IL MARITO DI ELENA, di Giovanni Verga - pagina 23
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Un maturo benestante che faceva la corte dalla finestra ad una delle sorelle di Dorello non si fece più vedere.
Lo zio Luigi, al quale delle anime caritatevoli erano corse a dare l'allarme, arrivò all'improvviso, tutto sottosopra, commosso sino alle intime viscere dal timore che suo fratello il canonico potesse essere rapito al suo affetto da un momento all'altro, come la cognata.
- Quando la morte picchia ad una casa non si contenta di così poco.
- Il sangue gli parlava nelle vene, il sangue stesso di don Anselmo, il quale aveva accumulato una bella sostanza, e doveva rammentarsi del sangue suo, prima di disporre in favore dei nipoti, e di gente estranea per soprammercato, che aspettava la sua morte per scialarla coi suoi denari.
Il paese intero diceva la stessa cosa.
Nella spezieria e nel casino non si parlava d'altro che del lusso di Elena, dei suoi ricevimenti principeschi, delle sue dozzine di cappelli, - aneddoti, pettegolezzi, maldicenze.
La signora Brancato, la signora Golano, tutte, andarono a farle visita in gala, seguite da certi servitori insaccati in livree a colori vivaci, impastoiati in guanti bianchi di cotone.
Elena sembrava tornata ai bei tempi della Rosamarina.
La morte che aveva colpito come un fulmine, il lutto che si era stretto attorno alla famiglia, l'aveva riaccostata intimamente e sinceramente al marito, di cui sentiva essere il solo conforto, quasi una cara e dolorosa memoria vivente delle amarezze che gli era costata.
Cesare non le aveva detto nulla, ma ella indovinava ai suoi tristi silenzi, agli occhi che gli si gonfiavano di lagrime, quando le stringeva commosso la mano, scrollando il capo, e pareva volesse dirle:
- Dimentichiamo! dimentichiamo!...
Una delle sorelle, nell'espansione disperata delle lagrime, aveva detto che la mamma non s'era più riavuta dallo spavento quando il canonico aveva scoperto la vendita segreta del sommacco e l'affare del vaglia mandato a Cesare di nascosto.
Sembrava che zio e nipote avessero sempre dinanzi agli occhi quelle parole, e non potessero guardarsi senza ricordarsene.
A poco a poco nella famigliuola andavasi facendo la calma del dolore, si riprendevano tristamente le abitudini della vita, l'intimità era meno silenziosa ma meno stretta.
Il prete tornava alla sua chiesa e ai suoi poderi.
Cesare aveva dovuto fare una o due gite alla città per affari, quantunque fosse l'epoca feriale.
Le ragazze ricominciavano ad occuparsi di faccende domestiche.
La vita li ripigliava, li distraeva, li separava, ognuno per la sua strada.
Dopo pranzo la Barberina, la quale prima col ricordo soltanto del suo nome, faceva gonfiare gli occhi di lagrime, chiamava alcuni istanti di allegria schietta, di vera festa domestica, colla sua innocente serenità, colle sue monellerie da bambina viziata.
Nelle carezze le fronti si spianavano, delle risate gioconde tornavano a risuonare nella vasta stanza piena di tante memorie tristi.
Elena godeva anch'essa di quei piaceri intimi, della gioia tranquilla, di quell'esistenza raccolta.
Colla volubilità estrema della sua natura le pareva che fossero passati dei secoli dal tempo delle feste mondane.
Provava una soddisfazione raffinata, un contrasto piccante, nell'evocare i sogni romanzeschi come cose lontane, nella fantastica contemplazione della natura, nell'azzurro del cielo, nel violetto delle montagne lontane, nella pace dell'ora silenziosa, nel cinguettio volgare delle dame colle mani rosse che andavano a trovarla.
Il barone si era fatto sposo con una delle più ricche damigelle di Avellino, e venne a far visita anche lui - sorpresi entrambi di trovarsi tanto mutati.
Elena sapeva ormai per esperienza che anche nelle sale sdegnose della grande città l'eco di una sostanza colossale ha sempre una grande importanza.
Egli aveva viaggiato e aveva lasciato qua e là un po' della sua pinguedine e molto del suo denaro.
In cambio aveva riportato dei vestiti di un sarto in voga, le maniere distinte, il frasario convenzionale dei saloni, la disinvoltura e l'impertinenza della sua ricchezza.
Elena ne fu piacevolmente impressionata, quasi lusingata, come ciò fosse opera sua, pel lievito che aveva lasciato la sua memoria in quel mezzo contadino.
E per quanto fosse padrona di sé, per quanto volesse persuadersi sinceramente di non aver più un pensiero che non fosse per suo marito, era troppo donna per non lasciarglielo indovinare.
Don Peppino dal canto suo era abbastanza incivilito per non accorgersene, per non fondarci sopra mille castelli in aria, aiutandoli colle chiacchiere sentite in caffè, dinanzi al banco del farmacista, nello studio del notaio.
Egli aveva raccolto, come gli altri del paesello, i pettegolezzi che correvano sulla riputazione dell'Elena.
Alla sua primitiva ammirazione ingenua per la cittadina, gonfiata nella disoccupazione del paesello, si mescolava adesso un sapore più acuto, l'immagine della sua nuca bianca, dei suoi occhioni grigi, le carezze della sua voce, il ricordo delle sue civetterie innocenti, il desiderio delle sue labbra rosse.
Il poco che ella gli aveva accordato s'ingigantiva e si inaspriva ora al sorgere di tutte quelle memorie, gli pareva che ella fosse stata qualcosa per lui, gli avesse lasciato come una promessa.
Ma tornando a farle visita, ogni volta, si trovava di nuovo impacciato e timido; sentiva ingigantire il suo desiderio all'ostacolo che incontrava in se stesso; continuava ad esprimerle la sua ammirazione bramosa con una riserbatezza esitante che aveva l'attrattiva del pudore.
La donna ricominciava a sentire un piacere mascolino nell'indovinare tutte coteste impressioni, nel solleticare coteste simpatie, nel provocare la confessione di questi sentimenti, come un seduttore raffinato gode nell'assaporare il turbamento che mette nell'anima d'una giovinetta, per l'attrattiva della novità, per la freschezza della sensazione, pel gusto di destare l'incendio senza lasciarsi scottare, di sfiorare il male senza cascarci.
No! stavolta non voleva cascarci! Egli le portava dei fiori, passava delle ore ad adorarla in silenzio.
Aveva finito per mandare a monte il suo matrimonio.
Tutta Altavilla avrebbe potuto credere che era l'amante di Elena.
Ma ella non gli aveva dato la punta di un dito.
- No, neppure la punta di un dito.
- Perché avete rotto il matrimonio? Sapete, non mi piace! No: siamo amici, sentite, ma niente dippiù! No!
Don Peppino arrivava a piangere di desiderio, di gelosia, di disperazione, baciandole le mani fredde.
- No! No! giammai! Io son maritata.
Poi le crudeltà della civetteria: - Cosa facevate ieri sera in casa Brancato? Non voglio che vi sdolciniate con quella sguaiata della Golano! - Nessuno dei miei amici deve andare in casa Azzari.
Buona notte ora, che è tardi.
E tutto il paese, inquieto, geloso, spiava per turno le finestre, si attardava nelle piazze, dai vicini, trascurava gli affari proprii per veder chiaro nella cosa, mandava in visita le donne, corteggiava don Peppino, sperando che cascasse in alcuno dei trabocchetti che gli si tendevano con discorsi insidiosi, che mettevano da lontano al punto controverso, interrogava ansioso il volto impenetrabile dello zio canonico, il lume della sua finestra che vegliava su quella di Elena nell'oscurità.
Almeno quello era un uomo, aveva la bocca per non parlare, ma aveva pure degli occhi per vedere; non somigliava a quel marito che se n'era andato a dar sesto ai suoi affari di Napoli, senza accorgersi del malanno che gli cascava sul capo ad Altavilla.
I più indulgenti dicevano che marito e moglie erano separati di fatto, da un pezzo, e serbavano le apparenze esteriori per riguardi umani.
Elena aveva procurato a Dorello una clientela ricca e numerosa.
Egli l'aveva sposata per questo, e faceva affari d'oro a Napoli, senza curarsi d'altro.
Si citavano nomi senza fine, date, aneddoti precisi e accertati.
Nella spezieria e al casino non parlavasi d'altro.
I curiosi si affacciavano sugli usci allorché le sorelle di Cesare andavano a messa; le signore allungavano il giro e passavano dalla piazza per vedere se c'era l'Elena affacciata, e scambiare un saluto dalla finestra, e se potevano anche quattro chiacchiere.
L'impiegato postale esaminava attentamente ogni lettera che partiva per Napoli all'indirizzo di Cesare Dorello, voltandola e rivoltandola dieci volte per ogni verso, prima di decidersi con un sospirone a metterla colle altre nel sacco della spedizione.
Se incontravano per via don Luigi, con suo fratello il canonico, andavano loro dietro, raccolti, intenti, per cercare di carpire qualche parola dei loro discorsi, e sentire se trattavasi del nipote o di sua moglie.
Il loro buon istinto non li ingannava del tutto.
Lo zio don Luigi andava a cercare ogni volta suo fratello il canonico per dirgli:
- È una porcheria! Non posso più escire di casa dalla vergogna.
Tutto il paese non parla d'altro.
La roba dei Dorello andrà in mano di una che ci disonora tutti!
- No; rispondeva il fratello colla sua calma inalterabile.
Lascia fare a me.
Vedrò io.
E parlava d'altro, evitando il discorso ogni volta che il fratello don Luigi ce lo tirava pian piano, fermandosi a chiacchierare colla gente che incontrava quasi non ci avesse altro in capo, più gentile ed ossequioso che non era mai stato verso il barone.
Ma le ragazze, le quali lo conoscevano meglio, sentivano, malgrado il loro triste raccoglimento, qualcosa di straordinario che pesava sulla casa, ormai vasta e deserta, come un pericolo, una minaccia, che maturava e si accostava lentamente; ed entravano timide nelle stanze della cognata, quelle stanze dove c'erano ancora tante memorie della loro povera morta, senza osare di fissarvi gli occhi, senza osare di fermarvisi, in presenza della foresteria, nel mutamento che indovinavano senza comprendere.
Una sera don Anselmo, passando dinanzi all'uscio di Elena, picchiò discretamente.
Don Peppino era seduto presso la finestra, e si alzò al comparire del canonico, quasi ei fosse stato un vescovo per lo meno, tutto ossequioso e imbarazzato.
Stette ancora un poco, chiacchierando a casaccio col prete impenetrabile e coll'Elena perfettamente calma.
Poi si congedò, come fosse sulle spine, e se ne andò un'ora prima del solito.
All'Elena, che glielo faceva osservare con perfetta disinvoltura, in presenza dello zio, appena don Peppino se ne fu andato, il canonico disse sorridendo:
- Son le dieci.
Voi credete sempre d'essere a Napoli.
Le dieci qui sono un'ora straordinaria.
Stette un momento in silenzio.
Poscia le prese la mano, e soggiunse colla sua voce insinuante da confessore:
- Anzi, ascoltatemi, nipote mia.
Certe visite, a certe ore, qui da noi danno nell'occhio.
Siamo in un piccolo paese, pieno di pregiudizii, di pettegolezzi, sapete...
Vi parlo come un parente, come un padre, come un confessore.
Non ve l'avrete a male.
- No! - disse Elena.
- Lo so, meschinerie, pura maldicenza.
Che volete farci? Non chiuderete la bocca ai calunniatori.
Don Peppino è giovane, ricco, scapolo...
si dice anzi che abbia voluto rimanere scapolo...
Il meglio è tagliare corto alle chiacchiere maligne, senza scandali, con bella maniera...
- Va bene, - interruppe Elena.
- Ho inteso.
XVI
Cesare tornò da Napoli all'improvviso, chiamato da un telegramma urgente di don Anselmo «per affari che reclamavano la sua presenza».
Da qualche tempo il canonico servivasi del telegrafo come un banchiere.
Elena al veder comparire suo marito si fece rossa.
Alle domande che lui balbettava, colla testa altrove, rispondeva distrattamente anch'essa:
- Sì, la Barberina sta bene, tutti stanno bene...
Chi non sta bene qui sono io sola.
Cesare evitò di rispondere.
Elena allora gli domandò, col suo viso duro che la trasformava completamente da un momento all'altro:
- Tuo zio t'ha scritto?
Cesare levò il capo, e i loro occhi s'incontrarono.
Voleva dire qualche cosa, ma non poteva.
Si scolorava in volto, impallidiva grado grado in un modo spaventevole.
Infine balbettò:
- È vero che la baronessa...
ti ha fatto scacciare di casa sua?...
Elena avvampò in viso.
Poscia impallidì anch'essa.
Ma non rispose, guardandolo fisso.
- Suo figlio...
ha mandato a monte il matrimonio...
per te?...
Ella non rispose nemmeno.
Lo speziale ha visto uscire don Peppino da questa casa...
di notte.
Cesare aspettò, ansante, tremando in tutte le membra, cogli occhi ardenti di lagrime.
- Ma rispondi! rispondi, sciagurata! Rispondi qualche cosa!...
- Voglio andarmene a Napoli, dai miei parenti, - rispose soltanto Elena.
Egli non disse motto, aprì la bocca senza fiato.
Barcollò.
Poi cadde su di una sedia.
Ah! ecco la risposta che gli dava! Non una parola di giustificazione, di conforto, d'affetto, di pietà, pel dolore atroce che pur doveva leggere nei lineamenti di suo marito! Non un pensiero per lui! non un pensiero per sua figlia? - Allora tutte le memorie nere, tutte le gelosie, tutti i dolori del passato gli morsero il cuore, vive, implacabili.
Un'immensa vergogna, un immenso scoramento, una collera amara lo invasero.
Egli non trovava le parole, ma tutto ciò gli scintillava in quegli occhi ardenti e pieni di lagrime, gli tremava nelle membra convulse.
Le afferrò le mani, con uno schianto di quella angoscia sovrumana.
Ella ebbe paura, soltanto paura, e si svincolò atterrita.
- No! esclamò Cesare con un riso amaro.
Non temere!
Don Liborio arrivò colla famiglia, compresa la Camilla, arcigna.
S'istallarono nelle migliori stanze della casetta.
Non aprivano bocca a tavola.
E dopo pranzo il babbo usciva a passeggiare col canonico, per regolare gli affari della figliuola, prima di riprendersela.
Egli era venuto armato del codice, del commentario, di tutti i suoi libri legali, felicissimo di poter sfoderare la sua eloquenza e i suoi cavilli.
Donn'Anna rovistava le casse e gli armadii della figliuola, andava attorno pel vicinato a dir roba da chiodi del genero, tirandosi dietro, in prova, la Camilla rassegnata e calma come una vittima.
Il paese ci godeva nello scandalo, lo allargava coi commenti, lo faceva irrimediabile.
Elena chiusa nella sua stanza, non si lasciava veder più, e don Peppino se n'era andato a Napoli per fuggire lo scandalo - per aspettarla laggiù - dicevano le male lingue.
- Ah! finiamola, finiamola presto, per carità, diceva Cesare allo zio, come uno che stia per perdere la ragione.
Il canonico, onde cercare di evitare il chiasso quando poteva, aveva fatto ogni concessione.
Finalmente, regolati gli interessi, come voleva don Liborio, fissarono il giorno della partenza.
La Barberina doveva restare colla madre, sino all'età di metterla in collegio.
La sera prima della partenza la bambinaia la portò dal genitore perché l'abbracciasse.
Così la rompevano col passato! dimenticavano ogni cosa! e gli voltavano le spalle! Elena, in quei cinque giorni, non aveva provato una sola di quelle tentazioni che a lui avevano fatto girare il capo, di correre fra le sue braccia, di dimenticare tutti i rancori e tutti i dolori in un amplesso! Non gli si era fatta più vedere.
Partiva senza dirgli una parola.
Che cuore aveva cotesta donna? Qual sentimento aveva avuto per lui? Allora, in quella notte eterna, fra le quattro pareti tetre della sua cameretta, il pensiero delle altre ore di angoscia, delle altre notti insonni, tornò invariato a torturarlo.
Cataldi! il poeta! il duca!...
Dunque era vero? Si trovava avvilito, non credeva a se stesso.
Era sceso tanto in basso? Era stato geloso di tanti?...
Quanto c'era di vero nei sospetti? di fondato nella sua gelosia?...
Ah!...
Ora che essa lo lasciava! Quando sarebbe stata libera...
Elena!...
la sua Elena! sua moglie, la madre della sua bambina! La sua donna adorata!...
E poteva partire così? E poteva lasciarlo, e non sentire proprio più nulla per lui? Dopo tanto amore, tante carezze, tanta intimità, tante gioie, tanti sagrifizi!...
Ella pure l'aveva amato.
Ella pure!...
Com'era bella! quanto quanto!...
come l'amava! E potevano lasciarsi così? senza vedersi!...
L'avesse vista almeno un'ultima volta...
in quel letto, coi capelli sciolti...
vederla dormire!...
un'ultima volta!...
Poteva dormire?...
La fiamma del lume solitario drizzavasi diritta sulle pareti nere.
La piazza deserta, di là dei vetri.
Non un passo, non una voce, non un tocco d'orologio.
Nella casa non si udiva un sol rumore della numerosa famiglia.
Il passato scompariva tutto, la gelosia, la collera, il dolore, tutto...
Non restava che Elena, la sua Elena, di là, dopo due o tre stanze, che partiva il giorno dopo, per sempre!...
Almeno vederla un'ultima volta! l'ultima!...
S'ella si fosse svegliata? se gli avesse buttato le braccia al collo? se gli avesse detto: - Perdonami! Sì, anche allora!...
fosse anche stato certo!...
che gliene importava a lui, se Elena avrebbe potuto amarlo un'altra volta?...
Sarebbero fuggiti insieme, lontano!...
Ma lasciarla!...
Forse lasciarla ad un altro!...
Piuttosto si sarebbe ucciso sotto i suoi occhi, con quel pugnale, se lo lasciava così!...
No! no! senza di lei non poteva restare...
senza la sua Elena...
Meglio la morte...
meglio!
Le stanze erano buie, in fondo trapelava dall'uscio il lume della lampada di lei.
Un lieve sforzo e l'imposta cedette.
Elena non era di quelle che hanno paura.
Dormiva serena, quasi sorridente, coi capelli neri sul guanciale, il viso bianco posato sul braccio nudo.
Quante memorie, quanta dolcezza, quanto amore c'eran là! Che dolore, che angoscia terribile, che smania, che gelosia!...
Degli altri! degli altri!...
quel braccio nudo, quell'omero nudo! quella bocca profumata! quei capelli folti...
Ah! degli altri! degli altri, come lui! come lui!...
Ella...
come a lui...
E quando fosse stato lontano...
quando ella fosse stata libera...
Allora...
allora!...
E se dopo gli avesse detto: - Vieni - egli sarebbe andato! E qualunque cosa avesse voluto da lui, egli l'avrebbe fatto! E finché fosse stata viva, lo avesse anche tradito cento volte, egli sarebbe tornato cento volte a leccarle i piedi! Vile! vile! vile!...
Era malato, era pazzo! quella era la sua malattia, quella era la sua pazzia! finch'ella vivrebbe!...
finché vivrebbe!...
Di altri!...
Ebbene..
sì! che importa?...
Il passato...
che importa il passato?...
Cos'è il passato?...
Purché Elena fosse tornata ad amarlo? Purché fosse tornata ad esser sua!...
Fuggirebbe.
Cambierebbe nome...
Dimenticherebbe ogni cosa!...
Se ella poteva tornare ad amarlo!...
Se ella lo vedeva! lì, in quel momento supremo, pronto a morire, con quel pugnale per uccidersi! - Le scoperse il seno, e chiamò con voce sorda:
- Elena!
Ella si riscosse atterrita, cogli occhi stralunati.
Ebbe paura, e balzò fuori del letto, colla voce soffocata in gola dal terrore.
Egli continua a chiamarla, con uno strano accento di desiderio e d'amore: - Elena! Elena!...
Ella cominciò a gridare, pazza di terrore, chiamando aiuto!
- Ah! balbettò Cesare rabbrividendo sino alla radice dei capelli.
- Ah! non mi ami più! non mi ami più! Non hai che paura!...
Allora, afferrandola per il braccio, colla mano ferma, colpì disperatamente, una, due, tre volte.
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