[Pagina precedente]...ieme alla Villa? quasi nascosti dietro un gruppo d'alberi, attraverso i quali si vedeva sfilare la folla elegante, alla luce del gas? e i lieti suoni della musica che venivano a mischiarsi allo stormir delle frondi? Così mi par di vedervi nel quadretto che mi fate della vostra casina». Ella firmava: «La vostra amica affezionatissima Elena». Poi «la vostra affezionatissima Elena». Infine, «La vostra Elena» senz'altro.
Sicché a vendemmia finita, allorché il giovanotto tornò in città a far la pratica d'avvocato, Elena appena lo rivide si fece di bracia in viso, e gli diede il bentornato con tal voce tremante che il giovane si chiuse quella voce in cuore per non dimenticarla mai più.
Entrambi si trovarono imbarazzati. Una volta che si sorpresero guardandosi a lungo negli occhi, arrossirono. Il rossore passava come una fiamma luminosa attraverso il pallore trasparente di Elena. Ella quasi inconsciamente gli accennò la mamma con uno sguardo rapidissimo che pel giovane fu tutta una rivelazione. Sino a quel momento egli non le aveva detto una parola che quell'angelo custode della Camilla non avesse potuto ascoltare senza levare gli occhi dal ricamo, seduta fra la sorella e il cugino. Le prime che le rivolse timidamente, una sera che don Liborio tardava a venire oltre l'avemmaria, e donn'Anna era andata ad aspettarlo sul balcone, furono queste:
- Vostra madre è in collera con me?
Elena scosse il capo negativamente, ma rimase a testa bassa, colla fronte sulla mano.
- Perdonatemi Elena, - aggiunse egli dopo un lungo silenzio.
Allora per la prima volta la giovinetta gli prese la mano di nascosto, timidamente, e gliela strinse forte, senza guardarlo.
Da quel momento per lui cominciò un'altra vita, tutta di sogni, in cui le esigenze della realtà sembravano svegliarlo di soprassalto con altrettante strappate al cuore. Egli s'indebitò coi colleghi, cogli amici, col sarto, colla camiciaia, per essere ben vestito e portar sempre dei guanti come Roberto. Ogni volta che scriveva alla sua famiglia gli toccava mentire, inventare de' pretesti per farsi mandare del denaro che era divorato prima ancora che arrivasse. Nella tranquilla mediocrità in cui era vissuto sino allora non aveva mai provato quelle angoscie acute in mezzo all'indifferenza esigente d'una grande città . Molte volte, nelle tetre ore di scoraggiamento, solo nella sua cameretta, coi gomiti sul tavolino e la testa fra le mani, pensava come un rifugio alla vasta campagna serena che si svolgeva di là della sua finestra di Altavilla, a quella pace inalterabile del paesello in cui i ferri di una cavalcatura e gli stivali dei contadini che risuonavano a rari intervalli sul selciato delle stradaccie, avevano qualcosa di noto e di amico. E gli venivano le lagrime agli occhi nel contemplare le fotografie de' suoi parenti, messe in fila lungo il muro, neri e stecchiti nei loro abiti da festa, accanto al ritratto di Elena. Ormai quando arrivava in casa di don Liborio tutto gli pareva mutato come si sentiva mutato internamente. Donn'Anna sembrava covasse l'Elena cogli occhi, posava sulla figliuola certi sguardi lunghi e desolati quasi tutte le sue viscere materne vi si stemperassero. Camilla, impassibile, quando tutti tacevano da un pezzo senza saper perché, diceva qualche parola sottovoce al cugino, come in chiesa, colla sua voce calma che sembrava misteriosa in quel silenzio imbarazzante. Don Liborio stesso non era più quello, trinciava delle sentenze radicali sulle questioni politiche, aveva degli occhiacci torvi sulla faccia incorniciata dalla onesta barba bianca, si calcava sugli occhi il berretto ricamato, e fra una partita e l'altra tirava su delle prese di tabacco rumorose come razzi. Elena, colla testolina china sul libro o sul lavoro, in atteggiamento da vittima, figgeva in viso a Cesare delle occhiate lente e malinconiche, ogni volta che alzava il capo, e il seno le si gonfiava e faceva alitare la blonda come cosa viva. Il pianoforte, lungo disteso, taceva anch'esso da settimane e settimane, talché la cosa più allegra di quel salotto, in mezzo al fruscio delle carte da giuoco, e lo scricchiolio secco dei ferri di Camilla, era Roberto, seduto accanto a lei, a guardarle le mani che facevano andare la spoletta, inamidato e taciturno.
Quell'aria di musoneria si estendeva come un contagio. Persino la briscola languiva, e don Liborio mischiava le carte svogliatamente. Donn'Anna una volta arrivò a troncare la partita prima del solito per chiedere al giovane quando pensava ad aprir studio d'avvocato, se nella sua famiglia c'era qualche progetto riguardo al suo avvenire, se le sue sorelle pensavano di accasarsi prima di lui, ecc. ecc. Don Liborio, coi gomiti sul tavolino, e il berretto fra le mani, ascoltava taciturno. Infine, sentenziò che il primo dovere di ogni galantuomo era di crearsi una famiglia, e un avvocato per posarsi agli occhi del pubblico, ha bisogno indispensabile di prendere moglie. Roberto, il quale aspettava da sett'anni l'avanzamento nell'ospizio dei trovatelli per ammogliarsi anche lui, approvava col capo, seduto accanto alla sorella maggiore.
- Per una madre di famiglia, conchiudeva donn'Anna, è un gran pensiero quello di dar stato ai figliuoli. Lo so io cos'è aver in casa delle figliuole da marito. E bisogna star sempre cogli occhi aperti. Non parlo per voi, Cesare, che siete un galantuomo. Ma è un pericolo serio, Dio liberi!
E don Liborio andando su e giù per la stanza colla tabacchiera in pugno, aggiungeva:
- La nostra legislazione è incompleta, perché non punisce sufficientemente i tradimenti domestici. Chi abusa della fiducia e dell'ospitalità di una famiglia onesta dovrebbe essere condannato ai ferri!
Oppure:
- Vorrei vedere, adesso che hanno messa questa moda dei giurati, cosa mi direbbero se mi facessi giustizia colle mie mani, in un caso simile?
Fu allora che Elena, nel momento che il babbo aveva ripreso a giuocare e a bisticciarsi colla mamma, aveva piantato in faccia a Cesare gli occhi penetranti, e gli aveva detto con quella voce tutta sua:
- Ho paura!
IV
Lo zio Luigi telegrafò ad Altavilla che il nipote aveva fatta la frittata. Il telegramma arrivò in casa Dorello mentre la famigliuola stava per mettersi a tavola. Don Anselmo impallidì leggendolo, e lo porse senza dir parola alla cognata; la quale lasciò cadere il cucchiaio nel piatto. Gli altri rimasero allibiti coi gomiti sulla tovaglia, davanti alla finestra tutta verde del noce dell'orto.
Nessuno osava fiatare; le ragazze, spaventate, si guardavano in faccia quasi fossero state colte in fallo. Dopo qualche momento donna Barbara tornò a prendere in silenzio il tondo del cognato per riempirlo, ma questi disse con un gesto calmo, levando la mano collo smeraldo al dito.
- No, non ho più fame.
Si passò il tovagliuolo sulla bocca, quasi a tergerne l'amaro, lo ripiegò, lo posò sulla sponda, e salì in camera sua a frugare nelle carte che erano sullo scrittoio. La cognata rimasta colle figliuole, si cacciò le mani nei capelli, senza dir nulla.
Le ragazze sparecchiarono in silenzio, e andarono a rincantucciarsi nelle loro stanzette. Lo zio canonico non uscì nel dopo pranzo. Verso sera la cognata andò a picchiare timidamente all'uscio di lui.
- Sto mettendo in ordine le sue carte, - disse il canonico leggendo negli occhi sgomenti della povera madre. - Ci vorrà un po' di tempo, perché non mi sarei aspettato di dovergli rendere questi conti così presto.
La poveretta si lasciò cadere su di una sedia vicino all'uscio, annientata, colle braccia in croce sulle ginocchia, seguendo macchinalmente cogli occhi lagrimosi ogni gesto del cognato, il quale sembrava tranquillo. Infine, vieppiù spaventata da quella calma, balbettò:
- Siamo rovinati!
- Voi altri no. Per voi altri finché vivrò ci penserò io, se volete continuare a star con me; rispose il canonico.
Ma lei piangeva in silenzio colle mani sul viso. Poi balbettò:
- E lui?...
- Ecco qui - rispose il cognato. - Egli ha settemila lire di sua rata sul patrimonio paterno. Se si contenta di pigliare le vigne di Rosamarina, quantunque valgano qualcosa di più, e quel che gli tocca della casa paterna, faremo le cose all'amichevole, a risparmio di spese, e sarà meglio per tutti.
- Settemila lire!... Son poche per vivere!
Allora il prete si strinse nelle spalle, e fu il solo movimento brusco che gli scappò.
- Qualcosa di dote gli porterà la moglie. Poi ha un'eccellente professione, e dovete pensare che gli altri vostri figliuoli non hanno neppure quella, e non vi sono costati tanto! Egli ci ha rovinati tutti!
La madre a tutte quelle ragioni rispondeva piangendo. Infine calmata tutta a un tratto, quasi lo Spirito Santo l'avesse illuminata, colle membra ancora scosse dai singhiozzi, e la faccia bagnata di lagrime, disse:
- Andrò io stessa alla città , da mio figlio. Gli parlerò, gli toccherò il cuore. Egli ha avuto sempre il cuore buono per la sua mamma!
Il cognato la guardò in viso, come fosse colpito anche lui da quell'ispirazione. Poi tornò a leggere il telegramma, e scosse il capo, per dire che era inutile.
- Fate come volete, conchiuse porgendole il dispaccio.
La povera madre si mise in viaggio il domani all'alba, con un fardelletto che Rosalia si affaccendò a metterle insieme tutta sgomenta quasiché partisse per l'America nella carrozzaccia sconquassata che portava la posta alla stazione.
Il cognato l'accompagnò sino al ballatoio.
- Se si ravvede, se vuol tornare qui, la casa è sempre aperta, diteglielo, per lui, ma per lui soltanto!
Il giovane, non osando farsi più vedere dai genitori di Elena, era andato a stare all'albergo. I suoi camerati in massa gli avevano prestato cento lire, col viso serio, come gli fosse accaduta una sventura, e il più anziano, uno studente di medicina, alla prima barzelletta che avevano arrischiato i compagni sull'avventura di lui, sentenziò che sarebbe stato meno male se si fosse rotta una gamba. A Cesare per disgrazia erano rimaste le gambe sane e vagabondava tutto il giorno, come un delinquente, finché tornava a buttarsi rifinito sul letto, cogli occhi stralunati, e il viso sfatto. Così rientrando a casa trovò nella sua cameretta la mamma, seduta vicino all'uscio, pallida e stanca anche lei, col suo fardelletto posato accanto sul tavolino.
Ei sentì darsi un tuffo nel sangue e rimase immobile dinnanzi a lei, avvilito, colle braccia penzoloni, gli occhi impietriti, il mento cascante.
Sua madre s'era preparata tutto il discorso lungo la strada, colle risposte di lui, figurandosi al vivo gli atti, le inflessioni di voce, i menomi gesti, il pentimento del figliuolo il quale si sarebbe buttato piangendo fra le sue braccia, e sarebbe tornato al paese con lei. Con quelle immagini nella mente andava fissando lagrimosa i campi che fiancheggiavano la strada, gli alberi che sfilavano, quasi per stamparseli in mente, per gustare la gioia del contrasto nel momento in cui avrebbe rifatta quella strada con suo figliuolo. Il sole sorgeva glorioso come una promessa fra le gole dei monti, e la poveretta diceva al sole colle mani giunte, fervidamente: - Vergine santa! Vi ringrazio! Vi ringrazio, Dio mio! - Ma adesso al cospetto del figliuolo atterrato, a guisa di un reo, lei rincattucciata accanto all'uscio come un'estranea, non sapeva che dire, non si rammentava una sola di quelle parole che dovevano toccargli il cuore. Scoraggiata, cominciò a far greppo in silenzio, al pari di una bimba, sporgendo il labbro, e tremando tutta pei singhiozzi rattenuti. Quell'angoscia puerile diveniva straziante su quella faccia sbattuta, sotto quei capelli bianchi.
- Oh mamma! oh mamma! singhiozzava il figliuolo cadendole finalmente ai piedi, colla faccia sui ginocchi di lei. - Oh mamma! - E non sapeva dir altro.
La povera mamma piangeva cheta cheta, china su di lui, tastandolo colle mani sulla faccia e sulle spalle; gli accarezzava il capo come quando bambino se lo teneva allo stesso modo fra le ginocchia, singhiozzando ad alta voce dalla gioia. Andava persuadendolo così: - Sai, l'annata è stata scarsa. Il grano è andato tut...
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