[Pagina precedente]... bambina, che giungeva correndo prima della madre, e vedendo Alberto s'era fermata sull'uscio.
«Le faccio paura, signorina?» disse Alberto.
In quel momento entrò anche la contessa; gli stese la mano, buttando l'ombrellino sul tavolo, e togliendo alla figlia il largo cappello di paglia.
«Come sei rossa!» le disse baciandola. «Vai dalla Tilde.»
La bimba gli rese il bacio, e prima d'andarsene offrà anche ad Alberto la guancia vermiglia. Egli l'accarezzò sui capelli.
La madre tirò a sé bruscamente la figliuola, la baciò di nuovo, con singolare vivacità , e l'accompagnò sino all'uscio.
«Perché non avete baciato la mia bambina?» gli domandò tornando indietro.
Alberti tardò un istante a rispondere; ma ella, senza dargliene il tempo, andò al piano, e prese il fascicolo ch'era sul leggio.
«Vi ringrazio della musica» aggiunse senza voltarsi e sfogliandola. «Ci ho dato un'occhiata ieri stesso. È proprio bella.»
E tornò lentamente verso il canapè, senza levare gli occhi dalla carta, sedette, e spiegò il quaderno sui ginocchi.
«Avete fatto una lunga passeggiata?» domandò Alberti.
V'ho fatto aspettare? Scusatemi. Ero andato ad incontrare Armandi. Invece ricevo una lettera che rimanda la sua venuta a domani.»
«Ah!»
«Volete essere dei nostri a pranzo domani?»
«Grazie.»
«Rifiutate?» diss'ella facendosi un po' rossa.
«SÃ.»
«Non se ne parli altro.»
Suonò il campanello, e si fece recare il cestellino da ricamo
«Si fermerà molto tempo il conte?» domandò Alberto giuocherellando col gomitolo.
«Un mese circa, sin che andremo a Belmonte, poscia sarà a Torino per la riapertura della Camera.»
Alberto chinò la fronte sulla palma, e dopo una breve pausa disse plano:
«Sicché... non ci vedremo sino a giugno?»
«Come volete che vi riveda senza presentarvi a mio marito?»
«È vero.»
Il silenzio che seguà avea alcunché d'imbarazzante. La contessa, tutta intenta al suo ricamo, riprese alfine:
«Iersera so che avete fatto una grossa perdita al giuoco. Ho il diritto di parlarvene, perché sono la vostra migliore amica. Ciò è irragionevole, mio caro.»
«Avrei anche potuto vincere. Sono sfortunato, ecco tutto;» rispose Alberto seccamente
«Ebbene, abbiate giudizio anche per la fortuna che vi manca: non giuocate.»
«Lo volete?»
«Ve ne prego.»
«Non giuocherò.»
Ella chinò il capo.
«Che bel lavoro!» disse Alberto poco dopo.
«Vi piace?»
«Moltissimo. È un lavoro per uomo?»
«SÃ.»
«E... senza essere indiscreto?»
«Nessuna indiscrezione, mio caro;» rispose l'Armandi sorridendo; «anzi quel che c'è di piú legittimo: è per mio marito.»
«Oh!... proprio un regalo di nozze!» diss'egli sorridendo a denti stretti.
La contessa sorrise senza alzare gli occhi dal ricamo, e arrossà lievemente. Ei cavò l'orologio e si alzò.
«Addio» gli disse l'Armandi stendendogli una mano, mentre coll'altra contava i punti del disegno.
Alberto le strappò il ricamo, e lo stracciò.
«Marchese Alberti!» esclamò l'Armandi rizzando il capo, altera, corrucciata e imponente.
Il marchese fece barcollando due o tre passi verso l'uscio, si arrestò sulla soglia, ed esclamò torcendosi le mani:
«Ah! come son vile!»
«No, siete pazzo!»
Gli volse le spalle, andando verso la finestra; e poscia, volgendosi vivamente verso di lui:
«Anche geloso di mio marito?»
Alberto impallidÃ.
«Tanto meglio!» esclamò la contessa con un sorriso irritato.
«Perché?... perché volete ad ogni costo che io stringa la mano di quell'uomo?» disse Alberti con accento brusco.
Ella lo fissò un istante con occhi di sfida e di collera.
«Perché vi ho dato il mio onore, e voglio che voi mi diate il vostro!»
XXXIV
Alberto partà la sera stessa per Milano, e andò a cadere come una bomba dalla Selene.
«Non è in casa» gli dissero.
Era il tocco della mezzanotte; egli andò al Circolo, e vi passò il resto della notte.
Il giorno dopo s'era levato da poco, allorquando Selene entrò come una spiritata, sbattendo gli usci, e cantarellando.
«To! eri tu, biondino? Sei venuto a cercarmi iersera? Sei tornato? Scusami se non mi hai trovata in casa; ero andata al Carcano.»
«Al tocco?»
«SÃ, dopo s'era andati a cena colla Irma, sai, l'Irma, la bruna, la conosci? ci pagava una cena scicche perché era il giorno della sua festa. Come stai?»
«Sto benissimo, grazie.»
«Vieni dal lago? Cosa m'hai portato dal lago?»
«T'ho portato un braccialetto.»
«Bello? Fammelo vedere. Dov'è?»
«Da Bigatti. Se hai furia puoi andare a prenderlo.»
Scrisse su un bigliettino di visita due righe pel gioielliere che la conosceva benissimo, e glielo diede. Ella volle gettargli le braccia al collo.
«Grazie, non occorre...» diss'egli scostandola.
La povera Selene se n'andò mogia mogia. Alberti ordinò al cameriere di dir sempre che non era in casa tutte le volte che ella venisse a cercarlo.
Andò al Corso, alla sala d'armi, al Circolo; giuocò, rivide i suoi amici, e prese parte alle loro cene e a tutti i loro passatempi. Frelli, il nestore emerito della brigata, l'avea preso sotto la sua protezione. «È di buona razza e di buona tempra» diceva. Il nestore aveva quarantasette anni, due gran dame che se lo disputavano, ed un'amante per la quale gettava il denaro a due mani. Gli amici di Alberto erano tutti bravi giovanotti - borsa aperta, cuore a prova di spada, e scilinguagnolo un po' sciolto. Nella loro allegria, nella loro conversazione, nei loro bagordi, c'era un profumo di gaiezza, di spirito, e di cordialità giovanile che inebbriava i piú sobri.
Una delle piú belle sere di luglio Alberti era uscito dal Circolo, insieme a due amici coi quali avea desinato; avea la pupilla alquanto dilatata, è vero, ma le gambe piú ferme e la lingua piú sciolta degli altri. Andarono sui bastioni in carrozza, ciarlando, fumando e ridendo ad alta voce. L'aria era rinfrescata da un lieve venticello che veniva dalle Alpi; dai giardini venivano di tanto in tanto vigorosi profumi, incontravasi solamente qualche coppia che passeggiava lentamente, discorrendo sottovoce, e dileguavasi sotto gli alberi dei viali, o qualche brougham che andava a piccolo trotto il cavallo fiutando la polvere e il cocchiere contando le stelle nascenti. Alberti a poco a poco era divenuto silenzioso, s'era buttato in fondo al legno, e avea lasciato spegnere il sigaro. Ad un tratto fece fermare la carrozza, salutò gli amici, s'avviò a piedi pel corso, fermò il primo fiacre che incontrò e si fece portare dalla Selene.
«Oh!» esclamò costei vedendoselo comparire dinanzi, e rimanendo con una mano sul battente dell'uscio, con grand'occhi attoniti. «Non t'aspettavo piú.»
Ei si chinò sulla candela, e accese un altro sigaro.
«T'hanno detto che sono venuta a cercarti?»
«SÃ.»
Selene andò in furia a prendere il biglietto che Alberti le aveva dato per Bigatti, e lo stracciò in cento pezzi.
«Allora ecco il tuo braccialetto! Non lo voglio.»
«Come sei bella cosà in collera!» rispose Alberti dopo averla fissata alcuni secondi senza batter ciglio.
«Sei innamorato? Cos'hai, sei innamorato?»
Ei non rispose.
«Sei in collera con la tua bella, di'?»
Alberto scrollò le spalle e disse freddamente:
«Vuoi che me ne vada?»
«SÃ, sÃ, vattene!» e poscia, afferrandolo con impeto per un braccio: «No! non te ne andare!».
E rimase a guardarlo avidamente, tenendolo sempre pel braccio, e gli occhi le si velarono.
«Come fa a non amarti, cotesta superbiosa?»
Gli gettò le braccia al collo. Ei che stava per partire tranquillamente, allorché sentà avvinghiarsi da quelle braccia dimenticò la contessa.
Uscà dopo mezz'ora, fosco, stralunato, dispettoso - la povera ragazza non ebbe il coraggio di trattenerlo. Andò a Como col primo treno; passò la giornata sul lago, e la sera, a notte fatta, s'avviò a piedi verso la villa. Tutto era buio, soltanto alla finestra della camera della contessa c'era lume.
Quel lume l'accecava, l'affascinava, gli trafiggeva il cuore come una punta di ferro arroventato. Ei non avrebbe osato ridire tutti i pensieri che gli tempestavano in mente: c'era una specie di gelosia acre, che avea un pudore singolare. Avrebbe ucciso la contessa con le sue mani piuttosto che rimproverarle le torture che ella gli faceva soffrire in quel momento - e stette ad assaporarle ad una ad una, sin quando quel lume si spense. L'indomani le scrisse: "Mi volete a desinare oggi?" Gli fu risposto con un invito del conte e della contessa Armandi.
XXXV
Il conte Armandi era un uomo politico, gentiluomo sino alla punta delle unghie, dignitoso, serio, freddo, ed uomo di mondo: avea la riputazione d'aver corso la cavallina in gioventú, la qual cosa gli avea lasciato una elegante piacevolezza di maniere ed una lieve tendenza all'epicureismo che gli andava come un guanto. Ei stava a Torino durante le sessioni parlamentari, e il resto dell'anno viaggiava, e andava ai bagni, dove riunivasi la chiesuola de' suoi amici politici.
Quando Alberti entrò nel salotto la contessa non c'era; ma il marito accolse il nuovo invitato come una vecchia conoscenza, e gli parlò del fu marchese, ch'era stato suo amico, e della marchesa, ch'era detta a Milano la bella toscana. La contessa si fece un poco aspettare, sicché fu quasi il conte che dovette presentare Alberto alla moglie.
«Mia cara Emilia, vi son grato d'avermi fatto riannodare una vecchia conoscenza di famiglia.»
«Finalmente!» diss'ella ad Alberto stendendogli la mano.
Come furono riuniti i tre o quattro amici che desinavano in casa Armandi, la contessa prese il braccio dell'ultimo venuto, il colonnello Marteni, e passò nella sala da pranzo. Alberto sedette accanto alla signora Rigalli, che stavolta era venuta davvero.
Il colonnello Marteni, dei carabinieri piemontesi, era un bellissimo uomo, con una larga cicatrice che gli attraversava mezza la fronte, e con due nastri turchini all'occhiello del suo abito da borghese; egli era amico personale del conte Armandi, che l'aveva indotto a venire a passare il suo mese di permesso sul lago di Como. Il colonnello faceva galantemente onore alla tavola, ai suoi ospiti, e alla sua dama, con galanteria un po' soldatesca. Le signore andavano matte per quel bel militare che s'era acquistato a Custoza ed a Goito i suoi nastri e la sua cicatrice, e ne parlavano tanto che il Marteni, da uomo di spirito, avea cercato due o tre volte di cambiar discorso, ed infine s'era salvato colla contessa, andando a prendere il caffè nel salotto.
La contessa in tutta la sera non avea rivolto che pochissime volte gli sguardi e la parola ad Alberti. I commensali avevano seguito in sala la prima coppia e s'erano fermati in diversi gruppi. Alberto era andato sulla terrazza; il conte Armandi discorreva con altri due presso il camino; la signora Rigalli assediava il suo militare sul canapè; la contessa era accanto alla tavola: dopo alcuni minuti di quelle ciarle scucite che avviano la conversazione, volse attorno una rapida occhiata, versò del caffè in una chicchera, e andò difilata verso la terrazza. Alberto stava colle spalle appoggiate alla balaustrata, e vedendo comparir l'Armandi nel vano luminoso del balcone, si rizzò di soprassalto; ella gli afferrò la mano e gli disse sottovoce, rapidamente, con accento intraducibile:
«Vi ringrazio. Adesso non v'è cosa che non farei per voi.»
Ei le afferrò la mano, fissandola. - Cosà rimasero alcuni istanti zitti e palpitanti.
«Lo sapete che mio marito mi ucciderebbe?... Volete che mi faccia uccidere? Volete che mi perda per voi?» diss'ella sorridente. «Volete?»
In quel momento il conte avea finito di discorrere col suo interlocutore, e avvicinavasi alla terrazza. Scostò la tenda, si fermò un po' sulla soglia per abituare i suoi occhi alle tenebre, e scambiò qualche parola con Alberti. La contessa rientrò centellando tranquillamente il suo caffè, col piú spensierato sorriso in viso. Passando vicino alla signora. Rigalli e al Marteni, disse ridendo:
«Schiettamente, cara Virginia, vorreste essere un uomo celebre, glorioso, decorato?»
«Ma... se non fossi quel che sono... vorrei esserlo!»
«Idee false, amica mia, una delle tante ingiustizie sociali! Non c'è che una donna capace di far quello che il colonnello non oserebbe di fare, nemmeno colla speranza di una terza ...
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