[Pagina precedente]...oleva levare prima delle nove. Ci volevano ancora tre ore. Cesare sentì il bisogno di escire a prendere una boccata d'aria, e far quattro passi. Quando ritornò, Elena aveva già fatto apparecchiare la colazione nella sua camera, perché non si sentiva bene. Ella era pallida, sembrava stanca, si strascinava lentamente coi capelli ancora disfatti su di una lunga veste di camera slacciata. Senza che egli glielo avesse chiesto gli disse:
- Sono indisposta, ma non è nulla. Un po' di stanchezza. Ho dormito poco in questi giorni... Bisogna aspettarselo.
Non mangiò quasi a colazione, sembrava che a tavola ci stesse per far compagnia al marito. Dopo sparecchiato si sdraiò sulla poltrona, rifinita, e lui non osò lasciarla sola mentre la donna si affaccendava ancora per la camera. Entrambi cercavano gli argomenti per scambiare qualche parola breve e fredda.
Così trascorsero parecchi giorni. Col tempo il primo impeto di dolore disperato che sembrava collera andava mutandosi in una tristezza desolata e taciturna. Un giorno verso sera, arrivò donn'Anna, tutta scalmanata, collo scialle giù per la schiena, facendosi accompagnare stavolta da Roberto. Nella notte Elena diede alla luce una bambina. Il marito che aveva atteso nella stanza accanto, trasalendo dall'intimo delle viscere ad ogni lamento soffocato che si udiva, allorché aprirono l'uscio si sentì balzare il cuore alla gola in un sol palpito. Egli si accostò al letto di sua moglie, sgomento, con un gran tumulto di pensieri e di affetti in cuore. Elena, abbattuta, col viso bianco, pareva non ci avesse più una sola goccia di sangue nelle vene. Come la chiamavano con voce carezzevole ella voltò il capo dall'altra parte, con quell'espressione di disgusto, di dispetto infantile che hanno certi ammalati, senza aprire gli occhi. Le sole parole che disse furono:
- Lasciatemi stare! Lasciatemi stare!
La bambina l'avevano messa da parte, come un mucchio di biancheria. La madre in silenzio, aveva interrogato la levatrice con uno sguardo ansioso e febbrile, ma al sentirsi rispondere la magra consolazione: «Una bella bambina», aveva richiuso gli occhi con quella stessa aria di noia, di stanchezza e di fastidio.
Don Liborio era corso a prendere la Camilla. Donn'Anna affaccendata s'era impadronita della bambina, la portava in trionfo, tornava a posarla sul guanciale accanto all'Elena per fargliela vedere. Questa finalmente aprì gli occhi a stento, e le rivolse uno sguardo stanco.
- Sarà bella come un amore! esclamò la nonna. Elena rispose con un movimento delle spalle che fece smuovere le coperte, e mormorò, rinchiudendo gli occhi:
- A che giova?...
Il povero marito ne fu mortificato, quasi quelle parole fossero rivolte a lui. Egli non osava fiatare e si sentiva estraneo in mezzo a tutta quella gente che riempiva la sua casa, donn'Anna, il suocero, Camilla, Roberto, si lasciava scacciare a poco a poco fuori della camera, dalla suocera, dalla levatrice, dalla serva che si affaccendavano intorno al letto di Elena. Andò ad attendere nel salotto, insieme al suocero che chiacchierava con Roberto sul canapè. Di tanto in tanto Camilla veniva a dire qualche parola al cugino sotto voce, e tutti e due scomparivano nel terrazzino; e il babbo aspettava sbadigliando, colle mani sul bastone. L'alba cominciava ad imbiancare nella piazza. Infine donn'Anna venne col cappello in testa ad annunziare che Elena stava riposando. Roberto diede il braccio a Camilla, e tutti se ne andarono.
Rimase solo colla moglie, la quale aveva le mani e il viso bianchi come la tela su cui posavano, assopita in un sonno penoso che di tanto in tanto la faceva riscuotere con un gemito soffocato, senza aprire gli occhi. Il medico non si era mostrato del tutto tranquillo, ed era tornato due volte nella giornata. Cesare solo spiava ansiosamente il volto e le parole di lui. Donn'Anna, Camilla, tutta la famiglia, andavano e venivano senza sospettare di nulla, empivano di frastuono e di via vai tutta la casa. Elena aveva un moto doloroso della fisonomia per esprimere il male che le arrecavano i più lievi rumori, un voltar la testa pallida dall'altra parte, una contrazione delle sopracciglia sulle palpebre chiuse, uno stringer di labbra. Soltanto allorché il marito si chinava sul letto per dirle sottovoce di bere una tazza di brodo o di prendere una medicina, apriva gli occhi, lo guardava con una specie di meraviglia, lo seguiva collo sguardo mentre egli andava e veniva per la stanza in punta di piedi, con rara sollecitudine, delicata e femminea. Allorquando si svegliava di soprassalto dal suo corto sonnecchiare, lo vedeva sempre là , sulla poltroncina ai piedi del letto, che si alzava pian piano, e si accostava per domandarle all'orecchio come si sentisse. Molte volte, in quelle tristi veglie al lume della lampada notturna che lasciava il letto nell'ombra, dinanzi a quella forma indistinta di cui non si udiva neppure un soffio, di cui spiccavano solo i capelli bruni, e le ombre vaghe del viso, Cesare fu assalito da un pauroso presentimento da un terrore superstizioso che gli agghiacciava il sangue nelle vene al pensare che in un momento di disperato dolore egli aveva invocata la morte, la morte per sé o per lei, non sapeva per chi. Allora tutta la sua collera, tutta la sua angoscia si fondeva in un'altra angoscia sorda e molle, in una tenerezza cieca e disperata che gli avrebbe fatto afferrare piangendo quelle mani lunghe e bianche posate sulle lenzuola, se non avesse temuto di destarla. Ella, quando si sentiva un po' meglio, lo guardava con quegli occhi pieni di febbre, troppo sfinita per poter parlare, o come se non avesse osato farlo, quasi volesse domandargli perdono del male che gli aveva fatto, con certa serenità carezzevole di bestia malefica, inconscia ed irresponsabile, con un sorriso melanconico, stendendogli le mani pallide. In quei momenti ei le leggeva sino in fondo all'anima, attraverso quegli occhi limpidi, e pensava che ella gli aveva dilaniato il cuore senza sospettare di fargli male, al pari del fanciullo che tortura un uccelletto. S'egli avesse avuto l'ispirazione di parlarle in questo senso Elena forse avrebbe pianto con lui. Ora, pensava lui, era tardi. Ora bisogna distruggere e dimenticare persino quella lettera fatale, e ricominciare un'altra vita di intimità e d'affetto per riconquistare quel cuore a furia d'abnegazione e di sacrifici, col dimostrarle che le si abbandonava tutto intero, fiducioso e dimentico di quel ch'era stato.
Un mattino in cui il medico aveva detto finalmente che non c'era più bisogno di lui, e l'Elena appoggiata a un monte di guanciali sorrideva del suo sorriso pallido, in mezzo a tutti i suoi parenti, ei domandò:
- Vuoi vedere la Barbara?
- Che Barbara?
- Nostra figlia.
- Vuoi chiamarla Barbara? Ah, è vero. È il nome di tua madre. Ma non è bello; del resto fa come vuoi.
La mamma, che aveva i suoi pregiudizii a questo riguardo, e sapeva che se c'è due dello stesso nome nella famiglia il più vecchio se ne va per cedere il posto, conchiuse:
- Bisogna trovare un bel nome per la piccina; un nome di buon augurio: Fortunata, per esempio!
- Aurelia! suggerì Camilla.
- Barbara! sentenziò don Liborio. Il primo nato deve portare un nome dei genitori del marito, il secondo quello dei genitori della moglie, e così di seguito per tutta la parentela.
- Grazie tante! esclamò Elena alzando la voce per la prima volta. - Quanto a me mi fermo alla Barbara!
XII
Nel salottino color d'oro, alla luce tranquilla della lampada, Elena, inginocchiata sul tappeto, si trastullava colla sua bambina come fosse ridivenuta bambina anch'essa. La spogliava per rivestirla a modo suo, si divertiva a vederla agitare le gambucce e a baciarle i piedini color di rosa, sembrava invasa da impeti di frenesia al sentirla galloriare, quasi la Barberina prendesse parte alla festa, colle manine tese e brancicanti, cogli occhietti ancora vaghi e senza sguardo; si slanciava su di lei come volesse soffocarla colle carezze, e la baciava con una specie di furore amoroso. Di tanto in tanto si arrestava, anelante, seduta sulle calcagna, lisciandosi i capelli sulla fronte, per riprender fiato, e balbettava al marito:
- Guarda! guarda! che amore!
Poi se la pigliava al seno, nudo, per sentirsi fra le braccia tutta la sua creatura, andava a mettersi dinanzi allo specchio, discingendosi con arte, acconciandosi sul capo un fazzoletto rosso a guisa di quelle Madonne che aveva viste dipinte, assorta in un'ammirazione così ingenua della sua bellezza sensuale che diceva di allattar lei la bimba, e non voleva la toccassero altre mani.
La maternità era un'altra maniera di espandersi la sua sensualità sottile, l'ambizione, la leggerezza, la bizzarria che c'era nel suo temperamento. Il marito, lì davanti, colle sue cartacce sotto il braccio, col viso pallido dalla fatica, col sorriso distratto, non aveva nulla di artistico agli occhi di tal moglie, nulla di teatralmente affettuoso. Per poco non gli rimproverava:
- Tu non le vuoi bene alla Barberina!
In lui tutto era modesto: il lavoro, la tenerezza, la generosità delicata. Quando facevano dei progetti per l'avvenire della bimba, dei castelli in aria, quelli di Elena erano sempre i più belli e i più pittoreschi. Parlava di cercare una bambinaia inglese, e una istitutrice toscana, maestri di musica, di disegno, di lingua, che so io. Una volta lanciata, rifaceva colla figliuola i fantastici progetti della sua giovinezza, che non si erano realizzati. Cesare non osava però rompere con una parola quelle divagazioni sfrenate dell'immaginazione, sorrideva dolcemente, quasi per richiamarla alla realtà . Ma in cuor suo si sentiva delle vaghe angoscie, come l'eco dei dolori che quelle illusioni gli erano costate.
Però le sue inquietudini si calmavano alla luce blanda di quella lampada, fra quelle note pareti, al cinguettio infantile di quelle due voci adorate. E ripeteva dentro di sé: - È una bambina anch'essa! e glielo diceva anche col suo sorriso un po' triste, accarezzandole colla mano la testolina bruna allo stesso modo che accarezzava la testolina bionda della figliuoletta: - Bambina! bambina mia! Tu sei ancora una bambina.
E sentiva una dolcezza melanconica, una specie di conforto al pensare che la sua Elena era così giovane od inesperta, da non accorgersi quasi del male che poteva fare, ch'egli era il suo protettore e la sua guida, e se pure un momento ella si era smarrita per correre dietro il suo cervellino romantico, la colpa era di lui, che non era stato abbastanza prudente, né abbastanza forte. Il sentimento della propria debolezza era il suo maggiore tormento. Gli pareva di diffidare della moglie perché diffidava di se stesso. Si attaccava tanto più a lei quanto meno si sentiva a livello di quel carattere energico e risoluto. Egli era la donna, l'amante, senz'altra forza che la devozione, l'abnegazione, il sagrificio. Ma quante cose non gli aveva sacrificato l'Elena! Quanti pensieri gli tornavano in mente mentre accarezzava la testa di Elena! ed uno, il più doloroso di tutti, che non si presentava mai nettamente, ma gli offuscava, gli avvelenava ogni gioia, se Elena gli fissava gli occhi addosso, se gli rideva, se nella voce di lei sentiva un'intonazione più dolce, s'ella chinava il capo sotto la sua carezza come una colomba innamorata! No! no! era impossibile che quella colomba avesse guardato un altro così! che gli avesse parlato in tal modo!
Era una bambina! Era una bambina!
Allora posava la testa sulle spalle di Elena, la cingeva colle braccia, come per proteggerla, le parlava della figliuola per metter questa fra il presente e il passato.
- L'importante è d'impararle ad essere felice, la povera creaturina, a contentarsi del suo stato. Non è vero, Elena? Quando si è contenti del proprio stato si è felici. Noi non siamo ricchi. Abbiamo avuto dei guai tanti! Ti ricordi, povera Elena? Ma ora son finiti. Non è vero che son finiti?... Dimmi, sei felice anche te?
Elena diceva di sì col capo, cogli occhi, colle carezze, coi baci... Poscia tornava a baciucchiare la s...
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