[Pagina precedente]...o di lei era piú mordente, o, cosa strana, la sua parola era piú graziosa. Alcune altre volte era lei che sorprendeva gli sguardi d'Alberto rivolti verso De Marchi, colla febbrile ammirazione dell'invidia. De Marchi era un rivale formidabile, bello, altolocato, elegante e spiritoso - il povero innamorato soffriva la piú crudele gelosia; quella che umilia ed annichila.
Un lunedà che c'era piú gente del solito in casa Manfredini, Alberto si trovò un momento solo vicino a Velleda sull'uscio del giardino, e si misero a parlare dell'ultima opera della Pergola, e delle corse che s'erano fatte alle Cascine. Da qualche tempo fra di loro correvano le buone relazioni di gente completamente indifferente. Velleda perciò non si mosse, e seguitava a discorrere tranquillamente e piú a lungo del solito, canticchiava fra i denti i motivi di cui si rammentava, e faceva strider la sabbia sotto il suo stivalino irrequieto, gli domandava come si chiamasse il cavallo che avea vinto alle corse, e a quanto ascendesse il primo premio. Alberti rispondeva un po' distratto, come gli avveniva spesso ma a proposito.
«Le piacciono anche a lei le corse?» gli domandò Velleda.
«Non voglio che sposiate De Marchi!» rispose ad un tratto bruscamente Alberti afferrandole le mani.
Ella gli piantò gli occhi in faccia, e stette a fissarlo in tal modo, colle braccia rigidamente tese. Non aggiunsero una parola - rimasero guardandosi. - A poco a poco gli occhi di lei si velarono, il viso si fece smorto, e le braccia si allentarono. Poi si svincolò con uno sforzo disperato e rientrò come fuggendo.
XXIII
Dopo alcuni giorni incominciò a susurrarsi dietro il ventaglio che il matrimonio della signorina Manfredini avea inciampato in gravi difficoltà d'interesse. De Marchi era partito per Napoli, allo scopo di facilitare le pratiche presso la sua famiglia; la ragazza si faceva vedere di rado; la mamma era piú seria del solito, e mostravasi amabilissima colle amiche piú maldicenti.
Alberto e Velleda non s'erano piú detta una sola parola. Ella non aveva piú la rigida alterezza di una volta, la fermezza dello sguardo, la sicurezza dell'intonazione. Avea un'aria di vinta. Dinanzi a lui ammutoliva, e chinava gli occhi. Una sera che passeggiando in giardino egli le prese la mano, gliela lasciò. Cosà gli s'abbandonava.
La contessa Armandi era divenuta intima di casa Manfredini; però mostrava non aver perdonato ad Alberto la visita che non le avea fatto, e che poscia ella non gli avea permesso di farle. Del resto era capricciosissima, e per vendicarsi sembrava aver adottato il sistema di fargli perdere la tramontana. Ora era ironica, impertinente, motteggiatrice, sdegnosa; ora si faceva accompagnare al piano, o in carrozza, e lo lasciava sempre alla sua porta dicendogli: «Sin qui!».
Una sera che al villino Flora la conversazione era stata piú scucita, e la mamma Manfredini si era mostrata piú preoccupata del solito, l'Armandi disse ad Alberto sortendo:
«A proposito, perché non sposa lei Velleda?»
Alberto ricevette la domanda come una stoccata in pieno. L'Armandi non gli diede il tempo di rispondere, e soggiunse subito gaiamente:
«Quell'altro sarebbe un matrimonio sbagliato. La signorina Manfredini non è ricca, e la famiglia dello sposo non l'accetta volentieri. Fortuna che la bambina abbia piú giudizio della madre, la quale s'è incaponita dietro quel miraggio, e ci penserà due volte prima di dir di sÃ! Ci vuol altro!»
«Lei però ha detto ardon gl'incensi!»
«Ho detto gl'incensi, non ho detto le tede!» rispose la contessa col suo risolino ironico. E montò in carrozza.
Alberto rimase pensieroso.
Il giorno dopo Velleda lo interrogò due o tre volte collo sguardo - ei mostravasi annuvolato. - Poi andò a sedere in un canto, senza fargli una sola domanda.
Alberti si avvicinò, sedette accanto a lei e si misero a sfogliare dei libri e dei giornali. Dopo un lungo silenzio le disse a voce bassa:
«Sapete che fra breve tornerà il signor De Marchi da Napoli?»
Velleda gli fissò gli occhi in viso, si strinse nelle spalle, e non rispose.
Il giovane le strinse la mano di nascosto, e riprese.
«Perdonatemi tutto ciò che ho detto in quella sera... Sono stato matto... o qualcosa di peggio!»
La fanciulla all'ombra della ventola, non staccava da lui quello sguardo luminoso, tenace, incisivo; ma non aprà bocca; egli si fece pallido, esitò, le strinse la mano con forza, e balbettò:
«Sposatelo.»
Velleda rimase zitta, immobile, bianca; infine lasciò cadere lentamente questa parola:
«Perché?»
«Perché io non prenderò mai moglie.»
Una vampa di fuoco corse pel viso della giovinetta, poscia impallidÃ, ritirò dolcemente la mano, rimase alcuni istanti collo sguardo fiso dinanzi a sé, col sopracciglio aggrottato, e infine disse con un tono di voce che non sarebbesi potuto indovinare se fosse altero o indifferente:
«Che m'importa?»
Alberto si aspettava la sorpresa, l'indignazione, la collera, e rimase sbalordito da quella risposta. Piú pallido di lei, e colla voce tremante, le disse:
«Come dovete odiarmi!»
Ella, senza levare gli occhi, lasciò cadere mollemente la sua mano in quella di lui.
«Ascoltatemi, Velleda!» esclamò Alberto con accento commosso. «Vi amo in modo che non saprei dire. Nella mia testa c'è qualcosa di guasto, e il dubbio mi rode come un verme velenoso. Ho bisogno di esser convinto che mi amiate per me, senza secondi fini, e che mi sacrifichiate tutto... tutto, intendete?... Perdonatemi! Allorché questo dubbio fatale è entrato in me... o ci è stato messo con una parola... avrei voluto fuggirvi... e non ho potuto. Voi sola potete darmene il coraggio disperato. Cosa volete che faccia?»
«Noi non potremmo amarci altrimenti!» rispose Velleda dopo aver riflettuto un istante. «Meglio cosÃ! Adesso anch'io posso dirvi che vi amo!»
XXIV
Un amore cosà romanzesco dovea sedurre l'immaginazione del giovane fantastico. Le sue passioni eterne erano state cosà passeggiere, le sue impressioni cosà vivaci e mutabili, che allorquando avea sentito il bisogno di aver fiducia nel sentimento che riempiva tutto il suo essere, era divenuto inquieto. L'amore di quella strana fanciulla che gli sacrificava le piú legittime esigenze, e il suo avvenire e il rivale piú terribile, lusingava ad un tempo la vanità e il cuore di lui, e insieme il sofisma. Ei vi si abbandonò con ebbrezza, senza esaminare dove potesse condurlo, senza discutere se fosse possibile cosà come mostravasi.
I due giovani si vedevano spesso; ora regolarmente, ed ora a caso - è vero che aiutavano parecchio il caso. - Il cavallo di Alberto non sapeva passeggiare che fuori di Porta Romaria, e la signorina Velleda faceva quello che non aveva mai fatto, l'aspettava alla finestra, o sotto le acacie del giardino. Allorquando erano insieme si dicevano ben poco, discorrevano degli argomenti piú comuni, che per loro avevano cent'altri significati; i loro occhi si incontravano di rado, le loro mani non s'incontravano mai. La contessa Manfredini aveva l'aria di fiutare il vento. De Marchi era ritornato da Napoli, e la sua prima visita era stata per il villino Flora. Le trattative pel matrimonio non erano molto avanzate. certuni dicevano anzi che avevano fatto un passo indietro, ma gli interessati erano tutte persone ammodo, e sapevano continuare le loro relazioni in modo da non dar pretesti agli indiscreti ed ai curiosi; tanto piú che degli impegni seri non ne erano mai stati presi officialmente.
In uno degli ultimi ricevimenti di casa Manfredini, De Marchi erasi mostrato piú premuroso e galante del solito. Alberti, rincantucciato in un angolo, soffriva in silenzio. Velleda stava servendo il tè, e passandogli accanto lo vide cosà pallido e contraffatto. «Che avete?» gli domandò. Ei le lanciò un'occhiata febbrile. Velleda passò oltre.
Alberto la seguà con avido sguardo. La vide passare accanto a De Marchi, che stava appoggiato allo stipite di un uscio, colla mano nascosta nel gilé, colla lente incastrata nell'occhio, bello e sardonico. Alberto non poté udire che cosa colui le avesse detto inchinandosi verso di lei; ma lo vide sorridere, e anch'essa sorrise ed arrossà leggermente. Nell'angolo dov'era Alberto si udà un rumore di porcellana che rompevasi; nessuno se ne accorse, o ci abbadò: la signora piú vicina non volse nemmeno il capo; soltanto Velleda, dall'altra estremità della sala, volse un'occhiata cosà rapida e sfolgorante verso quel rumore, che De Marchi s'aggiustò la lente sull'occhio e guardò anche lui.
La signorina Manfredini continuò a sgusciare fra la folla, briosa e gentile. Infine passò accanto ad Alberto, senza una nube sulla fronte, senza volgere gli occhi su di lui, e gli gettò sommessamente questa parola:
«Seguitemi.»
Alberti andò dietro di lei nell'altra sala, e, temendo di far scorgere la sua agitazione, si mise a guardare con grande attenzione il giuoco che non capiva. Poco dopo si trovò vicino Velleda, disinvolta, scherzando coi giuocatori e con coloro che stavano a veder giuocare. Avvedendosi di Alberto gli disse: «Non fuma?» e andò a prendergli un sigaro da un astuccio intagliato. «Passate di là senza farvi scorgere» soggiunse cosà piano che appena egli poté udirla.
Quell'altra stanza era un piccolo gabinetto da lavoro che metteva da una parte nella camera della madre, e dall'altra in quella della signorina Manfredini. C'era un grande scrittoio fra due finestre, un canapè di faccia, e un piccolo tavolino accanto: fra il canapé e lo scrittoio aprivasi l'uscio della camera di Velleda. La stanza era poco illuminata da una sola lucerna a ventola posata sul tavolino. Alberto aspettò alcuni istanti, inquieto, coll'occhio e l'orecchio tesi; il cicaleccio della conversazione; e le esclamazioni dei giuocatori si udivano distintamente, di tanto in tanto il fruscÃo di una veste passava attraverso l'uscio socchiuso. Tutto ad un tratto apparve Velleda, camminando sulla punta dei piedi con passo rapido e risoluto, e gli prese la mano. Ma nel medesimo istante lo fermò, col braccio teso, e rimase immobile, ansiosa, atterrita, guardando l'uscio dal quale era entrata. Spinse bruscamente Alberto nella sua camera, ed ebbe appena il tempo di chiuderne l'uscio. Tutto questo accadde in un lampo.
«Cosa fai qui?» domandò la contessa Manfredini entrando.
«A momenti mi si stacca un bottone dal guanto...»
«Sei pallida.»
«Non mi sento bene.»
«So tutto... Ho visto il marchese Alberti...»
«Mamma!...»
«L'ho visto attraverso lo specchio, ti dico, quando ha lasciato cadere la tazza... Non mancò di fare uno scandalo... Costui vuol comprometterti ad ogni costo!»
La giovanetta fu sublime per presenza di spirito, ed ebbe uno di quei tratti d'audacia che hanno soltanto le donne.
«Ci ascoltano, mamma!» esclamò con accento supplichevole.
La contessa volse uno sguardo furtivo verso la stanza accanto dove giocavasi, ed uscÃ.
Velleda, pallida, strema di forze, e piú bella che mai, entrò risolutamente dov'era Alberto.
«Ebbene?» gli disse fermandoglisi dinanzi.
Egli aveva tutto udito. «Perdonatemi!» mormorò. «Ero geloso.»
«Di chi?»
«Di colui!...»
«Sareste qui se aveste il diritto di essere geloso?» rispose ella semplicemente.
Il giovane volse attorno uno sguardo commosso, quasi reverente, come se il profumo verginale di quella cameretta avesse qualcosa d'augusto, e le cadde ai piedi.
«È vero!... Cosa avete fatto, Velleda!...»
«Ho fatto la sola cosa che potesse provarvi come vi ami; ~ rispose la giovanetta, senza una sola vibrazione nella voce.
Alberto osò allacciarla colle braccia, e accostarle alla fronte le labbra tremanti. Ella socchiuse gli occhi, e si abbandonò mollemente. Ad un tratto trasalÃ, lo respinse con vivacità . e stette ad ascoltare. «Mio Dio!» esclamò.
In un lampo raffermò il viso e lo sguardo, uscà con un movimento felino, e si trovò a faccia a faccia colla madre e colla contessa Armandi.
«La contessa non si sente bene» disse la Manfredini. «Hai qualche cordiale nella tua camera?»
«Nulla, mamma!» rispose Velleda con insolita vivacità .
L'Armandi s'era buttata sul canapè, e malgrado il suo gran male sembrava stesse assai meglio ...
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