[Pagina precedente]...endo con Adele che rideva come una pazzerella. Egli si fece rosso e si mosse bruscamente per andarsene, ma invece d'infilare l'uscio ch'era dietro le sue spalle trovò piú corto di fare il giro del giardino per andare in camera sua, e dovette passare cosà vicino alla cugina da darle quasi uno spintone col gomito.
«Te ne vai?» gli domandò ella con sorpresa.
Ei rispose con accento da Otello: «SÃ!».
«Perché?»
«Ho sonno» rispose bruscamente.
«Che bel giovane!» esclamò la signora Zucchi, non cosà piano da non farsi sentire dall'Adele, e osservandola con pettegola curiosità ; la fanciulla, troppo ingenua per esser diffidente, si fece rossa di giubilo, seguitando a fissare l'uscio pel quale egli era partito.
«E il figliuolo della signora Cecilia?» domandò il notaio.
«Sû rispose il signor Bartolomeo; «ha trentaduemila lire d'entrata in bei poderi.»
«E sà che il fu marchese!...»
«Ed anche la fu marchesa, pur troppo!...»
«Ma non parliamo dei morti. Quel ragazzo è stato fortunato di avere un parente che si occupasse dei suoi affari... Non faccio per dire, ma non avrebbe di che pagarsi nemmen la boria del marchesato.»
«Però non sembra punto allegro!» osservò la signora Zucchi.
«Cosa gli hai fatto?» susurrò Velleda all'orecchio di Adele.
«Io?... nulla, ti giuro!» rispose la fanciulla turbandosi.
Col cuore grosso ella andò a cercare il cugino che la fuggiva, e lo trovò sulla terrazza, appoggiato alla balaustrata.
«Cos'è stato?» gli domandò timidamente, mettendoglisi accanto come un'ombra.
«Ma nulla è stato!»
Ella non ebbe il coraggio d'insistere e tacque.
C'era accanto un ramoscello di gaggia in fiore; ne spiccò due o tre fiorellini, e glieli porse con atto gentile. Egli al sentirsi toccare dalla mano di lei trasalÃ.
«Conosci il significato della gaggia?» le domandò con un certo turbamento nella voce.
Adele si fece di bracia, e accennò negativamente col capo.
«Davvero?»
«Davvero!»
«Tanto meglio!» aggiuns'egli sorridendo.
La fanciulla scappò in casa, e corse all'orecchio di Velleda.
«Che significato ha la gaggia?» le domandò sottovoce, piú rossa della veste della signora Zucchi.
«Siamo di già a questi ferri?!» esclamò Velleda ridendo. «Vuol dire rottura...»
La giovinetta non volle udir altro, e tornò sulla terrazza trepidante. Il cugino teneva in mano un ramoscello di vainiglia fiorita.
«Vedi» le disse «io non son cattivo come te!» e le diede il fiore. Ella se lo mise in seno, e con grazioso e pudico ardimento, gli strappò dall'occhiello i fiori di gaggia, li buttò dalla terrazza, e fuggÃ. Alberto la vide, attraverso i vetri, passeggiare al braccio della sua amica; le due giovinette discorrevano sottovoce, e sorridevano di tanto in tanto. Tutt'a un tratto Adele si volse verso il balcone, e baciò il fiore che egli le aveva dato. Al giovane sembrò che quei vetri s'irradiassero di luce.
Sentivasi attratto verso di lei dall'incantesimo piú forte che avesse mai provato; ma ella sembrava evitarlo, lo guardava con un certo imbarazzo, quand'egli s'avvicinava a lei faceva istintivamente dei movimenti bruschi, come per fuggirsene, e rimaneva esitante, a guisa di un uccello spaurito che batte le ali. Tutto ciò la rendeva cosà bella che Alberto ne era affascinato; in quel momento tutte le attrattive della vita, della gioventú e dell'amore erano per lui in quel pallido visino e sotto quel modesto vestito grigio che tremava come le foglie agitate dalla brezza. Velleda era là presso, bionda, elegante, graziosa, con tutto il fruscÃo della sua seta, col profumo chinese del suo fazzoletto ricamato - egli se ne avvide.
«Adele, desidero parlarti» le disse con voce tremante.
La fanciulla, un po' rassicurata nel vederlo cosà commosso, rispose ingenuamente:
«Andiamo in giardino.»
«No... stanotte, quando tutti saranno a dormire... Allorché sentirai picchiare tre colpi alla tua finestra... sarò io...»
Ella sorpresa stava per domandargli la ragione di tutti quei misteri che non capiva, quando Alberto la interruppe vivamente:
«Zitta! ci osservano!»
E tirò di lungo colla guardinga disinvoltura di un cospiratore di melodramma.
Velleda s'era fermata ad aggiustarsi un nastro, e lo zio Bartolomeo in quell'istante era tutto intento a far vedere ai suoi ospiti che la sera era bellissima.
Alberto afferrò Gemmati per mano, al momento in cui stava per ritirarsi nella sua camera, e lo condusse seco in giardino.
«Stanotte le parlerò!» gli disse all'orecchio con voce soffocata.
Gemmati si fermò a guardarlo sorpreso, e gli rispose dolcemente:
«Perché cotesta pazzia? Non la vedi sempre? Non puoi parlarle quando vuoi?»
«No!... non è la stessa cosa... Tu non mi intendi... non puoi intendermi... non l'ami come io l'amo... L'hai vista? Com'è bella! non è vero?»
«SÃ, è un angioletto.»
«Anche la Velleda è bella... forse piú bella... in modo diverso... Tutti lo dicono... e alcune volte, vedendole l'una accanto all'altra, anche io... Ma perché sembrami piú bella l'Adelina?»
«Perché l'ami.»
«E perché devo amar lei e non Velleda, che è bella per lo meno quanto lei?»
«To! perché ella ti ama.»
VII
Il tocco era suonato da un pezzo quando Alberto aprà la sua finestra - ora deliziosa che precedeva il primo appuntamento, ora piena di agitazione voluttuosa e di ansia inesplicabile. La finestra di Adele era chiusa: che fisonomia singolare avea quella finestra buia, e come lo guardava! Egli esitò alcuni istanti, come ogni Cesare che stia per passare un Rubicone; poi saltò sull'erba col cuore di un ladro che scassina per la prima volta un uscio. Il silenzio era profondo, e il giovane non aveva fatto il menomo rumore cadendo sulla punta dei piedi. Le frondi del pergolato stormivano appena. Egli si fermò, inquieto, guardando attorno, coll'orecchio teso, come se i menomi rumori venissero dallo zio che stesse soffiandosi il naso e prendendo tabacco. Poi si avanzò a passi di lupo fin sotto la finestra della cugina. Trattavasi adesso di picchiare quei tre famosi colpi, promessi quando ci volevano ancora due ore per picchiarli, quando il cuore, sotto gli occhi di lei, picchiava piú forte, e il chiacchierÃo che regnava nel salotto faceva supporre che non si sarebbero quasi uditi. Tutta la poesia dei romanzeschi convegni, delle scale di seta e dei segnali misteriosi, sfumò dinanzi al timore di udir tossire lo zio Forlani. Sentà di aver paura, e poi cotesta confessione che dovette farsi gli infuse coraggio. Allorché bussò leggermente alla finestra, gli parve di aver destato tutti gli echi della montagna e tutti gli zii del mondo.
Quanti palpiti in quel minuto che la finestra indugiò ad aprirsi! Quanti palpiti allorché l'udà schiudersi pian pianino: con una circospezione che confessava il peccato ad alta voce! Una striscia luminosa si disegnò sull'erba dell'aiuola, e la leggiadra testolina di Adele si mostrò timidamente. Essa tremava un po'; la luna che si era levata tardi, illuminava il muro di contro e riverberava un barlume livido e dolce sul candido viso di lei, che sorrideva con ineffabile imbarazzo, e guardava qua e là , senza osare di fissare gli occhi su di lui. Certamente si erano detto abbastanza; ma il cugino, messo alle strette da quel silenzio eloquente, incominciò:
«Come sei buona, Adele!»
Ella spalancò i suoi occhioni, e domandò con graziosa ingenuità :
«O perché?»
«Perché hai accondisceso...»
«Non me lo domandasti tu?...»
«SÃ... ma a quest'ora dormiresti... ed invece io...»
L'Adele fece certo sorrisetto e rispose:
«No, non aveva sonno... Non ho sonno da parecchie notti.»
«Da quando?...»
«Sa che è molto curioso, signor cugino!» gli diss'ella dopo un istante d'esitazione.
Il cugino, senza aprir bocca, la guardò per la prima volta negli occhi coll'amore dell'uomo. Ella abbassò i suoi e non rise piú.
«Sei ben sicuro che dorman tutti?» gli domandò poco dopo, rispondendo senza saperlo a quello sguardo.
«SÃ, da piú di un'ora non si vede un sol lume.»
Ella ritirò bruscamente la sua mano. Successe un silenzio che le diede animo e la fece sorridere: «Ebbene» gli domandò «son qua, che cosa devi dirmi?»
«Volevo... desideravo chiederti scusa.»
«Di che?»
«Sono stato cattivo...»
Ella scosse il capo lentamente: «No».
Alberto avrebbe preferito dei rimproveri, onde aver agio di menare il can per l'aia. Non seppe piú che dire, e rimase imbarazzato.
«Senti l'usignolo?»
«No, è il passero solitario.»
«Che notte deliziosa!»
Ella non rispose.
«A che pensi?»
«A nulla.»
«Non ti senti felice?»
«... SÃ!»
«Che ora è?» domandò la fanciulla dopo alcuni istanti, come se si svegliasse.
«Sarà il tocco e mezzo...»
«È tardi, sai!»
«Vuoi andartene?»
«Sû e non si muoveva.
«Perché hai detto che sei stato cattivo?» gli domandò sorridendo cheta cheta.
«Perché... è inutile adesso che te lo dica... tu mi hai perdonato!»
E pose un sospirone per punto.
Ella si mise a guardar la luna, dicendole tante cose cogli occhi.
Poscia vivamente, come trasalendo:
«Addio! addio! È tardi, buona sera!»
«Adele!...» esclamò Alberto mentre ella stava per chiudere la finestra. «Adele!» Ella si affacciò di nuovo, ma tutta tremante, quasi avesse udito tutt'altro accento nella voce di lui. Egli esitava. - Allora la fanciulla gli fissò in volto gli occhi lucenti. - Il giovane sentà tutti i pudichi ardimenti, tutte le avide reticenze che ci erano in quello sguardo di vergine, e disse: «Vi amo! ecco quello che volevo dirvi!».
Adele divenne bianca udendo quella parola che aspettava da un'ora.
«Perdonatemi» riprese Alberto turbato dal silenzio di lei. «Vi è dispiaciuto che ve l'abbia detto? Perdonatemi, Adele! Ma parlate, ditemi almeno una sola parola, per l'amor di Dio.»
«Perché mi date del voi?...» mormorò la fanciulla con un fil di voce.
«Ah! come sei buona, Adele! Sei buona quanto sei bella! Vedi, a darti del tu adesso sembrami una delizia! Tu non sapevi nulla! Non ti sei mai accorta di nulla! Ti amavo da lungo tempo, sai! Sin da quando ero in collegio; ma dacché ti son vicino ti amo come... non saprei dirtelo io stesso... Mentre ti parlo, ora, sembrami che il cuore stia per scapparmi dal petto... Vorrei...»
La fanciulla lasciò cadergli fra le mani il ramoscello di vainiglia che s'era messo in seno. Alberto afferrò quelle manine, e gliele baciò con ardore.
«Come sei bella!» esclamò guardandola con occhi innamorati. «Quanto ti amo!»
Infatti ella era proprio bella in quel momento; l'amore irradiavasi come una specie d'aureola dal rossore che la copriva, dal suo sorriso incerto e pudico, dai suoi occhi chini. C'era tanta luce in quegli occhi, che allorché li fissò in volto ad Alberto parvegli che due stelle lo abbagliassero.
Ei le parlava concitato, con quel primo irrompere dell'amore che avea vagato sino a quel giorno fra le nebulose dell'immaginazione. Le diceva di quel che sentivasi in cuore, di quel che avea fatto, degli anni passati in collegio, delle timide gioie, delle amarezze soffocate, della madre che avea perduta - come ella avea perduta la sua - di quella prima sera in cui s'era messo a sedere accanto a lei, di quel che aveva visto nella tremola luce delle stelle, irradiazione di mondi sconosciuti, di quel vago sentimento di un noi sparso per tutto il creato, di quelle aspirazioni eteree verso una parola senza voce umana, che s'erano concentrati in lei, e che gli inondavano il cuore, tutti in una volta, al semplice contatto della sua veste. Sà sentiva immensamente felice: era la prima volta che parlava d'amore, e che una fanciulla stava ad ascoltarlo. - Ella ascoltava avidamente, infatti; o piuttosto beveva l'amore vergine ed entusiasta del giovane nello scintillare dei suoi occhi, e nelle vibrazioni appassionate della sua voce. Le sue povere manine tremavano come foglie nelle mani di lui. «Mi ami?» le diss'egli con uno di quegli accenti che penetrano sino in fondo al cuore. Ella accennò di sà col capo due o tre volte, senza osar di guardarlo.
«E non amerai altri che me?»
La giovinetta lo fissò collo sguardo limpido e franco della vergine, e rispose con ingenua meraviglia:
«Potresti amare un'altra, tu?»
«No... no!...»
«O dunque?»
Ei rimase un istante pensieroso.
«E m'amerai sempre cos�»
«Sempre...
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