[Pagina precedente]... che le fosse divenuto indifferente. Dapprima mal dissimulava il cattivo umore che le arrecava il vedersi continuamente il marito in casa. Ripeteva le osservazioni di sua madre che a quel modo avrebbe fatto la muffa. Tradiva dei momenti di esasperazione in cui la sua testa era altrove, cogli occhi fissi ed astratti, il viso un po' pallido e le labbra serrate. Usciva spesso, in fretta, a capo chino, e quando suo marito le domandava dove fosse stata, una fiamma appena repressa passava attraverso il suo pallore trasparente.
Egli invece aveva rinunziato all'avvocatura, al ministero, alle splendide aspirazioni del suocero. S'era rassegnato a scendere di un grado nella gerarchia forense, e s'era fatto iscrivere qual procuratore legale. Finalmente capitò un affar grasso, che ebbe buon esito, e se ne tirò dietro degli altri. Cesare respirò. Andava a sollevarsi dal lavoro pesante presso di Elena, prendendole le mani coll'effusione timida di un fanciullo. Ella, pallida come uno spettro, si lasciava abbracciare.
Don Liborio, quando seppe la cosa, cominciò a strillare che il genero aveva fatto una corbelleria, si era tagliata l'erba sotto i piedi, aveva voltate le spalle ad una strada larga e nobile, per sgambettare tutta la vita in un sentieruzzo angusto e senza uscita, e non voleva sentire le ragioni del genero sbigottito dal rabuffo.
- Babbo, rispose pacatamente Elena, coteste son belle cose quando si è ricchi, o almeno quando si può aspettare il portafoglio di ministro.
- E chi v'impediva di aspettare? esclamò don Liborio incalorito. Che fretta avevate? Non siete abbastanza giovani tutti e due?
- No, babbo! Non avevamo tutti i giorni dei pianoforti da vendere.
- Avete venduto il pianoforte? rispose il babbo sorpreso di non veder più lo strumento che mancava da un mese in quel salotto dove egli veniva ogni giorno.
E se ne andò borbottando, perché non sapeva più che dire, né come spiegare la sua collera.
X
Cesare era tornato a casa ad ora insolita, e fu sorpreso di non trovare sua moglie.
- Che so io dov'è! rispondeva la serva. Io non mi immischio dei padroni. So che è uscita.
Egli prese le carte che era venuto a cercare e stava per andarsene quando entrò l'Elena, livida, colle labbra smorte, e gli occhi luccicanti di febbre sotto il velo.
All'incontrarsi col marito in anticamera diede un passo indietro bruscamente, al primo momento. Poi cercò di passar oltre, senza guardarlo, senza parlargli.
- Elena! balbettò Cesare stupefatto.
- Che c'è? disse lei con voce irritata, fermandosi di botto. Cosa vuoi?
- Dimmi cos'hai? cos'è stato? Non ti senti bene?
- No. Non è nulla, sta tranquillo.
- Dimmi cos'hai?
- Nulla ti dico. Lasciami andare, lasciami, sto benissimo.
Cesare non sapeva che fare.
La serva ascoltava a bocca aperta dall'uscio della cucina, lo spingeva fuori sgarbatamente, ripetendogli:
- Lasciatela stare, lasciatela stare. So io quel che essa ha. Voi non ve ne intendete. Voi gli fate più male che bene colla vostra vista. Son cose di donne.
Lei sola poteva acchetarla, toccandola colle manaccie unte, poteva mormorarle di tanto in tanto all'orecchio qualche parola a voce bassa, mentre il marito dietro l'uscio udiva piangere sua moglie cheta cheta. Sul tardi arrivò donn'Anna e tutta la famiglia, tanto che la serva chiuse l'uscio perché non empissero la camera. Camilla poté sgusciare accanto alla sorella, tenendole un braccio al collo, parlandole nell'orecchio, senza guardarla, e l'Elena accennava di sì, col capo basso, asciugandosi gli occhi. Roberto si era messo a sedere discretamente accanto a Cesare, don Liborio andava su e giù pel salotto, col cappello in testa, e donn'Anna ripeteva al genero:
- È mal di nervi; so cos'è. Quand'ero incinta di Camilla l'ho avuto anch'io tal'e quale. Una notte svegliai don Liborio perché aveva voglia di mangiare dei mattoni pesti. Sciocchezze.
Tutt'a un tratto si aprì l'uscio della camera, e comparve Elena, seguita dalla sorella, molto abbattuta, cogli occhi gonfi, strascinandosi a fatica. - Non vuol darmi retta, biascicò Camilla. - Dice che ha bisogno di respirare sul balcone.
Elena si appoggiò alla ringhiera del terrazzino, guardando il mare, col mento fra le mani. La sera scendeva calma e serena e si udiva fin là il fischio dei vapori che partivano. Spirava una brezzolina fresca, ed Elena rispondeva ostinatamente alla sorella che la supplicava all'orecchio scuotendo il capo risolutamente, e ripeteva con voce sorda:
- No! no! lasciatemi stare! lasciatemi stare!
Infine si voltò inasprita, cogli occhi scintillanti di collera, la voce rauca:
- Lasciatemi, vi dico! Lasciatemi sola! Che paura avete?... Perché non mi lasciate sola?...
Ma, scorgendo suo marito non disse più nulla, e si appoggiò un'altra volta alla ringhiera col mento sulle palme. Due colonne di fumo nerastro si svolgevano attraverso gli alberi fitti del porto che frastagliavano di linee nere e sottili l'opale del tramonto. Poi cominciarono a scorrere lentamente lungo il muraglione del molo, e girarono la punta del faro, sbuffando più densi, accompagnati da un fischio prolungato e lontano. Due grandi piroscafi uscirono insieme fuori del molo, e s'avanzarono nel mare che imbruniva, come una sola gran massa nera bucata di punti luminosi lungo il bordo, con un rumore sordo di ale possenti che battevano l'onde. Poi gradatamente si separarono, l'uno parve rimpicciolire virando di bordo, dileguandosi verso il capo Campanella, e l'altro seguitò ad avanzarsi a diritta, gettandovi il riflesso ancora incerto del suo fanale rosso.
Elena, com'era sopravvenuta la sera, domandò a Roberto che l'era vicino, dietro alla Camilla:
- Qual'è dei due che parte per Genova?
La sua voce era talmente mutata che Roberto non si raccapezzò subito. Cesare rispose per lui:
- Questo qui, a destra.
Elena trasalì all'udir la voce del marito, e tirò dentro pel braccio la Camilla, collo sguardo smarrito, stringendola così forte che anche la sorella spalancava gli occhi dal dolore. Andò a sedersi nella sua camera, al buio, e non volle vedere più alcuno.
- Non è nulla! ripeteva donn'Anna chiudendo il balcone. Non vi spaventate. Quand'ero nello stato in cui è lei adesso, facevo anche peggio.
Nei giorni seguenti Elena andò calmandosi a poco a poco. Il medico confermò il giudizio di donn'Anna, raccomandò il riposo, una vita calma, delle distrazioni quanto si poteva, ed un moto regolare. Elena ebbe una gestazione travagliatissima. Il caldo eccessivo della stagione aveva contribuito ad abbattere le sue forze. In poco più di un mese ella era divenuta irriconoscibile, colle guance scarne, gli occhi stanchi e profondamente solcati, qualcosa di cascante in tutta la sua persona. Ella si alzava tardi, passava delle giornate intiere sdraiata sul canapè, senza aprir bocca. Non si occupava più di nulla, non s'interessava a nulla. S'annoiava di tutto, s'irritava alla più lieve contrarietà. Diceva che oramai si era fatta vecchia. Non si guardava più nello specchio, si lasciava pettinare come volevano, indossava la sera una specie di accappatoio lungo, si buttava uno scialle indosso, e andava a fare una passeggiata a lenti passi, appoggiandosi svogliatamente al braccio del marito, spesso senza dire venti parole in tutta la sera, senza fare attenzione alle amorevoli sollecitudini di lui, il quale sentiva il cuore stretto da quella vaga indifferenza che li separava a poco a poco, che si insinuava in mezzo a loro due allorché stavano a sedere al buio, su qualche banco remoto della Villa, senza aver più nulla da dirsi, interessandosi piuttosto alla gente che passava, correndo l'uno lontano dall'altro col pensiero, uniti soltanto dalle preoccupazioni comuni e dalle piccole noie. Quando andavano dalla mamma, Elena si metteva al balcone l'intera sera, guardando nella strada, facendosi vento col ventaglio, mentre Camilla agucchiava e Roberto stava a vedere. Poi come don Liborio andava a rimontare la pendola, tornavano a casa, passo passo, a braccetto, in silenzio, per quelle stesse strade che avevano fatto col cuore in tumulto nel trovarsi insieme la prima volta. E i conoscenti che li incontravano a caso non ravvisavano più in quella matrona larga e lenta l'Elena di un tempo, modellata leggiadramente dal vestito, ancora un po' rigida, ma diggià serpentina ed elegante, coi grandi occhi curiosi sotto il cappellino modesto.
Ella non era perversa no! si credeva sinceramente disgraziata, faceva il possibile per riannodare il passato, sorrideva dolcemente allorché suo marito le prendeva le mani come una volta, senza osare di parlare. Egli la guardava sempre in quegli occhi stanchi con una gran tenerezza, e la baciava a lungo, a lungo, quasi avesse voluto dirle cose che non sapeva spiegare egli stesso in quel bacio. Tanto che alle volte Elena, staccandosi da lui, gli fissava in volto uno sguardo strano, come sorpreso gradevolmente di quell'amore che durava sempre, e domandava:
- Davvero? mi ami ancora lo stesso? sempre come prima?
Oh! se ella l'avesse incoraggiato!... Se ella non gli avesse agghiacciato le parole in cuore con quella fredda incredulità!... È che egli non osava, al vedere quello sguardo strano, al contatto di tutta quell'aria di indifferenza che ella non dissimulava neppure. Egli l'amava come prima, più di prima, perché ella era la parte migliore di se stesso, la sua gioia, il pensiero di tutti i giorni, lo scopo del suo lavoro, la dolcezza della sua casa, l'essere intimo e caro in cui si incarnavano tutte le sue speranze, le sue gioie, i suoi sogni, per cui aveva sofferto, e nel cui sorriso era la sua felicità.
Allora si abbandonava all'espansione dei suoi sentimenti, tornava ad accarezzarla colle parole e colle mani tremanti, a stringerla forte, quasi avesse temuto che le fuggisse, e coprirla di baci deliranti sulle mani, sulle labbra, sul collo, sugli occhi, sui capelli.
Dapprincipio si animava anche lei a quella foga d'affetto, dimenticava ogni altra cosa, dibattendosi sotto quelle carezze, chinando il capo con piccoli gridi selvaggi; chiudeva gli occhi, sorridendo, coi cappelli allentati; si abbandonava. Poi tornava in sé, abbuiavasi, aggrottava le ciglia, gli posava le mani sul petto, si irrigidiva. Gli diceva:
- No! no! lasciami, non siamo più ragazzi... Che pazzie!... Ora sono un'altra... sono un'altra...
Pensava alla sua giovinezza miseramente sfiorata? alla sua bellezza distrutta? ai sogni che si erano dileguati? alla maternità che l'aspettava come un sacrifizio? E di tutti questi pensieri nasceva e ingigantiva un rancore indistinto, un umor tetro che scolorava ogni cosa ai suoi occhi. Il marito, colla divinazione penetrante di chi ama davvero, si sentiva avvolto in quel rancore, in quell'umor nero anch'esso, gli pareva di essere allontanato e respinto, quasi gli pesasse addosso la responsabilità di quei sogni di ragazza che s'erano involati. Tutto ciò metteva un gran vuoto in quelle stanzine ristrette, un freddo che agghiacciava il cuore di lui, e gli faceva cercare il lavoro come uno svago, come qualcosa in cui c'era ancora il pensiero di Elena senza che si vedesse il suo pallore, il suo sorriso glaciale, il suo occhio distratto. Il poveretto si faceva in quattro per procurarle qualche soddisfazione col suo lavoro. Passava le notti a scrivere per portarle un regaluccio modesto, un cappellino nuovo, un braccialetto, un ventaglio, aspettando ansioso un sorriso di lei, un gesto, un cenno del capo, una parola. Colle ossa rotte dalla fatica, dal salire e scendere scale di procuratori e di avvocati, le offriva di accompagnarla al passeggio, in teatro, magari in società, ora che avevano fatto pelle nuova, e cominciavano a respirare. Ella non voleva, faceva la vittima ingenuamente, si creava delle tristezze solitarie da romanzo, provava una voluttà amara a far l'Arianna, la caduta, la disillusa, strascinando la sua noia da una stanza all'altra, agucchiando svogliatamente a dei capi di corredo piccini come se dovessero servire per la bambola, e le sembrava in tal modo di sorvegliare minutamente ogni cosa, tale e quale come donn'Anna. ...
[Pagina successiva]