallido e capelluto che attirava l'attenzione nella severa uniformità di tutti quei vestiti d'etichetta.
- Fategli la carità di rivolgergli un'occhiata, a quel povero Fiandura.
Elena si strinse nelle spalle, e cercò di sorridere, poiché il duca Aragno non era di quelli cui si può dare dell'insolente.
Più tardi, quando la folla cominciò a diradare dalle sale, nel crocchio degli intimi, le dame all'occaso che si arrabattavano in tutti i modi per afferrarsi al mondo che le abbandonava, cominciarono a sussurrare: - Fiandura! Fiandura! Dei versi di Fiandura! - sottovoce, con delle sfumature di sorrisi beati, battendo discretamente in anticipazione le mani inguantate.
Il poeta era arcigno, inflessibile, comprimendo tutte le tempeste del cuore col guanto grigio, scuotendo l'olimpica chioma ad un rifiuto superbo.
Allora tutte quelle Muse e quelle Grazie stagionate si rivolsero in coro alla padrona di casa, con gesti supplichevoli, con un interesse ridicolmente esagerato.
Elena arrossendo suo malgrado, disse con voce calma:
- Andiamo, Fiandura...
per queste signore...
Egli rispose con uno sguardo profondo, inarcando i baffetti ad un leggero sorriso, inchinandosi in modo che voleva dire:
- Per voi! per voi sola! - Poi levò al soffitto la fronte ispirata.
Il successo fu enorme.
Quelle signore sembravano invase dal demone dell'entusiasmo.
Aragno batteva le mani come un ossesso.
E il baccano fu tale che all'uscio del salotto comparve il viso sorridente di Cesare, un po' sbattuto e stanco, recante ancora le tracce del suo lavoro ingrato e senza poesia.
- Vedete per chi?!...
Vedete per chi?!...
sussurrò il poeta caldo ancora di ispirazione all'orecchio di Elena, seduta in disparte, smarrita nella folla che ingombrava la sua casa, cogli occhi ardenti e vaghi, sul viso smorto.
- Per quest'uomo che scrive delle citazioni! ed io che vi porto in cuore come un raggio di sole, come un profumo, come un tormento, devo lasciarvi nel talamo di quest'uomo...
Ah! se sapeste, Elena! quanti sogni, quante follie! quali tentazioni mi assalgono!...
- Tacete! disse ella.
- No! Non posso.
Mi sento pazzo, Elena! Vorrei stamparvi in faccia al mondo la stimate del mio amore! Vorrei morire ai vostri piedi!
- Tacete!
- Ah! voi! cuore di marmo! Non sapete quel che ho sofferto, da quanto tempo! Come vi ho invocata! come ho teso le braccia verso di voi! E quante volte!...
a mani giunte! quando vi ho scongiurato di accordarmi un'ora di cielo! Quante volte mi è parso di vedervi, la vostra ombra, il vostro fantasma, la vostra aureola, il vostro profumo, nella mia cameretta solitaria! Il rumore del vostro passo per le scale; il fruscio della vostra veste, la prima vostra parola, il primo sguardo, i primi baci dietro la veletta!...
- Domani! balbettò Elena con voce sorda.
XIII
«Oh, i primi baci dietro la veletta!» Ella li aveva dinanzi agli occhi febbrili, mentre saliva trepida e guardinga le rampe del Vasto, col passo leggiero, chiusa nella mantiglia, pallida.
Il ciabattino lercio che faceva da portinaio si fece ripetere due volte il nome del suo inquilino, guardandola sfacciatamente, canticchiandole dietro una canzonaccia oscena, che accompagnava picchiando del martello sulla suola, mentre ella saliva rapidamente la scala sudicia e nera, premendosi la mantiglia sul seno ansante, sino a un quinto piano smantellato.
Egli l'aspettava dietro l'uscio, più pallido di lei, e nell'anticamera buia, le domandò prima di ogni altra cosa se fosse certa di non essere seguita.
Poi le prese la mano per guidarla negli andirivieni dell'andito.
Ella non rispondeva, e si lasciava condurre nella vasta cameraccia piena soltanto di sole e di luce.
Di là si scorgeva come un panorama il mare, Capri, e un'immensa distesa d'azzurro.
Il poeta, trionfante, aveva spalancato il balcone per preparare la messa in scena, la festa del cielo che armonizzava colla festa dei loro cuori, la natura che sorrideva del loro sorriso, tutta la ricchezza di sensazioni delle anime privilegiate, che i ricchi della terra non possono comprare a peso d'oro.
Elena volse le spalle a quella luce sfacciata che la imbarazzava, infastidita, irritata.
- Non temere; nessuno può vederti, disse lui, le case dirimpetto non arrivano al secondo piano.
Se no, avrei chiuso il balcone.
- Sì, chiudete.
Fiandura indovinò vagamente la goffaggine in cui era caduto, chiuse le imposte, con un'aria misteriosa.
Poi corse a buttarsi ai piedi di lei, con uno slancio di tenerezza commovente, benedicendola per la felicità che gli arrecava sotto il suo povero tetto, baciandole il lembo della veste, mormorando con voce melodrammatica: - Grazie! grazie!
- Ho fatto male! diss'ella.
- Male? Ah! la gran parola! la parola di tutti coloro che non hanno mai sofferto, che non hanno amato, che non sanno quanto valga uno di cotesti momenti per certe anime! come uno di cotesti ricordi basti a riempire un'esistenza!
Qual'era il male, per lui, dotato della scintilla divina che rischiara ogni sentimento della sua vera luce, e lo rende etereo? che cos'era il marito, la legge, il mondo, per lui che aveva in cuore tutto l'amore dell'universo, nella sua più sublime essenza? Che cos'era la figlia di Elena per le opere che avrebbe potuto crear lui, ispirato da questo amore, in cui ella avrebbe messo la favilla, il pensiero, il soffio, il fiato? Egli aveva aspettato questo momento dieci anni! Aveva vissuto con questo sogno, aveva avuto sempre là quell'immagine che aveva presentito, aveva atteso colla doppia vista degli spiriti superiori, la sua ispirazione, la sua musa, verso cui aveva steso le braccia supplichevoli nei giorni neri, nei giorni di sconforto, che aveva invocato, che aveva conquistato, che gli apparteneva, era cosa sua, pel diritto che gli dava il suo lungo martirio, il suo amore, l'ispirazione che ella gli avrebbe dato, la gloria che l'attendeva, l'ingegno che metteva ai piedi di lei.
Elena, disattenta, con cento pensieri confusi negli occhi, guardava intorno come sbigottita, le pareti nude, la finestra senza tende, il lettuccio basso e piatto, i libracci squinternati, e gli scartafacci polverosi accatastati sulle seggiole in artistico disordine, tutta quella gloria di cartacce sudicie.
Ella ritirò vivamente la mano di cui egli voleva impadronirsi.
Allora il poeta, un po' sconcertato, prese a parlare dei suoi versi, degli argomenti che aveva in testa, di quello che voleva fare per rendersi degno di lei, perché ella andasse superba di poter dire, quando la folla pronunziava commossa il nome di lui: - È mio!
Si rizzò adagio adagio, poiché le ginocchia gli dolevano, e cominciava a comprendere che era ridicolo il rimanere in quella positura, se ella non lo tirava su fra le sue braccia.
Andò a rintracciare delle poesie che aveva scritto per essa, ispirato dall'amore, in quella stanzaccia tutta vibrante del pensiero di lei.
Ella ascoltava, cogli occhi intenti, bramosa di commuoversi alla cadenza melodiosa di quella voce concitata, che suonava come un sermone nel silenzio della vasta camera, isolata sui tetti.
Cercava anche lei qualche cosa, una parola adatta, un argomento che non seguitasse a far battere la campagna al pensiero, lontano dalla loro situazione.
Trovò soltanto:
- Avete scritto qui...
queste cose?
- Sì, rispose lui, pensando a voi! Qui non giungono altri pensieri, non sale voce umana.
Quando apro quelle imposte vedo soltanto dinanzi a me il mare immenso, e mi basta.
È l'alloggio di un uccello solitario.
Ve l'avevo detto.
- È un po' alto, - osservò Elena.
- Ha il vantaggio di non esserci vicini curiosi e importuni.
Mi piace la mia libertà.
Anzi posso ricevere chi voglio senza che nessuno se ne avvegga.
- Ah! diss'ella.
- Elena!...
No!...
Non quello che pensate.
Qui non ha messo il piede nessun'altra donna.
- Ah!
- Mi credete? Credete che allorquando si ha il cuore e la mente pieni della vostra immagine è impossibile profanarla!...
Mi credete che dacché vi conosco, dacché vi siete impadronita di tutto l'essere mio, mai un pensiero...
mai un atto...
Elena!...
- No! esclamò Elena bruscamente, tirandosi indietro.
No, Fiandura...
Non mi fate pentire di esser venuta!...
- Perdonatemi, Elena! son pazzo! È che vi amo come un pazzo! - Elena gli abbandonò la mano.
Allora il poeta incoraggiato, continuò: - Se sapeste come vi amo! Se potessi mostrarvi il cuore delirante per voi! Se potessi dirvi le parole con cui vi ho invocata! se potessi narrarvi le notti insonni, i giorni desolati, le febbri, quel che sento a una vostra parola, quel che è per me un vostro sguardo, quel che provo a un vostro sorriso, un gesto, il fruscio della vostra veste, il profumo dei vostri guanti! Quando vi vedo nelle vostre sale, circondata, corteggiata, adulata...
comprimendo l'angoscia nel mio petto!...
E come son geloso di tutti, delle ore in cui non vi vedo, delle case in cui non posso seguirvi, delle parole che vi dicono, degli uomini che discorrono con voi, dell'aria che respirate, del vostro passato...
Elena levò il capo con tal moto improvviso che gli tagliò netta la parola.
- Oh! mormorò ella amaramente col volto in fiamme.
- Che cosa?
- Nulla!
Il poeta sconcertato, riprese con fuoco:
- Sì, son geloso di quell'imbecille che si crede in diritto di farvi la corte perché ha un cerotto di corona sul biglietto di visita...
Elena fece una spallucciata che lo scombussolò completamente.
Oramai aveva vuotato il sacco del lirismo melodrammatico e cercava il modo, anche lui, di mettersi in carreggiata.
- Quanto era felice, al pensare che ella era là, che era venuta per lui! Come le stava bene quel vestito nero! Perché non si lasciava togliere un guanto? Soltanto cotesto! - Ella diceva di no, imbarazzata anche lei, umiliata di sentirsi ridicola ancor essa.
Era tardi, doveva andarsene.
- Ancora un istante! Egli aveva bisogno ancora di saziarsi gli occhi ed il cuore di quella visione celeste! Oh! il suo povero tetto! le sue povere gioie! la sua vita deserta! tanti anni! Aveva un mondo di cose da dirle e non le trovava.
Si sentiva sbalordito dalla felicità.
- A volte Elena gli saettava un'occhiata, rapida, avida anch'essa e pur diffidente, con un sorriso che si agghiacciava sulle labbra.
- No! no! Elena! non ancora! Se tu sapessi cos'è questo momento per me! per un cuore di poeta! Ne saresti superba anche tu.
Voglio crearti un trono di gloria, voglio eternare in un canto...
E ci tornava con un'insistenza spietata, ingenua, instancabile.
Il tempo scorreva rapidamente, sebbene nella stanza non ci fosse neppur l'ombra di quel volgare arnese che lo misura agli intelletti piccini, che regola prosaicamente le occupazioni dei borghesi.
Elena guardò il suo orologio, e si rizzò di botto, più seria di com'era venuta, aggiustandosi in furia i nastri del cappello e il lembo della veletta, cercando istintivamente cogli occhi uno specchio...
- No! no! è tardi, devo andarmene...
- Perché siete venuta dunque? esclamò il poeta lasciandosi vincere dal dispetto.
Elena si tirò indietro bruscamente, completamente trasformata da un istante all'altro, col viso basso, tutto una vampa, i lineamenti contratti, le sopracciglia aggrottate.
Poscia gli saettò in faccia un'occhiata che pel poeta fu una rivelazione, un lampo, l'ispirazione di gettarlesi ai piedi un'altra volta, scongiurandola di perdonargli.
- Era pazzo, era pazzo d'amore.
Aveva persa la testa.
Se ella non gli avesse stesa la mano si sarebbe buttato dal balcone, davanti a quell'immensità azzurra.
Si sarebbe sfracellato il cranio in mezzo a tutta quella festa di luce.
Elena nervosamente agitata, coi denti stretti, l'occhio smarrito sotto la veletta, aggiustandosi febbrilmente la mantiglia addosso, balbettava:
- Lasciatemi andare! lasciatemi andare!
- Ditemi che mi avete perdonato, Elena! Non mi lasciate così! Ditemi che vi rivedrò!...
- Sì, sì! ripeteva ella macchinalmente.
- Grazie.
Oh! grazie! Quando?...
quando vi rivedrò?...
- Non lo so...
non posso dirvelo ora...
È tardi...
Non ho un minuto di tempo...
Vi scriverò...
Ci vedremo...
Egli la seguiva passo passo per l'andito, mogio, a capo basso, inciampando nei mattoni smossi, dietro il passo rapido di lei che sembrava fuggire.
Elena chinò il capo nel passare per l'uscio che le era aperto, gettandogli una stretta di mano lenta e una parola che spirò sotto la veletta.
Ei rimase sul pianerottolo, col cuore che gli martellava, accompagnando ansioso quella veste nera che si dileguava rapidamente lungo le rampe della scala, quel sogno ambizioso e febbrile che sfumava volgarmente.
Quando era per scomparire, col cuore stretto dall'angoscia, le gridò:
- Ricordatevi!
Elena abbassò il capo, come se le fosse caduta una tegola addosso, stringendosi nella mantiglia.
Il portinaio tempestando di colpi di martello la suola della ciabatta le cantò un'altra volta dietro il ritornello osceno.
- Ah! mormorava Elena fuggendo, colle labbra contratte dal disgusto.
- Ah!
Per la strada incontrò il marito, il quale correva come un cavallo da lavoro su e giù per Napoli, carico d'affari e di preoccupazioni, in mezzo al via vai chiassoso della folla, e fece fermare la carrozzella, tutto felice d'incontrarla, di dirle una buona parola, di mettere un momento la sua immagine leggiadra fra le occupazioni noiose della sua professione.
- Come stai bene! Hai passeggiato molto? Sei rossa in viso.
Vuoi che ti accompagni in legno?
- No, vado qui vicino.
Grazie.
- Sai! per la causa col demanio, sono in giro dalle otto.
Va benone!
- Addio.
Egli si sporgeva ancora dal legnetto che correva saltellando sul lastricato per seguire cogli occhi amorosi l'andatura modesta ed elegante della sua Elena, la quale si allontanava frettolosa, rasente al muro, a capo chino, grave del pentimento di una colpa inutile.
Cesare invece correva dagli avvocati, dai procuratori, su e giù per le scale dei tribunali, tutto invaso e commosso dal pensiero di lei, onde procurarle quella vita agiata, quei mobili antichi, quei servitori coi capelli bianchi che avevano l'aspetto di averla tenuta a balia.
La casa oramai era messa su questo piede, che le amiche intime fossero almeno delle baronesse, e Cesare che pagava tutto si presentasse timidamente nel suo salone, fra le tende di broccato antico, e il duca Aragno desse a ogni cosa il tono, il gusto, il colore, le maniere grandiose che lusingavano la vanità borghese di Elena, le tenevano luogo dei suoi castelli in aria da ragazza, la rialzavano dall'umiliazione che aveva ricevuto dalla sua scappata sino alla soffitta del poeta, completamente obliato.
Il duca trionfava colla sua scuderia, col suo sarto, col suo gran nome buttato dall'alto in anticamera, colla gelosia pettegola di una vera dama che faceva parlare di sé tutta Napoli.
La tresca col duca era profumata, elegante, in un ambiente che raffina la colpa, l'accarezza e l'addormenta con tutte le mollezze, nel velluto, tra i fiori, coi piaceri artificiosi, coi riguardi scambievoli, coll'etichetta inflessibile, con tutte le buone maniere inventate dalla raffinata corruzione per far cadere mollemente l'onore di una donna.
Il poetuccolo, geloso per vanità, aveva scritto una satira furibonda contro di Lei.
- «Ti rammenti? - L'elegia erotica e accusatrice.
- Ti rammenti, nel salotto color d'oro? - Ti rammenti, quando venisti a trovarmi nella povera stanzetta? - La povertà tornava bene coll'intonazione piagnucolosa.
Le allusioni erano trasparenti come il cristallo, i particolari precisi per l'impronta di intimità che richiedeva l'argomento.
- Ti rammenti il primo bacio, sulla poltrona di velluto nero, ricamato colle tue cifre? e il fazzoletto che dimenticasti nella mia stanza? il profumo che vi lasciasti con esso? il tuo nome dolce al pari di quello della tua greca sorella? Ah! dove l'hai portato adesso quel profumo, traditrice? Nell'alcova principesca! nelle stanze anticipatamente profanate da altri amori volgari.
Hai barattato il tuo motto altero "Tant que vivray autre n'auray " contro una corona a cinque fioroni, perch'essa t'è parsa più nobile di una fronda d'alloro, e più bella dei vent'anni, e più splendida dei capelli biondi...».
La romanza continuava su questo tono per tre facciate di uno di quei giornaletti grandi quanto un foglio di lettera, che nessuno compra, e che tutti leggono ogni volta che si vitupera un uomo, un libro, o qualche altra cosa in vita.
Il marito della greca donna seppe in tal modo, un mese dopo, lo scempio turpe che si era fatto del suo onore.
Ma allorquando tentò di lavare la macchia in una maniera qualsiasi, con un colpo di sciabola o di pistola, non trovò per assisterlo un solo di quegli amici che gli stringevano la mano, che gli lasciavano il loro nome alla porta, venendo a far visita a sua moglie, che gliela avrebbero nascosta colla loro persona s'egli l'avesse sorpresa fra le braccia del suo amante, e che in cambio gli avrebbero fatto da testimonio s'egli avesse dovuto battersi per una ballerina o per una cortigiana.
Il poeta, in cima alle sue povere stanze, si drappeggiava superbamente, come nel suo paletò spelato, nella dignità dell'arte, nel sacerdozio della penna.
Trinceravasi dietro la irresponsabilità della finzione poetica.
Gli amici non osavano insistere onde approfondire la cosa.
Avevano fretta di levare i piedi da quella mota.
Schieravano dinanzi al marito la fama delicata della moglie, l'avvenire della figliuoletta, il pericolo di uno scandalo che sarebbe stato pregiudizievole in qualsiasi evento.
Citavano Cesare e sua moglie.
Infine, infine...
- E questa gente che si stringe nelle spalle allorché vi sentite spezzare il cuore pel tradimento di lei in cui avete riposto tutto il vostro affetto, la vostra fede, la vostra felicità, questa gente, se non sapete resistere a lei per cui il cuore vi sanguina, che amate ancora, e la quale vi dice, con lagrime vere, con singhiozzi che sentite venire dal cuore, aggrappandosi al vostro collo coi capelli sciolti, colle braccia convulse: - Perdonami! Perdonami! perdonami come Dio!...
Ebbene, questa gente, se voi fate come Dio, si stringe egualmente nelle spalle, ma di sprezzo.
Cesare tornò a casa, pallido come uno spettro.
E lì, colla figlioletta fra le braccia, pianse a lungo, disperatamente, di quelle lagrime che piombano ad una ad una sul cuore, e vi scavano un solco.
Tutt'a un tratto entrò l'Elena, coll'occhio impietrato, le labbra convulse e cascanti...
XIV
La gente, quando vedeva passare il marito un po' triste, ma calmo, come un uomo in lutto, accanto alla bruna e fiera beltà, gli gettava dietro il suo scherno, li seguiva cogli sguardi sfacciatamente curiosi, con un senso di desiderio e quasi di ammirazione per la donna, col cinico egoismo della folla, col sarcasmo feroce che getta il fango a due mani, senza cercare chi, fra la donna che inganna e l'uomo che è ingannato, sia realmente ridicolo.
- Le menzogne, le finzioni, le prostituzioni dell'una, quando gli usci son chiusi, e i domestici dai capelli bianchi si sono ritirati, i sorrisi falsi, le parole false, le carezze false, gli occhi pieni di un'altra immagine, farli mentire nel fissare gli occhi del marito, coll'eco di una parola ardente nelle orecchie, torturarsi il cervello per trovar una parola d'amore per quest'altro che non si ama più, - il rimorso, l'ostacolo vivente, il giudice, la paura.
Tutto ciò con un crescendo in proporzione della colpa che si sente montare al viso come una marea.
E quest'altro, l'uomo ingannato, sincero invece, che può guardare in faccia senza finzioni, che può stringere la mano quando vuole e a chi vuole, che può piangere a viso aperto allorché il cuore gli scoppia d'amarezza o quando gli esulta, eppure è costretto a confessare sottovoce, nel cavo del suo orecchio istesso: - Chi sono io?
Quando il marito offeso non schiaccia la donna sotto il tacco, al primo momento, non ha altro di meglio a fare che prendere il cappello e andarsene.
Se la donna ha il tempo di dire due parole, di spargere una lagrima, di fare un gesto, il marito perdona, e nove volte su dieci si rassegna.
Elena sarà caduta ai piedi di lui di un sol colpo, coi due ginocchi per terra, le braccia aperte, il viso disfatto, dicendo: - Uccidimi! - O si sarà arrestata sull'uscio, ritta, immobile, pallida, fiera, a fronte alta, ripetendo cogli occhi limpidi e lucenti - No! no! no! - O infine, sedendo in disparte e accavallando le gambe, colle sopracciglia aggrottate, col labbro sdegnoso gli avrà detto: - Sì! Che vuoi? non ti amo più! - Egli rimaneva pur sempre lo stesso uomo, fulminato dalla scoperta.
Trasalendo, ancora ansioso sotto il fascino di lei; e quegli occhi stralunati come quelli del moribondo che cerca la luce, hanno forse ancora in quel momento la dolorosa visione della gioia fuggita per sempre, di tutti quei fantasmi rapidi e vivi che inchiodano la lingua e fanno cascar le braccia.
Quindi l'abbattimento che sembra oblio, le tacite e scorate rassegnazioni, una parola vaga e senza senso, poi due individui che, dopo essersi tanto amati, si voltan le spalle silenziosi, si vedono solo dinanzi alla gente, scambiano qualche parola a tavola, dinanzi ai domestici, evitando di guardarsi, dimenticano a poco a poco, coi gomiti sulla tovaglia, fumando un sigaro sul canapè, affacciati al balcone - le abitudini che vi riprendono, la tirannia degli affari, con le mollezze della vita domestica, le attrattive dell'intimità, il sorriso della propria creatura, un parola, una mano incontrata a caso, un gesto molle, un ritorno del passato esitante, lento, che ha tutte le seduzioni di un primo abbandono.
Poscia ancora tutte le debolezze dell'amore che non siete riescito a soffocare completamente, tutti i languori del desiderio che vi si inspira, tutte le fiacchezze dei lieti ricordi che vi disarmano, tutte le tentazioni dell'egoismo che vi si insinuano.
- Ella tornerà ad amarmi.
Ella si rammenterà anche lei.
Ella ha fatto per me quello che per nessuno avrebbe fatto.
- Un bacio, infine cos'è? - Lo stesso ragionamento fatto per la lettera, quei ragionamenti biascicati sottovoce, col viso rosso.
- Vi amo! - cos'è? - una parola! - un momento di debolezza, di vanità, l'esempio delle altre, la vita disoccupata.
- Poteva strapparsela dal cuore così facilmente come poteva fuggirla? Cosa ci avrebbe guadagnato? E se ella reietta e libera si fosse abbandonata senza ritegno ad altri amori? Ella cercava l'amore.
La colpa era di lui che non aveva saputo darglielo.
Cosa era l'opinione del mondo in confronto di riaver l'Elena? Quando egli l'avesse scacciata, quando fosse rimasto solo, colla bambina macchiata nella culla, desolato, senza conforto, senza speranze, senza nemmeno il compenso di vederla restare con lui, cosa ci avrebbe guadagnato? Egli l'avrebbe riconquistata colla generosità, coll'abnegazione, coll'affetto, rendendole lieta e facile l'esistenza.
Sì, l'amava ancora il disgraziato! Era geloso al modo dei deboli, senza aver la forza di rompere la sua catena, colla vaga speranza che non osava confessare a se stesso di riconquistare il suo affetto a furia di generosità, di devozione, di rassegnazione persino! - Sì, una viltà! Ma non è la peggiore delle disgrazie esser vile? Se cercate bene, in ogni marito offeso che si vendica, allorché non vendica soltanto il sentimento sociale, c'è un residuo d'amore, il bisogno di rialzarsi agli occhi stessi della traditrice, il rimpianto dei giorni lieti dovuti a lei, delle sue attrattive rubategli.
XV
«Vostra madre sta male, e desidera vedervi.
Venite.
don Anselmo Dorello».
Cesare si sentì mancare le ginocchia.
Poi, accasciato sulla poltrona, si mise a piangere dirottamente.
Elena era lì presente, immobile, sembrava commossa anche lei.
Per la prima volta, dopo tanto tempo, gli prese il capo fra le braccia, e se lo strinse al seno, in silenzio.
Il poveretto, in quell'ora nera che gli si stringeva addosso, sentì scendersi al cuore quella pietà come un'amara dolcezza.
La guardò cogli occhi lagrimosi, balbettando:
- Mia madre, Elena! mia madre, Elena!
- Vengo con te - diss'ella.
- Voglio venire anch'io.
Arrivarono al paesello verso l'alba.
Le finestre della casa paterna lucevano ancora.
Attraversarono le stanze in disordine, cogli usci spalancati, pei quali passavano i pianti della famiglia, l'odor vago dell'incenso, delle candele di cera, e della morte.
Don Anselmo, tutt'ora ornato dalla stola nera, venne loro incontro, sbarrando l'entrata colla sua persona, e in quell'istante solenne abbracciò il nipote, senza dir motto, lo portò quasi di peso sul vecchio canapè, in mezzo alle sorelle che piangevano.
- La volontà di Dio! - disse il prete, pallido anche lui.
- In ogni cosa c'è la volontà di Dio.
Elena, in quella desolazione, rimaneva come obliata in un cantuccio, si sentiva che era la sola estranea a quel dolore.
Chi si occupò di lei fu lo zio canonico, colui dal quale l'era stata mossa la guerra più aspra, quasi ora la morte avesse dissipato ogni rancore, gli avesse data una lezione severa di carità e di perdono.
- Siete tutti figli miei, - diss'egli.
- L'ho promesso a quella poveretta.
Nel paese fu una sorpresa generale.
L'argomento di tutte le conversazioni, lo stupore di coloro che tenevano il canonico per un uomo di carattere, e non avrebbero mai creduto che si lascerebbe abbindolare dalle moine della Napoletana, la forestiera che avrebbe dissipato i risparmi di don Anselmo, avrebbe mangiato le speranze delle cognate, per ecclissare le signore del paese col suo lusso.
Un maturo benestante che faceva la corte dalla finestra ad una delle sorelle di Dorello non si fece più vedere.
Lo zio Luigi, al quale delle anime caritatevoli erano corse a dare l'allarme, arrivò all'improvviso, tutto sottosopra, commosso sino alle intime viscere dal timore che suo fratello il canonico potesse essere rapito al suo affetto da un momento all'altro, come la cognata.
- Quando la morte picchia ad una casa non si contenta di così poco.
- Il sangue gli parlava nelle vene, il sangue stesso di don Anselmo, il quale aveva accumulato una bella sostanza, e doveva rammentarsi del sangue suo, prima di disporre in favore dei nipoti, e di gente estranea per soprammercato, che aspettava la sua morte per scialarla coi suoi denari.
Il paese intero diceva la stessa cosa.
Nella spezieria e nel casino non si parlava d'altro che del lusso di Elena, dei suoi ricevimenti principeschi, delle sue dozzine di cappelli, - aneddoti, pettegolezzi, maldicenze.
La signora Brancato, la signora Golano, tutte, andarono a farle visita in gala, seguite da certi servitori insaccati in livree a colori vivaci, impastoiati in guanti bianchi di cotone.
Elena sembrava tornata ai bei tempi della Rosamarina.
La morte che aveva colpito come un fulmine, il lutto che si era stretto attorno alla famiglia, l'aveva riaccostata intimamente e sinceramente al marito, di cui sentiva essere il solo conforto, quasi una cara e dolorosa memoria vivente delle amarezze che gli era costata.
Cesare non le aveva detto nulla, ma ella indovinava ai suoi tristi silenzi, agli occhi che gli si gonfiavano di lagrime, quando le stringeva commosso la mano, scrollando il capo, e pareva volesse dirle:
- Dimentichiamo! dimentichiamo!...
Una delle sorelle, nell'espansione disperata delle lagrime, aveva detto che la mamma non s'era più riavuta dallo spavento quando il canonico aveva scoperto la vendita segreta del sommacco e l'affare del vaglia mandato a Cesare di nascosto.
Sembrava che zio e nipote avessero sempre dinanzi agli occhi quelle parole, e non potessero guardarsi senza ricordarsene.
A poco a poco nella famigliuola andavasi facendo la calma del dolore, si riprendevano tristamente le abitudini della vita, l'intimità era meno silenziosa ma meno stretta.
Il prete tornava alla sua chiesa e ai suoi poderi.
Cesare aveva dovuto fare una o due gite alla città per affari, quantunque fosse l'epoca feriale.
Le ragazze ricominciavano ad occuparsi di faccende domestiche.
La vita li ripigliava, li distraeva, li separava, ognuno per la sua strada.
Dopo pranzo la Barberina, la quale prima col ricordo soltanto del suo nome, faceva gonfiare gli occhi di lagrime, chiamava alcuni istanti di allegria schietta, di vera festa domestica, colla sua innocente serenità, colle sue monellerie da bambina viziata.
Nelle carezze le fronti si spianavano, delle risate gioconde tornavano a risuonare nella vasta stanza piena di tante memorie tristi.
Elena godeva anch'essa di quei piaceri intimi, della gioia tranquilla, di quell'esistenza raccolta.
Colla volubilità estrema della sua natura le pareva che fossero passati dei secoli dal tempo delle feste mondane.
Provava una soddisfazione raffinata, un contrasto piccante, nell'evocare i sogni romanzeschi come cose lontane, nella fantastica contemplazione della natura, nell'azzurro del cielo, nel violetto delle montagne lontane, nella pace dell'ora silenziosa, nel cinguettio volgare delle dame colle mani rosse che andavano a trovarla.
Il barone si era fatto sposo con una delle più ricche damigelle di Avellino, e venne a far visita anche lui - sorpresi entrambi di trovarsi tanto mutati.
Elena sapeva ormai per esperienza che anche nelle sale sdegnose della grande città l'eco di una sostanza colossale ha sempre una grande importanza.
Egli aveva viaggiato e aveva lasciato qua e là un po' della sua pinguedine e molto del suo denaro.
In cambio aveva riportato dei vestiti di un sarto in voga, le maniere distinte, il frasario convenzionale dei saloni, la disinvoltura e l'impertinenza della sua ricchezza.
Elena ne fu piacevolmente impressionata, quasi lusingata, come ciò fosse opera sua, pel lievito che aveva lasciato la sua memoria in quel mezzo contadino.
E per quanto fosse padrona di sé, per quanto volesse persuadersi sinceramente di non aver più un pensiero che non fosse per suo marito, era troppo donna per non lasciarglielo indovinare.
Don Peppino dal canto suo era abbastanza incivilito per non accorgersene, per non fondarci sopra mille castelli in aria, aiutandoli colle chiacchiere sentite in caffè, dinanzi al banco del farmacista, nello studio del notaio.
Egli aveva raccolto, come gli altri del paesello, i pettegolezzi che correvano sulla riputazione dell'Elena.
Alla sua primitiva ammirazione ingenua per la cittadina, gonfiata nella disoccupazione del paesello, si mescolava adesso un sapore più acuto, l'immagine della sua nuca bianca, dei suoi occhioni grigi, le carezze della sua voce, il ricordo delle sue civetterie innocenti, il desiderio delle sue labbra rosse.
Il poco che ella gli aveva accordato s'ingigantiva e si inaspriva ora al sorgere di tutte quelle memorie, gli pareva che ella fosse stata qualcosa per lui, gli avesse lasciato come una promessa.
Ma tornando a farle visita, ogni volta, si trovava di nuovo impacciato e timido; sentiva ingigantire il suo desiderio all'ostacolo che incontrava in se stesso; continuava ad esprimerle la sua ammirazione bramosa con una riserbatezza esitante che aveva l'attrattiva del pudore.
La donna ricominciava a sentire un piacere mascolino nell'indovinare tutte coteste impressioni, nel solleticare coteste simpatie, nel provocare la confessione di questi sentimenti, come un seduttore raffinato gode nell'assaporare il turbamento che mette nell'anima d'una giovinetta, per l'attrattiva della novità, per la freschezza della sensazione, pel gusto di destare l'incendio senza lasciarsi scottare, di sfiorare il male senza cascarci.
No! stavolta non voleva cascarci! Egli le portava dei fiori, passava delle ore ad adorarla in silenzio.
Aveva finito per mandare a monte il suo matrimonio.
Tutta Altavilla avrebbe potuto credere che era l'amante di Elena.
Ma ella non gli aveva dato la punta di un dito.
- No, neppure la punta di un dito.
- Perché avete rotto il matrimonio? Sapete, non mi piace! No: siamo amici, sentite, ma niente dippiù! No!
Don Peppino arrivava a piangere di desiderio, di gelosia, di disperazione, baciandole le mani fredde.
- No! No! giammai! Io son maritata.
Poi le crudeltà della civetteria: - Cosa facevate ieri sera in casa Brancato? Non voglio che vi sdolciniate con quella sguaiata della Golano! - Nessuno dei miei amici deve andare in casa Azzari.
Buona notte ora, che è tardi.
E tutto il paese, inquieto, geloso, spiava per turno le finestre, si attardava nelle piazze, dai vicini, trascurava gli affari proprii per veder chiaro nella cosa, mandava in visita le donne, corteggiava don Peppino, sperando che cascasse in alcuno dei trabocchetti che gli si tendevano con discorsi insidiosi, che mettevano da lontano al punto controverso, interrogava ansioso il volto impenetrabile dello zio canonico, il lume della sua finestra che vegliava su quella di Elena nell'oscurità.
Almeno quello era un uomo, aveva la bocca per non parlare, ma aveva pure degli occhi per vedere; non somigliava a quel marito che se n'era andato a dar sesto ai suoi affari di Napoli, senza accorgersi del malanno che gli cascava sul capo ad Altavilla.
I più indulgenti dicevano che marito e moglie erano separati di fatto, da un pezzo, e serbavano le apparenze esteriori per riguardi umani.
Elena aveva procurato a Dorello una clientela ricca e numerosa.
Egli l'aveva sposata per questo, e faceva affari d'oro a Napoli, senza curarsi d'altro.
Si citavano nomi senza fine, date, aneddoti precisi e accertati.
Nella spezieria e al casino non parlavasi d'altro.
I curiosi si affacciavano sugli usci allorché le sorelle di Cesare andavano a messa; le signore allungavano il giro e passavano dalla piazza per vedere se c'era l'Elena affacciata, e scambiare un saluto dalla finestra, e se potevano anche quattro chiacchiere.
L'impiegato postale esaminava attentamente ogni lettera che partiva per Napoli all'indirizzo di Cesare Dorello, voltandola e rivoltandola dieci volte per ogni verso, prima di decidersi con un sospirone a metterla colle altre nel sacco della spedizione.
Se incontravano per via don Luigi, con suo fratello il canonico, andavano loro dietro, raccolti, intenti, per cercare di carpire qualche parola dei loro discorsi, e sentire se trattavasi del nipote o di sua moglie.
Il loro buon istinto non li ingannava del tutto.
Lo zio don Luigi andava a cercare ogni volta suo fratello il canonico per dirgli:
- È una porcheria! Non posso più escire di casa dalla vergogna.
Tutto il paese non parla d'altro.
La roba dei Dorello andrà in mano di una che ci disonora tutti!
- No; rispondeva il fratello colla sua calma inalterabile.
Lascia fare a me.
Vedrò io.
E parlava d'altro, evitando il discorso ogni volta che il fratello don Luigi ce lo tirava pian piano, fermandosi a chiacchierare colla gente che incontrava quasi non ci avesse altro in capo, più gentile ed ossequioso che non era mai stato verso il barone.
Ma le ragazze, le quali lo conoscevano meglio, sentivano, malgrado il loro triste raccoglimento, qualcosa di straordinario che pesava sulla casa, ormai vasta e deserta, come un pericolo, una minaccia, che maturava e si accostava lentamente; ed entravano timide nelle stanze della cognata, quelle stanze dove c'erano ancora tante memorie della loro povera morta, senza osare di fissarvi gli occhi, senza osare di fermarvisi, in presenza della foresteria, nel mutamento che indovinavano senza comprendere.
Una sera don Anselmo, passando dinanzi all'uscio di Elena, picchiò discretamente.
Don Peppino era seduto presso la finestra, e si alzò al comparire del canonico, quasi ei fosse stato un vescovo per lo meno, tutto ossequioso e imbarazzato.
Stette ancora un poco, chiacchierando a casaccio col prete impenetrabile e coll'Elena perfettamente calma.
Poi si congedò, come fosse sulle spine, e se ne andò un'ora prima del solito.
All'Elena, che glielo faceva osservare con perfetta disinvoltura, in presenza dello zio, appena don Peppino se ne fu andato, il canonico disse sorridendo:
- Son le dieci.
Voi credete sempre d'essere a Napoli.
Le dieci qui sono un'ora straordinaria.
Stette un momento in silenzio.
Poscia le prese la mano, e soggiunse colla sua voce insinuante da confessore:
- Anzi, ascoltatemi, nipote mia.
Certe visite, a certe ore, qui da noi danno nell'occhio.
Siamo in un piccolo paese, pieno di pregiudizii, di pettegolezzi, sapete...
Vi parlo come un parente, come un padre, come un confessore.
Non ve l'avrete a male.
- No! - disse Elena.
- Lo so, meschinerie, pura maldicenza.
Che volete farci? Non chiuderete la bocca ai calunniatori.
Don Peppino è giovane, ricco, scapolo...
si dice anzi che abbia voluto rimanere scapolo...
Il meglio è tagliare corto alle chiacchiere maligne, senza scandali, con bella maniera...
- Va bene, - interruppe Elena.
- Ho inteso.
XVI
Cesare tornò da Napoli all'improvviso, chiamato da un telegramma urgente di don Anselmo «per affari che reclamavano la sua presenza».
Da qualche tempo il canonico servivasi del telegrafo come un banchiere.
Elena al veder comparire suo marito si fece rossa.
Alle domande che lui balbettava, colla testa altrove, rispondeva distrattamente anch'essa:
- Sì, la Barberina sta bene, tutti stanno bene...
Chi non sta bene qui sono io sola.
Cesare evitò di rispondere.
Elena allora gli domandò, col suo viso duro che la trasformava completamente da un momento all'altro:
- Tuo zio t'ha scritto?
Cesare levò il capo, e i loro occhi s'incontrarono.
Voleva dire qualche cosa, ma non poteva.
Si scolorava in volto, impallidiva grado grado in un modo spaventevole.
Infine balbettò:
- È vero che la baronessa...
ti ha fatto scacciare di casa sua?...
Elena avvampò in viso.
Poscia impallidì anch'essa.
Ma non rispose, guardandolo fisso.
- Suo figlio...
ha mandato a monte il matrimonio...
per te?...
Ella non rispose nemmeno.
Lo speziale ha visto uscire don Peppino da questa casa...
di notte.
Cesare aspettò, ansante, tremando in tutte le membra, cogli occhi ardenti di lagrime.
- Ma rispondi! rispondi, sciagurata! Rispondi qualche cosa!...
- Voglio andarmene a Napoli, dai miei parenti, - rispose soltanto Elena.
Egli non disse motto, aprì la bocca senza fiato.
Barcollò.
Poi cadde su di una sedia.
Ah! ecco la risposta che gli dava! Non una parola di giustificazione, di conforto, d'affetto, di pietà, pel dolore atroce che pur doveva leggere nei lineamenti di suo marito! Non un pensiero per lui! non un pensiero per sua figlia? - Allora tutte le memorie nere, tutte le gelosie, tutti i dolori del passato gli morsero il cuore, vive, implacabili.
Un'immensa vergogna, un immenso scoramento, una collera amara lo invasero.
Egli non trovava le parole, ma tutto ciò gli scintillava in quegli occhi ardenti e pieni di lagrime, gli tremava nelle membra convulse.
Le afferrò le mani, con uno schianto di quella angoscia sovrumana.
Ella ebbe paura, soltanto paura, e si svincolò atterrita.
- No! esclamò Cesare con un riso amaro.
Non temere!
Don Liborio arrivò colla famiglia, compresa la Camilla, arcigna.
S'istallarono nelle migliori stanze della casetta.
Non aprivano bocca a tavola.
E dopo pranzo il babbo usciva a passeggiare col canonico, per regolare gli affari della figliuola, prima di riprendersela.
Egli era venuto armato del codice, del commentario, di tutti i suoi libri legali, felicissimo di poter sfoderare la sua eloquenza e i suoi cavilli.
Donn'Anna rovistava le casse e gli armadii della figliuola, andava attorno pel vicinato a dir roba da chiodi del genero, tirandosi dietro, in prova, la Camilla rassegnata e calma come una vittima.
Il paese ci godeva nello scandalo, lo allargava coi commenti, lo faceva irrimediabile.
Elena chiusa nella sua stanza, non si lasciava veder più, e don Peppino se n'era andato a Napoli per fuggire lo scandalo - per aspettarla laggiù - dicevano le male lingue.
- Ah! finiamola, finiamola presto, per carità, diceva Cesare allo zio, come uno che stia per perdere la ragione.
Il canonico, onde cercare di evitare il chiasso quando poteva, aveva fatto ogni concessione.
Finalmente, regolati gli interessi, come voleva don Liborio, fissarono il giorno della partenza.
La Barberina doveva restare colla madre, sino all'età di metterla in collegio.
La sera prima della partenza la bambinaia la portò dal genitore perché l'abbracciasse.
Così la rompevano col passato! dimenticavano ogni cosa! e gli voltavano le spalle! Elena, in quei cinque giorni, non aveva provato una sola di quelle tentazioni che a lui avevano fatto girare il capo, di correre fra le sue braccia, di dimenticare tutti i rancori e tutti i dolori in un amplesso! Non gli si era fatta più vedere.
Partiva senza dirgli una parola.
Che cuore aveva cotesta donna? Qual sentimento aveva avuto per lui? Allora, in quella notte eterna, fra le quattro pareti tetre della sua cameretta, il pensiero delle altre ore di angoscia, delle altre notti insonni, tornò invariato a torturarlo.
Cataldi! il poeta! il duca!...
Dunque era vero? Si trovava avvilito, non credeva a se stesso.
Era sceso tanto in basso? Era stato geloso di tanti?...
Quanto c'era di vero nei sospetti? di fondato nella sua gelosia?...
Ah!...
Ora che essa lo lasciava! Quando sarebbe stata libera...
Elena!...
la sua Elena! sua moglie, la madre della sua bambina! La sua donna adorata!...
E poteva partire così? E poteva lasciarlo, e non sentire proprio più nulla per lui? Dopo tanto amore, tante carezze, tanta intimità, tante gioie, tanti sagrifizi!...
Ella pure l'aveva amato.
Ella pure!...
Com'era bella! quanto quanto!...
come l'amava! E potevano lasciarsi così? senza vedersi!...
L'avesse vista almeno un'ultima volta...
in quel letto, coi capelli sciolti...
vederla dormire!...
un'ultima volta!...
Poteva dormire?...
La fiamma del lume solitario drizzavasi diritta sulle pareti nere.
La piazza deserta, di là dei vetri.
Non un passo, non una voce, non un tocco d'orologio.
Nella casa non si udiva un sol rumore della numerosa famiglia.
Il passato scompariva tutto, la gelosia, la collera, il dolore, tutto...
Non restava che Elena, la sua Elena, di là, dopo due o tre stanze, che partiva il giorno dopo, per sempre!...
Almeno vederla un'ultima volta! l'ultima!...
S'ella si fosse svegliata? se gli avesse buttato le braccia al collo? se gli avesse detto: - Perdonami! Sì, anche allora!...
fosse anche stato certo!...
che gliene importava a lui, se Elena avrebbe potuto amarlo un'altra volta?...
Sarebbero fuggiti insieme, lontano!...
Ma lasciarla!...
Forse lasciarla ad un altro!...
Piuttosto si sarebbe ucciso sotto i suoi occhi, con quel pugnale, se lo lasciava così!...
No! no! senza di lei non poteva restare...
senza la sua Elena...
Meglio la morte...
meglio!
Le stanze erano buie, in fondo trapelava dall'uscio il lume della lampada di lei.
Un lieve sforzo e l'imposta cedette.
Elena non era di quelle che hanno paura.
Dormiva serena, quasi sorridente, coi capelli neri sul guanciale, il viso bianco posato sul braccio nudo.
Quante memorie, quanta dolcezza, quanto amore c'eran là! Che dolore, che angoscia terribile, che smania, che gelosia!...
Degli altri! degli altri!...
quel braccio nudo, quell'omero nudo! quella bocca profumata! quei capelli folti...
Ah! degli altri! degli altri, come lui! come lui!...
Ella...
come a lui...
E quando fosse stato lontano...
quando ella fosse stata libera...
Allora...
allora!...
E se dopo gli avesse detto: - Vieni - egli sarebbe andato! E qualunque cosa avesse voluto da lui, egli l'avrebbe fatto! E finché fosse stata viva, lo avesse anche tradito cento volte, egli sarebbe tornato cento volte a leccarle i piedi! Vile! vile! vile!...
Era malato, era pazzo! quella era la sua malattia, quella era la sua pazzia! finch'ella vivrebbe!...
finché vivrebbe!...
Di altri!...
Ebbene..
sì! che importa?...
Il passato...
che importa il passato?...
Cos'è il passato?...
Purché Elena fosse tornata ad amarlo? Purché fosse tornata ad esser sua!...
Fuggirebbe.
Cambierebbe nome...
Dimenticherebbe ogni cosa!...
Se ella poteva tornare ad amarlo!...
Se ella lo vedeva! lì, in quel momento supremo, pronto a morire, con quel pugnale per uccidersi! - Le scoperse il seno, e chiamò con voce sorda:
- Elena!
Ella si riscosse atterrita, cogli occhi stralunati.
Ebbe paura, e balzò fuori del letto, colla voce soffocata in gola dal terrore.
Egli continua a chiamarla, con uno strano accento di desiderio e d'amore: - Elena! Elena!...
Ella cominciò a gridare, pazza di terrore, chiamando aiuto!
- Ah! balbettò Cesare rabbrividendo sino alla radice dei capelli.
- Ah! non mi ami più! non mi ami più! Non hai che paura!...
Allora, afferrandola per il braccio, colla mano ferma, colpì disperatamente, una, due, tre volte.
...
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