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«E sei anche un ottimo ragazzo... non ho difficoltà di dirlo.»
«Oh, mio zio...»
«Io ti voglio e ti vorrò sempre del bene, da secondo padre che ti sono. Tu puoi vedere come ti ho accolto in casa, e come..»
«Grazie, zio mio!...»
«Ma che lavoro mi fai in ricambio!
Alberto si fece di bracia.
«M'hai stregata quella povera bambina, di'?...»
Il nipote, con tutti i colori dell'iride sul viso, teneva gli occhi fitti a terra, come se avesse voluto sprofondarvisi. Lo zio tacque maestosamente, aspettando risposta per alcuni secondi; indi riprese in aria paterna:
«M'accorgo dal tuo imbarazzo che capisci d'esserti condotto assai male, e che ne sei pentito!...»
E mise una seconda pausa; ma la risposta che aspettava non venne.
«Me ne sono accorto soltanto oggi... troppo tardi! Ma avrei potuto diffidare di te, del sangue mio, del mio secondo figlio.. ché per tale ti ho?...»
Alberto non fiatava, ma andava ruminando come diavolo lo zio se ne fosse accorto proprio adesso che egli non pensava quasi piú alla cugina, e ricordavasi della tosse che si era udita quella sera del famoso colloquio con Adelina, e che in buona coscienza aveva allora attribuito allo zio. Costui, vedendo che il nipote non si risolveva a parlare, e rimaneva impalato quasi fosse stato di sasso, riprese:
«Mea culpa! mio danno! i cocci li pagherò io! io che son stato troppo cieco, fiducioso come... come un galantuomo... Quella povera figliuola passerà qualche grosso guaio... ma pazienza!»
«La sposerò!», rispose Alberto pallido come un cencio.
«Figliuol mio!» esclamò il signor Forlani abbracciandolo teneramente. «Non ho mai dubitato di te!»
Ritornarono sotto il pergolato, non curandosi altro del baio che mangiava tranquillamente la sua avena. Velleda, senza alzare gli occhi dal lavoro, li saettò di uno sguardo che avrebbe fatto onore ad un diplomatico. Adele chinò maggiormente il capo, ed impallidÃ.
«Figliuola mia» le disse il babbo appena Alberto si fu allontanato; «tuo cugino Alberto mi ha domandato la tua mano. Posso parlarne qui dinanzi alla tua amica che è come una sorella.»
Adele lasciò cadersi il lavoro di mano, e si fece bianca, Velleda si alzò come per lo scattare di una molla, corse a lei in furia, l'abbracciò e la baciò a piú riprese, poi, al sopravvenire di Alberti, gli sorrise graziosamente, e gli stese la mano.
«Che Iddio vi benedica, figliuoli miei!» finà il signor Forlani abbracciando i due giovani nel tempo stesso.
«O come il babbo se n'è accorto adesso?» esclamò ingenuamente Adele, allorché rimasero soli.
La felicità della poveretta era cosà grande che sembrava irradiarsi anche sugli altri. C'era tanto affetto, tanta gratitudine, tanto abbandono, tanta espansione nella sua gioia che Alberto credette un istante il suo amore si fosse galvanizzato.
Gemmati avea fatto una corsa sino a Pistoia; ritornando alla sera trovò tutti in festa, e come seppe di che si trattava abbracciò Alberto, e gli disse con quel suo fare calmo e schietto:
«Bene, amico mio!»
XV
Alberto fu insolitamente mattiniero. Tornando dalla sua passeggiata, udà suonare il piano, ed entrò nel salotto.
Trovò Velleda al pianoforte; com'egli apparve sull'uscio le ultime note sembrarono trasalire.
«Oh, il signor Alberto!»
E gli stese la mano con calma perfetta.
Ei s'assise accanto a lei, e stette ad ascoltare.
«Non lo sa?» diss'ella dopo alcuni istanti, e senza smetter di suonare «aspetto la mamma, oggi.»
«Oh! L'avremo per qualche tempo con noi?»
«Per un giorno. È venuta a prendermi.»
«Va via?»
«SÃ.»
«Quando?»
«Domani.»
«Cosà presto!»
«È piú di un mese che son qui.»
Alberto tacque, ed ella continuò a suonare.
«Che pezzo è codesto?» domandò infine.
«Uno studio di Liszt. Le piace?»
«SÃ... molto...»
Egli si alzò, e si mise a guardare fuori della finestra. Poi tornò a sedersi al medesimo posto, e dopo alcuni istanti di silenzio le disse: «Ci rivedremo?».
«Ma... sÃ...»
Egli non disse piú nulla; anche il pianoforte si tacque. Rimasero zitti, immobili, senza guardarsi.
Ad un tratto si udirono dei passi vicino all'uscio.
«Lasciatemi» esclamò Velleda bruscamente dandogli per la prima volta del voi.
Entrò Gemmati, serio, freddo; scambiò due o tre parole colla contessina, poi prese Alberti pel braccio, e lo condusse fuori con un pretesto.
Dopo alcune centinaia di passi, Gemmati alzò gli occhi in viso al suo amico per la prima volta gli disse:
«Son venuto a cercarti per dirti una cosa. Domani vado via.»
Alberto parve un istante colpito da quell'improvviso annuncio; ma ad un tratto avvampò in viso e rispose masticando un sorriso:
«Accompagni la contessina Manfredini?»
«Vado solo:» rispose freddamente Gemmati; «partirò stasera.»
«Oh, fai pure il tuo comodo!»
Gemmati, dopo una lieve pausa, riprese:
«Dunque l'hai fatta?»
«Cosa?»
«Quella cattiva azione.»
«Luigi!» gridò Alberto.
«Non andare in collera, perché in tal modo mi dai ragione; vedi, io che non ho torto non andrò in collera: se gridi, griderò piú alto di te quello che la tua coscienza ti dice sottovoce; se tenti di picchiarmi, picchierò piú forte. Partirò stasera, perché non voglio stare a vedere certe scene; tu mi fai rabbia, e quella povera bambina mi fa pietà ; le mie parole non son giovate a nulla; almeno non vedrò coi miei occhi... Se avrai la forza di essere quello che sei stato sempre, un galantuomo, verrò ad abbracciarti e a domandarti scusa... Se no... non ci rivedremo piú; addio!»
XVI
Verso sera giunse la contessa Manfredini. Era una bella signora che si era fermata ai quarant'anni, bionda come la figliuola, colle labbra sottili, il sorriso affabile, e quel gentile accento toscano che sembra una carezza della parola. Si sarebbe detta una donna tutta miele dai capelli alla bocca; era discreta, indulgente, riservata, semplice e spiritosa, all'occorrenza, e quando voleva poteva assumere certe arie matronali che bisognava vedere! Fu talmente gentile e affettuosa con Adele da far ingelosire Velleda, se Velleda non fosse stata buona come la mamma; trovò due o tre parole da fare andare in solluchero Alberti, e fu cosà graziosa col signor Forlani, che costui, per rispondere di galanteria alla sua maniera, avrebbe voluto farle bere di tutti i fiaschi della sua cantina. Dopo il pranzo le ragazze si misero al piano, il signor Forlani preparò i famosi scacchi, e il vento cominciò a gemere al di fuori.
«Ci faccia sentire qualche cosa!» disse Alberto a Velleda con voce lievemente commossa.
Ella parve esitare.
«Sii buona, via!» aggiunse Adele.
«È l'ultima volta che ci vediamo;» rispose finalmente rivolgendosi ad Alberto; «non le posso ricusar nulla.»
«L'ultima volta?» esclamò Adele.
«Ho detto per ischerzo, sai!»
E si mise accanto al piano, scelse la sua musica, e l'Adele si dispose ad accompagnarla.
Cantava con una mano appoggiata al pianoforte: la luce delle candele, difesa dalle ventole, giocava coi delicati chiaroscuri del suo viso; nella sua voce c'erano vibrazioni che facevano trasalire, che gli ascoltatori sentivano scorrere nelle loro fibre; i giocatori avevano lasciato gli scacchi; Adele stessa di tanto in tanto alzava gli occhi verso di lei, con un sentimento d'ammirazione. Tutt'a un tratto Velleda lanciò uno sguardo rapido e fiammeggiante come una stoccata ad Alberto, che ascoltava cogli occhi fissi su di lei, pallido e turbato.
«Come hai cantato stasera!» le disse Adele abbracciandola.
Ella sorrise sbadatamente.
«Fammi dare del fior d'arancio, mi sento un po' agitata.»
Adele andò ella stessa.
Velleda rimase al cembalo, e vedeva Alberti senza guardarlo. Ei le si avvicinò lentamente come affascinato, e le si mise accanto - ella sembrò non accorgersene.
«Vorrei parlarvi!» disse finalmente il poveretto con voce sorda.
La contessina chiuse il libro tranquillamente e levò su di lui gli occhi sereni:
«Sto ad ascoltarvi.»
«Vorrei parlarvi da solo, stanotte, in giardino!» ripeté Alberti coll'ostinazione quasi minacciosa di uno che stia per ismarrire la ragione.
«È matto?» diss'ella freddamente.
Le labbra del giovane si fecero smorte, e tremarono due o tre volte senza poter proferire parola: «SÃ, credo d'esser matto davvero!».
«Ma io non lo sono, davvero!»
Alberto guardò Velleda in tal modo che ella, in un salotto pieno di gente, ebbe paura.
«Sarete cagione di qualche disgrazia!»
«Io?»
«Voi!» rispose con fermezza, guardandola fisso.
«Ma sa quel che mi propone, lei?» disse la giovinetta con fierezza.
«Ho bisogno di parlarvi, stanotte!» insisté Alberto con ostinata tenacità .
Adele entrava in quel momento da un uscio accanto al piano, e udà quelle parole come se un demone gliele avesse incise nel cuore coll'artiglio. Ella si appoggiò all'uscio prima d'entrare; ma nella piú debole fanciulla ci son miracolose energie, ed ebbe la forza di mostrarsi calma allorché sollevò la tenda. Alberto insisteva collo sguardo, senza avvedersi di lei.
Velleda indovinò un po' d'imbarazzo nel contegno scambievole.
«Sai che cosa gli dicevo?» le disse all'orecchio «che son gelosa!»
I due fidanzati trasalirono in modo diverso.
«Gelosa di me?» balbettò la povera fanciulla.
«No, ma di lui. Ei mi ruberà il tuo cuore.»
Alberto chinò gli occhi e arrossÃ.
La contessina incominciò a discorrere di mille cose, spiritosa e disinvolta come sempre, e la conversazione si fece generale, spiegò e raccolse le ondeggianti sue reti di parole che avevano significati diversi pei diversi attori di quella scena. Adele, coll'anima straziata dall'angoscia, osservava il cugino che sembrava intento ad un discorso interiore. A un tratto, guardando alla sfuggita Velleda con cert'occhi da spiritato, ei scappò a dire fuor di proposito: «Ebbene?» un ebbene che avrebbe stonato orribilmente nella conversazione generale, se in quel momento tutti non fossero stati distratti da una discussione abbastanza calorosa. Adele fu eroica per forza d'animo, Velleda mostrò una sorprendente presenza di spirito: prese la musica del Ballo in Maschera sbadatamente, cominciò a scorrerne le pagine, e canticchiò «Io là sarò... alle tre.» Si alzò, si mise al piano, come invogliatasi repentinamente, e cominciò a suonare la stretta. «Grazie!» le disse Alberto cogli occhi. Adele sentà che le si spezzava qualcosa dentro il petto.
XVII
Era una di quelle ultime notti d'autunno che preludiano l'inverno, scura e tempestosa. Gli alberi si contorcevano sotto un vento furioso che gemeva come voce umana; i cani uggiolavano spaventati; l'aria era talmente carica d'elettricità che sentivasi quel vago senso di terrore, fantastica attrattiva della notte.
Alberto saltò giú dalla finestra, quella medesima finestra che avea scavalcato qualche tempo innanzi con tutt'altro amore nel cuore, e non volse gli occhi a quella della cugina se non per spiare se potesse esser visto. In tutto il suo interno non c'era che una sola idea, indistinta, cieca, affascinante; passeggiò innanzi e indietro pel viale che correva dinanzi alla villa, coi capelli irti, e il sudore sulla fronte, mentre il vento ululava, e le foglie degli alberi sembravano scrosciare per gragnuola; il buio che l'avvolgeva lo penetrava del tutto; sentiva dentro di sé certo mugolÃo tempestoso, somigliante al vento che gli faceva sbattere sul viso le foglie morte. Due ore scorsero in un lampo; ci avrebbe passeggiato tutta la notte senza accorgersene, sotto la pioggia, in balÃa del vento, sotto l'uragano.
Tutt'a un tratto sentà afferrarsi da una mano, quasi le tenebre avessero preso corpo.
«Velleda!» esclamò, prorompendo in quel nome che lo riempiva tutto.
«Ebbene, che volete.»
«Velleda!» ripeté.
Ella non lo vedeva, sebbene lo toccasse quasi, e quella voce, nel buio, le faceva paura.
«Sapete quel che m'avete fatto fare?...»
«SÃ, lo so!» rispose risolutamente.
«Voi! il fidanzato di un'altra!...»
«SÃ.»
«Il fidanzato della mia amica!...»
«SÃ!»
«M'avete minacciato di fare una pazzia, per farmi commettere una pazzia!»
«SÃ!»
«Cosa dovete dirmi?»
«Che vi amo!» diss'egli con voce sorda.
«Io venni qui per dirvi che sono la figliuola del conte Manfredini!» rispose Velleda con la voce fremente di orgoglio.
«Io ci venni per dirvi che son pazzo di voi!» riba...
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