[Pagina precedente]...ire. «Ho dimenticato il mio portafoglio nientemeno! Quel che vuol dire far le cose troppo in furia!» E saltò a terra d'un balzo, ma mise un buon quarto d'ora a tornare. La contessa era piú impaziente di lui.
«Vai al galoppo!» ordinò ella al cocchiere.
Il conte si buttò in fondo al legno e si mise a fumare. La moglie sosteneva da sola il dialogo, con certa vivacità inquieta e nervosa, sporgendosi di tanto in tanto fuori dello sportello. Suo marito limitavasi ad evitare che il fumo del sigaro le desse noia, e a volgere qualche volta il capo verso di lei, per farle dei cenni affermativi.
«Il signor capitano è partito da venti minuti;» venne a dire il domestico.
«Alla buon'ora!» disse Armandi con gaiezza. «Ci perdo una caccia, ma ci guadagno il piacere di passare la sera con voi.»
Ella lo ringraziò con un pallido sorriso, e tornarono indietro. Questa volta anche la contessa s'era buttata in fondo al legno, avvolgendosi nel suo scialle, taceva e sembrava alquanto preoccupata. Giunti alla villa, saltò a terra per la prima con vivacità , e montò bruscamente i pochi scalini; il marito però la prevenne nello schiudere l'usciale, e la precedette nelle sue stanze.
«Perché avete lasciato acceso quel lume?» disse bruscamente l'Armandi alla cameriera.
«Non m'avete ordinato di spegnerlo.»
«Siete una stupida! Andate!»
«Via, via, non andate in collera» soggiunse il marito. «Infine che male c'e?»
Ella si strappò i guanti, li buttò sul canapè, e rimosse due o tre oggetti con impazienza.
«Vi disturbo forse...»
«Vi pare?... tutt'altro!» gli rispose saettando uno sguardo sull'orologio.
«Davvero! sembra che il vostro orologio abbia piú giudizio del mio!» disse Armandi regolando il suo su quel del salotto; «sono in ritardo di una buona mezz'ora.»
E sedendo accanto alla moglie:
«Volete regalarmi un po' di musica?»
«Non sono proprio in vena, mio caro... Ma se lo desiderate assolutamente...» soggiunse con un sorriso abbattuto.
«Assolutamente?... Ma no! Desidero quel che vi fa piacere.»
Ella inchinò leggermente il capo, e si mise a guardare qua e là in atto sbadato. Il silenzio cominciava a divenire penoso.
«Volete che vi legga qualche cosa?» domandò Armandi.
«Fate.»
E si mise ad ascoltare, colla fronte sulla palma, all'ombra della ventola, saettando alla sfuggita sguardi rapidi e sfolgoranti su di lui. Egli non se ne avvedeva, leggeva colla sua bella voce chiara e limpida, e voltava tranquillamente le pagine. Tutt'a un tratto la contessa si alzò quasi soffocasse.
«Cos'avete?» domandò il marito levando gli occhi dal libro.
«Nulla... continuate» rispose lei tornando a sedere.
«È inutile, giacché non v'interessa.»
E chiuse il volume.
La contessa rimase alcuni istanti col capo fra le mani. Armandi continuava a sfogliare i disegni di mode. Finalmente ella si alzò di botto, bianca come cera, e gli disse stendendogli la mano malferma:
«Non mi sento bene. Buona notte...»
Il conte si alzò anche lui, le prese la mano senza dir motto, e la tenne fra le sue; ella incominciò a fissarlo negli occhi con una certa inquietudine. L'orologio suonava i dodici colpi della mezzanotte; i muscoli del viso della donna ebbero un lieve tremito, poi si allentarono rilasciati, e affascinata dal pericolo, perdendo la testa, si volse verso il balcone che dava sulla terrazza con un movimento invincibile, e tentò di svincolarsi dal marito che le stringeva sempre le mani con amorevole violenza.
«Fermatevi!» diss'egli con voce breve.
Rimasero a guardarsi due o tre secondi. La donna si lasciò cadere lentamente sul canapè.
Armandi andò ad aprire il valigino che aveva fatto posare sulla tavola, e ne trasse un paio di pistole da viaggio. La moglie, fuori di sé, si alzò per gridare, per far non so che cosa, e rimase atterrita, pietrificata sotto lo sguardo fermo e minaccioso di lui.
«Silenzio!» le disse con voce sorda. «Se fate un passo, se mettete un grido, ve l'uccido come un cane!»
Andò risolutamente verso il balcone, l'aprÃ, e si trovò faccia a faccia con Alberti.
I due uomini non dissero una parola, non fecero un gesto. Il conte, piú pallido di Alberto, avea la pistola in pugno e il dito sul grilletto. Finalmente disse interrottamente:
«Marchese Alberti... potrei uccidervi come un ladro stanotte, o passarvi la spada pel cuore domani... Ma non voglio farlo... non lo posso... Un giorno forse ne saprete il perché... e saprete anche che siamo pari!»
Prima che Alberto avesse potuto rimettersi dalla sorpresa, egli aveva chiuso il balcone.
XXXVIII
Alberti passò una notte orribile. Avea visto, attraverso i vetri di quel balcone, la donna che amava alla follÃa, accasciata sul canapè, colla testa fra le mani - ella non avea fatto un passo verso di lui, non avea messo un grido - egli non avea potuto stendere le braccia per soccorrerla, o per rapirla alla gelosia del suo rivale - questo soltanto bastava a delineare la situazione reciproca con una terribile eloquenza. L'amore di lui esaltavasi al pericolo di lei, al pensiero delle lagrime che non poteva vedere. Fece i piú insensati progetti; andò cento volte a spiare le finestre di quella casa. Il domani seppe che marito e moglie erano partiti all'alba, non si sapeva per dove.
Il giovane ardeva di seguirla, ma dove? Fece tutto quello ch'era possibile di fare per aver notizie di lei; poi sperò ch'ella gli avrebbe scritto; poi s'accasciò. A poco a poco incominciò a pensare a lei con una dolcezza melanconica, fantasticando sul castello solitario dove il geloso marito l'avea probabilmente rinchiusa, sulle lagrime ch'ella avea dovuto versare, sui ricordi mesti e cari che doveano tornarle alla mente mentre fissava i begli occhi alle stelle... E tutto ciò sarebbe stato possibile forse; ma Armandi conosceva troppo il mondo e le donne per contribuire a fare esaltare colla solitudine la passioncella della moglie. Dopo una breve spiegazione, fatta con garbo e da gente ammodo, entrambi avevano finito per andar d'accordo che quanto ci fosse di meglio a fare era d'andare a Baden. La contessa, dopo quella scossa inaspettata, erasi mostrata quasi riconoscente verso il marito del suo spirito conciliativo e da canto suo s'era prestata lealmente a riparare il male fatto. Passato il primo sbigottimento, il suo amore, chiamiamolo pur cosÃ, avea guardato la cosa dal lato mondano, e avea fatto giudizio.
Intanto il tempo scorreva sul rancore del marito, sulla melanconia della moglie, e sull'immaginazione di Alberto, come se si fosse incaricato di poter far riunire nuovamente e senza inconvenienti queste tre persone nel medesimo salotto, a centellinare il caffè, ciarlando tranquillamente di mode o di politica.
Alberti dopo alcuni mesi avea ripreso le abitudini di una volta. Al principio dell'inverno seppe da un amico che tornava da Baden come l'Armandi fosse stata la piú bella, la piú elegante, la piú allegra signora che si fosse trovata ai bagni. Il baccanale della babele europea estiva faceva crollare in uno scoppio di risa il melanconico castello di carte, dove la sua fantasia abbrunata avea rinchiuso i sospiri della bella, mentre egli dondolavasi sulla poltrona fumando il sigaro. Il suo funesto spirito d'analisi ebbe campo di fargli fare delle lunghe meditazioni, amare, irritanti, che ferivano non solo le sue illusioni giovanili, ma anche il suo amor proprio.
Coll'inverno erano ritornate le rondinelle dell'alta società , ed Alberti seppe che la contessa era andata a Torino col marito. A quella notizia, al sapersela cotanto vicina, sentà divampare in fondo al cuore, non diremo l'amore, ma il desiderio, la curiosità , una certa ostinazione dispettosa e andò e la rivide. Com'era cambiata! non al fisico - la contessa era sempre giovane e bella; ma il contegno di lei, cosà strano, cosà indifferente, ricominciava a montargli la testa o a fargliela perdere del tutto. Però l'Armandi non era tal donna da perdere la sua, quando non voleva, o da farsi trascinare pei capelli in una situazione imbarazzante. Finalmente gli rispose dandogli appuntamento in uno dei piú remoti viali del Valentino.
Allorché il giovane la vide discendere dal fiacre da nolo, sentà battersi il cuore come una volta, piú forte di una volta forse. Ella gli venne incontro un po' esitante, e gli stese la mano.
«Volete che montiamo in carrozza?» le domandò.
«No.»
«Perché non rimandate il vostro legno in tal caso?»
«Lasciatelo lÃ.»
Alberto tacque, e presentà tutto quello che ella dovea dirgli con la sua voce pacata.
Fecero alcuni passi in silenzio. L'Armandi non s'era accorta del braccio che offrivale il giovane.
«Sentite, Alberto» gli disse alfine «dobbiamo dimenticare.»
Ei sentà scoppiargli in cuore, montargli alla testa, affogargli la voce nella gola, tutto ciò che avea sofferto, temuto e sperato per lei. Non disse motto, non le rivolse uno sguardo. - Ella gli strinse la mano.
«È necessario!» soggiunse.
«Lo volete?»
«È necessario. Mio marito mi ha perdonato, ma sa tutto... Cosa volete che faccia?...» Successe una breve pausa. «A che pensate?» diss'ella.
«Penso che veramente non dovete amarmi piú, se l'ultima volta che mi vedete potete aver il coraggio di dirmi addio in presenza del vostro fiaccheraio, per impedirmi che almeno vi lasci scorgere le mie lagrime.»
«Come siete ingiusto!»
«È vero, perdonatemi... Soffro tanto!» esclamò tristamente e scuotendole le mani.
Ella non rispose, e voltò indietro per ritornare lentamente verso il fiacre che l'aspettava.
«Vi domando un ultimo sacrificio: lasciate Torino.»
«Non vi basta che rinunzi a vedervi?»
«E mio marito?»
«Ebbene, partirò.»
La contessa continuava ad andare innanzi.
«Volete proprio che vi dica addio dinanzi al cocchiere?» mormorò il giovane con tutta l'amarezza che gli rodeva il cuore.
Ella si fermò, voltandosi appena verso di lui, gli strinse la mano, e senza rialzare il velo gli disse:
«Addio!»
Le labbra del giovane tremavano senza che potessero profferire una sola parola. La vide allontanarsi lentamente, e montare in carrozza.
Poi si asciugò di nascosto una lagrima - l'ultima.
Il giorno dopo partà davvero, per un altero rispetto della sua parola, o per un dispettoso amor proprio. Il vedere rompere con tanta indifferenza tali legami l'avea ferito profondamente; ma avea tanto amato quella donna, e tanto diversamente dalle altre, che fra loro parevagli dovesse sussistere sempre un vincolo indissolubile; il suo dolore avea certa voluttà che gli piaceva assaporare andando a seppellirsi in campagna - ma la sua campagna era troppo vicina a Milano, e gli amici non tardarono ad andare a farvi una partita di caccia - per distrarlo. Cosà seppe dopo qualche tempo quello che non avrebbe dovuto sapere: il colonnello Marteni, nell'assenza del conte Armandi, che era in Germania con una missione diplomatica, comprometteva un pochino la contessa, e la contessa si lasciava compromettere. Alberto corse a Torino, e colla ingiusta e malsana curiosità del geloso riescà a convincersi davvero che il colonnello era precisamente quello che dicesi un successore in tutte le regole.
Allora andò a cercare del colonnello Marteni.
Lo trovò che faceva colazione. Il colonnello, al ricevere il suo biglietto di visita, si era rammentato di lui, forse un po' troppo, e l'invitò a prender posto alla tavola, da vecchio amico. Alberto rifiutò freddamente, dicendo che lo scopo della sua visita non permettevagli di fermarsi a lungo. L'altro si fece serio, vuotò il bicchiere che aveva offerto, e levò il capo come per ascoltare con maggior attenzione.
«Non avremo bisogno di molte parole per intenderci», disse Alberti. «Ella è soldato e gentiluomo, e troverà la cosa perfettamente naturale. Noi siamo rivali; non occorre fare il nome della donna che amiamo o che abbiamo amato. Son venuto per cercare di comune accordo un pretesto per liquidare la faccenda fra di noi, senza che sia compromesso il nome di quella persona.»
Il colonnello parve riflettere alquanto.
«Anzitutto» rispose «mi permetta una domanda: Lei è dalla parte di chi ama, oppure dalla parte di chi ha amato?»
«Cotesto non preme sapere.»
«Domando scusa, preme moltissimo.»
«Signore, sembra...
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