[Pagina precedente]...sapeva che lui aveva cominciato a far debiti sulla Rosamarina. - Vorrei vedere tua moglie per dirle queste cose.
Intanto erano giunti dinanzi alla casa, e alzando il capo vide il lume nella camera del cognato. - Se le tue sorelle avessero saputo che venivi, sarebbero al balcone per vederti. Ma torna domenica, che se posso le condurrò un po' fuori a spasso per vederti. Le povere ragazze non osano parlarne dinanzi allo zio. Se non fosse per lui ti farei salire di sopra... Ma sai che abbiamo bisogno di lui. Ora addio!
E infilò la scala, stanca, tenendosi alla ringhiera. Il figlio tornò indietro, col cuore stretto, avendo sempre dinanzi agli occhi quella mano scarna, che si appoggiava alla ringhiera, e quel dorso curvo, che ansimava ad ogni scalino. Quante volte, in mezzo alle spensierate prodigalità del presente ricco di sensazioni e di divertimenti, gli si sarà abbuiata la gioia rammentando le inquiete raccomandazioni della mamma e i suoi consigli di parsimonia? Finita la vendemmia, i vicini di campagna, i quali non sapevano come ingannare il tempo, mentre aspettavano la raccolta delle olive, vennero a fare visita agli sposi: la signora Goliano, la signora Brancato, le ragazze Favrini, infagottate in abiti da festa, rialzando sino al ginocchio le sottane per non insudiciarle sull'erba umida: i mariti nascondendo nei guanti nuovi le loro mani nere dal sole, vere mani da contadini. Si faceva della musica, si ballava, si improvvisavano delle merende nell'erba, delle sciarade in azione, prendendosi in giro per le mani a significare O, e camuffati colle coperte del letto, e cogli scialli avvolti in turbante quando il tutto era Serraglio. Elena, elegante, piena di brio, aveva messo in rivoluzione il vicinato. Le signore, tappate in casa, lavoravano d'ago e di forbice tutto il giorno per copiare le sue vesti attillate, i suoi guanti lunghi, i suoi cappellini arditi, si cucivano delle sottane, si mettevano in testa tutti i fiori del giardino. Ella era tanto felice che non si accorgeva dei momenti di preoccupazione, delle ansietà crudeli che passavano di tanto in tanto sul volto del marito, allorché andava a rincantucciarsi nello studiolo per scrivere al notaio, delle lunghe confabulazioni col messo che portava la risposta. Tutt'al più gli domandava:
- Di che scrivi?
- D'affari, rispondeva lui.
- Ah! E si stringeva nelle spalle con un atto d'ingenuo egoismo, quasi il suo solo e grande affare fosse di godersi quella vita facile e allegra, senza badare alle pene segrete che arrecava a Cesare tutto quel movimento, quell'allegria rubata alla sua luna di miele, quel desiderio di piacere che ispirava sua moglie, che egli indovinava colla sua penetrazione delicata e quasi malaticcia, che sentiva ronzare là intorno, per quei burroni, fra quelle macchie, dove i vicini stavano tutto il giorno col pretesto di cacciare. Però sarebbe morto di vergogna prima di confessarle la sua strana gelosia. Anzi, allorché udiva l'abbaiare dei cani nella Rocca, o lo sparo dei fucili, la chiamava, le indicava la leggera fumata che si dileguava lentamente da un folto di macchie arrampicate sulla fenditura della montagna ad un'altezza vertiginosa, e le diceva: - Là , vedi, là ! dev'essere il tale, o il tal altro.
- Ah! esclamava Elena, mettendosi una mano sugli occhi, lassù?... su quel precipizio?
E restava intenta, coi pugni stretti. Alle volte chiedeva:
- Perché non sei cacciatore anche tu?
Ella aveva di cotesti istinti, quella giovinetta. Lui non trovava altro che un sorriso dolce e triste. Delle altre volte ella esclamava:
- Se fossi un uomo, vorrei andare a caccia anch'io!... Dev'essere una bella cosa!... una cosa in cui ci si sente vivere!
I vicini avevano progettato una cavalcata sugli asini che per Elena fu un vero avvenimento. Era una bella sera fresca e profumata. Ogni siepe, ogni macchia di capperi, ogni sterpolino di rovo era in festa, coi suoi fiori, colle sue bacche, coi suoi ciuffetti ondeggianti, col ronzio degli insetti, col trillare dei grilli, col cinguettio dei pettirossi che si annidavano, col gracidar delle rane che saliva dalla pianura, stesa come un mare, laggiù, sino alle montagne color di cielo. Tutte quelle cose che lasciano germi misteriosi nella testa o nel cuore. Di tanto in tanto la brezza recava il suono delle campane dal paesetto in festa, dorato dal sole, scintillante da tutte le sue finestre. Elena chiamava suo marito che cavalcava un po' avanti, col pretesto di farsi accorciare la staffa, ma in realtà per vedersi china sul ginocchio la sola testa in cui potesse supporre in quel momento i medesimi pensieri che si agitavano nella sua, in mezzo a quegli uomini che cavalcavano come se andassero alla fiera, e quelle donne che ciarlavano tutte insieme al pari di gazze.
- Tu sei per me! gli disse all'orecchio. Stammi vicino. Non mi lasciar sola.
La viottola formava un gomito e s'internava in un boschetto lungo il vallone, di cui i rami si intrecciavano sul sentiero perennemente verde di muschio, irto di sassi umidi. In fondo l'acqua scorreva con un gorgoglio sommesso, quasi fosse stata a cento metri di profondità sotto i roveti che coprivano il vallone, su cui si posavano le cicale al meriggio, colle ali aperte, con un ronzio fresco anch'esso come lo scorrere delle acque, e le rondini volavano inquiete. Ogni volta che i rami si diradavano vedevasi sempre a sinistra la Rocca, ritta sino al cielo, nuda, screpolata da larghe fenditure boscose, sparsa come una lebbra da qualche rara macchia. Si sentiva sempre, a ridosso del sentiero, anche quando i rami la nascondevano, dall'uggia densa, dall'umidità perpetua, da un non so che di tetro e di selvaggio che spandeva fin dove stendevasi la sua ombra. Di tratto in tratto un merlo fuggiva all'improvviso, schiamazzando, facendo scrosciare le frasche. Erano rimasti soli; si era dileguato perfino il rumore delle cavalcature che precedevano. Elena allora trasaliva e scoppiava a ridere. E all'orecchio, attirandolo più vicino a sé: - Se ci assalissero i ladri, mi difenderesti? - Egli si metteva a ridere; Elena tornava ad insistere, voleva sapere se si sentiva di difenderla. Si corrucciava quasi che egli non fosse un ercole, e che non fosse pronto a farsi ammazzare per lei. Infine gli diceva:
- Quanto ti voglio bene! Come mi sento felice!
E sporgendo il viso verso di lui, gli avventava un bacio.
Giunti alla pianura uno della comitiva propose di fare una visita alla villa del Barone.
A dritta e a manca si stendevano delle praterie immense, solcate dal maggese, tagliate a vasti quadrati di fave; qua e là giallastre di stoppia a perdita di vista. Alle falde delle colline si arrampicavano le vigne, in interminabili filati già diradati dall'autunno, sino agli oliveti, folti, vasti come un mare di nebbia, grigiastri nell'ora malinconica. Più in alto, sulle cime brulle, si vedevano errare le numerose mandre, come delle immense ombre di nuvole vaganti in un giorno procelloso sul paesaggio lontano, e i buoi che scendevano al piano, più radi, di cui si sentiva la campanella monotona nel gran silenzio del tramonto. Di tanto in tanto, s'incontrava un casolare, un gruppetto di fabbricati rustici, specie di piccoli centri di cultura, cogli arnesi sparsi all'intorno sull'aia verde, le alte biche di paglia che sovrastavano il tetto colla crocetta di canna. In fondo, in mezzo a un quadrato di verdura cinto da un muro bianco si vedeva un gran casamento col tetto rosso, i vetri delle finestre lucenti, sormontato da un campanile tozzo.
- Son le case del Barone, dicevano. C'è anche la chiesa. - Quei possessi, di qua, di là , dappertutto, erano del Barone, sin dove si vedevano biancheggiare delle mandre che pascolavano nelle sue terre, sin dove si udiva la campanella della sua chiesa. Narravano pure quel che rendevano quelle vigne, quanto valessero quegli oliveti, quanti capi di bestiame pascolassero nel suo, quanto misuravano quelle buone terre in pianura che valevano 200 ducati la salma. Pareva che volessero fare entrare nella testa di quella cittadina l'importanza enorme della ricchezza. - Alle volte, quando l'annata è buona, quei casamenti là non gli bastano per rinchiudervi la sua raccolta. - I giorni in cui vendemmia il Barone non si può avere più un ragazzo o una vendemmiatrice a 15 miglia in giro. - I suoi fattori facevano il prezzo del bestiame alle fiere. I denari gli piovevano da ogni parte come la grandine. - Ed è figliuol unico! Nelle case ricche i figliuoli vengono sempre con parsimonia! Sua madre, la baronessa, per non lasciarlo affogare nel denaro, ogni anno gli comprava una tenuta, o un oliveto. - È una donna coi calzoni, dicevano. Se campa lascerà tanta terra al figliuolo, che i suoi possessi non finiranno più. Non si può maritare, perché è difficile trovare una moglie ricca come lui.
La viottola, dacché erano entrati nelle terre del barone, diventava una bella strada carrozzabile, fiancheggiata da una doppia fila di alberi giovani, ancora circondati da un muricciuolo a secco per difenderli dalle bestie. - Faranno ombra quando saranno cresciuti, e intanto daranno frutto, e non si mangeranno la terra a tradimento - aggiungevano. - La baronessa è una donna coi calzoni! Facendo la strada non ha voluto perder del tutto la terra, e ha fatto la strada perché ci hanno cavalli e carrozze. Potrebbero sfoggiarla in città , tanto son ricchi!
Sulla strada passavano continuamente carri, e bestie da soma, e vetturali che salutavano i vicini rispettosamente, da gente di buona famiglia. Di là dalle siepi, pei campi, scorazzavano stormi interi di tacchini e di polli. In fondo si vedeva il caseggiato massiccio, grande quanto un villaggio, su cui aleggiava un nugolo di piccioni. Tutt'intorno all'aia che si stendeva dinanzi al portone spalancato erano delle carrette colle stanghe in aria, degli aratri staccati, una doppia fila di cestoni giganteschi di vimini, che aspettavano i buoi, riboccanti di fieno, fissati al suolo con dei cavicchi di legno e la fune pendente da un lato. A diritta ed a manca si stendevano delle tettoie immense, delle montagne di fieno grandi come case; sulla porta stavano una dozzina di contadini, delle donne accoccolate, dei campieri massicci, colla tracolla sull'uniforme sbottonato e gli sproni agli stivali, a godersi la domenica, senza far nulla, colle mani in mano, e un branco di cani ronzanti e abbaianti intorno.
Il fattore si alzò per ricevere gli ospiti, e andò ad acquietare i cani a grida e a sassate. La piccola comitiva entrò in una corte vasta quanto una piazza, coperta di erba secca come un prato. Alcuni sentieri battuti la segnavano con lunghe strisce biancastre da un capo all'altro e la facevano sembrare più grande. All'ingiro erano dei magazzini che non finivano più, con piccole finestre ingraticolate lungo i muri screpolati, con delle immense cantine di cui l'umidità sotterranea trasudava dalle muraglie verdastre, delle rimesse spalancate come stallazzi, delle case di contadini nere e profonde a guisa di antri. Ai due lati, degli abbeveratoi larghi come stagni, che allagavano quella parte della corte, dove sguazzavano le anitre e sgambettavano i monelli colle brache tirate sul ginocchio. La notte vi si sentivano le rane. Da un lato era la scala sconquassata, tremante in ogni balaustro di granito, larga come una scalinata di cattedrale, che si arrampicava tutta a gobbe sino alla porta dell'abitazione principale sormontata da un grande scudo, sbocconcellato, incoronato da un cimiero di cui restava una sola piuma di pietra confitta a un rampone di ferro. Sotto l'arco della scala si rincantucciava come sotto il pronao di una basilica medioevale, la porta della chiesa sgangherata, bianca dal tempo, murata da ciottoli e da arnesi gettati lì contro per tener sgombra la corte, e al di sopra, sullo scudo impennacchiato che si reggeva sui ramponi arrugginiti, rizzava il capo dimezzato il campanile, colla campanella fessa, colla croce magra di ferro, sull'immenso azzurro del cielo.
Elena camminava adagio sull'erba secca, in quell'immensa corte des...
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