[Pagina precedente]...Alberto armandole di tutte le punte dell'epigramma, senza che riescisse a far balenare gli occhi del suo avversario, o far imporporare il suo volto. Egli perdeva sempre. Infine, come se quell'imperturbabilità calcolata gli avesse fatto perdere la testa, si alzò, buttò con piglio insolente sul tavolino il denaro, e disse a Don Ferdinando:
«Ella mi ha domandato se credessi all'amore. Adesso che siamo soli le dico che ci credo quando invece di guadagnarci qualcosa ci si rimette - come credo all'onestà del giuocatore quando non vince sempre.»
E rimase ritto dall'altro lato del tavolino, provocando ancora coll'attitudine. Il principe alzò finalmente gli occhi su di lui, si lisciò la barbetta, e rispose freddamente:
«Io ho centoventimila scudi di rendita, caro signore.»
Si alzò anche lui, e gli volse le spalle.
Alberto sentà una mano tremante che l'afferrava pel braccio.
«M'aveva promesso!» gli disse l'Armandi, pallida anche essa.
Ei si passò una mano sulla fronte, come per mettere a sesto le sue idee.
«Ha ragione!... Le chiedo perdono! Non so dove abbia la testa!»
Rimasero silenziosi tutt'e due ritti presso la finestra.
L'ultima carrozza, ch'era quella delle Manfredini, passò la porta. Alberto si celò il viso fra le mani e scoppiò in pianto.
«Soffrite anche voi!... finalmente!...» proruppe l'Armandi con accento intraducibile.
Alberto rimase sbalordito da quella esplosione violenta di un sentimento inesplicabile che quella donna avea celato sotto la frivolezza, che irrompeva pieno di collera e di lagrime. Egli le afferrò le mani, e la guardò alcuni istanti con mille confusi sentimenti negli occhi ardenti di lagrime.
«Voi!» esclamò.
La fiamma dell'orgoglio asciugò in un lampo gli occhi di lei.
«No!» disse ella corrucciata e con impeto. «V'ingannate!»
Egli non l'ascoltava: avea la tempesta nell'anima. Ella strappò con violenza le mani da quelle di lui, si rizzò in tutta l'altezza della sua bella persona, e rimase un momento cogli occhi chiusi, premendosi il petto colle mani.
«Alberto!» disse quasi pacatamente. «Sappiate che non sono una bimba!»
Alberto levò il capo, la guardò stralunato, quasi non comprendesse quello che avveniva al di fuori di lui, e poi balbettò:
«Perdonatemi!... son pazzo...»
E quindi proruppe con amarezza disperata:
«SÃ, son pazzo... guardate!»
«Lasciamoci amici» disse la contessa dopo una breve pausa, «amici schietti.»
XXVIII
Non erano ancora le otto del mattino, e Alberto stava già per uscire di casa, allorché Toni venne a dirgli che una persona, la quale dovea parlargli di cosa che premeva, l'aspettava in legno alla porta.
Alberto vide rincantucciata nell'angolo del fiacre una signora velata.
Com'egli fu seduto, l'Armandi gli disse con animata concisione:
«Cosa pensa di fare?»
«Nulla»
«Nulla è troppo poco! Stava già per uscire alle otto di mattina! Avevo dunque ragione di essere inquieta!»
«Ebbene» riprese dopo un breve silenzio «mi dica la verità ... vuol battersi?»
Alberti chinò il capo senza rispondere.
«Il principe Metelliani è religiosissimo, e non usa battersi. Cosa potrebbe fare per costringervelo? Schiaffeggiarlo? ei ricorrerà ai tribunali e per vendicarsi lo farà insultar mortalmente da un suo domestico che sarà lietissimo di buscarsi una discreta mancia andando in prigione pel suo padrone. Non faccia follÃe, per carità ! Non gioveranno a nulla.»
«È vero.» rispose Alberti in tono breve.
«Abbiamo detto di essere amici schietti, ed ho perciò il diritto di darle dei consigli. Anzitutto perché si batterebbe? per dispetto o per gelosia?»
«Non lo so...» rispose il giovane dopo una pausa.
«Non lo sa?... diggià !» diss'ella con un gaio sorriso, «alla buon'ora!»
Andavano pel gran viale delle Cascine. L'aria era ancor fresca, il cielo azzurro, e i grandi alberi si elevavano dai due lati come immense muraglie di verdura. Per lungo tratto Alberto e la contessa rimasero silenziosi, guardando distrattamente i boschetti. Infine il giovane rivolse due o tre occhiate furtive su di lei, e disse esitando:
«M'ha perdonato davvero?»
«Che cosa?...» domandò ella saettandogli uno sguardo penetrante.
Egli ammutolÃ; ma la contessa, senza dargli il tempo di aprir bocca, aggiunse con uno scoppio di riso civettuolo:
«Ah!... Non ci pensavo piú!»
L'Armandi, malgrado la bizzarria del suo carattere, s'era mostrata, come avea promesso, amica schietta e vera d'Alberti nell'uggioso periodo che aveva seguito la rottura di lui colla Manfredini. Egli andava a trovarla piú spesso, e distraevasi chiacchierando con lei di cose indifferenti e sfogando l'umor nero. La contessa possedeva la rara qualità di saper ascoltare. Piú di una volta il giovane avea sorpreso sé stesso in muta contemplazione di quella mano fina e aristocratica che carezzava indolentemente il nastro della gorgierina, o gli sgonfietti del fisciò, e almanaccava dove l'avesse vista un'altra volta.
L'Armandi partiva anch'essa pei bagni, e a poco a poco Alberto aveva finito per andarla a trovare quasi ogni giorno. Alla vigilia della partenza entrambi s'erano fermati piú a lungo del solito sul terrazzino a contemplare gli ultimi raggi del sole che moriva. Alberto era taciturno, ed anche la contessa aveva parlato pochissimo.
«Non è punto allegro stasera!» diss'ella come per scacciare la tristezza che invadeva anche lei.
«Si fermerà lungo tempo ai bagni?»
«Dipenderà da mio marito; ma poi andremo sul lago di Como.»
Ei chinò il capo e rimase zitto. Anch'essa divenne astratta.
Poi gli disse abbassando la voce, senza che ne sapesse il perché ella medesima:
«Veramente... le rincresce ch'io parta?»
«Sû rispose Alberto senza alzare il capo.
La contessa ammutolà di nuovo. Infine ella gli prese la mano, e gli disse dolcemente con voce commossa:
«Io non vi amo, non posso amarvi, e non vi amerò giammai. Dopo quel ch'è stato fra di noi non possiamo esser altro che amici. Volete?»
Ei strinse la mano ch'ella gli porgeva, senza avere il coraggio di dire una sola parola.
Il giorno dopo Alberti era andato a dire addio alla contessa. Nel momento di lasciarsi ella gli domandò:
«Verrà a trovarmi sul lago?»
«SÃ.»
«Non manchi. Venga verso la metà di settembre.»
E dopo alcuni istanti:
«Adesso cosa farà ? Rimarrà a Firenze tutta l'estate?»
«Non lo so.»
«Vada in campagna, ai bagni - viaggi. Ella ha bisogno di distrarsi, dia retta alla sua amica... E soprattutto cerchi d'innamorarsi, ma con giudizio, veh! tanto da non perderci la testa... Addio.»
XXIX
La contessa avea promesso ad Alberto di scrivergli; ma non ne avea fatto nulla. Ella fu alcun poco sorpresa e, diciamolo pure, anche indispettita, di non veder giungere nessuna lettera del marchesino. Questi, dall'altro lato, incaponivasi a non scriverle, perché ella non s'era curata di mandargli un sol rigo - ed entrambi, senza avvedersene, si tenevano il broncio, proprio come due innamorati. La donna combatteva anche colla curiosità di figlia d'Eva, e fu vinta la prima.
"Amico mio - gli scrisse - è morto? è vivo? dov'è? Poiché i giornali non recano notizia di lei, permetterà alla sua amica che se ne informi direttamente. Ha dunque seguito il mio consiglio? Innamorato diggià ? O s'è fatto trappista? Promise di venirmi a trovare sul lago verso la metà di settembre, e siamo già alla fine."
Al ricevere questa lettera Alberto s'era rammentato dei dolci e melanconici tramonti sull'Arno, quando la contessa gli stava accanto pensierosa; ma leggendone il contenuto cadde dal settimo cielo, e come un fanciullo che era, ebbe la temerità di voler lottare sul medesimo terreno e colle armi medesime con chi era piú forte di lui. Rispose:
"Ho seguito i suoi consigli: ho viaggiato! sono a Milano, e mi diverto mezzo mondo. Sono innamorato con giudizio di una bella tosa che avevo conosciuta ad un veglione della Pergola, e che rividi qui in una certa cena che un mio amico - ho molti amici - il quale prende moglie, ci dava per farla finita colle follie. Si chiama Selene - l'amata - (bel nome da palcoscenico, n'è vero?) ballerina al regio teatro della Scala, prima quadriglia, marcia in punta di piedi come niente fosse, e ci vogliamo un bene da non dire. Vedendomi, ella mi riconobbe subito, e fece un oh! che ci rendeva amici vecchi. Mi chiama Biondino. La nostra amicizia è stata facile e pronta, ed è per questo senza una nube. Ella vede dunque, amica mia, che non c'è nulla da temere per la mia testa. Noi non ci strappiamo i capelli, non abbiamo piú il meschino geloso da sfidare, o il piú piccolo balcone da scalare; non c'è la piú innocente lagrima, neppur l'ombra di una vera e grande passione... Ma tant'è, si campa lo stesso. La mia Selene è molto bella - nient'altro - e mi dice molte cose gentili alla sua maniera - fra le altre che mi vorrebbe bene, fossi anche povero come Giobbe, e che il mio portamonete non ci ha nulla a vedere nella mia felicità . Io le credo sulla parola, e l'ho divezzata dalla birra. Ella m'insegna un po' di meneghino, cosà ci perfezioniamo a vicenda. Alcune volte, è vero, rimane a fissarmi con tanto d'occhi spalancati - ha occhioni magnifici - come se le stessi a parlar turco; ma sarà perché non capisce bene il mio toscano, o perché l'annoio colle mie fantasie -ma le son fantasie e passeranno. A proposito di fantasie, sa? la contessina Manfredini è andata a Castellamare col principe Metelliani - e la mamma, ben inteso. - Son passati per Firenze. Tutti dicevano colà che ci ritornerà o principessa o morta.
"Conclusione: Se mi facessi trappista non avrei torto?"
La contessa stava per rispondere con una lettera che incominciava: "Ella è proprio sulla via di farsi trappista!". Ma si pentà e stracciò il foglio. Alberto, che cuocevasi d'avere una risposta, dopo due giorni non seppe piú continuare la sua parte, e scrisse:
"Contessa mia, non so davvero perché, ma son triste come un mortorio; quella povera ragazza non ci ha colpa, ma io nemmeno. Ho deciso di cambiar aria, ed ho bisogno che Ella mi sgridi e mi consigli come un ragazzo che sono. Mi rammento che costà , sulle rive del Lario, ci dev'essere una certa mia villetta, la quale era destinata ad essere il mio nido nuziale. Scaccio la paura delle nozze, e vengo a rannicchiarmi domani stesso: ne avremo 30 del mese. Giacché è scritto che le mie visite debbano giungere sempre in ritardo, vorrà permettermi di presentarmi a lei domani nella serata?".
Leggendo quella lettera la contessa sorrise, e poi si fece seria. Rilesse due o tre volte le poche righe, consultò il calendario, si mise al tavolino per iscrivere, e infine chiuse la lettera nel cassetto, e si alzò.
XXX
La giornata era stata calda e burrascosa, ma la sera era incantevole. La luna sorgeva dietro i monti, alcune bianche nuvolette erano ancor disseminate pel cielo, il lago sembrava color d'acciaio, solcato qua e là da bianche strisce luminose; di quando in quando, a lunghi intervalli, un soffio di fresca brezza faceva stormire gli alberi e fiottare le acque sommessamente.
La contessa Armandi avea passato una di quelle giornate bisbetiche nelle quali avrebbe dato non so che cosa per poter dire che aveva l'emicrania: s'era sentita stanca, inquieta, nervosa, uggita; s'era aggirata pel salotto, si era guardata nello specchio, s'era messa alla finestra, poi avea cominciato a leggere, avea buttato il libro da banda e s'era appoggiata all'étagère, a guardare sbadigliando la lancetta dell'orologio, ed era rimasta a guardarla mezz'ora senza accorgersene. Infine aprà il pianoforte, e si mise a suonare, dapprima svogliatamente. Ad un tratto udà gente al cancello; allora fece un movimento.
«Il marchese Alberti» annunziò il domestico.
La contessa assentà del capo, senza voltarsi, e continuò a suonare.
Alberto entrò, si accostò al piano, e si mise dietro a lei; ella lo salutò con un cenno del capo, senza volger gli occhi su di lui, animandosi contro una difficoltà di Schubert.
Infine smise bruscamente di suonare, e si alzò.
«Che peccato!» esclamò Alberto. «Continui, la prego!»
«No, mi annoia... Come sta?»
«Benissimo; ma ella non sta bene.»
«Io? s'inganna. Com'è venuto?»
«In barca, dal lago. Ho sentito la sua music...
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